lunedì 23 aprile 2018

Il prigioniero coreano

"Il prigioniero coreano" (Geumul) di Kim Ki-Duk. Con Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong, Wong-geun Lee e altri. Corea del Sud 2016 ★★★½
Quanto mi aveva profondamente irritato Pietà, l'ultimo film di Kim-Ki-Duk con cui aveva vinto il Leone d'Oro alla 69ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia del 2012, tanto mi è piaciuto questo suo film apertamente politico, questa volta invece pressoché ignorato dalla giuria dello stesso festival cinematografico, con cui torna alle tematiche dell'esordio: dipingendo le condizioni della gente comune, degli sfruttati e degli emarginati da parte dei due regimi contrapposti ma altrettanto paranoici e malati di ideologie che si suddividono la Penisola Coreana, separati ufficialmente dal 1953, ma di fatto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dal 38° Parallelo. E' lungo un fiume che scorre alla sua altezza, e dove passa il confine tra le due Coree, che avviene la vicenda emblematica di Nam-Chul-woo, un povero pescatore la cui barca è l'unico mezzo con cui può procurare da vivere a sé, alla amata moglie e alla figlioletta. Succede che, uscendo una mattina a pescare, le reti si impiglino nel motore mandandolo in panne e che, del tutto contro la sua volontà, la corrente lo sospinga oltre il confine del Sud dove viene immediatamente arrestato perché entrato in una delle zone di sicurezza e sottoposto a interrogatori ossessivi e anche violenti perché sospettato di essere una spia: soltanto l'agente che lo assiste, la cui famiglia peraltro è originaria del Nord e che non vede chi proviene da lì come l'emanazione del demonio (è, anzi, il cuore culturale e delle tradizioni del Paese) gli crede e lo tratta con gentilezza. Il pescatore finisce dunque in mano da una parte a un poliziotto vendicativo e ossessivo, che però non ottiene risultati, dall'altro a funzionari che tentano di sedurlo facendolo passeggiare per Seul, perché rimanga abbagliato dalle mirabilie offerte del sistema capitalistico: Nam-Chul-woo dapprima non apre nemmeno gli occhi, conscio che qualsiasi cosa dovesse vedere gli verrebbe rinfacciato una volta tornato in patria, dove l'avrebbero accusato di essersi fatto tentare; quando è costretto ad aprirli, quel che vede (una prostituta pestata dai suoi due papponi) non è certo edificante. Quando alla fine lo lasciano tornare nella patria che non ha mai rinnegato, viene sottoposto a un trattamento speculare da parte dei suoi connazionali, che pure del rientro del "figlio prodigo" hanno fatto un caso mediatico. Cade insomma dalla padella alla brace, sommerso dai sospetti benché accolto ufficialmente da eroe, e maltrattato con la stessa brutalità e mancanza di umanità dagli aguzzini del Sud, e come se non bastasse le autorità gli tolgono pure la licenza di pesca, e con ciò il mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia. Perché, nei giochi di potere tra fronti contrapposti ideologicamente ma analoghi nella sostanza, così come nelle guerre, chi ci va di mezzo è chi il potere non ce l'ha e lo subisce per logiche che gli sono del tutto estranee e su cui non può influire. Che sarà anche un messaggio banale, ma sempre utile e meritorio da ribadire, tanto meglio attraverso un film che racconta con pochi, essenziali tratti una realtà di cui sappiamo poco, per quanto la Corea ultimamente faccia spesso notizia. Insomma con questa pellicola ai miei occhi Mim Ki-Duk si è ampiamente riabilitato. 

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