giovedì 30 agosto 2018

A volte ritorno...

Salonicco, Vecchia Agorà
Sono trascorsi ormai sei anni da quando sono venuto in Grecia l’ultima volta. In mezzo, la crisi che ha travolto il Paese, di cui nel 2012, anno delle doppie elezioni che, tra maggio e giugno, periodo che trascorsi nel Peloponneso, videro crescere i consensi a Syriza, il partito dell’attuale primo ministro Alexis Tsipras, di dieci punti dal 17 al 27 per cento dei suffragi: ancora non era nell’aria il botto definitivo del 2015, con la conquista della maggioranza relativa e la formazione del suo primo governo, e la botta da parte della troika nonché vendetta della UE dopo il famoso referendum tradito. Oltre all’amore per questo Paese, la sua civiltà millenaria, la sua gente un po’ scorbutica, anche la curiosità di toccare con mano lo stato dell’arte. A che punto è la notte? Difficile dirlo, basandomi sulle prime, superficiali impressioni. A giudicare dall’impatto con Salonicco, la seconda città della Grecia, capoluogo della Macedonia, che vista biancheggiare già a una dozzina di chilometri di distanza, appena giunto sulla costa percorrendo la strada che scende dalla frontiera a Nord con la Macedonia di Skopje, sembra enorme (in realtà, compresa l’area metropolitana, conta un milione di abitanti: Atene, per intenderci, ne ha quattro volte tanti), la sensazione non è quella di trovarsi in una realtà disastrata. Industriosa, vivace, pulita, piuttosto ordinata per essere a queste latitudini, piena di negozi (tra cui spicca l’abbondanza di quelli di prodotti per animali da compagnia: e già questo è un indizio), bei musei, una vita culturale ricca, la sensazione iniziale non è certo quella di trovarsi in un Paese flagellato da una catastrofe economico-finanziaria: a ogni buon conto l’euro circola ancora, i numerosi bancomat ne erogano a volontà, e i prezzi in generale non sono poi così bassi come ci si potrebbe aspettare: siamo in linea col nostro Meridione, poco meno. 


Mercato Modiano
Ma... I negozi, dicevo. Ma quali? Ho preso alloggio in un albergo centralissimo esattamente di fronte allo storico Mercato Modiano, struttura coperta con volte in ferro e vetro tipiche di inizio Novecento, oggi praticamente abbandonata e fatiscente: sopravvivono un paio di macellerie e pescherie, un kafenion e alcune taverne, peraltro buone e frequentate pressoché solo da indigeni, all’ora di pranzo, che a loro volta si riforniscono prevalentemente nel mercato situato nell’isolato di fronte, il Kapani, più arioso e in buona parte all’aperto, un vero proprio rione che viene considerato per estensione il Modiano: anche qui si notano numerosi vuoti, serrande abbassate in una buona metà dei locali, e sopravvivono, a fianco degli alimentari e delle immancabili bancarelle di vestiario di fabbricazione cinese, tute sportive soprattutto, e del contrabbando di sigarette, qui in mano a fastidiosi indiano-bengalesi, alcune attività artigianali: qualche falegname, impagliatori, un fabbro, negozietti di souvenir, qualcuno di casalinghi. Non ho visto manco un calzolaio, per dire, e nemmeno qualcuno che vendesse articoli in cuoio: un tempo, in Grecia, si faceva il pieno di sandali e borse... 


