mercoledì 31 gennaio 2018

L'acrobata


"L'acrobata" di Laura Forte. Regia di Elio De Capitani; con Cristina Crippa, Alessandro Bruni Ocaña ed Elio De Capitani in video. Regia video di Paolo Turro; suono Giuseppe Marzoli; luci Nando Frigerio; assistente alla regia Alessandro Frigerio; assistente scene e costumi Roberta Monopoli. Produzione Teatro dell'Elfo con il patrocinio istituzionale dell'Ambasciata della Repubblica del Cile in Italia - Ministero delle Relazioni Estere. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 4 febbraio.
Due attori in scena, Cristina Crippa nella parte della madre e Alessandro Bruni Ocaña in quella sia di Pepo, il figlio, sia di Toto, il nipote; e uno in video: Elio De Capitani, nelle vesti del Patriarca Juliusz, il capostipite, ebreo russo amico di Lenin, esule in Italia dopo la Rivoluzione di Febbraio del 1905. Unico il destino di questa famiglia borghese, laica, comunista, abituata a "viaggiare leggera", come sosteneva Juliusz, detto l'acrobata: a sparire di qua per riapparire di là, sfuggendo alle persecuzioni e alle dittature che sono state il filo conduttore dei tanti Levi nel volgere del XX Secolo. Ché questa è anche la storia del Novecento, raccontata da Beatriz, nipote del patriarca, nata in Italia che, dopo la promulgazione delle leggi razziali nel novembre del 1938, si imbarca con la famiglia per il Cile, il Paese dei terremoti, dove diventò una geologa di fama mondiale, si sposò ed ebbe un figlio, Pepo, la cui tragica fine è al centro di questa vicenda. Nato nel 1958 a Santiago e cresciuto negli USA, dove si era trasferita la madre per lavorare all'Università di Berkeley, la seguì a Stoccolma dopo essere miracolosamente sfuggiti alle persecuzioni seguite al golpe dell'11 settembre del 1973 per iniziare un percorso resistenziale che lo portò ad avere un'istruzione militare, prima nell'ex DDR, poi in Bulgaria e Bulgaro fu il suo soprannome a Cuba, dove si trasferì, si sposò e a sua volta ebbe un figlio, Tato. E' a quest'ultimo che si rivolge la donna via posta elettronica nei giorni dell'anniversario della morte di Pepo, il 16 giugno 1987, per raccontargli chi fosse il padre che non aveva conosciuto: il comandante Bernardo alias Ernesto, massacrato insieme ai suoi compagni nella Matanza de Corpus Christi dagli sgherri di Pinochet per vendetta dopo il fallito attentato a quest'ultimo dell'anno prima. Un evento che la donna aveva cercato di rimuovere, sentendosi quasi in colpa per avergli trasmesso il gene della coerenza e dell'acrobazia, di quell'essere ubiqui che però ha segnato il suo destino, perdendolo. Era questo il tassello che mancava a Tato payaso, che ha preferito fare il clown senza riuscire a divenire a sua volta acrobata, per ricostruire il filo che lo lega al padre. Una storia intensa, commovente, soprattutto vera, scritta dalla drammaturga Laura Forti, cugina di Papo e nipote di Beatriz, in un viaggio a ritroso che deve essere stato difficile quanto doloroso. Grazie. 

