mercoledì 28 febbraio 2018

Eric Clapton - Life in 12 Bars

"Eric Clapton - Life in 12 Bars" di Lili Fini Zanuck. Con Eric Clapton. GB 2017 ★★★★
Combinazione o una strana configurazione astrale, ma la maternità, il bisogno di verità nel rapporto tra genitori e figli e il senso di abbandono e di rifiuto è il tema sia di questo film biografico, sia della tragedia teatrale di Strindberg Il padre, sia del bel Figlia mia di Laura Bispuri, in gara in questi giorni alla Berlinale di cui parlerò prossimamente. Eric Clapton da Ripley, Surrey, ai margini della Greater London sulla strada per Portsmouth, classe 1945 è, non soltanto a mio parere, il più grande e completo chitarrista che abbia mai calcato le scene del blues e del rock, così diverso e così simile (oltre che grande amico e compagno di lunghe elucubrazioni notturne), anche caratterialmente, a Jimi Hendrix; un talento precoce come quello del sodale Steve Winwood, la cui passione per la musica e la successiva applicazione maniacale allo strumento furono la valvola di sfogo per una scoperta sconvolgente e un dolore che ha segnato tutta la sua vita dopo essere venuto a sapere, all'età di nove anni, che quella che credeva sua sorella maggiore, emigrata in Canada subito dopo la sua nascita, era in realtà sua madre, e non la nonna che, assieme al secondo marito, lo avevano cresciuto fino ad allora. Questo lo racconta Clapton stesso alla regista, sua amica, che ne ha raccolto le confidenze oltre alle testimonianze di chi lo ha conosciuto bene, dai suoi colleghi alle donne che gli furono a fianco, a cominciare da Patty Boyd, già moglie del suo amico, collega e vicino di casa George Harrison, oggetto da parte del musicista di una vera e propria ossessione che gli procurò scompensi enormi e quasi fatali ma gli ispirò anche l'intero album registrato come Derek and the Dominoes nel 1970 fra cui un pezzo memorabile come Layla. Il talento si innescò su un terreno già fertile: fin da piccolo Clapton amava isolarsi e aveva spiccate inclinazioni artistiche, a cominciare del disegno (in questo uguale a Keith Richards, e come lui studente della scuola d'arte); la musica divenne terapeutica nella pubertà fino alla decisione, già a quindici anni, di diventare un musicista professionista. Il film ripercorre i primi passi coi Roosters, la frequentazione, il giovedì sera, dedicato al blues, del Marquee Club di Londra (assieme, tra gli altri, ai Rolling Stones); poi l'esperienza con gli Yardbirds, che abbandonò non appena virarono al pop per arruolarsi nei Blues Breakers di John Mayall, allievo di Alexis Corner, il padre del blues inglese, ossia bianco; quindi il primo periodo d'oro con i Cream. La carriera di Clapton è sempre stata movimentata, caratterizzata da alti e bassi che seguivano anche l'andamento dei suoi rapporti con la dipendenza da eroina e, successivamente, da alcol: possibilmente anche peggiore e più devastante, nelle parole dell'artista, che ammette in più occasioni di non amare la vita. E c'è da credergli, soprattutto dopo essere stato rifiutato una seconda volta esplicitamente da sua madre, che nel frattempo aveva avuto altri due figli, nella tarda adolescenza, durante una riunione di famiglia in una base militare in Germania. Che Clapton fosse un introverso, con tratti che spesso sconfinavano nell'autismo, era evidente perfino nelle sue esibizioni dal vivo, mancando completamente di empatia e capacità di comunicare, benché il successo e l'ammirazione del pubblico, che non gli sono mai mancati perfino nei momenti più difficili, fossero una medicina per il suo bisogno di affetto e di essere riconosciuto e stimato, ma non è mai bastato a dargli l'equilibrio di cui aveva bisogno. Ci era riuscita la nascita del figlio Conor, avuto da Lory Del Santo, conosciuta durante le tappa milanese di un suo tour nel 1985 (a cui assistei), ma la tragedia era nuovamente dietro l'angolo, dato che morì cadendo da una finestra aperta in un grattacielo di New York nel 1991. Paradossalmente, in un uomo già depresso di suo, fu la molla che lo portò ad affrontare una volta per tutte le sue dipendenze e a fare un qualche modo pace coi suoi tormenti e segnò un'altra svolta nella sua carriera, dando inizio a quella da solista e alle numerose collaborazioni coi suoi idoli di gioventù, a cominciare da B. B. King. Nel film tanto materiale d'archivio, filmati d'epoca, comprese immagini e riprese anche del periodo di maggiore degrado, sia nella sua villa nella campagna inglese, sia dei deliri sul palco, con concerti interrotti e litigi col pubblico. Clapton, che si è nascosto per lunghi tratti della sua vita, anche professionale, dietro nomi di copertura, in questo film è di una sincerità totale e la cosa di cui va più orgoglioso è la comunità Crossroads, aperta ad Antigua per il recupero dalla dipendenza non di star ma di persone disagiate: a questo fine ha messo all'asta perfino la sua preziosissima collezione di chitarre. Infelice, spesso scostante, sicuramente più per imbarazzo che per spocchia, rimane il musicista che forse più di tutti ha contribuito a fare uscire il blues dal recinto della musica di neri e per neri , rendendola universale: quel blues che è sentimento che nasce dal dolore, e lui lo conosce da vicino, e sta alla base del jazz come del rock. Da non perdere per chi ama Mr Slowhand.

