domenica 30 dicembre 2018

Capri-Revolution

"Capri-Revolution" di Mario Martone. Con Marianna Fontana, Reinout Scholten van Aschat, Donatella Finocchiaro, Antonio Folletto, Gianluca Di Gennaro, Eduardo Scarpetta II, Jenna Thiam, Luca Girardello. Lola Klamroth, Maximilian Dirr e altri. Italia, Francia 2018 ★★★
Vale per Capri-Revolution, che all'ultima Mostra del Cinema di Venezia ha fatto incetta di premi collaterali, quanto detto a suo tempo per Noi credevamo e Il giovane favoloso, a chiusura di una trilogia, a detta del regista napoletano del tutto casuale, che ha per protagonisti dei giovani in diversi momenti della storia italiana a partire dall'inizio dell'Ottocento e nel momento della loro formazione e presa di coscienza (nel primo caso si trattava di Giacomo Leopardi): un film ben girato, attento ai dettagli, con un'ottima fotografia, dall'evidente e lodevole intento educativo ma ancora una volta lento, a mio parere poco adatto al grande schermo e invece perfetto per una serie televisiva fatta come si deve. In più, questa volta c'è l'aggravante della scarsa attendibilità della figura di Lucia, per quanto splendidamente interpretata dalla giovane Marianna Fontana, una capraia che viene irresistibilmente attratta, mentre porta a pascolare i suoi animali, dagli strani personaggi che sull'Isola di Capri, dove si svolge l'intera vicenda tra l'estate del 1914 e la prima vera del 1915, al momento dell'entrata dell'Italia nella Grande Guerra, avevano costituito una comune sul modello di quella creata da Karl Diefenbach ad Ascona, il quale davvero, una volta fallito il tentativo in Svizzera e andato in bancarotta, si era trasferito a Capri, dove morì però nel 1913. Provenienti dall'Europa del Nord, in preda alle ossessioni misticiste a naturaliste che periodicamente colpiscono tedeschi e anglosassoni, nudisti, pacifisti, vegetariani, ritenevano che solo attraverso l'espressione artistica l'uomo potesse rigenerarsi; a far loro da controcanto, l'arrivo sull'isola di un giovane medico napoletano progressista e di formazione positivista e, come molti intellettuali dell'epoca, interventista dopo lo scoppio del conflitto: in mezzo, appunto, Lucia, una ragazza dallo spirito curioso e indipendente, in conflitto con due fratelli che, dopo la morte del padre, la rinnegano perché si rifiuta di sposarsi con un bottegaio vedovo e benestante e perché infanga l'onore di famiglia frequentando quei personaggi demoniaci. Che avranno pure avuto ragione a opporsi al conflitto e al materialismo mercatista già allora dilagante, ma riescono a diventare odiosi come tutti i fanatici e settari di questo mondo, e Martone, oltre a dipingerli per quello che erano e sono, dei manipolatori di menti deboli e fondamentalmente sprezzanti dell'umanità che affermano di amare e voler redimere, li rende ancora più sgradevoli con lunghe sequenze delle loro insopportabili nenie su melodie orientaloidi e improbabili e danze al chiar di luna: a chi ha la mia età e viveva a Milano, fanno inevitabilmente venire in mente gli Hare Krishna o gli adepti di Re Nudo e dintorni e il Festiva del Parco Lambro 1976. In tutto questo, Lucia nel giro di nemmeno mezzo anno da analfabeta impara a leggere, per di più testi filosofici e, con buona proprietà, anche l'inglese (altrettanto improbabile che lo parlasse fluentemente un giovane medico dell'epoca, considerando che fino agli anni Sessanta nei licei italiani la lingua straniera di gran lunga più studiata era il francese ), mentre è più credibile che, essendo dotata di ottima intelligenza unita all'infallibile intuito femminile, fosse in grado di vedere le contraddizioni dei tre modelli che si trovava davanti: quello tradizionale e patriarcale; quello perso nelle galassie dei visionari snob e quello della fiducia nel progresso inarrestabile, in sostanza tre modi di raccontarsela. Il che ce la renderebbe simpatica, se non fosse che per trovare la libertà e la sua realizzazione finisce per emigrare da sola, trasformatasi in una sorta di protofemminista, negli Stati Uniti. Bella roba. Alla fine l'unico personaggio davvero ammirevole è la povera e silenziosa madre (Donatella Finocchiaro, in un ruolo breve ma intenso) che finisce per rimanere sola ad accudire una casa vuota e le capre, e che però ha sempre saputo che la figlia era speciale. Insomma, non si può dire che sia un brutto film ma certamente non avvincente e nemmeno particolarmente riuscito: il giudizio è positivo per le qualità tecniche e la stima nei confronti di Martone, ma nulla più.

giovedì 27 dicembre 2018

Cold War

"Cold War" (Zimna wojna) di Pawel Pawlikoswski. Con Joanna Kulig, Tomasz Kot, Borys Szyc, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar. Polonia 2018 ★★★★½
A differenza di chi ha visto in Cold War un film girato su misura per un pubblico e una critica festivalieri e per cinéphiles (ha vinto la Palma d'Oro a Cannes per la miglior regia quest'anno, dopo che Pawlikowski era stato premiato con l'Oscar per Ida nel 2015), io l'ho trovato un film che, per quanto giocato sulla metafora (peraltro perfettamente intellegibile, con un minimo di sforzo e di conoscenza della storia europea recente), racconta in maniera coinvolgente la vicenda di un amore turbolento negli anni che vanno dal 1949 al 1964 attraverso una serie di quadri, che si susseguono in ordine cronologico, ambientati via a Lodz e Varsavia, in Polonia; a Berlino Est, in Jugoslavia; a Parigi e, per chiudere il cerchio, nuovamente in Polonia. Nella Polonia socialista dell'ultimo dopoguerra Wiktor è un valente musicista di formazione borghese che dirige con Irena (Agata Kulesza, già protagonista in Ida) la Scuola di Musica di canto popolare che diventerà il famoso Gruppo Mazowsze, e gira per il Paese (anche culturalmente da ricostruire) a documentare tradizioni popolari e reclutare talenti da formare, e tra questi emerge immediatamente Zula, strepitosamente interpretata da una memorabile Joanna Kulig (la quale anche in Ida aveva una parte non secondaria), che da sola vale il biglietto, una giovane proletaria dal carattere indomabile, sincera fino alla brutalità, in libertà condizionale per aver accoltellato il padre che aveva tentato di violentarla. Lo sguardo e l'espressione che ha quando, guardando in faccia Wiktor, gli dice: "Mi aveva scambiato per mia madre: gli ho fatto provare la differenza" fanno sí che ci si innamori immediatamente di lei, a maggior ragione Wiktor, e il rapporto tra il maestro e mentore e l'allieva si trasforma in una relazione forte quanto clandestina mentre la fama del gruppo cresce, con Zula come elemento di spicco, fino alla trasferta a Berlino Est nei primi anni Cinquanta. E' in questa occasione che Wiktor, che si trova sempre più in disaccordo con la linea troppo propagandistica e politicizzata che viene imposta al gruppo, pianifica la loro fuga a Ovest ma all'ultimo momento Zula (che era pure stata incaricata di spiarne i movimenti) rinuncia, e lui parte da solo (cosa che lei gli rimprovererà anni dopo). Wiktor si stabilirà a Parigi, dove  si esibisce come pianista in un celebre locale jazz, lavora e frequenta l'ambiente bohèmien rimanendo purtuttavia un esule, per quanto di successo finché, dopo essersi incontrati una prima volta in Jugoslavia e poi ritrovati a Parigi durante una tournée dei Mazowsze, Zula rimane con lui e inizieranno una convivenza tempestosa quanto il loro rapporto, anche perché lei non si adatta alla vita e non è in grado (né vuole) comprendere le metafore (Pawlikowski le mette in bocca esplicitamente questo termine) in uso nell'ambiente che frequentano, e finisce per lasciarlo e rientrare in Polonia, dove alla fine tornerà anche lui, perché non può farne a meno (sia di lei, sia del suo Paese: l'amore di una vita in entrambi i casi, difficile quanto inevitabile) in una sorte di espiazione. 85' di emozione pura, girati in un bianco e nero efficace e suggestivo in quel formato 4:3 che esalta la figura intera, colonna sonora perfettamente modulata sulle diverse situazioni (non manca Per 24 mila baci di Celentano sullo sfondo, ancora oggi uno degli standard immancabili in feste e sagre dei paesi ex comunisti), eccellenti gli attori, ma la piccola grande Joanna Kulig una spanna su tutti. 