lunedì 29 gennaio 2018

venerdì 26 gennaio 2018

L'ora più buia

"L'ora più buia" (Darkest Hour) di Joe Wright. Con Gary Oldman, Lily James, Kristin Scott Thomas, Ben Mendelsohn, Stephen Dillane, Ronald Pickup, Hannah Steele, Samuel West e altri. GB 2017 ★★★½
Sir Winston Churchill è senz'altro uno dei politici più rappresentati al cinema: personaggio carismatico come pochi altri, burbero, caustico, brontolone, iracondo, dall'eloquio confuso e borbottante in privato ma brillante quando interveniva in pubblico, è stato un banco di prova per un buon numero di ottimi attori, e Gary Oldman, protagonista di questo film, è senz'altro uno di essi e lo rende credibile come pochi altri. Il momento storico è il maggio del 1940, nei giorni in cui Belgio e Olanda, invasi dalle truppe tedesche, hanno firmato la resa e la Francia è quasi sul punto di farlo (un mese dopo avverrà il secondo armistizio di Compiègne) e l'esercito inglese è intrappolato a Dunkerque. Chamberlain è sul punto di dimettersi perché giudicato incapace di difendere il Paese e il suo successore più accreditato è un altro membro del partito conservatore, Lord Halifax, amico personale di Giorgio VI e favorevole a intavolare delle trattative di pace con Hitler, ma alla fine gli venne preferito Churchill perché era l'unico politico conservatore in grado di ottenere l'appoggio dell'opposizione laburista: in un momento cruciale, per usare il linguaggio dei politicanti di oggi (che al confronto con quelli di quei tempi bui appaiono comunque dei nani), un governo di "larghe intese" era l'unica opzione possibile. In quei pochi giorni di maggio, fra le trattative per l'indicazione del nuovo primo ministro; la nomina da parte di un recalcitrante e inizialmente ostile Giorgio VI, che non gli perdonava di aver dato appoggio al matrimonio di Edoardo VIII con Wallis Simpson, che portò all'abdicazione del fratello; i primi consigli di guerra e gli scontri con Lord Halifax; la scelta di sacrificare il presidio di Calais per dare tempo al recupero, in buona parte avvenuto con la mobilitazione della flotta privata, di ciò che rimaneva dell'esercito britannico sul suolo europeo Churchill, tra dubbi atroci, nottate insonni, trame e colpi di scena, elabora, pur in maniera apparentemente confusa e borbottando più tra se che esprimendosi compiutamente, vera tortura per la giovane dattilografa personale, alcuni dei suoi discorsi più importanti, tra cui quello alla Camera dei Comuni per la presentazione del suo governo quando, dopo aver sondato anche in privato gli umori dell'inglese medio, che mai avrebbe accettato di arrendersi all'eventuale invasore straniero dell'isola, in contrasto con parte del suo partito, ottenne il voto di fiducia. Pur muovendosi, con una ricostruzione ambientale di prim'ordine e tratteggiando con tutti i suoi pregi e tanti difetti la personalità e la vita privata di Churchill, nell'ambito della biografi e dell'aneddotica, è proprio sulla sua grandezza oratoria, la sua arma in più, che si concentra il regista, memore che prima che politico Sir Winston era stato un brillante e affermato giornalista. Uomo di principi magari discutibili, altezzoso ma conoscitore di uomini e sensibile agli umori della sua gente, di rara intelligenza ed enorme carisma, era non solo un gigante politico ma anche un grande comunicatore. E alla fine ebbe ragione lui su (quasi) tutto, e se oggi su questo continente non viviamo all'ombra della svastica lo  dobbiamo a lui. Ottimo film di fattura tipicamente british, una garanzia, interpretato da attori di solida provenienza teatrale, come da tradizione d'oltremanica.

martedì 23 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

"Tre manifesti a Ebbing, Missouri" (Three Billboards Outside Ebbig, Missouri) di Martin McDonagh. Con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, John Hawkes, Peter Dinklage, Abbie Cornish e altri. USA, GB 2017 ★★★★½
Al terzo lungometraggio dopo i più che promettenti In Bruges e 7 psicopatici, il commediografo, sceneggiatore e regista anglo-irlandese fa centro confezionando un prodotto notevole, di grande spessore, dietro a una facciata di commedia nera intrisa di ironia e situazioni anche grottesche, in cui si innestano da un lato la tragedia e dall'altro un'analisi a un tempo sociologica e psicologica non banale. Siamo nel Missouri, Stati Uniti profondi, quelli che hanno portato Trump alla Casa Bianca, dove la polizia, oltre a torturare i neri e perseguitare gli omosessuali, trascura pure di indagare sullo stupro e l'assassinio di una ragazzina bianca, cosa che fa mandare in bestia la madre, la dura Mildred Hayes, commessa al negozio di souvenir della cittadina di Ebbing, al punto da indurla a investire i propri scarsi risparmi per affittare tre tabelloni posti lungo una strada diventata secondaria dopo la costruzione della highway, in cui tira in ballo la negligenza dei "tutori dell'ordine" e del loro capo locale, lo sceriffo Willoughby. Il quale, benché impersonato dal cattivo per eccellenza Woody Harrelson, è in fondo il lato buono, oltre che a sua volta protagonista di una situazione disperata. Sarà conseguenza di un suo gesto il districarsi sorprendente della situazione, che porterà, se non alla consegna del colpevole alla giustizia, a una possibile soluzione del caso. La cosa interessante è come la richiesta della donna scateni a un tempo gli istinti peggiori come le qualità migliori di una comunità chiusa, che non ha mai superato gli steccati tra razze e i pregiudizi che si porta dietro assieme alla mentalità da pioniere che contraddistingue gran parte degli USA, in cui tutti conoscono tutto di tutti e dove ognuno porta su di sé il fardello di un qualche senso di colpa, perfino la "madre coraggio" che ha innescato (è il caso di dirlo) la bomba e il suo più acerrimo rivale, Jason Dixon, il poliziotto più indolente, stupido e violento della compagnia, anche lui a suo modo una vittima e capace di gesti di profonda solidarietà umana. Evito qualsiasi altro accenno perché la trama, infine, è quella di un noir a regola d'arte, ma oltre a una sceneggiatura coi fiocchi, che sta a metà strada tra quella dei migliori Coen e la prima serie di True Detectives (che vedeva coprotagonista con McConaughey proprio Woody Harrelson, qui nella parte dello sceriffo), la pellicola si avvale delle interpretazioni straordinarie di tutti gli attori, a cominciare da una Frances McDormand indimenticabile. Impeccabili anche fotografia e colonna sonora, si finisce col voler bene e capire anche personaggi in parte mostruosi, suscitando la curiosità di dove andranno a finire e a fare che cosa... Quesito lasciato aperto, benché non credo che questo sia la premessa per un sequel. Un filmone, da non perdere.