lunedì 26 febbraio 2018

Il padre


"Il padre" di Johan August Strindberg. Regia di Gabriele Lavia. Con Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Perdron. Scene di Alessandro Camera; costumi di Andrea Viotti; Luci Michelangelo Vitullo; musiche di Giordano Corapi. Produzione Fondazione Teatro della Toscana. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano
Delusione, ma un po' me l'aspettavo. Uno studio-salone ottocentesco sontuosamente drappeggiato di rosso, una sceneggiatura indubbiamente suggestiva con una scrivania, un divano, alcune poltrone, tutti però sghembi, in equilibrio precario, vicino al crollo come il personaggio su cui si incentra la tragedia, Adolf, un capitano di cavalleria, alle prese con l'ossesione di essere stato un figlio non voluto dalla madre, che fa i conti con il femminino: non quello all'esterno, la figlia Bertha, che adora, la moglie, Laura, la vecchia tata, che considera la vera madre, e da cui pure verrò tradito, ma da quello riposto in sé. L'incipit è persino brioso (rispetto al resto), con il capitano che deve rimediare a un "incidente" in cui è incorso un suo soldato: aver messo incinta una servetta. Come risolverlo? Obbligando il giovinastro a prendersi le sue responsabilità o sostenere che potrebbe non essere stato lui il responsabile? Intanto il tarlo si insinua e ad avvedersene è la fredda e calcolatrice Laura, che trova il modo di instillare al capitano ancor di più il dubbio in seguito a delle  divergenze riguardo alla educazione della figlia e che man mano lo porterà alla follia, assecondando i piani della moglie, con la complicità dell'amico medico e perfino dei suoi attendenti, di farlo interdire legalmente. Anche giustamente, perché l'uomo, a tutta evidenza l'alter ego di Strindberg, alle prese per tutta la sua vita con le stesse nevrosi, alla fine impazzisce davvero, incapace di confrontarsi alla pari con le donne della sua vita (oltre alle tre in scena anche la suocera e la madre) e in totale crisi di ruolo. E fin qui passi, ma dopo un quarto d'ora l'andamento diventa sempre più lento, tedioso, oberato da una recitazione eccessivamente impostata e da movenze prevedibili e stereotipate, un trionfo del birignao, una parola che non usavo da molti anni, a cominciare da Gabriele Lavia. Bravo attore, senz'altro, ma non un grande come probabilmente si ritiene: la sua fama supera di gran lungo i suoi pure indubbi pregi. Come non bastasse, pure le nenie cantate dalla tremolante voce della vecchia tatina e i bamboleggiamenti ridicoli e imbarazzanti nell'interlocuzione tra lei e il "sempre suo bambino". Già il testo di Strindberg, che ha a che fare con ogni evidenza con la psicopatologia, tutta scandinava, dell'autore; ma proporre le sue turbe e la tematica antica quanto l'umanità del mater semper certa, pater nunquam, nell'epoca del test del DNA e pretendere di farne uno spettacolo al passo coi tempi, quasi  una sorta di manifesto femminista ante litteram però scritto da un uomo che si autoflagella, magari ammiccando al movimento #MeToo con la pretesa di essere preso sul serio mi pare francamente eccessivo. Quasi due ore l'interminabile primo atto, ma solo 25', grazie al cielo, per il finale in cui cambia lo scenario: una suggestiva foresta (forse) evocata sempre con un drappeggio di velluti rossi: qui avviene la caduta finale del povero Adolf. Non proprio nel ridicolo, ma insomma... Poco convincenti, forse perché poco convinti, voglio essere generoso, anche gli altri interpreti. Sconcertante è stato assistere a uno spettacolo simile ospitato in un teatro dove la rilettura moderna dei classici e dei temi davvero eterni è di casa. Mah...