domenica 23 dicembre 2018

Roma

"Roma" di Alfonso Cuarón. Con Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Nancy García García, Marco Graf, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey, Carlos Peralta, Veronica García, Fernando Grediaga, Jorge Antonio Guerrero, José Manuel Guerrero Mendoza, Latin Lover e altri. Messico, USA 2018 ★★★★★
Prodotto da Netflix e nelle sale per un breve periodo, il film vincitore dell'ultimo Leone d'Oro a Venezia è sicuramente tra i migliori visti quest'anno assieme a The Post, Loro e Manuel, e ho avuto la fortuna di intercettarlo in lingua originale, ossia il castigliano addolcito che si parla nell'America Latina, con cui ho una buona confidenza, a sua volta sottotitolato in spagnolo perché in parte parlato in mixteco, lingua della popolazione india originaria dell'Oaxaca, regione di provenienza del personale di servizio della famiglia di cui vengono raccontate le vicende, che sono quelle autobiografiche dell'autore, a cavallo tra il 1970 e il 1971, e che vive in un palazzo del quartiere residenziale Colonia Roma, da cui il titolo della pellicola. Tra tutti spicca Cleo, interpretata in maniera commovente da Yalitza Aparicio, attrice non professionista, la giovane indigena tuttofare alle cui cure tutti gli abitanti della magione, un padre e una madre, quattro figli e una nonna nonché il cane, si affidano con fiducia per la sua solerzia, docilità, disponibilità infinita, dando per scontata la sua assistenza sia materiale, dal portare a scuola i bambini, a metterli a letto, servire in tavola oppure pulire l'androne dalle deiezioni canine; sia psicologica, perché la famiglia, borghese e di origine spagnola per cui lavora, è in crisi: Antonio, il padre, medico, parte per il Quebec per una conferenza ma non torna perché ha un'amante, e Sofia, la moglie, si industria per nascondere la realtà della separazione ai figli e intanto cerca una soluzione lavorativa per mantenere la famiglia a un livello adeguato. Parallelamente, si sviluppa la vicenda della problematica gravidanza di Cloe, rimasta incinta di un giovane esaltato fanatico di arti marziali che, dice, lo hanno salvato dalla strada, e che ha un esito traumatico. Nonostante questo, la ragazza terrà duro e supererà il momento difficile, che coincide anche con quello in cui Sofia svela ai figli la verità sull'abbono da parte del loro padre e l'inizio di una nuova vita, sulle spiagge di Veracruz dove si sono recati per una provvidenziale vacanze si qualche giorno: un pretesto per consentire ad Antonio di svuotare la casa di Colonia Roma delle sue librerie e di altri suoi oggetti. Dal doppio binario di un dramma borghese e di uno proletario, il tutto sullo sfondo di un periodo storico particolarmente teso per un Paese già movimentato e conflittuale di suo (sono gli anni successivi al massacro di Tlatelolco (la Piazza delle Tre Culture) di cui ricorreva il 2 ottobre scorso il 50° anniversario, esce un affresco di un Messico contraddittorio, straordinariamente complesso ma vivo, le cui componenti, per quanto culturalmente diverse e a tratti inconciliabili, in realtà sono in simbiosi e su piani solo apparentemente diversi; pervicacemente maschilista ma dove sono le donne, sempre vittime e subordinate, a essere indispensabili tenere in piedi non solo la "baracca" ma a rappresentare la speranza di un nuovo inizio: questo vale per Cleo ma anche per Sofia, che riprende in mano la propria esistenza; un Paese al contempo progressista e reazionario, dove gli opposti trovano una sintesi, la cui vita politica non a caso è stata dominata per quasi un secolo da un partito che, per ossimoro, si chiama Partito Rivoluzionario Istituzionale. Tutto questo Cuarón lo racconta con un film a mio parere esemplare, che ricorda le cose migliori del neorealismo italiano del Dopoguerra, in cui oltre a un soggetto perfetto e a uno svolgimento puntuale, una fotografia di rara potenza, resa ancor più efficace da un bianco e nero del tutto funzionale, e una colonna sonora del tutto aderente, contribuiscono a un risultato di altissimo livello.Una pellicola che rimane impressa e commuove, senza mai essere melodrammatica; frutto di ricordi e di una sincera riconoscenza alle donne che sono davvero state indispensabili nella vita del regista: le tate indigene della sua infanzia. Passato alla fama internazionale per Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, I figli degli uomini e il pluripremiato Gravity, tutti buoni film che però non mi avevano convinto del tutto, con Roma Cuarón torna al suo Messico come già fece nell'altra sua pellicola che avevo finora apprezzato di più e con cui Roma ha più di un'analogia: il toccante e coinvolgente Y tu mamá también del 2001

venerdì 21 dicembre 2018

Solstizio


Coraggio, ché da questo momento le giornate tornano ad allungarsi...