domenica 21 gennaio 2018

Benedetta follia

"Benedetta follia" di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Maria Pia Calzone, Lucrezia Lante della Rovere, Elisa D'Eusanio, Francesca Manzini, Paola Minaccioni e altri. Italia 2018 ★★★½
Nel panorama italiano Carlo Verdone, anche nei suoi film meno ispirati, è pur sempre garanzia di una certa qualità e, comunque, di onestà, coerenza, divertimento intelligente senza il rischio di cadere nel pecoreccio: qui abbiamo a che fare con uno dei momenti più felici di questi ultimi anni. Personaggio che è invecchiato con noi, Verdone e i suoi tutto sommato malinconici eroi che rappresentano alla perfezione l'adeguamento ai tempi (impossibile chiamarla evoluzione) dell'italiano medio nel volgere degli ultimi quarant'anni, sono una sorta di autobiografia del Paese, non diversamente da quelli di Moretti e, in buona parte, dai due registi stessi. Qui siamo alle prese con le vicissitudini di Guglielmo, erede di un negozio di articoli religiosi nel centro di Roma dove si servono alti prelati del Vaticano, il quale proprio il giorno del 25° anniversario di matrimonio, festeggiato in un triste refettorio di preti, viene lasciato dalla moglie Lia (Marina Lante della Rovere) che gli confessa una relazione omosessuale con la sua commessa. Incredulo, l'uomo non si dà pace e cade in depressione, finché nel suo negozio e nella sua vita fa irruzione Luna, Ilenia Pastorelli alla sua ottima seconda prova dopo Lo chiamavano Jeeg Robot (da cui provengono anche Nicola Guaglianone e Menotti, i due sceneggiatori che hanno collaborato con Verdone in questo suo ultimo lavoro dando un sicuro contributo di freschezza), una coatta stralunata che induce Guglielmo alla benedetta follia di assumerla prima come avventizia e poi come commessa a tempo indeterminato, sottraendo lei al destino da ballerina di lap dance ma soprattutto sé stesso alla malinconia dei ricordi dei tempi felici con Lia e all'attesa vana del suo ritorno. Come da copione, gli opposti si attraggono perché si completano e questo succede nella relazione tra i due personaggi principali, con Guglielmo che cerca di sgrezzare Luna e al tempo stesso di proteggerla da sé stessa e dalle sue frequentazioni controproducenti, e lei che lo riporta alla vita provvedendo al suo aggiornamento tecnologico e relazionale, a cominciare dal creare un suo profilo su love.it, un sito di incontri, il che dà il via a una serie di situazioni esilaranti con tre personaggi femminili memorabili. Non sono le uniche scene di divertimento puro, che scatenano a più riprese le risate in sala, alternate, come consuetudine in Verdone, con altre più malinconiche, di riflessione sui tempi attuali e su sé stessi, quel che si è stati e quel che si è diventati, ma lo sguardo, benché disincantato, stavolta ha un fondo di ottimismo (l'incontro con Ornella, la brava Maria Pia Calzone). Ottimismo o almeno speranza che traspare anche dalla Roma che, parola di Verdone, vista dall'alto, rimane una città incantevole: è quando la si guarda ad altezza uomo che ci si rende conto di quante cose ci sono da fare prima che sia troppo tardi. Film consigliato: si va sul sicuro, e qualcosa di più.

venerdì 19 gennaio 2018

Alla faccia dei competenti...


