sabato 31 marzo 2018

Foxtrot vs Insyriated


Usciti entrambi in Italia il 22 marzo e avendo per tema i riflessi famigliari dei perduranti conflitti mediorientali, ambientati l'uno in Israele e l'altro in Siria, i due film si prestano ad essere confrontati sia per la loro resa cinematografica, sia per i contenuti.

"Foxtrot - La danza del destino" (Foxtrot) di Samuel Maoz. Con Lior Ashkenazi, Sara Adler, Yonatan Shiray, Gefen Barkai, Dekel Adin, Shaul Amir e altri. Israele, Germania,  Francia 2017 ★★
La notizia della morte del figlio Jonathan militare di leva, portata da tre giovani in divisa dell'esercito israeliano a una famiglia benestante di Tel Aviv, fulmina la madre, Dafna, che viene immediatamente narcotizzata e colpisce irrimediabilmente Michael, un architetto di successo, lasciandolo alle prese, con il solo soccorso del fratello, non solo col dolore ma come se non bastasse con le disumane formalità della burocrazia militaresca di un Paese che sembra aver trovato nella guerra e nella caccia al nemico, esterno e interno, la propria ragion d'essere e ormai la sua identità, ormai in preda alla paranoia. Tutto viene nascosto, a cominciare da come si è svolta la tragedia, al corpo del ragazzo: non viene rivelato nulla, per cui tutto appare all'uomo come irreale, e forse lo è, come si viene a scoprire nella seconda parte del film, che si svolge nel posto di blocco perso nel nulla (viene inevitabilmente in mente il Deserto dei Tartari) dove Jonathan assieme a un gruppo di altri ragazzi, alloggiati in una cisterna sbilenca, presta servizio, a controllare il passaggio su una strada di scarsissimo transito, ma la beffa finale è in arrivo, ancora più crudele, nella terza parte che si svolge nuovamente nell'appartamento di prestigio in città, con Dafne che si è ripresa dal sonno indotto, e così vediamo in scena ed interloquire anche lei e la figlia della coppia. Una tragedia (intimista e circolare, da cui non si scappa) dell'assurdo in tre atti, che sarebbe ideale per il teatro, ma non funziona al cinema, o almeno non in questo caso, in cui tutto sembra fasullo, una pure costruzione intellettuale, e perfino gli interpreti risultano privi di qualsiasi empatia e credibilità. Certo, viene denunciato lo psicodramma di un'intera nazione e il suo adeguarsi all'insensatezza, e dove la protesta individuale non ha alcun peso, ma in trasparenza di legge anche l'incapacità di un'intera classe intellettuale, specie quella di origine europea, quella stessa descritta dal regista e a cui probabilmente appartiene, di cambiare il corso delle cose: del resto i privilegi di quest'ultima poggiano sull'adesione al modello americano e sul sostegno che lo Zio Sam e la sua consorteria militar-finanziaria fornisce a Israele fin dalla sua nascita e alla sua logica, altrimenti non si spiegherebbe che la situazione conflittuale venga volutamente perpetuata con voci contrarie sempre più flebili e a cui film come questo, autoreferenziale, estetizzante e inutilmente cervellotico fino a diventare indisponente, non danno forza.

"Insyriated" (Une famille syrienne) di Philippe Van Leeuw. Con Hiam Abbas, Diamand Bou Abboud, Juliette Navis, Mohsen Abbas, Moustapha Al Kar e altri. Belgio, Francia 2017 ★★★★½
Ben altro spessore e impatto ha questo film esemplare del regista belga Philippe Van Leeuw, che raccontando la claustrofobica quotidianità della vita in un appartamento in una qualche città della Siria teatro di scontri tra fazioni e oggetto di bombardamenti di varia provenienza, si innalza dal particolare, dalla storia e dalle reazioni profondamente umane della gente qualunque (e quindi non la classe intellettuale e dirigente israeliana di Foxtrot) davanti a degli eventi catastrofici su cui non ha alcun potere di influenza, e a cui pure si deve adattare per tentare di sopravvivere, per esprimere dei valori più alti e universali ma pur sempre autentici, non artefatti  intellettualizzati. Gli è sufficiente illustrare una giornata, da un'alba a quella successiva, nell'abitazione che una donna determinata e coraggiosa, Oum Yazan, una superlativa Hiam Abbas, non vuole lasciare a meno che la situazione non precipiti e che il marito, che non ha potuto mettersi in contatto con la famiglia, non sia d'accordo: troppo a lungo è stata costretta a vagare nella sua esistenza, e ora provvede alla sicurezza e alla sopravvivenza, sforzandosi di dare una parvenza di normalità nonostante vivano barricati, dei propri tre figli, di un loro amico, del vecchio suocero, della domestica di origine indiana e di una giovane coppia di vicini con un neonato in procinto di scappare in Libano, il cui appartamento al piano di sopra è stato devastato da un'esplosione e successivamente svaligiato da un gruppo di sciacalli. Evito accuratamente di raccontare gli episodi salienti, limitandomi a dire che sono più che plausibili, perfino normali, in una situazione di tal genere, pur non essendo mai completamente prevedibili, perché se da un lato l'essere umano si adegua a tutto pur di sopravvivere, al peggio non sembra esservi mai fine. Eppure, pur con tutte le contraddizioni che emergono in maniera ancora più scoperta, il bisogno di vita e di calore e di una certa quotidianità ha il sopravvento, anche e soprattutto nel momento delle scelte, spesso dolorose e laceranti. Sono cose che anche gli interpreti sentono, perfino se non soprattutto i più giovani, risultando veri prima ancora che credibili, a differenza che in Foxtrot, e anche per questo Isyriated rimane impresso nella memoria e nel cuore, ed è capace di smuovere sentimenti di solidarietà verso chi decide di fuggire da realtà come quella siriana perché ci si riesce a mettere nei loro panni. 