Lontano da qui

"Lontano da qui" (The Kindergarten Teacher) di Sara Colangelo. Con Maggie Gyllenhaal, Parker Sevak, Gael García Bernal, Anna Baryshnikov, Rosa Salazar, Michael Chernus e altri. USA 2018 ★★★★
Remake dell'omonimo film dello scrittore, sceneggiatore e regista israeliano Navad Lapid, presentato nel 2014 al Festival di Cannes, il secondo lungometraggio dell'italoamericana Sara Colangelo, premiato per la miglior regia all'ultimo Sundance Film Festival, l'equivalente dell'Oscar per il cinema indipendente, è un gioiellino in perfetto equilibrio tra speranza e disillusione, ruolo nella vita e aspirazioni personali che traspaiono dalla storia di una maestra d'asilo quarantenne appassionata di poesia, di cui frequenta un corso a Manhattan, una via di fuga dal lavoro quotidiano e da una famiglia che non la soddisfa più: i figli sono ormai cresciuti e non ne ha più il controllo; il marito non riesce a colmare le sue aspirazioni, la quale scopre, tra i suoi giovanissimi allievi, un talento naturale per la poesia: Jimmy, di cinque anni, di ascendenze indo-pakistane. Appassionata lei stessa della materia, alterna le proprie giornate tra il lavoro e la famiglia a Staten Island e un corso di poesia a Manhattan, e prende particolarmente a cuore il piccolo, che improvvisa liriche sbalorditive quando entra in una specie di trance compositiva prendendo a camminare avanti e indietro, per preservarne e svilupparne le inclinazioni a dispetto dell'ambiente esterno, sia famigliare (la madre vive in Florida; il padre, un imprenditore di successo nella vita notturna, sostanzialmente assente è poco propenso alla sua vena letteraria), sia del mondo odierno dominato dal piattume socialmediatico, sostanziale incomunicabilità e indifferenza che non sanno dare valore alla poesia, figurarsi a riconoscerla. La donna, Lisa Spinelli, una grandiosa Maggie Gyllenhaal, invece sì: dapprima "ruba" le poesie di Jimmy e le recita al suo corso, impressionando il suo insegnante; poi si dedica a promuoverlo e a incoraggiarlo, andando però molto oltre ai suoi compiti professionali, e il suo crescente impegno in tal senso, da missione di vita diventa una vera e propria ossessione che sconfina nel patologico, col paradosso che, per sottrarre il bambino-prodigio al rischio che una realtà mediocre tarpi le ali alla sua ispirazione, a sua volta lo fagociti lei stessa, ma il finale, anche se non cruento, sarà a sorpresa. Una vicenda raccontata in modo armonico, senza mai forzare i toni, quasi sommessamente e però insinuante, che instilla un che di inquietudine e fa riflettere e vedere le cose in modo non scontato, ben scritta e girata e che in ogni caso deve molto alla scelta degli interpreti e in particolare a una prestazione superba della Gyllenhaal. 

mercoledì 19 dicembre 2018

Las Inmortales

Vista sulla foresta del Kobanausser, Alta Austria


“Dicembre”

Ronza la mosca sulla finestra.
Non più.

Buio

lunedì 17 dicembre 2018

Destinatario sconosciuto


"Destinatario sconosciuto" di Katherine Kressman-Taylor. Adattamento e regia di Rosario Tedesco. Con Nicola Bortolotti e Rosario Tedesco e la partecipazione del coro "F. Gaffurio" del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, diretto dal Maestro Edoardo Cazzaniga. Luci di Giuliano Almerighi. Produzione Teatro dell'Elfo. Fino al 23 dicembre al Teatro Elfo/Puccini di Milano.
Stringato quanto coinvolgente, privo di retorica, il testo, tratto dal romanzo epistolare omonimo di Katherine Kressman-Taylor, che aveva stregato alla prima lettura l'autore e regista Rosario Tedesco, qui protagonista assieme al collega Nicola Bortolotti, consiste nello scambio di lettere, a distanza, tra due grandi amici e soci in affari: Max, ebreo tedesco che dirige una galleria d'arte a San Francisco e Martin, tornato a vivere a Monaco, tra il 1933 e l'anno successivo, ossia quello della salita di Hitler alla cancelleria su incarico del presidente Hindenburg e quello del consolidamento del suo potere, e che segna il progressivo franare della loro relazione in seguito alla adesione sempre più convinta del secondo all'ideologia nazista. Sullo sfondo, il segnali sempre più preoccupanti del disfacimento che a sua volta colpisce tutto il sistema di valori, cultura, umanità della nazione tedesca, pronta a seguire nell'abisso l'ideologia del dittatore, che pure non nasce dal nulla, ma dalla profonda crisi economica e politica e dalla miseria scatenate dalle clausole vessatorie stabilite dal Trattato di Versailles in seguito alla sconfitta della Germania nella Grande Guerra: su questo punto il testo è onesto e non omissivo, perché la tragedia non nacque dal nulla e un intero Paese non è impazzito soltanto per motivi endogeni o una sua tara profonda, e dovrebbe far riflettere a sua volta gli epigoni di coloro che furono le principali vittime di allora, ossia lo Stato ebraico con le sue politiche di occupazione e sostanziale apartheid. Un dramma privato, dunque, quello che viene illustrato in modo esemplare dai due protagonisti in un botta-e-risposta sempre più fitto e tagliente e drammatcio, a cui fa da contrappunto musicale un coro, diverso per ogni città in cui l'atto unico viene rappresentato, nel caso di Milano quello delle voci bianche del Conservatorio Giuseppe Verdi, la cui entrata in scena ha suscitato emozioni forti nel pubblico che ha assistito alla rappresentazione, nella Sala Fassbinder del Teatro di Corso Buenos Aires, capace di 200 posti sistemati come gli spalti di due tribune contrapposte di un'arena dalle dimensioni di un campo da tennis. Eseguiti tre brani: uno giocoso di Mozart, come a illustrare la Germania dell'anteguerra; il secondo di Gideon Klein, esempio di musica degenerata e messa al bando dal regime nazista fin dai suoi esordi, e l'ultimo, straniante, di Ilse Weber, ebrea ceca di lingua tedesca, che sembra annunciare i Lager e accompagnare lo sterminio di milioni di innocenti. Essenziale il testo come la sua rappresentazione da parte dei due protagonisti, impeccabile e commovente il coro: vedere un gruppo così folto di giovanissimi dedicarsi con entusiasmo a una passione che non siano smartphone, giochi on line o a praticare onanismo mentale via sòscial è confortante e fa pensare che la realtà non è quella che traspare dai giornali e dalla TV che fanno da vetrina ai vari Twitter, Facebook, Instagram e compagnia bella. Vivamente consigliato. 