Kapani
Tutt’intorno, nelle vie parallele al lungomare (infestato di locali “alla moda”, con beveroni inqualificabili preparati da pseudo-barman e serviti da camerieri palestrati, in maglietta nera d’ordinanza, magari dotati di barba scolpita: di tatuati, in compenso, ne ho visti molti di meno che da noi, specie tra le donne), i non luoghi della globalizzazione, dall’abbigliamento, alle scarpe, tra cui una serie di negozi che vendono unicamente infradito rigorosamente di plastica, alla telefonia, marche multinazionali o nazionali in franchising, paninerie-pizzerie-gelaterie-caffetterie, spacci di finto street food e autentico shit-food, deli di ispirazione newyorkese per vegetariani e vegani compresi. Non mancano, naturalmente, Starfucks, MerDonald e KFC; finora mi sono stati risparmiati i sino-giapponesi, un ossimoro già nel termine, come dire un interista juventino, e i “fusion” all-you-can-eat alla milanese: del resto di estremo-orientali se ne vedono pochi, in compenso non mancano i medio-orientali, ma ciò rientra nelle vicende storiche di questa città da sempre di passaggio e sovrapposizione tra Est e Ovest. Il peggio, ossia la regolare conferma a quel che temevo, a Ladadika, l’equivalente locale dei Navigli milanesi o della Trastevere d’oggi: antico quartiere adiacente al porto, adeguatamente “riqualificato” e gentrificato, come si suol dire, trasformandolo in un misto tra divertimentificio per cazzoni, con pub e locali modaioli e pretenziosi da cui escono raccapriccianti suoni di tecno-merda rappizzata, e "finto-autentco", con souvlakerie industrializzate: naturalmente, secondo le guide luogocomuniste per viaggiatori senza fantasia e, per l'appunto, globalizzati, a cominciare da LP e RG, Routard e il supporto di Tripadvisor, è il luogo da non perdere... Ma... La gente. Più vagabondi e mendicanti di quel che ricordassi, rigorosamente greci e anziani: stranieri a chiedere l’elemosina non se ne vedono; neri nemmeno uno, a parte qualche raro turista inglese o statunitense; un buon numero di disadattati di vario genere, specie tossicomani, anche questi locali. All‘ora dell’aperitivo i locali per danarosi di ogni età, molti più di quel che pensassi, circolanti a bordo di SUV per quanto non nelle dimensioni che il fenomeno ha assunto nella Terra dei Cachi, sono discretamente affollati, e non tanto di turisti, che qui non abbondano, quanto da indigeni; invece per quanto riguarda i posti per la gente comune, kafenion e ouzerie, quelli sopravvissuti sono già chiusi: rimane aperta qualche taverna, che alle nove e mezzo di sera si va già desertificando, come le strade del centro, nonostante la buona volontà dei musicisti che si impegnano a creare atmosfera. Un tempo, come in Spagna (la sensazione è simile a quella che provai a Valencia, sempre sei anni fa) era questa l’ora in cui i greci si sedevano a tavola per cenare. A Ladadika, a non più di mezzo chilometro, freme invece la vida. Quella farloca
Haiku ellenico:
A sentir dire di Movida, già mi fremono le dida
E son scampà da Ladadika in un men che non di dica. 
Amen.

lunedì 27 agosto 2018

Mr Ove

"Mr Ove" (A Man Called Ove) di Hannes Holm. Con Rolf Lassgard, Bahar Pars, Ida Engvoll, Filip Berg, Catharina Larsson, Börje Lundberg, Tobias Almborg, Zoza Akgün. Svezia 2015 ★★½
Non mi sento di essere più generoso con questo film di buoni sentimenti, ma in salsa scandinava, benché l'interpretazione di Rolf Lassgard, alias commissario Kurt Wallander, nei panni di Mr Ove, un burbero e scorbutico auto-prepensionato 59enne, ferreo tutore del regolamento di un quartierino di villette alla periferia di una qualche grande città svedese, confermi che si tratti di un attore coi fiocchi. Di bisbetici domati è pieno il teatro, a cominciare da Shakespeare, come il cinema, e se in questa pellicola è apprezzabile la critica alla invadente stupidità della burocrazia di Stato, di cui Mr Ove è acerrimo nemico fin da quando gli creò infiniti intralci alla costruzione di una rampa d'accesso per disabili per consentire alla propria amata moglie, Sonja, rimasta paralizzata in un incidente, di andare a insegnare, quello che alla fine stanca è l'eccessiva sottolineatura dell'inverosimile accumulo di disgrazie che si accanisce su questo pover'uomo, che all'inizio viene dipinto come un ossessivo rompicoglioni, una versione condominiale del classico umarell, ma il cui passato giustifica ampiamente l'evoluzione, venendo evocato in corso d'opera in successivi flash-back sempre più prolissi e tediosi, fino farlo diventare, nei fatti, un film a episodi. A ritroso: è rimasto vedovo da poco; si è autolicenziato dal posto nelle Ferrovie che aveva ereditato dal padre (così come la dedizione alle Saab), morto sul lavoro travolto da un treno; si è sentito in colpa per tutta la vita perché la moglie, per di più incinta all'ottavo mese, è rimasta vittima di un altro incidente viario, questa volta in Spagna e per colpa di un autista ubriaco rimanendo paralizzata alle gambe; la casa di famiglia, che aveva amorevolmente restaurato, è bruciata in un incendio causato dall'idiozia dei vicini; era bambino quando perse la madre, venendo cresciuto da un padre timido...  Una vita segnata: invariabilmente, ogni tentativo di suicidio, da quello con la corda a quello con il gas di scarico dell'auto, nel tentativo di evadere dall'imbecillità che lo circonda e di raggiungere la Sonja in un altrove più sopportabile va a vuoto perché a distrarlo e salvarlo involontariamente è la nuova vicina, Parvaneh, una giovane donna di origina iraniana, incinta e con due figlie, sposata con uno svedese più imbranato e stolido della media dei suoi connazionali. Siccome è un film svedese, il protagonista, non appena tornato "umano", ovviamente muore nel momento stesso in cui si è riappacificato con la vita e col prossimo, gatti compresi. Al solito, un inno alla gioia, alla voglia di vivere e all'ottimismo: dalle parti di Stoccolma, salvo eccezioni rarissime, riescono a fare diventare tetre perfino le commedie. 