giovedì 29 marzo 2018

Lady Bird

"Lady Bird" di Greta Gerwig. Con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Tracy Letts, Beanie Feldstein, Lucas Hedges, Timothée Chalamet, Odeya Rush e altri. USA 2017 ★★★
Altro film che ero in dubbio se andare a vedere e che invece n'è valso la pena, grazie soprattutto alle due interpreti principali, in particolare Saoirse Ronan, che veste i panni di Lady Bird, alias Christine, un'adolescente irrequieta e anticonformista ma nemmeno più di tanto che frequenta un liceo cattolico di Sacramento e ha un rapporto sanamente conflittuale, per l'età che ha, con la madre (Laurie Metcalf), la quale non vede di buon occhio l'idea, a causa delle ristrettezze economiche in cui veleggia la famiglia dopo il licenziamento del padre della ragazza, che la figlia si trasferisca sulla Costa Orientale per frequentare l'università, come invece spera la giovane per sfuggire all'atmosfera provinciale da cui si sente oppressa, e che per essere ammessa a uno dei cui prestigiosi college sta facendo domanda di nascosto. Il fatto è che Lady Bird/Christine altri non è che Greta Gerwig stessa, nata proprio a Sacramento e trasvolata a direttamente a Manhattan, con la differenza che invece di interpretare di fatto sé stessa, come aveva fatto nei suoi due precedenti film newyorkesi, si è fatta sostituire dalla giovane e bravissima attrice d'origine irlandese, che ha dato al personaggio quel tanto di verve che basta distinguerla dall'originale e a renderla meno monotona della indie finta stralunata, malvestita, imbranata e alla fine un po' indisponente che era diventata, nell'arco di due sole pellicole, la Gerwig. Che è indubbiamente il nuovo Woody Allen in gonnella (ha pure recitato con lui in quell'autentico fiasco che era il penoso To Rome With Love), solo in parte attualizzato (l'essere sostanzialmente un po' rétro fa parte del cliché che si è data), con gli indubbi pregi del vecio (pur non essendo altrettanto geniale e non avendo lo stesso sarcasmo talvolta iconoclasta) e gli stessi difetti: la  spaventosa autoreferenzialità, il non essere in grado di guardare al di fuori del proprio ambiente e il tendere a fare all'infinito lo stesso film: avendo un talento non comune è un vero peccato, e il timore è che diventi per il cinema quello che Luciano Ligabue è per la musica pop rockeggiante italiana. La pellicola racconta in sostanza l'ultimo anno di liceo della ragazza, tra botte di eccentricità, scazzi con la madre infermiera e il fratello acquisito, velleità artistiche, ragazzi (il primo con cui si mette si rivela omosessuale e lei lo consola; dal secondo, musicista bel tenebroso con pose da intellettuale impegnato, si fa sverginare),  qualche canna qui e là, le amicizie e confidenze femminili, la complicità col padre disoccupato e depresso che l'appoggia in segreto nella scelta di tentare l'ingresso in un college prestigioso: tutto qui, ma fatto bene e raccontato con grande scorrevolezza, semplicità, realismo. Anche un po' troppo buonismo, diciamolo, che rende tanto cinema "indipendente" USA piuttosto melenso, ripetitivo e di scarsa profondità e visione. Però, in questo caso, gradevole: giova anche la durata limitata a 95'.

mercoledì 28 marzo 2018

Ricomincio da noi

"Ricomincio da noi" (Finding Your Feet) di Richard Loncraine. Con Imelda Staunton, Timothy Spall, Celia Imrie, David Hayman, John Sessions e altri. GB 2017 ★★★+
Pur appartendendo al fiorente filone gerontofilo che pare andare per la maggiore negli ultimi tempi, Ricomincio da noi, al solito tradotto a cazzo in italiano (in inglese il titolo significa "rimettersi in piedi" e fa riferimento anche al corso di danza frequentato dai protagonisti), anche in considerazione dell'alta quota di ultrasessantenni che tenacemente continuano a frequentare le sale cinematografiche tradizionali, non ho avuto troppe perplessità di andare a vedere perché regista e interpreti erano una garanzia, e non sono stato deluso. Classica commedia inglese, racconta di Sandra che, proprio durante i festeggiamenti per la nomina a Sir del marito, un funzionario di polizia ex campione di tennis, e del suo passaggio al rango dl Lady dopo tre decenni di dedizione matrimoniale, scopre che lui l'ha tradita, per anni, con una presunta amica di famiglia, peraltro di aspetto mascolino, e si rifugia dalla sorella maggiore Elizabeth, detta Bif, che non vede da tempo e che ha fatto scelte opposte alle sue: è tenacemente single, freak, casinista, impegnata politicamente a sinistra, e vive in un appartamentino in affitto di un casermone situato in un quartiere popolare di Londra. Le differenze di carattere rendono scoppiettante la prima parte del film: dopo i primi tempi di sconforto e autocommiserazione annegati spesso e volentieri nell'alcol, Sandra comincia ad adeguarsi ai ritmi di Bif, che la convince a partecipare assieme a lei e ai suoi amici al corso di ballo che frequenta in una sala del quartiere, e dove troviamo una serie di personaggi di contorno che rendono corale la commedia, tra cui emerge Charlie, un restauratore che vive su una barca ancorata in un canale vicino al Tamigi, all'apparenza ridanciano ma in realtà a sua volta colpito duramente da un dramma ben più profondo: una moglie che adora, malata di Alzheimer, per le cui spese di ricovero ha perfino venduto la casa, che ormai non lo riconosce più e lo respinge. Sandra man mano riscopre se stessa, e attraverso il corso ricorda di essere stata, da giovane, un'ottima danzatrice e aspirante attrice, si apre alle nuove amicizie e nasce inevitabilmente una relazione tra lei e Charlie: non senza contrasti e colpi di scena fino all'inevitabile happy end. Che passa però attraverso accettazione della realtà da un lato e capacità di decidere dall'altro: ed è proprio sulla spoliazione da inutili orpelli, la capacità di vedere e saper apprezzare le cose essenziali, specie quando si viene inevitabilmente ad avere a che fare con la malattia oltre che col decadimento fisiologico, che si acquisiscono con l'età e il valore sempre maggiore che assume la libertà di scelta che si incentra meritoriamente il film che, grazie  anche a una sceneggiatura solida e scorrevole, evita accuratamente di banalizzare e buttarla in vacca. Tra gli interpreti, più di Imelda Staunton, forse non del tutto nella parte, splendono Timothy Spall e David Hayman nei panni di Charlie e del suo amico più stretto, e Celia Imrie in quelli dell'eccentrica ed amabile Bif. 