sabato 15 dicembre 2018

Il testimone invisibile

"Il testimone invisibile" di Stefano Mordini. Con Riccardo Scamarcio, Miriam Leone, Fabrizio Bentivoglio, Maria Paiato, Sara Cardinaletti e altri. Italia 2018 ★★★★
Rifacimento di Contratiempo, film spagnolo del 2016 e di cui ho sentito pareri entusiastici, non ho termini di paragone perché gira esclusivamente su Netflix e non è uscito nelle sale, ma la versione italiana è un buon noir, ben costruito, pieno di colpi di scena magari improbabili, ma pur sempre possibili, di cui l'ultimo decisamente clamoroso e che lascia soddisfatto il desiderio di esistenza di una qualche forma di giustizia. Adriano Doria, giovane imprenditore milanesoide sulla cresta dell'onda (il volto e le espressioni da impunito di Scamarcio sono perfetti per renderlo a dovere) e padre di famigliola idilliaca, è agli arresti domiciliari perché accusato dell'omicidio della sua amante, Laura, una fotografa di successo (Miriam Leone, bella e brava) trovata cadavere nella loro camera d'albergo e l'unico presente è lui, tramortito: il classico delitto della porta chiusa e, in questo caso, anche della finestra, impossibile da aprire. Come dimostrare che l'assassinio è stato un altro ed evitare di vedere sconvolta tutta la propria esistenza? A questo deve pensare Virginia Ferrara (magnificamente interpretata da Maria Paiato), ingaggiata dall'avvocato di fiducia di Adriano, una celebre penalista che non ha mai perso alcuna causa e questa sarà l'ultima prima del suo ritiro: ha tre ore di tempo, quelle che mancano all'interrogatorio di un misterioso testimone oculare presso il procuratore incaricato dell'indagine, per farsi raccontare come si sono svolti davvero i fatti dall'accusato, prima recalcitrante ma poi costretto a raccontare la verità per filo e per segno (o almeno la "sua" verità) per poter costruire una linea di difesa inattaccabile: perché "la plausibilità sta nei dettagli". Ma la verità dipende anche dai punti di vista ed è lo scopo pure per qualcun altro coinvolto nella vicenda a causa dell'esistenza di un secondo cadavere, di cui la polizia non è al corrente, che appartiene a un giovane che era stato dichiarato disperso in una valle del Trentino (dove gran parte dell'intrigo è ambientata in flash-back). Va da sé che mi rifiuto di svelare altro per non rovinare la visione e le numerose sorprese. Di Mordini avevo visto a suo tempo Acciaio, film di tutt'altro genere tratto dall'omonimo romanzo di Silvia Avallone, e conferma di saperci fare dietro la macchina da presa: non fa molti film, mi auguro che gli si presenti l'occasione più spesso perché è bravo, e questa pellicola mi sento di consigliarla.

mercoledì 12 dicembre 2018

Santiago, Italia

"Santiago, Italia" di e con Nanni Moretti. Italia 2018 ★★★★
Sia per motivi anagrafici (siamo pressoché coetanei) sia per esperienze generazionali e politiche simili anche se non coincidenti (sono sempre stato distante dall'allora PCI come dal marxismo-leninismo militante e gruppettaro) e quindi per "memoria storica" ho sempre apprezzato, capito e spesso condiviso quanto Nanni Moretti ha detto nella sua ormai lunga carriera cinematografica, e ciò vale anche per questo documentario di cui, ha affermato, ha capito a posteriori perché lo aveva girato: quando, finite le riprese, è diventato ministro dell'Interno Matteo Salvini. Di cui, premetto, ho la massima disistima. Ma tracciare dei paralleli tra la situazione cilena che portò alla caduta di Allende e al fallimento del governo di Unidad Popular l'11 settembre del 1973 e quella attuale in Italia e trovare analogie fra la fuga dalla dittatura e l'accoglimento in Italia degli esuli di allora e le epocali vicende migratorie sulle rotte del Mediterraneo e dei Balcani mi sembra un tantino azzardato, eppure è questo il sottofondo del documentario, anche se qualcosa di vero c'è: la sinistra italiana d'allora era capace di uno sguardo internazionale (sempre fino a un certo punto: perché davanti a ciò che accadde tre anni dopo in Argentina il silenzio, in particolare da parte del PCI, fu assordante), i suoi epigoni odierni, abbagliati dalla globalizzazione, ne sono stati inghiottiti al punto che la loro visuale si è ridotta al proprio ombelico e la dimensione temporale a un presente privo di futuro quanto di passato. Passato che invece Moretti fa riemergere attraverso materiale d'archivio e interviste a esuli che hanno trovato rifugio in Italia raccontando le vicende cilene di 45 anni fa in quattro fasi: quella che precedette il golpe, con la vittoria di Unidad Popular alle elezioni del 1970; il colpo di Stato di Pinochet, fomentato dagli USA, colpiti nei loro interessi dalla nazionalizzazione del rame da parte di Allende ma soprattutto timorosi dell'effetto-contagio dell'esperienza cilena non solo nel "cortile di casa", ossia l'America Latina, ma anche in Europa, nei Paesi in cui la sinistra era più forte, Italia e Francia per primi (ricordo che dopo il golpe in Cile prese corpo la teoria del Compromesso Storico di Berlinguer, che aveva sì un suo perché ma contribuì non poco a innescare un virus mortale per la sinistra italiana); la feroce repressione che ne seguì; il ruolo meritorio che svolse l'ambasciata italiana a Santiago, in particolare quello del viceconsole Enrico Calamai, (anche lui tra gli intervistati) che ottenne il trasferimento in Italia di oltre 400 richiedenti asilo, di cui 250 si erano rifugiati nella sede diplomatica e che tre anni dopo, a Buenos Aires, si ripetè in condizioni ancora più tremende e rischiose; infine, a conclusione, una raccolta di impressioni sull'esperienza italiana di quegli esuli. Moretti interviene in prima persona soltanto quando gli intervistati sono in preda a un blocco emotivo, immersi nei loro ricordi o nei loro incubi, e spesso i loro silenzi risultano molto più efficaci ed espliciti delle parole, e lo si vede in video soltanto nell'inquadratura iniziale quando guarda la città dall'alto, e successivamente mentre interloquisce con un ex generale condannato a dieci anni di reclusione che si protesta innocente, dicendogli che non sarebbe stato imparziale nei suo confronti, concessione tutto sommato modesta al proprio ego da parte del caro Nanni. Detto questo, il documentario non può che coinvolgere profondamente chi ha ricordo di quegli anni ormai lontani: un altro mondo ma soprattutto un'altro modo di starvi, con la concreta speranza che le cose potessero cambiare e convinti di potere essere protagonisti di un miglioramento che non riguardasse soltanto sé stessi ma anche il prossimo. Delle frasi del film, quella che più mi è rimasta impressa, a differenza di molti altri che hanno parlato di Santiago, Italia,  è quella di un intervistato che faceva notare che sì, la democrazia è una cosa bella, ma solo finché i risultati fanno comodo a chi detiene il vero potere, affermazione condivisa nella sostanza dall'altro generale sentito da Moretti. E che vale anche qui e oggi. 