sabato 25 agosto 2018

La vera storia di Olli Mäki

"La vera storia di Olli Mäki" (Hymyilevä mies) di Juho Kuosmanen. Con Jarkko Lahti, Eero Milonoff, Oona Airola, Joanna Haartti, Esko Barquero e altri. Finlandia, Svezia, Germania 2016 ★★★½
Tale è la mia ammirazione per Aki Kaurisimäki, che qualsiasi film arrivi dal suo Paese inevitabilmente attira la mia attenzione, a maggior ragione quando l'autore, Juho Kuosmanen, alla sua prima regìa, afferma di considerarlo il suo punto di riferimento. Le tracce del maestro si vedono, le particolarità che rendono i film finlandesi diversi (come del resto gli abitanti) da quelli degli altri Paesi scandinavi ci sono tutti, a cominciare dalla normalità dei personaggi, gente modesta e semplice, apparentemente stralunati e inermi davanti alle continue assurdità a cui li sottopone l'esistenza, ma in realtà ben presenti a sé stessi a alla propria condizione, che affrontano sempre con grande dignità. Ispirato a una vicenda vera, l'organizzazione, nell'estate del 1962, di un incontro di pugilato valido per la corona mondiale tra il detentore del titolo dei pesi piuma statunitense Davery Moore e lo sfidante finlandese Olli Mäki, chiamato il fornaio di Kokkola, il film ribalta il gusto (si fa per dire) tutto yankee delle epopee sportive alla Rocky, sempre per rimanere in campo pugilistico, ma comune a tutta la saga degli "eroi" americani in qualsiasi campo, che hanno sempre lo scopo di esaltare il "Paese dove tutti hanno la loro grande opportunità" e, sempreché ne accetti la logica del "vinca il più forte", anche il più derelitto ha la sua possibilità di riscatto (una su centomila, ovviamente, ma tanto basta per incantare i gonzi sulle infinite possibilità offerte dall'Ammeriga: da noi funziona con il SuperEnalotto e i Gratta-e-vinci). Non che si passi all'esaltazione del perdente, ché Olli, pur sconfitto per KO al secondo round, alla fine non lo è, ma si rende onore e si elogia la capacità di conservare la propria dimensione e la propria anima dell'antieroe, uno sportivo vero, che solo per amicizia e lealtà al proprio manager si lascia convincere prima a passare professionista e poi a tentare la scalata al titolo più alto (calando fin troppo di peso per rientrare in una categoria che non è la sua naturale) pur rimanendo il più puro dei dilettanti, nel senso stretto del termine. Il vero sconfitto del film è proprio il promoter e procuratore di Olli, un ex pugile di non grande talento che proietta su di lui una sete di rivincita che assume aspetti megalomani: da qui i suoi tentativi di imporgli ritmi di allenamento forzati, comportamenti da "professionista", partecipazione a eventi mondani, concessioni alla pubblicità e ai media, tutto questo mentre il pugile si accorge che tutto quello che desidera è tornare alla sua vita di sempre nella cittadina di provincia dove è nato, cresciuto, vive e lavora e coltivare il suo amore per Raja, la ragazza che frequenta da sempre e di cui è sempre più innamorato e con cui vuole sposarsi. Le situazioni che si verificano in questo goffo e ridicolo tentativo da parte del manager di imporre metodi e mentalità che sono completamente estranei all'ambiente e alla mentalità di Olli sono spesso grottesche e il regista le dipinge con ironia e leggerezza; fanno da contraltare quelle che hanno per protagonisti Olli, Rana quando si trovano sul loro terreno, ché in quelli artefatti della capitale si trovano come pesci fuor d'acqua. La pellicola è girata in un gradevole bianco e nero che rende bene l'epoca in cui si è svolta la vicenda e curiosamente sia il regista sia gli attori che interpretano Olli e Raja vengono da Kokkola, una cittadina a metà del Golfo di Botnia, mentre l'altrettanto bravo Eero Milonoff, il manager, è di Helsinki. Un bel film, positivo, che fa bene allo spirito. 