lunedì 26 marzo 2018

Collaborators


"Collaborators" di John Hodge. Traduzione e regia di Bruno Fornasari. Con Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Michele Basile, Emanuela Caruso, Eugenio Fea, Enzo Giraldo, Marta Lucini, Alberto Mancioppi, Daniele Profeta, Michele Radice, Chiara Serangeli, Umberto Terruso, Elisabetta Torlasco, Antonio Valentino. Scene e costumi di Erika Carretta; disegno luci di Fabrizio Visconti; musiche originali di Rossella Spinosa. Produzione Teatro Filodrammatici di Milano. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 25 marzo 2018
In trasferta all'Elfo l'originale e divertente spettacolo curato dal duo Amodio/Fornasari tratto dal testo del drammaturgo e sceneggiatore scozzese John Hodge (Trainspotting, Piccoli omicidi tra amici) che prende spunto dai rapporti, reali, intercorsi fra Stalin e Mikhail Bulgakov (medico, autore di teatro, attore, romanziere: il genio che scrisse Cuore di CaneUova fatali, La guardia bianca e quel capolavoro che è Il Maestro e Margherita: il mio romanzo preferito in assoluto) per immaginarsi una collaborazione, come da titolo, fino ad arrivare a un paradossale scambio delle parti tra i due, pretesto per ripercorrere in modo insolito le relazioni contraddittorie e però intense tra intellettuali e potere, lavorando di fantasia ma al contempo ricostruendo con precisione e sottigliezza di sfumature un'epoca complessa e del tutto particolare come quella degli anni Trenta nell'Unione Sovietica: l'amica che ha visto lo spettacolo con me ha commentato, acutamente, che gli autori sono riusciti a condensare, e gli interpreti a rendere, in poco più di due ore (che peraltro sono volate via senza un momento di noia) e in maniera comprensibile a chiunque, quanto con impareggiabile maestria era riuscito a Enzo Bettiza nel suo romanzo I fantasmi di Mosca, specie nella seconda parte, La confessione di Sveto, in svariate centinaia di pagine. Il sipario si apre con luci stroboscopische che illuminano un anziano uomo in divisa e mostrine rosse con grossi baffi che ne insegue uno più giovane e macilento attorno a un tavolo, e sta per afferrarlo quando quest'ultimo si risveglia in preda al panico nel suo appartamento condiviso a Mosca: si tratta di Mikhail Bulgakov e siamo nel 1938, nel periodo culminante delle purghe staliniane e dei celebri processi e, in occasione del sessantesimo compleanno del dittatore georgiano, uno zelante funzionario della polizia segreta (NKVD) propone a Bulgakov di scrivere una agiografia del giovane Josif Dzugasvili che lui stesso avrebbe messo in scena in cambio della promessa di non intralciare la rappresentazione dello spettacolo su Molière a cui teneva tanto, nonché di porre fine alle minacce all'amata moglie Helena. Lo scrittore, peraltro con un passato di medico, oggetto per tutta la vita delle attenzioni della censura ma che grazie alla benevolenza di Stalin, che aveva una predilezione per lui, non era mai incorso in guai più seri che ne mettessero in pericolo l'esistenza (anche se gli fu vietato espatriare o solo ottenere un permesso di visitare i suoi famigliari all'estero), per tutti gli artisti un paladino della libertà e critico del regime, che aveva in varie occasioni messo alla berlina nelle sue opere, in effetti era stato più volte tentano di scrivere una biografia di Stalin, un personaggio così possente da cui era comunque affascinato, tanto da intrattenere con lui uno scambio epistolare, il quale a sua volta aveva un debole per il dissacrante letterato e artista, manifestato in più occasioni: è qui che Hodge si immagina che sia il dittatore stesso a fare ripetutamente visita a Bulgakov, a cui manca l'ispirazione, e a mettersi alla tastiera e battere a macchina la storia della sua gioventù rivoluzionaria, mentre lo scrittore cerca a sua volta di entrare nella testa dell'uomo di potere, per cercare di capire come riesca a padroneggiare i meccanismi di governo, così complessi che lui stesso si rende conto che ci vuole una mente "mostruosa" per riuscirci. Un rapporto ambiguo tra i due uomini, dunque, come ambigui, da sempre, sono i rapporti tra potere e cultura: del resto anche nelle corti feudali il ruolo del giullare era fondamentale e sacro. Lo spettacolo, intervallo a parte, scorre senza soluzione di continuità con una fluidità, coerenza e semplicità encomiabili nonostante la complessità del meccanismo, che prevede anche il teatro nel teatro. Una splendida compagnia di quattordici elementi, all'altezza della tradizione dei Filodrammatici, dove Amadio a Maccioppi, rispettivamente Bulgakov e Stalin, spiccano grazie al peso specifico personaggi che interpretano, ma dove anche tutti gli altri non sono dei semplici comprimari ma protagonisti. Sala Shakespeare colma, una caldissima accoglienza e un successo meritato.

domenica 25 marzo 2018

Metti la nonna nel freezer

"Metti la nonna nel freezer" di Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi. Con Fabio De Luigi, Miriam Leone, Lucia Ocone, Marina Rocco, Barbara Bouchet e altri. Italia 2018 ★★★+
Commedia satirica con tinte noir, ispirata a certo cinema britannico, dimostrazione che si può fare un film agile, brioso, piacevole, irriverente senza scadere nel pecoreccio e nel banale: a dirigere le operazioni una coppia di autori e registi trentenni originari di Matera, che confermano le loro qualità all'esordio nel lungomatraggio. Claudia (Miriam Leone) è una giovane restauratrice che, dopo un delicato e impegnativo lavoro per la Sovrintendenza, è creditrice di 160 mila euro, ma il mancato pagamento da parte della PA mette in crisi la società che ha messo in piedi con due colleghe che sono anche le sue amiche più strette, e la costringe a campare con la pensione della nonna Birgit (Barbara Bouchet: chi si rivede: complimenti!), che l'ha cresciuta e con cui vice tuttora. Proprio mentre si reca a sollecitare ancora una volta il pagamento del dovuto, incontra Simone, un integerrimo  maresciallo della Guardia di Finanza (Fabio De Luigi, finalmente in un ruolo vero), scrupoloso fino alla maniacalità, appostato in incognito nell'ufficio proprio allo scopo di accertare un possibile tentativo di concussione da parte del funzionario pubblico, che rimane fulminato dalla bellezza della ragazza. La quale, quando inaspettatamente la nonna muore, assieme alle due socie ha l'idea geniale di metterla nel surgelatore per continuare a percepire la pensione finché lo Stato non si degna di saldare il suo debito. Da lì in poi un susseguirsi di situazioni grottesche e divertenti, con il maresciallo innamorato  e impacciato la ragazza che cerca di non farsi scoprire; alcune scene sono esilaranti, come quando lei si trucca da vecchia e affronta il timido spasimante oppure quando il cadavere della vecchia, collocato su una sedia a rotelle, caduta dal furgone poi fermato dalla GdF e risultato vuoto all'ispezione, vaga fuori controllo per le strade del borgo dove si svolge la vicenda per finire in un uliveto. Il finale, meno dissacrante di quel che forse era sperabile, non credo si possa ritenere una strizzata d'occhio alle tipiche furberie nostrane quanto una nota di sano realismo che si concilia con uno Happy End che comunque non rovina il beffardo tono generale. Nonostante la provenienza televisiva degli autori, nel suo piccolo si tratta di un film vero, tratto da un'idea originale anche se ben ancorata alla realtà, sviluppato con coerenza, che deve anche molto alla scelta di interpreti adeguati, specialmente Miriam Leone che, oltre a essere una gioia per gli occhi, sa gestire bene il suo personaggio e oltre a sapersi esprimere a parole e a gesti sprizza intelligenza da uno sguardo magnetico. Io mi sono divertito.