sabato 8 dicembre 2018

Tre volti

"Tre volti" di Jafar Panahi. Con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Razaei, Maedeh  Erteghaei, Narges Delaram e altri. Iran 2018 ★★★★+
Inarrestabile, il grande regista iraniano Jafar Panahi, dopo essersi riconvertito in Taxi Driver, facendo di necessità virtù e trovando il modo di eludere il divieto di girare film in esterni, continua la sua personale Odissea alla ricerca di un modo di raccontare storie e, soprattutto, il suo Paese, questa volta non sulle strade della capitale, come nel delizioso Taxi Teheran, ma in trasferta, sulle brulle montagne dell'Iran Occidentale, nella regione azera da cui lui stesso è originario. Vi si reca assieme all'amica Behnaz Jafari, una delle più brave e famose attrici del Paese, questa volta col pretesto di chiarire in via definitiva il mistero di un video giunto sullo smartphone dell'artista in cui una ragazza, aspirante attrice e studentessa al conservatorio di Teheran, si rivolgeva a lei perché intercedesse con la famiglia, e in particolare il fratello maggiore, perché non ostacolasse la sua aspirazione di diventare a sua volta attrice: nel video, dopo aver visto svanire i tentativi di mettersi in contatto con Jafari, la ragazza, Marziyeh, sembrava aver inscenato un suicidio. Il tutto è ovviamente un pretesto e, con la scusa dell'indagine sulla fine della ragazza, definita unanimemente dalla ruspante popolazione locale una velleitaria "testa vuota", trasforma gli incontri e le conversazioni con l'umanità del posto in un'occasione per creare dei quadretti che illustrano meglio di qualsiasi saggio la contraddittoria realtà di un Paese si cui si sa (e vuol sapere) poco o nulla, in equilibrio instabile tra arcaicità e modernità, dove ci sono più parabole satellitari che medici e infermieri; dove l'emancipazione femminile è una chimera ma le donne appaiono non solo più determinate ma, a ben vedere, più forti degli uomini. Panahi e Jafari trovano anche modo di rendere omaggio a due figure del cinema e dello spettacolo iraniani osteggiate dal regime khomeinista: Behrouz Vossoughi, che da anni vive in California, di cui Panaji scova una vecchia locandina a casa di un anziano di quando fu protagonista in Tangsir girato da Amir Naderi, mentre immagina di ritrovare in quelle contrade sperdute, autoesiliata e ritirata a vita privata in una modesta casa dove dipinge e continua a professare la sua arte ma non in pubblico, Kobra Saeedi, la danzatrice Shahrzad, star degli anni Settanta sparita dalle scene dopo la rivoluzione del 1979. Solidali con Panaji, si continua ad apprezzarlo non solo per solidarietà con la sua battaglia di libertà, per la sua tenacia, la serenità e senso dell'ironia che lo contraddistinguono nonostante l'isolamento e le restrizioni, ma perché la sua bravura di regista e narratore di storie traspaiono anche da  queste pellicole prodotte artigianalmente con i limitatissimi mezzi di cui dispone. 

mercoledì 5 dicembre 2018

Ride

"Ride" di Valerio Mastandera. Con Chiara Martegiani, Arturo Marchetti, Renato Carpentieri, Stefano Dionisi, Milena Vukotic, Lino Musella e altri. Italia 2018 ★★★½
Ero pressoché certo che l'esordio alla regia di Valerio Mastandrea non mi avrebbe deluso e sono felice di aver avuto ragione, per la stima che ho dell'attore e della persona, che mai dice e fa cose banali e che apprezzo per il senso della misura e la discrezione con cui si muove in un ambiente in cui l'esibizionismo è la regola. Passo felpato, ironia, empatia autentica nei confronti dei personaggi di una realtà periferica rispetto alla capitale come Nettuno, in preda ai postumi di un evento traumatico che li ha coinvolti e sconvolti: la morte di un giovane operaio per un incidente sul lavoro, a cui ciascuno dei parenti, amici o semplici conoscenti, reagisce a modo suo, e il regista, giustamente, sottolinea che ha il pieno diritto di farlo, senza adeguarsi a degli schemi prefissati e convenzionali. L'occhio si concentra soprattutto su Carolina, la moglie che, invece di sciogliersi in lacrime, come pur vorrebbe, non ne è capace e, per l'appunto, le scappa perfino da ridere (da qui il titolo del film), specialmente di fronte a episodi involontariamente comici che le accadono durante le visite di condoglianza che riceve nel giorno che precede i funerali, che d'altra parte diventano l'occasione, per il padre pensionato da cui la vittima aveva ricevuto, per così dire, in eredità il posto in fabbrica, e i suoi coetanei ed ex compagni di lotte sindacali, di rispolverare megafoni e bandiere rosse e rinverdire i fasti del passato; per il figlioletto di una decina d'anni, di fare le prove per un'immaginario reportage dell'evento assieme al suo amichetto del cuore, entrambi abbagliati da una futuro come inviati di telegiornali; per il fratello della vittima, diventato un piccolo delinquente in rotta con la famiglia, di vendicarsi del padre che lo considera "morto", rinfacciandogli la responsabilità di aver imposto come modello sé stesso e il suo mito di un lavoro pagato poco e pure a rischio, a cui lui si è ribellato e l'altro no. A Carolina crolla un mondo addosso e deve fare i conti con una vita completamente diversa da quella che sembrava avviata su dei binari sicuri; in più, il suo spaesamento è particolarmente pesante per il fatto che viene da "fuori", da Rimini (come del resto la brava Chiara Martegiani che la interpreta), considerata quantomeno esotica se non straniera dal chiuso e particolare ambiente del litorale romano (e qui è inevitabile sentire il richiamo del rimpianto Caligari), eppure la donna, esile e all'apparenza fragile, ha una lucidità e una forza d'animo esemplari. Mastandrea tocca con delicatezza un tema come il vuoto che produce in chi resta la scomparsa improvvisa di una persona dalla presenza forte, scontata; i meccanismi che l'evento imprevisto innesta mentre la vita, come deve, va avanti, oltre che, va da sé, ma senza enfatizzare, il dramma delle morti bianche; lo fa con attenzione, misura, un tocco di ironia e un velo di tristezza, confezionando una pellicola particolare, inconsueta, priva di enfasi ma coinvolgente. Un bravo a Mastandrea e ai colleghi attori che lo hanno accompagnato in questa avventura. 