Sono certo che il M5S avrebbe fatto bene a indicare per la presidenza del Consiglio qualcuno di più convincente e meno ondivago di Luigi Di Maio, a prescindere dal fatto che cada sui congiuntivi e dal suo eloquio sintatticamente incerto, ma quando si viene a cianciare di competenza, e le prediche arrivano da un pulpito autorevole come Carlo De Benedetti, il più classico degli imprenditori de noantri, quelli che rischiano col culo degli altri, e col proprio coperto dallo Stato; l'uomo che passerà alla storia per aver distrutto un gioiello come l'Olivetti; e dai media, a cominciare da quelli che dovrebbero essere i concorrenti dei giornali che costui telecomanda, cascano le braccia. Quali competenze avrebbero, di grazia, Matteo Renzi, la sua musa Maria Elena Boschi, Lorenzo Lotti, i tre petali del Giglio Tragico? Marianna Madia? Angelino Alfano? Beatrice Lorenzin? Valeria Fedeli? Giuliano Poletti? Roberta Pinotti? A prescindere dai ministeri di loro... competenza? E Paolo Gentiloni, oltre a possedere la vocazione del maggiordomo? Un lombrosario... Orsù: facciamo il piacere...

mercoledì 17 gennaio 2018

Tropicana


"Tropicana" di Irene Lamponi. Regia di Andrea Collavino, assistente Roxana Oana Doran; scene di Ruben Esposito; costumi di Daniela De Blasio. Produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse con il sostegno di "CRISI - Teatro Valle Occupato". Con Elena Callegari, Cristina Cavalli, Irene Lamponi e Marco Rizzo. Al Teatro San Giorgio di Udine per Teatro Contatto 36.
In tournée per i teatri d'Italia da oltre un anno, prima del "ritorno a casa", al sempre benemerito Teatro della Tosse di Genova dal 25 al 29 di questo mese, è ripassato in Friuli, e precisamente al San Giorgio di Udine, questa divertente e istruttiva commedia sui rapporti famigliari (e non solo) alla fine della scorsa settimana, e stavolta sono riuscito a intercettarla. Autrice del testo, la giovane e apprezzata drammaturga Irene Lamponi, collaboratrice, tra gli altri, di Emma Dante e Fausto Paravidino, che interpreta con brio e garbo il personaggio di Nina, una ragazza piena di vita che vede bloccate le sue aspirazioni dal fatto la madre, Lucia, la quale non si rassegna al fatto che Mauro, il marito, le abbia abbandonate, è caduta in depressione e così si sente in dovere di accudirla. Si adegua, così, al tran tran casalingo, fatto anche di cose non dette o affrontate, di cui fa parte anche la vicina di casa Meda, una donna sola, sboccata, rabbiosa, apparentemente senza filtri, che in qualche modo forse inconsapevole prende forza dalle debolezza dell'amica di sempre Lucia. A stravolgere il quadretto, dotato di un suo equilibrio per quanto precario, l'irrompere del pur timido ed estremamente attento, di Leo, il nuovo fidanzato di Nina, un ragazzo normalissimo con nessun trauma famigliare alle spalle: il suo arrivo mette man mano in crisi le dinamiche fra le tre donne: Lucia perde il lavoro, e si appoggia sempre più alla figlia, che a sua volta va in crisi e si rende conto di soffrire la mancanza di Mauro quanto la madre, salvo rischiare di riprodurne i comportamenti con l'incolpevole Leo, che finisce col lasciarla, non riconoscendola più, dopo che Nina ha cacciato di casa Meda sbattendole in faccia il cinismo nei confronti della madre, quasi a godere delle sue debolezze per compensare le proprie, che nasconde dietro a un atteggiamento strafottente e da "dura". Alla fine però un diverso equilibrio si ricompone, sempre all'interno di quello stesso ambito famigliare, tra persone che comunque si vogliono bene ma guardando avanti e senza rinnegare e rimuovere il passato, ma facendoci i conti e accettandolo per quello che è, sofferenza comprese. Temi seri, profondi, su cui riflettere e che coinvolgono chiunque, affrontati però con leggerezza e umorismo da quattro interpreti affiatati che riempiono una scena in cui è rappresentato sempre un interno di famiglia, alle prese con la quotidianità, sullo sfondo la TV accesa, talvolta su un programma di televendite, altre sulla benedizione urbi et orbi del Sommo Pontefice in occasione del Natale. Pubblico soddisfatto, la compagnia anche: auguri e.. andate in pace perché, come dice la canzone, E' tropicana, jeah!!