venerdì 23 marzo 2018

Fuck News



Tutto uno strologare sulle Fake News, di questi tempi, e sulla necessità inderogabile di smascherarle da parte degli autorevoli e affidabilissimi professionisti del mondo dell'informazione (ah, se non ci fossero loro, chi altro potrebbe filtrare le notizie e garantire la veridicità nonché la qualità di ciò che viene ammannito al gentile pubblico?), specie quella nostrana, e poi uno incappa nello Sky TG24 di ieri, una delle rare volte in cui mi capita di accendere la televisione per sintonizzarmi sull'emittente satellitare a meno che non venga trasmesso un incontro di calcio in diretta o mi guardi una serie TV o un film in differita (tengo a precisare che i programmi RAI-Merdaset sfuggono completamente al mio radar da vent'anni a questa parte, mentre faccio qualche rara eccezione per LA7), ed ecco un servizio edificante su Fiumicino, inteso come Leornardo da Vinci, lo scalo internazionale della capitale, premiato, come annunciano trionfanti anche Stampa e CorSera, come "migliore aeroporto al mondo". Proprio quest'affermazione temeraria, e pronunciata con tono assertivo, aveva attirato la mia attenzione: come, come? Proprio quel bordello che manco nello Zangaro, dove i bagagli sparivano nel nulla come imbarcazioni e aerei nel Triangolo delle Bermude? Ad ascoltare bene il servizio e leggendo fino in fondo gli articoli, si scopre che il riconoscimento  internazionale da parte di Skytrax si intitola World's Most Improved Airport 2018, ossia lo scalo che ha ottenuto il più forte miglioramento della qualità dei servizi ai passeggeri, quindi ciò che nel titolo sembrava assoluto assume un aspetto decisamente relativo: come dire che un aeroporto conosciuto per essere tra i più inefficienti del pianeta, con un personale perlopiù indisponente, specie quello legato alla "compagnia di bandiera": di un menefrgeghismo e di una cafonaggine riscontrabile forse soltanto nell'ex Unione Sovietica, è diventato un luogo mediamente frequentabile o, facendo un altro esempio, che uno scolaro che nel primo quadrimestre aveva la media del due ha fatto un exploit da record nella sua classe passando a una del quattro o perfino del cinque: bene, bravo, ma sempre bocciato resta. E invece giù con un'intervista inginocchiata all'amministratore delegato di Atlantia, già Autostrade S.p.A., Giovanni Castellucci, che si pavoneggia per i risultati, ottenuti in soli tre anni, della Cura Atlantia, che lui chiama turnaround del Leonardo da Vinci, "considerato oggi un'eccellenza in Europa e nel mondo". Che non è per nulla vero: secondo fonti autorevoli (Skyhelp), citate ad esempio sempre dal CorSera, lo scalo romano (che considerare un vero e proprio Hub è quantomeno benevolo) si piazza al 38° posto, secondo in Italia dietro a Malpensa (30°), entrambi preceduti, tra gli altri, dagli aeroporti di Addis Abeba (26°), Malta (15°) e Bogotá (11°). Così, per chiarire le cose inquadrandole da un altro punto di vista. Ora: che nei giornali sia prassi forzare un tantinello i titoli, come si dice in gergo, per spingere un pezzo, non è una novità e non scandalizza più di tanto, ma qui si tratta di una non notizia, ovvero di una vera e propria "notizia a cazzo", un puro pretesto per una possente leccata di culo a chi di Atlantia è il maggiore azionista, ossia i Benetton, la famiglia di magliari trevigiani ben nota per aver merdificato  qualsiasi cosa sia passata dalle loro mani, a cominciare da Autogrill (provate a fare due chiacchiere con qualsiasi addetto a proposito di paghe, turni, mansioni): non contenti di far danni nella nostra sciagurata penisola, dove un governo centrosinistrato dopo l'altro ha loro dato in concessione Autostrade per l'Italia a condizioni che definire di favore è un eufemismo, una vera e propria sinecura, ne hanno fatto un prodotto d'esportazione dove proporre l'Italian Style. Ma questi sono gli imprenditori, va da sé progressisti e democratici, tra i più celebrati nel nostro pagliaccesco Paese, e questa l'informazione che li porta a esempio e ne tesse le lodi. Quindi perché stupirsi che capiti lo stesso con la classe politica indecente che ci ritorviamo?

martedì 20 marzo 2018

Phantom Thread (Il filo nascosto)

"Phantom Thread" (Il filo nascosto) di Paul Thomas Anderson. Con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville, Gina McKee, Harriet Sansom Harris, Julia Davis, Camilla Rutherford, Brian Gleeson e altri. USA 2017 ★★★★+
Ammetto di aver tergiversato a lungo prima di decidermi di andare a vedere l'ultimo lavoro di Paul Thomas Anderson, un regista di grande talento che anche nei casi in cui non mi convince del tutto, come in The Master, si colloca comunque a un livello molto superiore alla media: il mondo della moda, chi lo frequenta e ciò che rappresenta suscitano in me un'avversione che sconfina nella repulsione, per cui l'idea di affrontare due ore e venti minuti di quel che si annunciava come una sorta di melodramma con implicazioni psicologiche in quell'ambiente alimentava le mie perplessità; poi ho letto che si trattava dell'ultimo ruolo che Daniel Day-Lewis avrebbe interpretato prima del suo ritiro dalle scene e mi sono deciso, a patto di vedere la versione in lingua originale (sottotitolata) e sono stato contento di aver sfidato la sorte. Intanto perché la prova dell'attore inglese è stata ancora una volta all'altezza, capace come pochi di esprimere gli stati d'animo più profondi di una personalità tormentata attraverso una recitazione quasi afasica, più con accenni e tic quasi impercettibili che attraverso la parola che, quando esce dalla bocca di Reynolds Woodcock, stilista di fama mondiale operativo a Londra negli anni Cinquanta che vestiva alta società e teste coronate di tutto il mondo, era perlopiù caustica e utilizzata per tenere a distanza tutto ciò che poteva turbare l'ordine maniacale e i rituali che riteneva necessari per preservare la purezza dell'ispirazione: i rapporti di questo scapolo impenitente con le sue amanti erano quindi improntati alla formalità e alla distanza, finché non incontra Alma, una giovane cameriera di un albergo sulla costa in cui si era recato per consumare una prima colazione che lo aveva colpito e la quale, al suo invito per una cena, aveva risposto con un biglietto con scritti l'orario e il luogo per il "ragazzo affamato". Alma, ragazza semplice ma intelligente e tenace, diventa prima collaboratrice della maison, di cui fa parte nella veste di manager un'altra donna, Cyril, sorella di Reynolds (Lesley Manville, seconda interpretazione notevole), che finora è stata l'unica e riuscire a tenere sotto controllo suo fratello, perché conosce bene da sempre il suo lato infantile, poi la musa di Reynolds, infine la moglie, riuscendo a suo modo a entrare nei "segreti" di lui, e lo fa a piccoli passi, resistendogli e allo stesso tempo adeguandosi a lui e alle sue "esigenze" artistiche, incassando ma in realtà tessendo la sua trama, che non è quella dell'interesse ma della ricerca della complicità più profonda, del terreno comune sui cui trovarsi e che lui aveva sempre evitato di cercare nei rapporti con una donna, condizionato com'era da quello con una madre già scomparsa da decenni ma sempre immanente e da cui mai era riuscito a staccarsi. E lo troveranno, questo terreno, in maniera inaspettata, laddove la complicità nasce dalla totale fiducia nell'altro nel momento del massimo rischio, quello della vita stessa, e qui quello che solo in apparenza è un melodramma (ma è da un lato film sul talento artistico e dall'altro sull'amore, sullo sfondo di un epoca e un ambiente ricostruiti con attenzione maniacale) assume perfino tinte noir che ricordano tanto Hitchcock quanto Truffaut. Per completare le prove attoriali di alto livello, complimenti anche a Vicky Krieps: la sua Alma non si dimentica facilmente, un personaggio complesso, forte, intenso, che non perde mai il controllo pur non essendo per nulla fredda né calcolatrice, ma molto intuitiva, attenta e perspicace. E sì, ne è valsa decisamente la pena.