lunedì 3 dicembre 2018

A Private War

"A Private War" di Mattew Heineman. Con Rosamund Pike, Jamie Dornan, Tom Hollander, Stanley Tucci, Greg Wise, Nikki Amuka Bird, Alexandra Moen, Corey Johnson e altri. USA 2018 ★★★½
Film biografico sulla celebre giornalista di guerra Marie Colvin, rimasta uccisa assieme al fotografo francese Rémi Ochilik nel febbraio del 2012 durante l'assedio di Homs, in Siria, probabilmente su mandato di Bashir Al Assad, sembra più una produzione inglese che americana: sia perché l'ambientazione, quando non è nelle zone di conflitto, è a Londra, dove ha sede il Sunday Times, giornale per cui lavorava; sia perché è britannica una buona parte del cast; sia perché evita l'eccesso di retorica sul personaggio, che è stata sì una grande reporter, libera, spregiudicata, dedita alla causa di raccontare le vere vittime di ogni evento bellico, ossia i civili e i dimenticati, ma anche una donna dalla personalità complessa, difficile, dai rapporti non facili col prossimo ma ancor meno con sé stessa: la guerra privata del titolo del film, tratto da un articolo di Marie Brenner sull'edizione USA di Vanity Fair, si riferisce proprio a questo, ed è la storia di una vocazione che nasce anche se non soprattutto da una sorta di dipendenza (il suo collega e sodale per anni Paul Conroy ne individuava la causa in uno stress post-traumatico che colpisce soprattutto i militari reduci da situazioni estreme ma anche i reporter più spericolati, che si muovono superando qualsiasi limite di prudenza). Ed è questa una risposta, da un punto di vista medico e psicologico, alla domanda che chiunque si pone sul "chi glielo faccia fare", e che Marie, nella sua vita privata, si è sentita spesso fare dalle persone con sui si relazionava più da vicino, a cui la sua impellenza di raccontare, la sua scelta di vita, il continuo rischiarla ponendo l'asticella del pericolo da superare sempre più in alto risultavano alla fine insopportabili. Ed è in particolare su questo fronte che Marie pagava le conseguenze delle sue scelte professionali, in termini di depressioni ricorrenti e di alcolismo, anche se viveva la sua professione come una missione,  mossa da qualcosa che per lei era una sorta di imperativo morale. Il film ne ripercorre gli ultimi dieci anni di carriera, da quando perde l'occhio sinistro a causa dello scoppio di una granata nel 2001 in Sri Lanka, dove è la prima giornalista a entrare in contatto con le Tigri Tamil (prima era stata già in Kosovo, Cecenia, Afghanistan, aveva intervistato sia Arafat sia Gheddafi) e a raccontare la loro lotta; poi in Iraq, dove scopre centinaia di cadaveri di kuwaitiani eliminati e gettati in fosse comuni; in Libia durante le "primavere arabe", dove è tra gli ultimi a intervistare Gheddafi (per lei una seconda volta) e, infine, l'avventura di Homs, quando racconta la tragica realtà di un ospedale di fortuna nella città martoriata e trasmette da una postazione clandestina da cui non riesce a fuggire per tempo una volta che è stata individuata. Come accennato il regista riesce a trattare la materia in modo non enfatico ed eccessivo, la realtà bellica è resa in modo vivido e coinvolgente dalle immagini, la fotografia è all'altezza e lo sono anche gli interpreti, a cominciare dai tre principali, Rosamund Pike (Marie Colvin), Jamie Dornan (Paul Conroy) e Tom Hollander (il suo caporedattore agli esteri Sean Ryan). 

sabato 1 dicembre 2018

Libertadores a Madrid: l'ossimoro


E così la finale di ritorno della Copa Libertadores, l’equivalente sudamericano della Champions League, tra River Plate e Boca Juniors, le due più blasonate squadre di Buenos Aires e d'Argentina, si giocherà domenica 9 dicembre a Madrid, la capitale del Paese dei Conquistadores, per di più allo stadio Santiago Bernabeu, di proprietà del Real, alla faccia dei repulicanos Simon Bolívar, José di San Martín e dei loro compagni di ventura, che hanno di che rivoltarsi nella tomba...

venerdì 30 novembre 2018

In guerra

"In guerra" (En Guerre) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lidon, Mélenie Rover, Jacques Borderie, Olivier Lemaire, Bruno Bourthol, David Rey, Isabelle Rufin, Sébastien Lamelle, Valérie Lamonde e altri. Francia 2018 ★★★★★
Massimo dei voti per un film che, nel suo genere (militante? politico? di denuncia? realista?) è esemplare, potente, duro, difficile, indigesto e rimane a "lavorare dentro", e non soltanto per il colpo di scena con cui si conclude: un pugno nello stomaco che ci meritiamo tutti quando, dando credito alle ciance sui populismi, le migrazioni epocali, il dogma della legge del mercato, l'unica ideologia sopravvissuta e vincente su ogni altra visione del mondo e dell'esistenza umana, ci dimentichiamo del tema centrale: il lavoro che viene meno, che  grazie alla delocalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia e, non ultima, la robotizzazione, sparisce. La telecamera "a spalla" di Stéphane Brizé ci porta all'interno della fabbrica Perrin, con sede ad Agen, in una regione ad alta disoccupazione come la Garonna, specializzata in apparecchiature automobilistiche che fa parte di una multinazionale tedesca, e nelle stanze in cui si svolgono le infuocate assemblee dei lavoratori e in quelle in cui avvengono le estenuanti trattative con la controparte durante un durissimo contenzioso tra i sindacati e l'azienda di cui la proprietà decide unilateralmente la chiusura dei battenti nonostante abbia firmato un accordo che prevedeva il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in cambio di una sostanziosa riduzione di stipendio e di bonus, con aumento della produttività, da parte del personale tutto per cinque anni: dopo due anni l'accordo, per decisione della dirigenza, diventa carta straccia, l'esistenza dei lavoratori sconvolta, minata alla base, nel sostanziale menefreghismo del governo, che dopo aver tergiversato facendo inasprire ancor di più la vertenza, fa finta di appoggiare le loro istanze proponendosi però al più come mediatore, si tira indietro prendendo le distanze non appena la rabbia e il malcontento operaio oltrepassano i "limiti" della stessa legalità, sfociando in aggressioni non solo verbali e incidenti con la polizia, fatta intervenire in assetto antiguerriglia. Come nel precedente e più che egregio La legge del mercato, l'ottimo Stéphane Brizé (che aveva firmato anche un altro bel film, di tutt'altro tipo, Una vita, tratto dall'omonimo romanzo di Guy de Maupassant, a conferma della sua versatilità e bravura) si avvale di un attore eccezionale come Vincent Lidon, perfetto nel dare vita all'irriducibile capo sindacalista Vincent Amédeo, e di altri non professionisti ma altrettanto bravi ed efficaci, smaschera il linguaggio manipolatore dei vertici aziendali e dei politici nonché quello ambiguo dell'informazione, compresa quella che passa dai social media, sottolinea quanto attraverso questo e le tattiche dilatorie che si basano sull'eterno, diabolico schema del divide et impera utilizzato da chi ha il coltello dalla parte del manico, porti all'immancabile, letale contrapposizione tra i lavoratori che si divideranno ancora una volta tra duri e puri, decisi a difendere con il lavoro quella che vedono come l'essenza stessa della loro esistenza, e i "trattativisti", disposti ad arrendersi all'inevitabile (e,  nelle condizioni attuali, sempre che si dia per scontata la suprememazia e l'ineluttabilità della legge del mercato così è) in cambio di sostanziose buonuscite. Un film da vedere, qualsiasi siano le convinzioni politiche, per chiunque si renda conto quanto il tema del lavoro e della sua scomparsa e comunque cambio di senso sia cruciale al giorno d'oggi.

mercoledì 28 novembre 2018

Red Land (Rosso Istria)