venerdì 23 febbraio 2018

Per chi suona il campanellino



C'è un pidiota solo al comando, la sua maglia è viola con un giglio sul petto... Il suo nome è Mattèo Rènzi. 
Questi sono talmente coglioni che hanno perfino sborsato fior di quattrini per una porcheria simile: guardate e giudicate. Se investono così i loro soldi, peraltro prelevati dalle tasche degli italiani, come si può pensare di affidare a costoro il governo di un intero Paese, a meno di essere autolesionisti come loro? Perché lo dicono Juncker, la Merkel, Macron? Questa specie di Europa? Ma per favore...

martedì 20 febbraio 2018

Flatulenze elettorali



A dieci giorni esatti dalla chiusura di una campagna elettorale che rimarrà memorabile per una pregnanza olfattiva che compensa il nulla concettuale, mi sovviene una definizione utilizzata dall'allora Senatur Umberto Bossi per liquidare l'ideologo della Lega Gianfranco Miglio caduto in disgrazia: "una scoreggia nello spazio". Sono passati più di vent'anni e il livello è molto più miserabile di allora e il tanfo mefitico. 

domenica 18 febbraio 2018

La forma dell'acqua

"La forma dell'acqua" (The Shape of Water) di Guillermo Del Toro. Con Sally Hawkins, Doug Jones, Michael Shannon, Octavia Spencer, Michael Stuhlbarg, Richard Jenkins, Lauren Lee Smith e altri. USA 2017 ★★★★½
Per una volta condivido il giudizio della giuria dell'ultima Mostra del cinema di Venezia che ha assegnato il Leone d'oro al regista messicano Guillermo Del Toro (nessuna parentela con l'attore Benicio) che vive in California e sforna film in cui l'immaginazione spinta ai limiti della visionarietà si inserisce spesso e volentieri in contesti storici realistici, in questo caso i primi anni Sessanta in piena Guerra Fredda, quando la competizione tra USA e URSS avveniva a tutti i livelli, e gli americani erano ossessionati dalla probabile superiorità scientifica degli avversari, che si manifestava specialmente in campo cosmonautico. In questo contesto, il regista e sceneggiatore colloca la storia d'amore tra Elisa Esposito, un'inserviente muta che fa parte del personale addetto alle pulizie notturne in un laboratorio scientifico nei sobborghi di Baltimora, nel Maryland, e il "mostro", la creatura anfibia, mezzo uomo e mezzo pesce, catturata in un fiume dell'Amazzonia, che vi è custodita e oggetto di studio a fini militari, anche perché manifesta capacità di resistenza, per l'appunto, sovrumane. Capitata per caso nell'ambiente dove l'essere viene tenuto prigioniero, in balìa degli umori sadici del brutale colonnello Strickland, il classico "duro" americano mascelluto, psicopatico e idiota, è l'unica che riesce a entrare in sintonia con esso, attraverso le uova sode con cui lo nutre di nascosto e la musica. Anche i russi però hanno messo gli occhi sul fenomeno e incaricano un loro infiltrato, il dottor Hoffstetler, di eliminarlo per non concedere agli avversari un possibile vantaggio. Ma l'amore vince la paura, sia della guerra, sia del diverso, ed Elisa, assieme ad altri due emarginati come lei, il vicino di casa Giles, un anziano pittore omosessuale, e Zelda, una collega di colore che reagisce con orgoglio e intelligenza sia alle angherie razziste che subisce sul lavoro sia a quelle maschiliste del marito fannullone, nonché di Hoffstetler, in cui prevale la curiosità scientifica di voler studiare la creatura da viva, riuscirà a sottrarre l'uomo-pesce dalle grinfie di Strickland nascondendolo a casa sua; il militare però non si arrende e la  vicenda, che già aveva assunto tinte noir, muove perfino nel campo dell'action movie, pur non perdendo mai il suo lirismo, e può ricordare alcune delle migliori cose tratte dai cartoon della Marvel come la serie Agent Carter. Finirà bene, perché il messaggio del film è positivo, e non aggiungo altro sulla trama che è complessa e non priva di colpi di scena ma comunque scorrevole e ben costruita, a testimonianza di una storia ben scritta e congegnata che consente a un cast di eccellenti attori perfettamente adeguato ai personaggi che interpretano di dare sostanza e calore a un film che rimane impresso non solo per una fotografia eccezionale la suggestione di inquadrature fantastiche.