domenica 18 marzo 2018

Philip Seymour Hoffman, par exemple


"Philip Seymour Hoffman, par exemple" di Rafael Spregelburd. Regia di Transquinquennal. Con Bernard Breuse, Miguel Decleire, Manon Joannotégui, Stéphane Olivier, Mélanie Zucconi. Una coproduzione Transquinquennal/Kunstenfestivaldesartes/Théâtre Varia/Théâtre de Namur/Théâtre de Liège/Mars-Mons arts de la scène. Prima nazionale il 17 marzo 2018 al PalaMostre di Udine per Teatro Contatto 36
Quando Stéphane Olivier, attore mezza età dall'apparenza goffa, si presenta per un casting in un teatro di posa di Bruxelles gli esaminatori, convinti che si tratti di Philip Seymour Hoffman (l'attore newyorkese anti-divo per eccellenza prematuramente scomparso il 2 febbraio del 2014) talmente immedesimato nella parte da esprimersi in francese con accento vallone, rimangono attoniti, chiedendosi cosa lo abbia portato in Belgio, e qualche dubbio su chi sia viene allo stesso Stéphane quando, rientrato a casa e dopo aver raccontato lo strano episodio alla moglie, quest'ultima, senza dargli retta e chiamandolo Philip, gli chiede il divorzio. Parallelamente, in uno sfondo in continua metamorfosi, con gli attori che spostano gli elementi scenici e mutano essi stessi identità sotto gli occhi del pubblico in modo straordinariamente fluido, si svolgono altre due storie: un attore giapponese alle prese con un remake vittima di un'idolatria al limite dello stalking da una giovane ammiratrice adorante che ne segue ossessivamente le tracce, e il "vero" Philip Seymour Hoffman, circuito da un gruppo di truffatori che lo convince a far digitalizzare i suoi movimenti e fingersi morto, trasferendosi per un periodo magari nel Benelux, per vendere il suo avatar ai produttori della serie televisiva Hunger Games, che effettivamente lo avevano sotto contratto al momento della morte, i quali davvero presero in considerazione di utilizzare un suo ologramma per girare le scene mancanti in cui era previsto il suo personaggio, Plutarch Heavensbee. Partendo da questo spunto, e dall'idea che non esistiamo se non nel modo in cui ci vedono gli altri, e in funzione di ciò, il collettivo multidisciplinare belga Transquinquennal ha chiesto al talentuoso drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, convinto seguace della Teoria del caos applicata al teatro, nonché della realtà non lineare, di scrivere un testo che affrontasse il tema dell'identità sotto i suoi molteplici aspetti: il bisogno di una figura di riferimento, un mito, su cui proiettare ciò che siamo, ciò che desideriamo essere, in sostanza ciò che recitiamo, a costo di mentire spudoratamente, fosse anche a fin di bene. Cosa che vale in particolar modo per gli attori, specie quelli davvero bravi, profondi e non etichettabili: ed ecco la scelta di incentrare la commedia su Philip Seymour Hoffman, Star suo malgrado, un artista sensibile che sceglieva con cura e criteri personali le proprie parti immedesimandovisi totalmente, alternando cinema holliwoodiano a quello indipendente, serie tv, teatro e serie tv dozzinali, di cui questo lavoro non è una biografia, non raccontandone né la vita, né la carriera, né la morte, ma solo l'immagine, per l'appunto l'idolo che era per gli esaminatori dell'alter ego belga Stéphane, o l'avatar da sfruttare dei furfanti cinematografari. Due ore e venti di spettacolo godibilissimo e scorrevole, in un francese piuttosto comprensibile (e comunque con l'ausilio dei sottotitoli) e, tra gli interpreti, da sottolineare la versatilità delle due protagoniste femminili, in particolare la travolgente Mélanie Zucconi. Il teatro di Spregelburd, quando non filtrato da una regia cervellotica e un'interpretazione capziosa, autoreferenziale e sostanzialmente fasulla come quella del tanto mitizzato Ronconi, risulta perfettamente intellegibile e gradevole. Vivamente consigliato se capita di vederlo in giro per la Penisola.  