"Red Land (Rosso Istria)" di Maximiliano Hernando Bruno. Con Selene Gandini, Geraldine Chaplin, Romeo Grebensek, Franco Nero, Sandra Ceccarelli, Eleonora Bolla, Maximiliano Hernando Bruno, Diego Pagotto, Vincenzo Bellini e altri. Italia 2018 ★★★★
Al solito, non riesco a capire la titolazione dei film italiani o in italiano di film stranieri. Che cosa cazzo mi significa Red Land? Non bastava Rosso Istria per una pellicola prodotta e girata in Italia con interpreti italiani (salvo il bravissimo Romeo Gebenscek, sloveno) che racconta una storia italiana? Ah, ecco: una storia italiana ma avvenuta nel lontano NordEst, che da 75 anni viene pervicacemente rimossa, occultata, manipololata a piacere senza mai affrontarla per quello che è stata e in cui, come al solito, ci è andato di mezzo il cittadino comune, ossia chi ha subito le conseguenze di quanto deciso altrove e in più alte, inarrivabili sfere. Che è poi la storia dell'umanità, e non dal  punto di vista del potere: in questo caso quella degli accadimenti che precedettero l'esodo degli italiani d'Istria e Dalmazia, un caso di vera e propria pulizia etnica che si sarebbe concluso nel 1954, in contemporanea con l'assegnazione definitiva della Zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia. I prodromi dell'esodo nell'estate del 1943, tra la caduta di Mussolini e l'8 Settembre, con lo sbandamento dell'esercito italiano lasciato senza comandi dai suoi vertici e dai Savoia fuggitivi, insomma, e in particolare, vi si racconta la tragica vicenda di Nora Cossetto, giovane studentessa universitaria di Visinada, in Istria, prima stuprata e poi infoibata, vittima simbolica della prima ondata di esecuzioni da parte dei partigiani titini, che non coinvolsero soltanto militari ed esponenti del regime fascista, ma anche e soprattutto i civili italiani, compresi quelli antifascisti e perfino alcuni comunisti non allineati, e pure quegli slavi che simpatizzavano con gli italiani non per motivi politici, ma perché ci convivano pacificamente da centinaia di anni, prima che le smanie nazionaliste prendessero il sopravvento. A pensarci bene, prima dello scoppio della Grande Guerra, quando entrambe le etnie (e ve ne erano un'altra decina) convivevano pacificamente nell'Impero Austroungarico. Per raccontare questa storia negletta ci è voluto un regista e attore (e qui anche sceneggiatore) argentino, per quanto di origini italiane: uno nostrano difficilmente avrebbe avuto il coraggio di andare contro l'onda da sempre dominante nell'universo cinematografaro concentrato nella Capitale (che da queste parti risulta molto più lontana di Vienna e lo è, anche geograficamente: ma è una cosa che non si deve dire), da sempre complice o succube del luogocomunismo de sinistra; e non stupisce nemmeno che siano vergognosamente poche le sale in cui viene proiettato (40 in tutta Italia nella seconda settimana) e magari a orari assurdi come a Udine, nel primissimo pomeriggio e dopo le 21: quasi un boicottaggio; e così, per protesta, sono andato a vederlo ieri a Trieste, città che più di ogni altra ha avuto un ruolo in quelle tristi vicende, per di più al Cinema Nazionale, così se qualche cretino vuole darmi anche del fascista, se ci tiene, faccia pure. Forse qualcuno avrà voluto leggere in quel "Rosso Istria" (da mettere tra parentesi) un riferimento troppo esplicito alle malefatte dei partigiani jugoslavi e alle complicità dei comunisti locali (su istruzioni del Migliore, il compagno Palmiro Togliatti, il braccio destro di Stalin per i repulisti a livello internazionale, vedi Guerra di Spagna), e invece si tratta del titolo della tesi di laurea, riferito al colore che la terra ha in Istria, dovuto alla massiccia presenza di bauxite, che Norma Cossetto, studentessa di lettere e filosofia all'Università di Padova, stava preparando, con l'aiuto del professor Ambrosin, altro personaggio di spicco del film interpretato da Franco Nero, l'intellettuale del posto (siamo a Visinada, nell'Istria Occidentale, tra Pirano e Parenzo) a cui i giovani italiani, fascisti e no, facevano riferimento. Norma era sì figlia del podestà locale, peraltro in quel periodo a Trieste, a cercare di capirre istruzioni sul da farsi che nessuno si prendeva la responsabilità di dare, ma nulla più; così come non c'entravano coi fascisti la maggior parte degli infoibati di quella tornata: il film ne racconta la storia inquadrandola nelle sue relazioni famigliari e di amicizia, rendendo vivo, a quasi ottant'anni di distanza, un intero ambiente e una realtà che appare oggi remota: ci sono gli amici antifascisti, a cominciare dall'amica del cuore, disposta perfino a tradirla; c'è il disertore, peraltro un ex spasimante (la componente mélo non poteva mancare); c'è il prete del paese; ci sono i carabinieri; ci sono i coloni, slavi e italiani; ci sono i partigiani titini, forse eccessivamente tratteggiati come i malvagi della situazione, ma chi ha voluto vedere un film politicamente schierato è decisamente in malafede e pure dotato di una ragguardevole coda di paglia, perché il regista non nasconde, le cause di tanta furia anti-italiana da parte dei seguaci di Tito, gli slavi emarginati a loro volta e brutalizzati dall'italianizzazione forzata voluta dal regime fascista, peraltro comune a quella tentata in Sud Tirolo, e questo la dice lunga sulla politica della "madre patria" nei confronti delle popolazioni che abitavano le cosiddette "terre redente", così come sottolinea l'ignominia delle alte sfere militari e di Casa Savoia nonché la codardia dei caporioni fascisti. Chi paga il prezzo maggiore, anche nel film, non è alla fine chi è schierato in un senso o nell'altro, ma proprio chi non c'entra o chi più chiaramente ha capito che la bestialità senza controllo viene puntualmente scatenata da quelle ideologie che spregiano l'umanesimo, a cominciare da quelle nazionaliste, come il professore a suo tempo soldato nella Prima Guerra Mondiale; l'antifascista non comunista; l'amico e disertore che rimane nel dubbio. Inevitabilmente mi è venuto da pensare a ciò che diceva, mai abbastanza ascoltato l'indimenticato Fulvio Tomizza, nato proprio da quelle parti, sempre troppo italiano per gli jugoslavi e troppo slavo per gli italiani; uno comunista per i fascisti di qua e borghese per quelli di à. Due ore e mezzo in un film ben girato e ambientato alla perfezione, che ha il difetto dei essere di taglio un po' troppo televisivo, ma glielo perdono volentieri per il senso generale che vuol comunicare, affrontando un tema finora tabù nel nostro cinema oltre a cercare di oliare la memoria di un Paese che, se non sa nemmeno di preciso dove si collochi e che storia abbia il Friuli, figurarsi l'Istria o la Dalmazia, salvo andarci in vacanza d'estate (e solo i migliori lo fanno). 