giovedì 23 agosto 2018

I Ventisetti della Diciotti


Premesso che non sopporto Salvini, il suo modo di pensare, il suo protagonismo parossistico, le sue incessanti esternazioni, le sue inconcludenti minacce all'UE, le sue chiacchiere perlopiù a vuoto che stanno a testimoniarne l'incompetenza e, last, but not at least, il suo faccione da pirla che campeggia tutti i santi giorni in primo piano sui giornali e in TV, mi chiedo se il procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio, così solerte nell'aprire un'indagine, al momento a carico di ignoti ma che potrebbero assumere le sembianze del ministro dell'Interno in carica per sequestro di persona e arresto illegale per i 177 migranti che, secondo le norme in vigore, sarebbero comunque a loro volta illegali, salvo ottenimento, per chi è in possesso dei requisiti per richiederlo, il diritto d'asilo, lo sia stato altrettanto nell'aprirne un'altra per abbandono di minore, che mi risulta reato perseguibile d'ufficio, da parte dei genitori dei 27 ragazzini e bambini che hanno ottenuto il permesso di sbarcare dalla nave della Guardia Costiera ancorata al porto di Catania. Non ne ho avuto notizia da nessuna parte, come nemmeno sul fatto se costoro siano in possesso o meno di documenti che ne attestino l'identità e possano dunque ricondurre a quella dei genitori. Vorrei anche che qualcuno mi spiegasse cosa dovrei pensare, senza incorrere in accuse di rassismo e di fassismo e insensibilità disumana, di chi affida la propria prole, dietro lauto compenso, ai mercanti di schiavi pur di farla arrivare in Europa e cosa delle donne che accettano di correre il rischio di una traversata su barconi o gommoni derelitti anche in uno stato di avanzata gravidanza. Grazie.