venerdì 16 febbraio 2018

La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo


"La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo" scritto e diretto da Lucia Calamaro. Con Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua. Assistente alla regìa Camilla Brison e Giorgina Pilozzi; scene e costumi di Lucia Calamaro; disegno luci Loic Hamelin; contributi pitturali di Marina Haas. Produzione SardegnaTeatro ,Teatro Stabile dell'Umbria e Teatro di Roma in coproduzione con Festival d'Automne à Paris/Odéon Théâtre d'Europe. Al teatro PalaMostre di Udine per CSS Teatro Contatto 36
"Dramma del pensiero in tre atti" (ciascuno rispettivamente di 50, 60 e 35 minuti), come sottotitolato dalla regista e autrice, tra le migliori voci dell'attuale drammaturgia in Italia, non è una riflessione sulla morte bensì sui morti, il ricordo che se ne ha e l'elaborazione del lutto, che è innanzitutto riconoscere un'assenza dentro alla propria esistenza. Dramma che si svolge in tre passaggi con tre personaggi qualunque: una moglie che, morendo, lascia un marito e una figlia di undici anni e il fantasma della sua presenza, diversamente percepito, nell'esistenza attuale di chi rimane, e che comunque deve fare i conti col senso di colpa per la rarefazione del ricordo, o addirittura la sua rimozione. Temi delicati e complessi, affrontati attraverso dialoghi fitti fra i tre personaggi, in cui in diversa misura tutto il pubblico inevitabilmente finisce per immedesimarsi perché se c'è un'esperienza che si ha in comune e che tutti conosciamo è quello della perdita (e per l'appunto non della morte, perché non c'è dato di raccontarla) e in maniera semplice, a tratti leggera ma mai superficiale, anche se attraverso situazioni banali e, per l'appunto, comuni a tutti. Nel primo atto si ha a che fare con un trasloco, e in questo caso lo spettro di Simona (la madre: i personaggi hanno i nomi degli attori) chiede di essere ricordato in modo positivo e permanente, nella sua interezza, dal marito attraverso gli oggetti lasciati per casa (e i libri sul comodino); nel secondo abbiamo la famiglia al completo: il marito, uno storico d'origine toscana appassionato di citazioni: la moglie, direttrice di una scuola di danza, eccentrica, amante del sole come dei vestito a fiori (tra l'altro bellissimi) e una figlia che riempie interi quaderni di disegni di mostri e pretende da loro l'attenzione attraverso la parola; infine padre e figlia che, dopo anni di rottura causata dal diverso modo di vivere l'assenza di Simona, si incontrano al cimitero, quello di Prima Porta e non quello, ordinato e geometrico, del Verano, a Roma, alla ricerca della tomba della madre e moglie, che durante la ricerca  del loculo dialogano su come quella scomparsa abbia cambiato il flusso del racconto che essi stessi fanno della propria vita. Uno spettacolo che nonostante la durata e l'argomento affrontato non solo coinvolge il pubblico in maniera totale, facendolo partecipare e anche divertire, scorre via lieve e allo stesso tempo intensamente, lasciando una traccia in chi l'ha visto. Il tutto grazie a una scrittura limpida e lineare, scene essenziali ma accattivanti, e il calore e la bravura di tre attori che riescono a coinvolgere gli spettatori fin dall'entrata in scena. 