venerdì 16 marzo 2018

Oltre la notte

"Oltre la notte" (Aus dem Nichts) di Fatih Akim. Con Diane Kruger, Denis Moschitto, Johannes Kirsch, Samia Muriel Chancrin, Numan Acar e altri. Germania, Francia 2017 
Anche per il cinema vale la regola aurea cantata da Jimmy Cliff: The Harder They Come, The Harder They Fall. Per cui un film che pretende di essere drammatico ma insieme thriller politico, psicologico, giudiziario, insomma un minestrone che sarebbe tutto sommato (v)edibile in una serata noiosa davanti alla TV, a forza di venire strombazzato come un evento memorabile, preceduto per mesi da trailer e annunci di nomination e premi vari all'attrice protagonista, merita una stroncatura ancora più pesante alla prova dei fatti specie se capita di pagare per poterlo vedere su grande schermo. Tema: siamo a Sankt Pauli, quartiere multietnico (un tempo a luci rosse) di Amburgo, e una giovane madre scopre che marito e figlioletto sono stati le vittime, va da sé innocenti, di un attentato: una bomba artigianale fatta esplodere davanti all'agenzia di consulenza fiscale, di traduzioni legali e di viaggi dell'uomo, un turco di origine curda. Un tipo con precedenti penali pesanti per spaccio di droga che Katia, la protagonista, ha sposato mentre era ancora in carcere (era il suo pusher quando frequentava l'università), presentandosi in abito bianco e tatuaggi bene in vista e un'arroganza naturale insopportabile in dotazione. Svolgimento (a capitoli, tipo Quentin Tarantino): la famiglia felice / la disperazione / l'inchiesta / la giustizia negata / la vendetta. Tematiche non lontane da Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ma abissalmente distante è il risultato. Per una serie di motivi, oltre al fatto che nessuna corte sana di mente avrebbe potuto condannare gli imputati di fronte a una insufficienza di prove tanto evidente e una condotta processuale così demenziale da parte dell'interessata e del suo legale e amico, un avvocaticchio di origine italiana, tanto per rimanere nel banale: mancanza di ritmo; incongruente gestione dei tempi; inesistente scavo psicologico dei personaggi, tratteggiati grossolanamente quanto banalmente; odiosità degli stessi; afasia sostanziale degli interpreti quanto dei personaggi immaginati da una sceneggiatura bislacca, i quali non dicono mai nulla di significante, salvo lo sgradevole ma intelligente avvocato che difende la coppia di giovani neonazisti autori dell'attentato, di cui Katia ha riconosciuto la ragazza, interpretato da Johannes Kirsch, l'unico di tutto il cast degno di essere ritenuto un attore. Come se non bastasse, tutto il film è costruito sulla protagonista, Diane Kruger che, si sottolinea, ha finalmente potuto recitare (è una parola grossa) nella propria lingua madre, il tedesco, avendo dunque l'occasione di sfoggiare tutte le sue qualità: misera cosa, a parte essere la versione femminile di Pavel Nedved, ex calciatore e attuale dirigente della Juventus, uno dei più noti e pervicaci simulatori che abbia mai calcato un rettangolo di gioco, senza averne però le capacità attoriali. Un film brutto, televisivo, schematico, prevedibile e scostante come solo dei tedeschi di scarso talento possono concepire e dei francesi in luna storta coprodurre, in stato di confusione mentale e non sapendo quali posizioni prendere riguardo al terrorismo islamista di cui pure sono stati entrambi vittime dopo averlo colpevolmente covato in casa: che si andasse a parare sull'attentato neonazista l'avevo capito fin dai primi 5 minuti. Non solleva il giudizio sul film la giusta fine che fa nell'ultima scena la vendicatrice-kamikaze, altro che La Sposa di Kill Bill... E così anche lo spoiler è servito per questo film di merda.

domenica 11 marzo 2018

Nome di donna

"Nome di donna" di Marco Tullio Giordana. Con Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Bebo Storti, Stefano Scandaletti, Michela Cescon, Anita Kravos, Laura Marinoni e altri. Italia 2018 ★★★-
Ho sempre apprezzato Marco Tullio Giordana, milanese e per di più ex berchettiano, per cui un surplus di pregiudizio positivo da parte mia è quasi d'obbligo, oltre che scontato, per il suo cinema d'impegno civile e lo stile asciutto, essenziale, quasi didascalico, però stavolta non sono del tutto convinto, benché Nome di donna meriti comunque la sufficienza. Girato durante l'estate scorsa nel Pavese e in piccola parte a Milano, il film affronta il tema delle molestie sessuali e della cappa di omertà e ipocrisia che si stende su di esse, in tempi non sospetti, ben prima che scoppiasse il Caso Weinstein, nell'ottobre del 2017; in particolare nell'ambiente di lavoro, quando una delle due parti è particolarmente debole non solo contrattualmente ma per le sue stesse condizioni personali, in questo caso l'essere una ragazza madre, e la denuncia degli assalti sessuali è resa ancor più difficile dalla complicità più o meno consapevole che spesso unisce vittime e carnefice. In questo caso il direttore di una prestigiosa casa di riposo per anziani, di cui è azionista anche le chiesa, impersonato da un bravissimo Valerio Binasco, capace di far trasparire sotto una maschera di imperturbabile irreprensibilità e correttezza tutta la laidità del soggetto, occultata con tanta cura e faccia di bronzo, senza mai forzare i toni. Costui compie delle innegabili avance nei confronti di una giovane addetta, Nina, assunta da poco in pianta stabile per il suo zelo dopo una sostituzione, e che per questo dovrebbe mostrargli una gratitudine con atti che per l'uomo sembrano scontati. Così non è, perché dopo alcune titubanze, dovute soprattutto alla freddezza e finanche fastidio con cui la maggior parte delle sue colleghe, quasi tutte provenienti dall'Europa dell'Est, accolgono il suo sfogo, la ragazza si decide di denunciare il fatto, convinta sia dal fidanzato, sia da una sindacalista che già aveva condotto un'inchiesta tempo prima nella residenza sospettando qualcosa. Il film descrive molto bene e in maniera credibile tutte le fasi della vicenda, dal licenziamento di Nina poi rientrato a patto di sottoscrivere un'autodenuncia per diffamazione da parte del prete che è responsabile del personale (quest'ultimo interpretato benissimo da Bebo Storti, un attore troppo poco utilizzato al cinema); alla reticenza da parte della magistratura nel condurre un'inchiesta; alla gestione del caso in tribunale, sia da parte dei giudici, sia da parte degli avvocati; alla prima condanna mite e alla seconda, con vittoria e giustizia ottenuta in appello. Tutto bene salvo l'inserimento in due momenti del film della figura della figlia del molestatore, di cui non si capisce bene il senso, tanto sembra inserita per caso, o lasciata lì in fase di montaggio, e le parti di Nina, che pure è il personaggio principale, e del suo compagno, che fanno la figura dei carciofi: il secondo una figura appena sbozzata, su cui l'interprete non ha potuto intervenire molto; la prima che non suscita la minima empatia, e così ci va di mezzo la povera Nina: per quanto mi sforzi, non ricordo una parte della Capotondi in cui non sembri un baccalà, mancando di qualsiasi espressività e comunicativa: il che, per qualcuno che di professione fa l'attore, è un bel problema. Per fortuna del film gli altri suoi colleghi, oltre a quelli citati in particolare la Cescon e la Marinoni, rendono tutto più credibile. 