lunedì 20 agosto 2018

Most Beautiful Mind

"Most Beautiful Island" di Ana Asensio. Con Ana Asensio, Natasha Romanova, David Little, Nicholas Tucci, Caprice Benedetti e altri. USA 2017 ★★★★
La lettura della sinossi della trama non mi aveva ben disposto nei confronti di questo film, che si basa su fatti veri e dai risvolti autobiografici che riguardano l'autrice, sceneggiatrice e interprete: la spagnola Ana Asensio, nata a Madrid e residente a New York. Racconta le vicende di Luciana, una giovane donna dall'aspetto particolare (una forte somiglianza con Julia Roberts) e un po' inquietante, che si arrabatta in questa città mastodontica, confusionaria, scostante, trasandata scelta per sfuggire a una tragedia che l'ha colpita in patria (pare di capire la perdita di una figlia) e agli incubi che continuano ad assalirla, e che passa da un lavoretto all'altro, ovvero quelli che può consentirle la mancanza della Green Card: distribuire volantini di un fast food travestita da pollo, il baby sitting e simili: quando una conoscente, un'ex modella russa, nelle sue stesse condizioni, le chiede di sostituirla per fare atto di presenza a un party, in cui non le verrà imposto nulla che decida di non fare in cambio di 2000 dollari, che possono raddoppiare nel caso venisse richiamata, Luciana, che l'indomani deve pagare la sua parte d'affitto alla coinquilina, accetta. L'unica condizione è che si procuri un abito elegante e un paio di scarpe adatte. E così Luciana, che per la prima metà del film abbiamo visto aggirarsi nella metropoli sbattendosi in attività improbabili con una certa superficialità e dabbenaggine che finisce per renderla irritante, viene inghiottita in un mondo ambiguo, letteralmente nelle viscere di questa città marcia che milioni di persone si ostinano a vedere come un miraggio, una terra promessa, il luogo per antonomasia in cui tutto è possibile, e quindi perfetto per "svoltare" (motivo per cui in generale non suscitano la mia simpatia. La domanda che viene spontanea è: se hai problemi a Madrid, o in Messico, o in Guatemala, per dire, proprio negli USA devi andare, dove ti tratteranno peggio di uno schiavo? E dove se fallisci ti diranno che è solo colpa tua e che quindi è quello che ti meriti? Non riesci proprio a immaginarti un Paese diverso in cui cominciare una nuova vita, invece di quello che più di ogni altro ha contribuito a ridurre il pianeta nello stato in cui è ora?). A che prezzo, però: Ana Asensio lo racconta nella forma del thriller psicologico, ché in questo si trasforma la pellicola nella seconda parte e, come dispone la locandina italiana, non è il caso che mi metta a raccontare il finale, e nemmeno lasci trapelare troppi indizi. Posso soltanto garantire che non c'è alcun riferimento sessuale, come ci si potrebbe aspettare, o qualcosa che abbia a che vedere con la pornografia o la prostituzione, se non in senso molto traslato: molto peggio. Unico avvertimento: meglio che si astenga dalla visione chi soffre di aracnofobia. La durata è di soli 80 minuti ma quando si è bravi e si hanno idee buone, bastano e avanzano. Un gioiellino di intelligenza, dove la perfezione nell'interpretazione è completamente superflua, anzi: non c'entrerebbe nulla. Bene la prima, verrebbe da dire con la grande Mina. 

mercoledì 15 agosto 2018

Lo Stato delle cose


Grazie al maestro Nico Pillinini. Un pugno nello stomaco più efficace di tanti discorsi a vuoto. E ora sta al governo dimostrare se è intenzionato a fare sul serio o a limitarsi alle dichiarazioni di intenti e alle chiacchiere. 

martedì 14 agosto 2018

Quando la copertina riacquista un suo perché...


E' finita l'estate. Con due giorni d'anticipo sul Ferragosto, si è "rotta" la bella stagione e da oggi nulla sarà più come prima. 
A Nord delle Alpi ci voleva: raramente c'è stata un estate così torrida e siccitosa come questa, e la situazione peggiorava progressivamente spostandosi verso settentrione, fino in Scandinavia, con punte oltre i 30 °C all'ombra anche ben oltre il circolo polare artico nel mese di luglio. 
Uno dei momenti di più struggente languore di tutto l'anno giunge quando nell'atto di stendersi sul divano a leggere qualche pagina prima di piombare nella pennica post prandiale si comincia a sentire il bisogno di riesumare l'apposita, provvidenziale copertina.
Dai boschi circostanti, mi trovo nel Kobanaußer Wald, nel cuore dell'Innviertel, la regione che si può definire la Toscana dell'Austria, dopo i temporali di ieri sera e la pioggia notturna, emanano resinosi vapori in cui già si percepiscono fragranze autunnali; stamattina al mercato, oltre a montagne di more e mirtilli, ho avvistato i primi finferli e anche alcuni splendidi, grassi porcini: si rimane in attesa che maturi l'uva, sperando in una vendemmia che sia di qualità, se non di quantità, e dell'annuale, doveroso pellegrinaggio in programma dopodomani all'Augustiner Bräu Mülln a Salisburgo, evento che segnerà la fine del personale ramadan che mi ero imposto dopo la finale del Mondiale di calcio immeritatamente vinta dalla Francia contro la valorosa Croazia. Prosit, salute, na zdravljie! E, soprattutto, ora e sempre Forza Inter!