mercoledì 14 febbraio 2018

The Party

"The Party" di Sally Potter. Con Kristin Scott Thomas, Timothy Spall, Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Cillian Murphy, Cherry Jones, Emily Mortimer. GB 2017 ★★★★+
Non un grande film, ma un piccolo gioiellino, di impianto tipicamente teatrale, che ha per  ambientazione una classica villetta urbana inglese, anzi: il suo pianterreno, tra salotto, cucina, bagno e giardinetto che dà sul retro. Janet, una donna di mezza età, è appena stata nominata ministro della Sanità nel gabinetto-ombra e per celebrare l'avvenimento, culmine di una carriera politica al servizio del Labour Party (da qui il duplice significato del titolo), invita amici di una vita e la collaboratrice più stretta, Marianne, che annuncia che arriverà in ritardo e viene però preceduta dal marito, Tom, un giovane broker finanziario, strafatto di cocaina e in evidente stato di agitazione. Il milieu è quello caratteristico della borghesia intellettuale progressista, che ha tratti universali e specificità nazionali, in questo caso venature tipicamente inglesi e la vicenda, che si svolge in tempo reale dall'arrivo man mano degli ospiti in attesa che giunga l'ultimo (l'unico, anzi, l' unica che non vedremo mai ma che è sempre evocato), ruota attorno alle rivelazioni a sorpresa di Bill, il marito di Janet, il primo ad apparire sulla scena, attonito, bottiglia di vino pregiato a portata di mano, sguardo nel vuoto, che mette sul piatto uno dopo l'altro vinili (peraltro di musica eccellente) d'epoca. Mi rifiuto di entrare nei dettagli per non guastare la sorpresa ma ciò che si innesca, in questa farsa carica di humor nero e ricca di dialoghi arguti, è una serie di rivelazioni in cui ciascuno dei personaggi è costretto dalla situazione che si viene a creare a uscire allo scoperto e a svelare i propri segreti, le proprie insicurezze, la vera faccia. E' anche un gioco di coppie: Janet e Bill, un professore di storia romana ateo e razionalista che ha rinunciato e una cattedra a Yale per supportare la carriera politica della consorte; poi la migliore amica di lei, April, sarcastica, dura, disillusa, che si accompagna con il nuovo fidanzato, un naturopata tedesco (Bruno Ganz: grandioso come gli altri interpreti) che disprezza ma finisce per rivalutare durante lo svolgersi degli eventi che fanno degenerare la festicciola; Martha e Jinni, due lesbiche che nonostante la grande differenza d'età sono in attesa di tre gemelli (maschi) ottenuti con l'inseminazione artificiale; infine Tom, il marito di Marianne, l'assistente di Jane, che arriva al party già sconvolto dall'aver appreso il tradimento della moglie e che ancora non sa di essere diventato becco una seconda volta. Il tutto in 71' che bastano e avanzano, recitati da tutti gli interpreti in maniera strepitosa, in un bianco e nero efficacissimo e quasi hitchkockiano che ha l'effetto di far risaltare l'espressività degli attori e di far concentrare l'attenzione sui dialoghi. Mi sono divertito per tutta la durata del film come capita raramente e mi auguro che valga lo stesso a chi deciderà di seguire il mio consiglio di non lasciarselo scappare. 