giovedì 8 marzo 2018

Quello che non so di lei

"Quello che non so di lei" (D'après une histoire vraie) di Roman Polanski. Con Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Damien Bonnard, Dominique Pinon. Francia, Belgio, Polonia 2017 ★★★★+
Rispetto a Venere in pelliccia, l'ultimo film del Venerato Maestro franco-polacco che considero un capoloavoro, Quello che non so di lei è meno fulminante ma altrettanto chirurgico nell'esplorare i meandri della psiche umana e le ambiguità dell'animo, pertanto occorre che sedimenti per qualche tempo prima di dispiegare i suoi effetti e confermare che, ancora una volta, Polanski ha centrato il bersaglio. E ancora una volta il tema è quello del doppio, affrontato in chiave noir, con al centro Delphine (il nome è uguale a quello della De Vigan, autrice del romanzo su cui si basa la sceneggiatura, Da una storia vera: già il titolo è un programma), la sempre bravissima Emmanuelle Seigner, consorte del regista, una scrittrice in crisi d'ispirazione e di identità che dopo il clamoroso successo del suo primo libro, un romanzo autobiografico con protagonista sua madre, morta suicida, è in preda al panico da pagina bianca, nonché bersagliata da lettere anonime che l'accusano di aver messo in piazza segreti di famiglia pur di raggiungere la fama. E' altresì in crisi da abbandono: da parte dei figli che hanno abbandonato il nido, e da parte dell'attuale compagno, il conduttore di un programma televisivo di successo che si occupa, guarda caso, di letteratura, in trasferta negli USA per intervistare i più celebri autori d'Oltreoceano. Proprio mentre le crisi d'ansia diventano sempre più ricorrenti e mentre sta cadendo in depressione, entra nella sua vita, prendendone progressivamente possesso, Lei (Elle, da Elizabeth, nell'originale), nei panni della fascinosa, volitiva e inquietante Eva Green, una ghost writer conosciuta a una presentazione del libro di Delphine, che sembra leggerle nel pensiero anticipando i suoi bisogni e che si prende cura di lei, assumendo un ruolo via via preponderante nella sua esistenza, tra l'amica, la segretaria, la governante, la motivatrice del suo "romanzo segreto", forse perfino l'ispiratrice, e il fulcro del film è proprio nel rapporto, che non ha nulla di erotico ma è altrettanto potente ed enigmatico, che si instaura tra le due donne, in un gioco di specchi di cui Polanski è impareggiabile artefice, dove realtà e finzione si intrecciano, i limiti dell'immaginazione si fanno incerti e l'aspetto onirico finisce per avere conseguenze perfino sul piano fisico; al contempo, l'argomento è anche il mistero che sta alla base della creazione artistica, altro tema ricorrente e correlato dell'anziano ma sempre giovane regista. Da sottolineare le prestazioni delle due attrici, entrambe perfettamente aderenti ai personaggi, dirette con mano lieve e ironica nonostante le tinte dark e surreali da Polanski, che non lesina, pur non risultando mai ripetitivo, rimandi autobiografici e citazioni hitchcockiane in un film sostanzialmente da camera, in ambientazioni finite quanto studiate al dettaglio, che contribuiscono a un effetto ipnotico sullo spettatote benché non manchino i colpi di scena che pure sembrano però in qualche modo attesi. In ogni caso, un gran bel vedere. 

martedì 6 marzo 2018

La scortecata


"La scortecata" di Emma Dante, liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Regia e testo di Emma Dante, con Salvatore D'Onofrio e Carmine Maringola. Scene e costumi di Emma Dante; luci di Cristian Zuccaro, assistente alla regìa Manuele Capraro. Produzione Festival di Spoleto 60/Teatro Biondo di Palermo in collaborazione con Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale.
Al Teatro PalaMostre di Udine il 4 marzo 2018 per Teatro Contatto 36
Uno spettacolo essenziale, fulminante, ipnotico sia per le movenze dei due magnifici interpreti, che impersonano due sorelle quasi centenarie che vivono sole e inscenano ogni giorno la stessa storia per passare il tempo, sia per il suono della lingua di Giambattista Basile, il napoletano barocco del 1600, che la regista palermitana ha mantenuto sostanzialmente identica all'originale e che risulta comunque comprensibile, o quantomeno intuibile, a un orecchio minimamente sensibile grazie alla potente mimica degli attori, senza dover ricorrere a sottotitolazione. La fiaba è piuttosto nota, e aveva ispirato anche Matteo Garrone che ne aveva fatto un episodio del suo film The Tale of Tales del 2015, con le due vecchie sorelle le quali si immaginano che la voce di una delle due abbia sedotto un re, così attratto da volerne concupire la proprietaria, le cui fattezze gli erano ignote salvo un mignolo meravigliosamente tornito che gli era stato mostrato attraverso il buco della serratura ed è nell'atto di levigare il mignolo ("suca", si incitano l'un altra) che si apre la scena scarna con le due vegliarde sedute una di fronte all'altra su due seggioline di legno, separate soltanto da un modellino di castello, coperte di abiti sbrindellati. La più giovane (97 anni) si concede al sovrano a condizione che l'incontro avvenga di notte, al buio e sotto le lenzuola, e dietro questo sipario l'amplesso si compie in controluce al suono di Mambo Italiano, salvo che, soddisfatte le voglie di entrambi, il re si accorge dell'inganno e getta la vecchia dal balcone ma questa rimane appesa al ramo di un albero e non muore; chiederà invece alla sorella di toglierle le pellecchie grinzose scorticandola, per far riemergere la pelle levigata della gioventù. Questa versione de La scortecata verte sul rapporto con la vecchiaia e quello correlato con la bellezza, ma anche sul teatro: ciò che le due vecchie, che non si sopportano ma non possono fare a meno l'una dell'altra, inscenano, tra scambi di battute salaci e a tratti triviali e l'aiuto reciproco, è a sua volta finzione; il fatto che a interpretare il ruoli femminili siano due attori maschi da un lato risale alla tradizione della commedia dell'arte, dall'altro sottolinea volutamente quanto il sesso, che pure è alla base di questa novella del Pentamerone del Basile, sia un elemento che sbiadisce con l'età: a ottant'anni spesso è difficile distinguere tra donna e uomo, soprattutto non è più così importante. Uno spettacolo memorabile, pubblico entusiasta; chiuso il sipario D'Onofrio e Maringola si sono intrattenuti per un'altra ora con il pubblico rispondendo alle sue domande e illustrando metodiche e progetti della compagnia diretta da Emma Dante, attualmente impegnata a Ginevra e che contiamo di vedere presto anche in Friuli.

lunedì 5 marzo 2018

Bingo

Per quel che valgono le elezioni, esserci levati dei coglioni questi tre figuri in un colpo solo è un bellissimo modo di cominciare la giornata e la settimana...