domenica 12 agosto 2018

Una bevanda per l'estate


Acqua (meglio se gassata a dovere), limone, menta e zenzero fresco grattugiato, sconsigliato lo zucchero.
Dissetante, rinfrescante, corroborante, depurativo.
E in mona la canicola!

venerdì 10 agosto 2018

Cattolici e fanatici pro-vita: fatemi capire




Pensando a coloro, cattolici seguaci di Bergoglio in prima fila, e integralisti di altre confessioni oltre a opportunisti di vario genere che in Argentina stanno festeggiando perché il Senato ha respinto il progetto di depenalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza, finora ammessa soltanto nel caso di stupro o di pericolo per la vita della madre, al fine di garantire un aborto sicuro e assistito, viene da chiedersi quali seri problemi abbiano con l’entità ultraterrena in nome della quale conducono la propria guerra senza frontiera contro un provvedimento di civiltà se per scoraggiare le donne ad abortire, e punirle se lo fanno, non bastano la legge e la giustizia divine ma bisogna ricorrere a quelle umane e alla coercizione da parte dello Stato.




giovedì 9 agosto 2018

"A Beautyful Day - You Were Never Really Here"

"A Beautyful Day - You Were Never Really Here" di Lynne Ramsay. Con Joaquin Phoenix, Ekaterina Samsonov, Alessandro Nivola, Alex Manette, John Doman, Judith Roberts. USA, Francia 2017 ½
Fra i ripescaggi estivi di titoli che mi erano sfuggiti durante la regular season, questo della regista scozzese Lynne Ramsay è quello che mi ha lasciato più perplesso, e non per come il film e stato girato: tecnicamente è anzi ottimo, suggestivo, con un accompagnamento musicale magistrale a sottolinearne la tensione spesso spasmodica e il disagio che suscita nello spettatore, ma nonostante duri soltanto un'ora e mezzo scarsa già dopo una decina di minuti ci si domanda dove voglia andare a parare e se non ci si stufa prima della fine è soltanto per avere la conferma che continua a girare a vuoto, irrimediabilmente. Ora: che la Ramsay abbia una sorta di vocazione a raccontare vicende di abusi su bambini lo dicono suoi lavori precedenti come gli inquietanti e meritevoli Ratcatcher ed E ora parliamo di Kevin, ma qui sembra che la pappa sia andata un po' insieme e il risultato finale è un frullato di Psycho, ripetutamente citato anche per il rapporto del protagonista con la madre, Taxi Driver, Trainspotter o il più recente Drive, con l'eroe, Joe, veterano di guerra reduce dalle esperienze più sconvolgenti e che tornano a ossessionarlo nei suoi ricorrenti incubi in cui non distingue fra sogni e realtà, che si "ricicla" come sicario o meglio giustiziere a pagamento: una sorta di Wolfe-che-risolve-i-problemi per conto di chi non ha la forza o il coraggio di farlo da solo. Lo seguiamo nei suoi lavori, risoluto, silenzioso, efficiente, spesso armato soltanto di un martello con cui sfonda crani qui e là, l'aria paranoica e alquanto robotica che riesce a conferirgli Joaquin Phoenix, che per i ruoli di disadattato con forti punte di autisimo sembra fatto apposta (sorge spontanea la domanda di quanto "ci faccia" e quanto, invece, "ci sia" di suo), finché non accetta l'incarico di recuperare Nina, la figlioletta di un senatore, poi suicida, finita in un giro di prostituzione minorile. Dietro al quale sta un altro politico locale, siamo nello Stato di New York e quella che si vede è quella squallida e periferica, con Manhattan sullo sfondo, solitamente in notturna, o in interni, forse il governatore o l'aspirante tale, non si capisce. Tutto è confuso nella mente di Joe come nella sceneggiatura che sta alla base della pellicola, non a caso premiata dalla giuria del Festival di Cannes l'anno scorso (di passaggio notiamo che si tratta di una coproduzione francese), già generosa in passato con la Ramsey. Lo splatter abbonda, i cadaveri pure, i déjà vu non ne parliamo. C'è tanto di meglio, in giro.