sabato 10 febbraio 2018

Ore 15:17 - Attacco al treno

"Ore 15:17 - Attacco al treno" (The 15:17 to Paris) di Clint Eastwood. Con Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone (nella parte di sé stessi); Fenna Fisher, Judy Greer, Ray Corasani, Tony Hale, Thomas Lennon e altri. USA 2017 ★ alla memoria
E' con grande dispiacere che mi tocca affermare che questo sia il peggiore film che Eastwood abbia girato da regista, benché ciò non intacchi la stima che nutro per lui e la sua onestà e ostinata coerenza, malgrado le sue idee siano lontane anni luce dalle mie. Il vecchio Clint rimane un mio personal hero cinematografico così come Keith Richards in campo musicale, il che non mi esime dal sottolineare quando non sono all'altezza della loro fama; anzi: a maggior ragione. Alla ricerca dell'eroe americano tra gli uomini comuni, filo conduttore della sua filmografia più recente, il regista californiano si cimenta ancora una volta con un fatto veramente avvenuto, facendo però interpretare sé stessi dai reali protagonisti della vicenda: l'aver affrontato e neutralizzato un terrorista marocchino in procinto di compiere una strage a nome dell'Isis sul treno Thalis in viaggio tra Amsterdam e Parigi nel pomeriggio del 21 agosto del 2015. Li vediamo in azione soprattutto nella seconda parte del film, quando i tre amici d'infanzia si ritrovano a girare l'Europa in una sorta di Inter Rail in un viaggio-vacanza che li porta da Roma e Venezia a Berlino e infine ad Amsterdam, da dove il film, le cui prime inquadrature in flash-forward sono da thriller, vira all'action: non più di 5' per la fase cruciale. Tutto il resto è la tediosa ricostruzione di un'amicizia nata sui banchi di scuola fra tre studenti mediocri, indisciplinati, bullizzati e sospettati fin dalle medie di sindrome da deficit dell'attenzione. Due di essi, Stone e Skarlatos, entrambi figli di madri rimaste single, diventeranno militari di basso rango, il primo aviere, l'altro nella guardia nazionale, Stone in particolare convinto fin da piccolo di avere una vera e propria missione da compiere, nonostante incontri non poche difficoltà a farsi arruolare e che regolarmente fallisce i suoi obiettivi; e il terzo, Sadler, l'unico di colore del trio, un simpatico cazzone senza arte né parte che pensa di essere Eddy Murphy. Inequivocabile la prova orologio: dopo 20' il mio sguardo si era posato per la prima volta sulle lancette. Metà del film si sofferma sulla loro infanzia e formazione tra le villette a schiera della zona residenziale di Sacramento e la locale scuola cristiana; poi ci si ritrova catapultati in Europa, dove i tre si danno appuntamento per trascorrere due settimane di vacanza tra selfie, penosi Perversion Excursion romane, discoteche e superficiali visite ai luoghi e monumenti più famosi senza che siano in grado di coglierne minimante il significato storico o artistico. Insomma: quel che normalmente fanno i turisti anglosassoni fra i venti e i trent'anni quando sbarcano in Europa e in Italia in particolare, Paese che Clint Eastwood dovrebbe conoscere molto bene, ma ci fornisce una versione istruttiva, per quanto imbarazzante (per loro più che per noi) di come ci vedono i suoi connazionali; lo stesso vale per la Germania, ma almeno qui il Grande Vecchio ha un colpo di genio e, quando i tre pirloni sostano durante un bike tour nel luogo dove sorgeva il bunker in cui si è suicidato Hitler, all'affermazione di uno dei tre che pensava fosse morto nel Nido dell'Aquila circondato dalle truppe USA, fa ribattere alla guida che gli yankees hanno la cattiva abitudine di appropriarsi delle vittorie altrui, dato che il bunker fu circondato dalle truppe russe che liberarono Berlino (a riprova dell'onestà intellettuale di Eastwood). Segue l'ultima tappa ad Amsterdam prima che, dopo una notte a tasso alcolico particolarmente elevato, salgano sul treno per Parigi e imbarcarsi nell'avventura che cambierà loro l'esistenza e ne farà quegli eroi della porta accanto che l'America ha bisogno di inventarsi per alimentare il proprio immaginario. Tutto qui, e per fortuna che la pellicola dura soltanto 90', che però sembrano almeno 30' in più. Un peccato, ma è sempre molto interessante vedere come Eastwood racconta gli americani per quello che sono, molto spesso dei preoccupanti imbecilli.

mercoledì 7 febbraio 2018

L'asse Sanremo-Berlino


E nessuno che si chieda a spese di chi i tedeschi se lo possano permettere... No: l'argomento del giorno, nella Terra dei Cachi, è il Festival di Sanremo. Avanti così che andiamo bene...