domenica 14 gennaio 2018

Morto Stalin se ne fa un altro

"Morto Stalin se ne fa un altro" (The Death of Stalin) di Armando Jannucci. Con Steve Buscemi, Simon Russell Beale, Olga Kurylenko, Michael Palin, Paddy Considine, Jason Isaacs, Jeffrey Tambor, Andrea Riseborough, Jonathan Aris, Rupert Friend. GB, Francia 2017 ★★★★½
Che si trattasse di un film da non perdere me lo garantiva, in un cast di caratteristi strepitosi, capitanati da Steve Buscemi (nei panni di Krushchev) la presenza di Michael Palin, il "cementatore" dei Monty Python, che interpreta Beria, due fra i membri del politburo del PCUS che, dopo aver avuto notizia che Stalin era stato colpito da un ictus il 28 febbraio del 1953, tramarono per due giorni fra le segrete stanze del Cremlino e la dacia del dittatore prima di comunicarne morte, per risolvere tra loro la guerra di successione e indicarne l'erede, Krsushchev per l'appunto, dando il via alla destalinizzazione, in sostanza alla continuazione della dittatura sotto altro nome e forme più morbide, oltre a confermare una costante di tradimenti, menzogne, odi profondi, calunnie, paranoia, manipolazione sistematica delle persone come dei fatti, violenza che sono nella tradizione della storia comunista e, in in maniera meno cruenta, di tutta la sinistra che si rifà al povero Marx, che non poteva immaginare che il suo pensiero avrebbe avuto interpreti simili. Tutto nasce da un concerto di Mozart trasmesso da Radio Mosca che Stalin ascolta a spezzoni mentre fa bisboccia con gli altri membri del politburo, e che gli piace così tanto che ne ordina la registrazione. Ma siccome quella sera non era stata prevista, il direttore della radio si vede costretto a far tornare al loro posto gli orchestrali che, terrorizzati, accettano di buon grado, salvo la giovane pianista, la cui famiglia era stata sterminata dal tiranno, che acconsente alla replica soltanto dopo aver estorto un compenso extra di 20 mila rubli e di poter infilare nel disco un biglietto per Stalin che, una volta lettolo, stramazzerà al suolo, andando in coma. Saputo della notizia, l'intero comitato centrale dapprima non vuole prendersi la responsabilità di chiamare dei medici, anche perché i migliori erano stati mandati nei gulag o ammazzati, dall'altro torna loro comodo un periodo di sospensione in cui possono scatenarsi in tutta una serie di colpi bassi, meschinerie, imbrogli, violenze, compreso un massacro di civili venuti nella capitale per rendere omaggio al Piccolo Padre. Fra tutti i loschi personaggi, tra cui Malenkov, Zhukov, Mezhnikov e Andryev, giganteggia Beria (e con lui il grande Simon Russell Beale), capo della polizia politica, inizialmente accreditato come il più probabile successore e il più temibile, avendo trafugato tutti i dossier sugli altri membri del comitato centrale disposti da Stalin e potendoli così ricattare a piacimento, ma sarà il terrore di questi a coalizzarli contro di lui e a perderlo. Tratta da una graphic novel (genere spesso più efficace di un romanzo o di un ponderoso saggio) la sceneggiatura è agile e supporta a meraviglia l'intero cast e il film, pur farsesco e in continua oscillazione fra realtà e fantasia, riesce alla fine più credibile e realista di qualsiasi verità storica, mettendo a nudo ancora una volta la bramosia e le miserie, gli abissi di abiezione e mediocrità che si celano dietro al potere. Già dal titolo, una premessa e una promessa mantenute. Da non perdere.

venerdì 12 gennaio 2018

Requiescat in pace


Soltanto in un Paese imbesuito e farsesco come il nostro, nella Terra dei Cachi, “Spelacchio”, come già “petaloso", poteva diventare un caso nazionale e tenere banco tra le notizie del giorno per più di un mese: nemmeno la mancata qualificazione della pluricampione nazionale di calcio ai Mondiali di Russia ha suscitato altrettanta attenzione nel Circo Barnum che è l’informazione in Italia. Prima che i media si concentrino su un altro ricorrente tormentone peninsulare, il Festival di Sanremo, anche noi, nel nostro piccolo, rendiamo il nostro tributo a quest'altro infelice eroe dei nostri tempi nel momento del mesto addio 