lunedì 6 agosto 2018

L'altro olocausto - 73 anni dopo

Per ricordarsi sempre chi ne fu responsabile e chi tuttora rappresenta il più grande pericolo per l'umanità.

giovedì 2 agosto 2018

Cinema Komunisto

"Cinema Komunisto" di Mila Turajlić. Con testimonianze di Alexandar "Leka" Konstantinović, Veliko Bulajić, Dragisa Djokić, Velimir "Bata Zivojinović,  Veliko Despotović, Stevan Petrović, Vlastimir Gavrik, Dan Tana, Sulejman Begić, Ranko Petrić. Serbia 2010 ★★★★★
Torna a essere proposto in giro in qualche sala d'essai questo documento eccezionale, oltre che gradevole e ricchissimo di filmati d'archivio, su ciò che significò il cinema in un Paese che, purtroppo, morì giovane e non sopravvisse a chi lo guidò durante la resistenza al nazifascismo e, poi, per altri trentacinque dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla sua morte nel 1980: Josip Broz Tito, maresciallo di Jugoslavia. Che era un appassionato cinefilo e che, da bravo dittatore quale fu, pur con le migliori intenzioni e alcuni pregi innegabili se solo si fa un paragone con la classe politica con cui hanno a che fare non soltanto i Paesi che ne facevano parte ma di tutto il Continente, per non parlar degli USA, aveva capito l'enorme potenzialità del mezzo sia per creare consenso all'interno sia per promuovere l'immagine del Paese all'esterno, sia, non ultimo, per procurare valuta pregiata alle casse dello Stato: il cinema contribuì non poco al prestigio della RSFJ nel mondo, specie dopo che Tito la sganciò dall'URSS nel 1948 per collocarla, successivamente, alla testa del movimento dei Paesi Non Allineati. La giovane autrice raccoglie testimonianze e aneddoti da parte dei protagonisti del cinema jugoslavo, a cominciare dal proiezionista personale di Tito e di sua moglie Jovanka, Leka Kostantinović, un militare distaccato presso la residenza del compagno presidente a Belgrado (indegnamente e inutilmente sfregiata durante i bombardamenti a cui fu sottoposta la città da parte della NATO e con l'assenso complice del governo D'Alema, giova ricordarlo, nella primavera del 1999) e che rimase al suo posto anche dopo essere andato in pensione, il quale tenne un registro dei film che fece vedere alla coppia: oltre ottomila, quasi uno al giorno; degli sceneggiatori, registi e attori dei colossal jugoslavi nonché, soprattutto, da parte di chi diresse i mitici studi Avala Film, la Cinecittà jugoslava su una collina della capitale, che lavorò anche per grandi produzioni straniere: americane, francesi, italiane e ne raconta la storia e la triste decadenza. Tito supervisionava tutto, incentivando particolarmente film che trattassero il tema della guerra partigiana, da lui capeggiata, annotando di suo pugno le sceneggiature e fornendo suggerimenti da persona competente oltre che interessata. Certamente fu cinema di propaganda ma non solo: nelle sue pieghe chi ci lavorava aveva un certo margine di autonomia sempre, si capisce, sotto l'ombrello protettivo a grazie alla benevolenza che il Grande Capo concedeva volentieri ai "suoi" artisti, e che ospitava spesso e volentieri le star internazionali, da Orson Welles a Richard Burton (che scelse per interpretare sé stesso in Sutjeska - La quinta offensiva) e Liz Taylor a Brioni, dove aveva la sua residenza estiva e da cui dirigeva di fatto il celebre Festival di Pola, l'equivalente di Cannes o Venezia sull'altra sponda dell'Adriatico. Un film-documentario imperdibile non solo per chi è interessato a cose balcaniche o agli affetti da jugonostalgija ma anche e soprattutto a chi ama il cinema in sé stesso e ne vuol capire i meccanismi.