martedì 6 febbraio 2018

The Post

"The Post" di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Merryl Streep, Bob Odenkirk, Bruce Greenwood, Sarah Paulson, Carrie Coon, Bradley Whitford, Matthew Rhys, Jesse Plemons, Alison Brie, Zach Woods e altri. USA 2017 ★★★★★
Considero Steven Spielberg un grande cineasta, anche se non è mai stato uno dei miei registi preferiti, troppo americano per i miei gusti, e troppo inserito nell'ambiente hollywoodiano di stampo liberal-buonista da jet set per appassionarmi, ed ero curioso di vederlo alla prova con un tema cruciale come quello dei rapporti tra informazione e potere, lui che in ogni suo film ha comunque in qualche modo affrontato il tema della comunicazione. E mi ha convinto. Il film prende le mosse dalla sottrazione di un dossier segreto di 7000 pagine sulle strategie degli USA in Vietnam fin dai tempi di Truman da parte di Daniel Ellsberg, un ex militare ed economista che lavorava per la Rand Corporation ed era stato testimone diretto in loco del massimo sforzo del Pentagono in quella guerra che i vertici sapevano inevitabilmente persa. Nonostante ciò, continuarono a mandare al massacro decine di migliaia di giovani, allora di leva, che ci lasciarono la pelle o furono traumatizzati a vita. Noti come Pentagon Papers, un loro estratto venne pubblicato dal New York Times nel 1971 ma un'ingiunzione da parte della Casa Bianca, presidente Richard Nixon, segretario di Stato Henry Kissinger, impedì che il giornale di Abe Rosenthal continuasse a diffonderli. Lo fece, prendendo il testimone, in nome della libertà di stampa, il Washington Post, nel momento cruciale e delicatissimo del suo passaggio da giornale di élite ma pur sempre locale (District of Columbia) a realtà nazionale, con relativa quotazione in borsa. Rischiando di alienarsi l'appoggio degli investitori, la responsabilità della scelta l'assunse la proprietaria del giornale, Katharine (Kay) Graham, arrivata alla guida dell'azienda di famiglia a causa di un evento tragico: il suicidio del marito, a cui il padre di lei l'aveva affidata. Certo, su sollecitazione del suo direttore, il brillante, carismatico e sanguigno Ben Bradlee, già intimo del clan Kennedy e disilluso quando scopre che anche il "suo" presidente si era comportato come gli altri, anzi: aveva mandato altre truppe a combattere una guerra che sapeva , in base agli studi del Dipartimento della Difesa, persa in partenza. Si tratta dello stesso leggendario direttore che, pochi mesi dopo, diede il via libera ai suoi segugi Bob Woodward e Carl Bernstein sull'affare Watergate: e qui siamo al mito per chiunque si occupi seriamente di giornalismo e ne conosca, anche solo a grandi linee, la storia. E' su questo particolare snodo della vicenda che si concentra il racconto di Spielberg, il quale comunque ordisce una trama da thriller di razza, cominciando dagli antecedenti della sottrazione dei papers fotocopiati uno per uno con le rudimentali macchine d'allora (e poi via di forbici)  e proseguendo con la caccia scatenata per recuperarli: vengono mandati in missione a New York prima un praticante, poi una vecchia volpe del giornalismo d'inchiesta come Ben Bagdikian, che li porta a Washington in aereo spaiati e chiusi in cartoni; ma il centro del film sono da un lato la redazione del giornale e l'altro cuore pulsante, la tipografia e i reparti rotative e diffusione; dall'altro il rapporto tra Bradlee e Graham, con l'emergere progressivo del personaggio di quest'ultima, interpretato ancora una volta magistralmente, ma stavolta di più, da Merryl Streep, capace come nessuno di esprimere tutte le sfumature di una donna che, insicura e con l'impressione di essere catapultata in un mondo che non l'aveva prevista, fa la scelta giusta e cruciale al momento opportuno e rischiando sia di perdere gli investitori sia che la pubblicazione fosse a sua volta bloccata dalla Corte Suprema. La quale invece sentenziò, in una sentenza storica, che "la stampa serve chi è governato, non chi governa". Perché era lei a rischiare davvero, non lui, come diceva al marito la moglie di Bradlee, una scultrice, quindi un'artista e capace di vedere oltre, chiedendogli di fare un passo indietro e di non asfissiarla: e quindi aveva il diritto di decidere in piena libertà. Un gradino più in basso Tom Hanks, ma solo perché il suo personaggio è meno complesso; ma nel mio cuore il più bravo rimane Bob Odenkirk, nei panni del Wolfe che risolve i problemi, il vero eroe: la bassa manovalanza che è l'anima di un giornale. Bravissimi anche tutti gli altri interpreti, però. Mi ero chiesto quale urgenza avesse mosso Spielberg a riesumare una storia poco ricordata di quasi cinquant'anni fa e perlopiù dimenticata, a parte l'avversione, da bravo liberal, alla presidenza Trump, così simile a quella Nixon anche nelle sue pulsioni contro la stampa. E credo proprio che la sua campana suoni per il mondo dell'informazione, che perfino negli USA non ha più i Bradlee e le Graham di un tempo. Figurarsi da noi, dove non esiste nemmeno un editore puro che sia proprietario di una grande testata. Infine, il film quasi profuma di carta e di inchiostro, e per chi come me ha trascorso buona parte della propria vita lavorativa in un giornale, sono tante le emozioni che tornano a galla e non posso che invitare a condividerle. 