martedì 9 gennaio 2018

Il ragazzo invisibile - Seconda generazione

"Il ragazzo invisibile - Seconda generazione" di Gabriele Salvatores. Con Ludovico Girardello, Galatéa Bellugi, Ksenia Rappoport, Ivan Franek, Dario Cantarelli, Emilio De Marchi, Katia Miranova, Mikolai Chroboczec e altri. Italia 2017 ★★★
Per quanto sia da anni un fedele seguace del poliedrico Gabriele Salvatores, e ammirato dalla sua capacità di spaziare tra generi e toni, stavolta sono rimasto un po' deluso da questo sequel ampiamente preannunciato (e con ogni probabilità foriero di un seguito) che contiene in sé, in qualche maniera, anche un prequel del primo episodio. Ritroviamo infatti il nostro eroe, Michele, dotato del superpotere di rendersi invisibile, con quattro anni in più, sedici, rimasto orfano della madre adottiva (la poliziotta Giovanna/Valeria Golino), alle prese con le turbe della pubertà e sempre invaghito della compagna di classe Stella, insidiata dal rivale Brando, a fare i conti col diventare adulto, accettare cioè il "lato oscuro di sé stesso", nel suo caso di essere uno "speciale" e conscio di cosa possa significare esserlo. Glielo insegnerà l'incontro con la sua madre naturale Helena (Xenia Rappoport, tra i lati positivi del film: una certezza) e la sorella gemella Natasha, da questa recuparata a Rabat, in Marocco, dotata di dita a dir poco "incendiarie". Rigenerata dalle trasfusioni di sangue dei due figli, sarà di fatto Helena la vera protagonista del film, determinata a portare a termine la vendetta degli Speciali (un tempo segregati in una sorte di gulag sovietico), ognuno dotato di un superpotere diverso, contro Zagarov, l'ex militare e ora oligarca che li aveva fatti imprigionare e torturare per appropriarsi e servirsi delle loro "specialità", in questo contrastata dal marito e padre dei due gemelli Andreij, il cieco, che invece ritiene che questi superpoteri siano una dannazione e finiscano inevitabilmente per corrompere chi li usa e anche lui finito a Trieste perché in contatto telepatico con Michele, città cin cui arriverà a sua volta Zavarov, in occasione dell'inaugurazione di un gasdotto in Piazza dell'Unità: uno dei rari scorci di Trieste che si vede in questo secondo film, a parte l'orrida e fascistissima facciata dell'Università e qualche esterno di locale in zona Cavana oltre ad un breve tratto della Costiera dei Barbari che porta in città. Poca Trieste, insomma, rispetto alla puntata precedente, più azione e più effetti speciali, un po' meno artigianali, ma tutto il film conserva comunque un qualcosa di magico e favolistico che lo rende in ogni caso gradevole. Affronta anch'esso il tema della crescita, visto dalla parte dell'adolescente, ma anche quello del modo in cui i genitori finiscono per fagocitare i ragazzi e coinvolgerli nei loro deliri, sovraccaricandoli di aspettative e ricattandoli con scelte traumatiche, confermandosi un film che non si rivolge soltanto ai più giovani ma anche a un pubblico più adulto che, tra l'altro, ha avuto più a che fare con i supereroi americani a fumetti che non i millenials, e mi riferisco non tanto ai genitori di questi ultimi, quanto ai loro nonni, come potrei essere io stesso.

giovedì 4 gennaio 2018

La dolce, inesorabile legge del contrappasso


Torno sul grottesco argomento accordo PD-Bonino e sull'aiuto offerto dal negoziatore Piero Fassino per la presentazione delle liste radicali, questa volta camuffate sotto un logo invero infelice quanto audace, coi tempi che corrono, come +Europa, dopo aver letto il gustoso editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di oggi, perché è davvero con un godimento profondo che uno della mia generazione vede accadere coi propri occhi qualcosa che, nei gloriosi anni Settanta e poi Ottanta, era quanto di più impensabile: un comunista fatto e finito, anzi: un vero residuato post bellico come Piero Fassino che non solo porge la mano, ma aiuta una radicale a raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni. Ovviamente non per bontà, ma per ottenerne a sua volta un aiuto che, per quanto piccolo e anche improbabile per un partito che in due sole occasioni aveva superato, di poco, il 3%, nel lontano 1979, è pur sempre qualcosa. Il che la dice lunga su come sia messo il partito renziano che fu, andando alle radici, comunista quanto democristiano, e su quanto sia terrorizzato di essere raso al suolo da una legge elettorale, il Rosatellum-fascistellum, partorita dai propri stessi lombi per fottere l'avversario più pericoloso, ossia il M5S che già alle passate politiche era il primo partito in Italia (rammento agli smemorati che il PD raggiunse la maggioranza relativa soltanto grazie ai voti degli italiani - si fa per dire - votanti all'estero): altra conferma dell'implacabilità della legge del contrappasso di cui al titolo. Ricordo i cazzotti che volavano immancabilmente tra pattuglie di coloriti radicali ed energumeni dei servizi d'ordine del PCI quando i discepoli di Pannella si piazzavano nottetempo davanti all'ingresso dei tribunali per depositare le liste radicali per primi in modo che comparissero in alto a sinistra sulle schede, posizione che i comunisti nostrani ritenevano loro per diritto acquisito e, chissà, forse anche divino ( i democristiani, considerando i loro elettori altrettanto imbecilli quanto i discendenti del Gran Partito di gramscitogliattilongoeberlinguer e quindi incapaci di distinguere i simboli, tagliavano la testa al toro arrivando per ultimi e ottenendo così sempre il posto in basso a destra, così che gli adepti non dovessero faticare a trovarlo a occhi chiusi), e ricordo pure come i radicali fossero i nemici più acerrimi dei compagni, fumo negli occhi ancor più dei fascisti, per certi versi, perché distraevano, a loro dire, il popolo dalle cose serie (ossia obbedire al partito e al sindacato ad esso collegato) e mettevano in discussione il dogma di quell'epoca ormai lontana, ossia il Compromesso Storico, perché avversavano la chiesa e la DC. Che li vedeva come altrettanto fumo negli occhi al punto da cadere nel tranello di proporre un referendum per abrogare la legge sul divorzio, la mitica Baslini-Fortuna, entrata in rigore dopo infinite battaglie nel 1970. Fu una fatica improba convincere il PCI a schierarsi per il NO, che alla fine trionfò nel memorabile maggio del 1974. Su una cosa i comunisti avevano ragione, ai tempi, riguardo ai radicali: che non si occupavano di economia, e quindi delle condizioni dei lavoratori. Verissimo, ma non perché non ci capissero niente o non si applicassero, ma perché, facendo sconfinare il libertarismo nel liberismo più sfrenato, avevano sposato sin da allora la legge del mercato come supremo regolatore di tutte le vicende umane. I loro nemici di allora e, forse, alleati di oggi, ci sono arrivati più tardi ma, con il tipico zelo dei neofiti, una volta conquistato il governo (da Prodi I in poi), li avrebbero perfino superati. A destra.