domenica 4 marzo 2018

Omicidio al Cairo

"Omicidio al Cairo" (The Nile Hilton Incident) di Tarik Saleh. Con Fares Fares, Mari Malek, Hania Amar, Yasser Ali Maher, Ahmed Selim, Mohamed Yoursy e altri. Svezia, Danimarca, Germania, Francia 2017 ★★★★+
Gran bel lavoro dello svedese d'origine egiziana Tarik Saleh, autore di multiforme talento, altresì dedito al giornalismo, che in gioventù fu anche uno dei graffitari più noti del suo Paese, regista di un film di denuncia e impegno civile congegnato come un noir dalla struttura classica che si ispira a un fatto realmente accaduto nel 2008: l'omicidio, in un grande albergo a cinque stelle della capitale egiziana, di una famosa cantante libanese legata a un personaggio molto vicino all'allora presidente Hosni Mubarak. Saleh sposta la vicenda tre anni più avanti, nei giorni che precedono quella che è stata l'esplosione della cosiddetta Primavera Araba che ha avuto come fulcro la centralissima Piazza Tahrir del Cairo, incentrandola su un alto ufficiale di polizia, il maggiore e poi colonnello Noureddine, coinvolto come la maggior parte dei suoi colleghi e superiori in un giro di corruzione cresciuto alle spalle dell'economia informale che è la spina dorsale su cui regge il sistema dell'intera megalopoli sul Nilo e dell'intero Paese: protezione (dalle incursioni della stessa polizia) in cambio di mazzette per poter svolgere piccoli commerci di sussistenza. Noureddine, nipote dell'apparentemente bonario comandante del distretto dove opera, è un uomo rimasto presto vedovo di una bella e giovane moglie morta in un incidente stradale, che vive in solitudine in un appartamento abbastanza squallido, tra una birra e un'occhiata alla TV sempre accesa e che rimanda immagini sfuocate di continui notiziari sulle tensioni nel Paese, e gli viene affidato il caso "da trattare con delicatezza", dato che vede coinvolto, ancora non si sa esattamente come, un famoso imprenditore immobiliare nonché parlamentare. Una giovane cameriera sudanese ha però visto qualcosa e Noureddine cerca di rintracciarla nel quartiere-ghetto dove vive assieme ad altri immigrati (al Cairo vengono usati come abitazioni perfino i cimiteri: famosa è la Città dei Morti dove dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 vivono gli allora sfollati dal Sinai e i loro discendenti). Da lì in poi la faccenda si complica, il poliziotto, prima scoraggiato e poi sostenuto dai vertici, si incontra anche con l'imprenditore e politico che era stato scorto dalla cameriera uscire stanza della vittima e scopre un giro di ricatti a sfondo sessuale nonché l'ingerenza degli onnipresenti e onnipotenti servizi segreti egiziani... Il film, che si avvale di una schiera di eccellenti interpreti, a cominciare dal protagonista Saleh Saleh, raggiunge, partendo dal malessere esistenziale di Noureddine, da un lato corrotto e dall'altro ansioso di dare un senso alla sua vita, e sfruttando al meglio i meccanismi del poliziesco, più obiettivi: descrivere la realtà e dall'interno l'ambiente della polizia;  la città per come è e i suoi molteplici contrasti (anche il fatto che ogni Paese ha i suoi "clandestini" e i suoi "terroni", in Egitto i sudanesi e, per altri versi, la consistente minoranza copta e i nubiani); la speculazione edilizia imperante; l'enorme disparità di ricchezze; l'onnipotenza dell'apparato repressivo statale (e qui è inevitabile pensare al caso di Giulio Regeni che trova una sua dimensione); il sottofondo che è stato terreno di coltura della rivolta e della sua successiva repressione; le mille contraddizioni di una città complessa, miserabile e magnifica, incredibilmente suggestiva e attraente. Io l'ho vista e "vissuta" 25 anni fa alloggiando in un piccolo albergo d'epoca frequentato solo da locali in pieno centro, nella città vecchia, e mi è rimasta nel cuore e qui l'ho rivista in certi aspetti identica a come l'avevo nei miei ricordi: ma non sono soltanto la nostalgia e l'emozione a condizionare il mio giudizio perché il film è valido di suo e ricorda il cinema dei Rosi, dei Costa Gavras, dei Petri.

venerdì 2 marzo 2018

Figlia mia

"Figlia mia" di Laura Bispuri. Con Valeria Golino, Alba Rohrwacher, Sara Casu, Michele Carboni, Udo Kier e altri. Italia, Germania, Svizzera 2018 ★★★★+
Come scritto nel post precedente, con questo film visto ancora una settimana fa e unico in concorso in questi giorni alla Berlinale, era iniziata la serie di variazioni sul tema genitorialità in generale e maternità in particolare e quelli relativi al rifiuto e al suo contrario, il bisogno assoluto e compulsivo nonché quello correlato della verità nelle relazioni con i figli. In questo caso una bambina di 10 anni, Vittoria, la bravissima Sara Casu, cresciuta da una coppia di lavoratori normalissima: una madre, Tina, con cui ha un rapporto intenso e sereno, un padre taciturno quanto affettuoso, presente e profondo, come sanno essere i sardi. La piccola conosce e inizia a frequentare Angelica, una ragazza strana, instabile, con rapporti promiscui ma in realtà in cerca di affetto, piena di problemi che affoga spesso e volentieri nell'alcol e che alleva puledri. E' però anche stravagante e piena di vita e Vittoria ne è sempre più attratta. Quando Angelica viene sfrattata, e non le rimane che vendere i suoi animali per poter avere una base economica minima con cui costruirsi una nuova vita nel Continente, Tina la incoraggia ad andarsene, dandole altro denaro oltre a quello che già regolarmente le versava perché non rivelasse il loro segreto: non potendo avere figli, la madre naturale di Vittoria è proprio Angelica. La regista, che conferma pienamente quanto mostrato nel suo film d'esordio, il notevole Vergine giurata, col suo stile essenziale e verista segue spesso telecamera in spalla le tre protagoniste femminili nella loro realtà quotidiana in un paese di pescatori dell'Oristanese, con alle spalle i panorami aspri, da Far West, del Supramonte, lasciando trasparire le situazioni e il dramma più che dalle parole, comunque essenziali, dalle espressioni, dagli sguardi, dalle immagini e dalle situazioni. E' la bimba a scoprire il gioco e il rapporto ambiguo tra le due donne, e dunque la verità e per di più di essere stata oggetto sostanzialmente di una vera e propria compravendita, ma è il marito di Tina il primo a rendersene conto, senza essere però in grado di convincerla, e che pur amando moltissimo la bambina, con cui ha un bellissimo rapporto, ha sofferto molto la dedizione totale e perfino esagerata di Tina nei confronti di Vittoria, che l'ha in parte escluso. Bispuri non giudica, lascia parlare i fatti, ma dice anche che alla fine la natura in qualche modo fa il suo corso, e non si può escludere, checché se ne dica, ha una sua rilevanza, un legame di sangue che comunque si fa sentire sotto traccia, e che spesso a vederci chiaro nelle situazioni ambigue sono i bambini, del resto anche nella fiaba è un bambino e rivelare che il re è nudo. E che i figli appartengono innanzitutto a sé stessi e assorbono da ogni figura che dà loro qualcosa di positivo, sapendolo riconoscere. Valeria Golino continua nel nuovo, gradito corso di aderire al personaggio senza fagocitarlo, mentre Alba Rohrwacher si conferma ancora una volta un'attrice di grande spessore, che può interpretare qualsiasi ruolo con una naturalezza encomiabile; in più, abbiamo una regista coi fiocchi. Complimenti a tutti.