domenica 4 febbraio 2018

Sono tornato

"Sono tornato" di Luca Miniero. Con Massimo Popolizio, Frank Matano, Stefania Rocca, Gioele Dix, Eleonora Belcamino, Ariella Reggio e altri. Italia 2018 ★★★★
Le versione italiana di Lui è tornato, che ipotizza Benito Mussolini che si materializza in una giornata di tarda primavera nei giardini di Piazza Vittorio, cuore multietnico della Roma odierna, è superiore all'originale tedesco uscito sugli schermi due anni fa con protagonista Adolf Hitler che fa la sua comparsa nella Berlino del giorno d'oggi per almeno tre motivi: il livello di tutti gli interpreti (e Popolizio in stato di grazia), la ferocia e il fatto che il nostro Paese, a differenza della Germania, non ha mai fatto seriamente i conti con il fascismo, che infatti è un'invenzione tutta italiana: non poteva nascere che da noi. Lo afferma lo stesso Duce, in una frase in sovrimpressione che non so sa sia sua oppure gli venga attribuita dagli autori: Io non ho creato il fascismo. L'ho tratto dall'inconscio degli italiani. Che fa il paio con l'altra, conosciuta da tutti: Governare gli italiani non è difficile, è inutile. E Lui li conosceva bene, fin troppo. Il film, che gioca su vari livelli di comicità, e in particolare sulla satira irriverente, fa scompisciare dalle risate, soprattutto nella prima parte quando il fu Duce, dopo essere rinvenuto da un sonno lungo più di 70 anni, prima si rifugia nell'edicola di una coppia gay (rectio: invertiti) dove ha materiale a sufficienza per aggiornarsi su quanto accaduto nel frattempo, poi viene scoperto da Canaletti, un free-lance cialtrone, velleitario e spiantato il quale lavora per un a rete televisiva a caccia di uno scoop che lo faccia emergere. Convinto che si tratti di un attore comico, gli propone di filmarlo in un tour in giro per l'Italia su un furgone scalcagnato mentre sonda gli umori di quello che fu il suo popolo (vi ho lasciati analfabeti e vi ritrovo analfabeti) con l'intenzione di sedurlo nuovamente e certo di riuscirci nuovamente. Il video furoreggia su youtube, e Canaletti propone il documentario alla rete per cui lavora e che lo aveva licenziato: nel frattempo il redivivo Mussolini, che con i mezzi di comunicazione aveva qualche dimestichezza già ai suoi tempi, non fatica a entrare in confidenza con quelli moderni, anche perché i meccanismi della manipolazione e del rincoglionimento alla fine non sono granché cambiati. La direttrice della rete, una donna cinica e immorale, a caccia solo di audience e share, vede cadere la manna dal cielo e ne fa un personaggio che furoreggia in ogni programma, dai TG ai talk show e nell'ultima parte del film vediamo il Duce redivivo fare i conti coi suoi emuli attuali, eredi dei governanti degli ultimi 70 anni. La domanda finale non è tanto se un Mussolini al giorno d'oggi possa tornare al potere, perché forse in qualche modo c'è sempre rimasto, in altre forme, quanto e se sia cambiata la pancia del Paese. Quello che il film non fa, a dispetto di chi sostiene il contrario, è sdoganare il fascismo e il suo artefice, che non solo viene sbertucciato come non avevo mai visto, ma duramente chiamato alle sue responsabilità, in una scena magistrale, da una anziana donna, la nonna di Francesca, la fidanzata di Canaletti che viene creduta affetta da demenza senile, in una requisitoria splendidamente offerta dalla grande attrice triestina Ariella Reggio. Mi sento di consigliarlo.