martedì 2 gennaio 2018

'A pittima


E 'sticazzi!  Viene spontaneo, dal profondo del cuore. Costei, senatrice del gruppo parlamentare del PD; già ministro degli Esteri nel governo Letta (PD), precedentemente ministro del Commercio internazionale e delle Politiche Europee nel governo centrosinistrato Prodi II; prima ancora, spedita dal governo Berlusconi I dimissionario a fare il Commissario europeo in quota Forza Italia, dà il via alle consuete geremiadi perché non riesce a raccogliere un paio di migliaia di firme. Vero, i radicali si erano espressi contro il Fascistellum, la legge elettorale partorita dalla fertile mente pidiota di Ettore Rosato, che è pur sempre capogruppo alla Camera del partito con cui siede in Parlamento. Partito che, a sua volta, per bocca del vicesegretario Maurizio Martina, si dichiara disponibile alla raccolta delle firme "se c'è accordo politico". Una farsa. Già uno si chiede cosa c'entrino i radicali con gli eredi di due partiti, il PCI e la DC, che hanno sempre avversato e combattuto, puntualmente contraccambiati (almeno apparentemente), mentre almeno con Berlusconi hanno in comune la matrice mercatista (sempre però, sia nel caso del tycoon brianzolo, sia dei radicali, vedi i finanziamenti pubblici alla loro radio, col culo coperto dallo Stato). Coacervo di contraddizioni, globalisti ante litteram, liberisti sfrenati però mantenuti dallo Stato e manutengoli per vocazione (vedi il caso Toni Negri a titolo di esempio), vittimisti spudorati, hanno da sempre l'abitudine di piangere il morto facendo la questua paventando la loro sparizione dalla vita politica ché certo, considerato quello che passa il convento, sarebbe la morte civile e, senza le battaglie di Pannella & Co nei così vituperati anni Settanta, a quest'ora non avremmo nemmeno una legge sul divorzio e una sull'aborto. Io stesso, in mancanza di alternative, nel corso della mia esistenza ho votato più volte per il Partito radicale, firmando in diverse occasioni per la presentazione delle sue liste, ma non sopporto le lagne e l'autocommiserazione specie quando si ha contribuito non poco alla spettacolarizzazione e personalizzazione di una vita politica ingessata e paludata, e meno ancora da parte di chi è un convinto sostenitore delle virtù taumaturgiche del mercato come supremo regolatore dei rapporti di ogni tipo (vengono in mente anche i piagnistei dei giornalisti del Sole-24 Ore a caccia di sostegno: calci nel culo, si meritano, altro che solidarietà, come prima di loro quelli dell'Unità renzizzata, ma vale anche per quelli del manifesto, che pure mercatisti non sono, ma pagano una supponenza insopportabile e un'offerta politica che non interessa nessuno): se ti presenti con una lista che fin dal nome invoca +Europa, sono solo cazzi tuoi e paghi dazio. 

'A pittima (Fabrizio De André)

Cosa ghe possu ghe possu fâ
se nu gh'ò ë brasse pe fâ u mainä
se infundo a e brasse nu gh'ò ë män du massacán
e mi gh'ò 'n pûgnu dûu ch'u pâ 'n niu
gh'ò 'na cascetta larga 'n diu
giûstu pe ascúndime c'u vestiu deré a 'n fiu
e vaddu in giù a çerca i dinë
a chi se i tegne e ghe l'àn prestë
e ghe i dumandu timidamente ma in mezu ä gente
e a chi nu veu däse raxún
che pâ de stránûä cuntru u trun
ghe mandu a dî che vive l'è cäu ma a bu-n mercöu
mi sun 'na pittima rispettä
e nu anâ 'ngíu a cuntâ
che quandu a vittima l'è 'n strassé ghe dö du 


La pittima (Fabrizio De André)

Cosa ci posso fare
se non ho le braccia per fare il marinaio
se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore
e ho un pugno duro che sembra un nido
ho un torace largo un dito
giusto per nascondermi con il vestito dietro a un filo
e vado in giro a chiedere i denari
a chi se li tiene e glieli hanno prestati
e glieli domando timidamente ma in mezzo alla gente
e a chi non vuole darsi ragione
che sembra di starnutire contro il tuono
gli mando a dire che vivere è caro ma a buon mercato
io sono una pittima rispettata
e non andare in giro a raccontare
che quando la vittima è uno straccione gli do del mio


lunedì 1 gennaio 2018

Napoli velata

"Napoli velata" di Ferzan Ozpetek. Con Giovanna Mezzogiorno, Peppe Barra, Anna Bonaiuto, Alessandro Borghi, Maria Pia Calzone, Biagio Forestieri, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri, Carmine Recano, Maria Luisa Santella, Lina Sastri e altri. Italia 2017 ★★★½
Non ho difficoltà ad ammettere un approccio molto cauto e dubbioso all'ultimo film di Ozpetek, un regista che, dopo alcuni film promettenti, era man mano diventato ai miei occhi simbolo di un cinema autoreferenziale, ripetitivo, stereotipato, romanocentrico, che aveva dato vita, ai miei occhi, a una sorta di estetica der gazometro, ambientato com'era nel milieu alternativo-gay friendly-problematico-artistoide alle prese con crisi d'identità, perdite, ambiguità varie, il tutto nel raggio di un tiro di schioppo dall'ombelico di quel mondo che è il Pigneto, quartiere trendy semicentrale della capitale, e di essermi deciso a vederlo preso dallo sconforto della misera offerta del periodo natalizio, ma non ho nemmeno difficoltà ad ammettere che mi è piaciuto e d'essere uscito dalla sala soddisfatto. Pur rimanendo fedele alle tematiche che gli sono più care, dai rapporti famigliari a quelli di amicizia, al ruolo della memoria, al sentimento religioso nella sua accezione più ampia e alla centralità dell'aspetto sensuale, la loro immersione in una realtà, quella di Napoli, ben più sfaccettata, ricca e culturalmente profonda di quella superficiale e cinica romana, ha prodotto un risultato molto meno scontato di altre volte. Si tratta, alla fin fine, di una storia con una tinta noir di successivi svelamenti, con aspetti misterici che ben si combinano con l'anima partenopea, che porta via via Adriana, un'anatomopatologa chiusa in sé stessa, ad affrontare alla radice un trauma subito nell'infanzia, dopo aver assistito a un fatto tragico che aveva rimosso, andando alla ricerca di un fantasma, quello di Andrea, un giovane ambiguo, inquietante quanto affascinante, conosciuto a una festa in casa d'amici (nell'occasione si assisteva a una figliata dei femminielli illustrata da Peppe Barra nei panni di Pasquale) e con cui la riservata e quasi autistica dottoressa trascorre un'infuocata notte di passione: l'inizio di un rapporto che sembra finalmente molto promettente, profondo e coinvolgente, ma invece che in una sala del Museo Archeologico, dove s'erano dati appuntamento per la sera, Adriana lo ritroverà sul tavolo dell'obitorio, cadavere. Da quel momento ne scorgerà ovunque il fantasma, individuandolo in un sedicente gemello di Andrea: realtà e fantasia si confondono ma alla fine non avrà importanza, perché quel che viene descritto è da un lato l'intricato percorso mentale della donna, dall'altro la vita palpitante ma al contempo intrisa di morte della città partenopea, ai più sconosciuta nei suoi riti e nei suoi misteri, che spesso è velata, come lo straordinario Cristo della cappella di Sansevero, perché "la gente non sopporta troppa verità". Detto di Peppe Barra, danno un grosso contributo alla riuscita del film Giovanna Mezzogiorno nella parte di Adriana e le altre interpreti femminili, a suo modo però anche l'algido, irritante e quasi plastificato Andrea interpretato da Alessandro Borghi, quasi finto in tanta carnalità e a contrasto col desiderio che suscita in Adriana; come anche una fotografia eccellente e una colonna sonora azzeccata e gradevole senza mai essere banale o cadere nel pittoresco. Napoli non è quella turistica però nemmeno quella di Gomorra, ma una città che Ozpetek ha imparato a conoscere bene (per avervi curato, al San Carlo, la regìa de La Traviata) e che, a cominciare dal suo profondo e insopprimibile substrato ellenico, ha molto in comune con un'altra città di origine greca, Istanbul, che rimane pur sempre Costantinopoli, dove il regista è nato.