domenica 25 novembre 2018

Troppa grazia

"Troppa Grazia" di Gianni Zanasi. Con Alba Rohrwacher, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Hadas Yaron, Rosa Vannucci, Carlotta Natoli, Teco Celio, Thomas Trabacchi, Daniele De Angelis e altri. Italia 2018 ★★½
Altro film che parte col piede giusto, scoppiettante, imprevedibile, sorprendente, e si va via via spegnendo: non negli ultimi dieci minuti come Chesil Beach, ma in tutta la sua seconda parte, in cui sembra perdersi tutta la verve, la freschezza e l'originalità della prima. E nulla può l'eccellente interpretazione della generosa e versatile Alba Rohrwacher, né quelle degli altri ottimi attori che le fanno da spalla: la trama, che nella surrealtà aveva la sua forza provocatoria (una Madonna vestita da profuga dimessa e dall'atteggiamento decisionista che appare a una geometra esperta in rilevamenti catastali, ragazza madre tanto pignola sul lavoro quanto confusionaria nella sua vita privata, e interferisce nella sua esistenza), si sfilaccia col risultato di non portare da nessuna parte, salvo in una sorta di paradiso bucolico, una vallata sotterranea svelata in seguito all'attentato a un cantiere che avrebbe dovuto edificare l'ennesima pensata del solito architetto sulla cresta dell'onda. Lucia (Rohrwacher) è una "disgraziata", come la definisce Paolo (Battiston) un assessore o sindaco di un paesino probabilmente toscano e suo vecchio amico per giustificare la sua scelta per mettere la firma a un progetto a cui tiene: troppo disgraziata per fare storie e non passare sopra a delle palesi irregolarità, ma appare, per l'appunto, la Madonna a cambiare le carte in tavola e a favorire il miracolo, ossia la "grazia", di una giustizia che per una volta si realizza non a opera delle istituzioni preposte ma per via del tutto illegale oltre che "divina". Gli spunti originali non mancano, alcune scene e scambi di battute sono decisamente originali e divertenti ma questa volta non bastano per ripetere il "miracolo" de  La felicità è un sistema complessoil film precedente del regista emiliano, che pure di talento ne ha e, paradossalmente, fanno precipitare la pellicola, nel suo complesso, nello scontato e nel luogocomunismo della commedia italiota, per quanto riveduta e corretta al l'insegna di una sorta di realismo magico, ed è un vero peccato: ma sono altresì convinto che Gianni Zanasi si rifarà alla prossima occasione. 

venerdì 23 novembre 2018

Chesil Beach - Il segreto di una notte

"Chesil Beach - Il segreto di una notte" (On Chesil Beach) di Dominic Cooke. Con Saoirse Ronan, Billy Howle, Anne-Marie Duff, Adrian Scarborough, Emily Watson, Samuel West e altri. GB 2017 ★★★=
Ché poi non era nemmeno una notte ma un pomeriggio di luce: non c'è un una scena notturna in tutto il film, che peraltro si distingue per luminosità (quella particolare che può offrire una località marittima dell'Inghilterra meridionale), fotografia e attenzione ai dettagli. La solita aggiunta nel titolo alla versione italiana che non c'entra un accidente: la storia è semplicemente quella di un matrimonio che è durato soltanto lo spazio di sei ore, perché non consumato, fra i due protagonisti arrivati entrambi vergini al momento dell'inizio di una vita in comune che sembrava nascere sotto i migliori auspici, a giudicare dal sentimento che legava i due protagonisti, Florence ed Edward, diplomata oxfordiana in violino e di buona famiglia lei, mezzo cafone di provincia (questo il giudizio dei insopportabili e gretti futuri suoceri) e laureato con lode ma a Londra e figlio del direttore di una scuola elementare e di una pittrice rimasta cerebrolesa in seguito a un incidente lui. Siamo nel 1962 e dagli USA, oltre ai venti libertari sull'onda del kennedismo, giungono i dischi di Chuck Berry che influenzeranno i Rolling Stones (nati in quell'anno), sta per scoppiare tanto la beatlemania quanto la rivoluzione sessuale ma i due, che si sono conosciuti l'anno precedente a un meeting antinucleare, davanti all'evento che dovrebbe segnare il passaggio all'età adulta nonché dalla liberazione delle catene rispettive catene famigliari che li hanno condizionati fino ad allora, si dimostrano ancora succubi di esse e si incartano: il momento tanto atteso si trasforma in una sorta di incubo in cui ciascuno dei due rivive, in continui flash back, gli episodi che li hanno segnati nonché le tappe del loro rapporto, che avrà fine proprio su quella spiaggia di ciottoli su cui si affaccia l'albergo in cui avrebbero dovuto trascorrere la prima notte di nozze, che non arriverà a sopraggiungere. La bravura di Saoirse Ronan non è una novità: da sola, anche qui come nel sopravvalutato Lady Bird, riesce a  illuminare un film altrimenti poco più che discreto: a soli 24 anni si conferma un talento straordinario, ma anche gli altri interpreti sono all'altezza, e caratterizzano in modo credibile i loro personaggi. Lecita e felice la scelta di costruire la pellicola sui flash back (Ian McEwan, oltre che autore del romanzo da cui è tratto il film, ne è anche lo sceneggiatore) ma solo fino ai dieci minuti finali, che rischiano di rovinare quanto visto di buono nei 100' precedenti: i due flash forward nel 1975 e poi nel 2007 sono micidiali, per un epilogo melenso, lacrimevole oltre che già visto (un esempio recente: La La Land, che però è un capolavoro) che poteva essere felicemente evitato sul grande schermo. 

mercoledì 21 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

"Widows - Eredità criminale" (Widows) di Steve McQueen (II). Con Viola Davis, Elizabeth Debicki, Michelle Rodriguez, Cynthia Erivo, Colin Farrell, Colin Farrell, Liam Neeson, Robert Duvall e altri. USA 2018 ★★★+
Per una volta l'aggiunta nostrana al titolo originale, che specifica Eredità criminale, ha un senso compiuto: è quella che Harry Rawlins, capo di una gamba di criminali rimasta sterminata nel corso di una rapina andata male, lascia alla vedova Veronica in forma di un quaderno di appunti in cui si trova il piano dettagliato di una rapina da cinque milioni di dollari. Quelli che servono a Veronica e alle altre donne dei componenti della banda rimaste vedove innanzitutto per risarcire il malvivente di colore Jamal Manning, ora candidato a delle elezioni locali in un distretto di Chicago, a cui la banda aveva sottratto due milioni di dollari destinati alla campagna elettorale e che sono finiti bruciati durante uno scontro con la polizia (ma sarà davvero stato così?), sia per sistemarsi dopo la morte dei rispettivi mariti. Le donne non si conoscevano e non potrebbero essere più diverse, così come differenti erano i rapporti coi rispettivi mariti, e così Linda e Alice si uniscono a Veronica ma non Amanda, che ha da poco avuto un figlio e preferisce tenersene fuori: al suo posto entrerà a far parte del gruppo Belle, una ragazza brava ad arrangiarsi e autista provetta, che fa la baby-sitter part time da Linda. Questo il succo della trama di questo film su un "colpo grosso" che è sì d'azione ma anche molto altro, perché coglie il pretesto per mostrare i contrasti e le tensioni di una delle più grosse e importanti città statunitensi, la corruttela nell'amministrazione pubblica, le relazioni sotterranee e inconfessabili tra potere e gangsterismo e anche la chiesa: vittima della nuova rapina sarà infatti la famiglia Mulligan, a lungo dominatrice della scena politica del distretto (strepitoso Robert Duval nel ruolo del patriarca, invischiato in vicende giudiziarie, che ha dovuto rassegnarsi a far correre al suo posto Jack, un Colin Farrell che stavolta non gigioneggia, il quale non ha la sua tempra né le sue idee), ma soprattutto indaga in modo profondo e non banale sulle diverse personalità dei personaggi femminili, tutti resi molto efficacemente dalle interpreti, sulle quali svetta, a mio parere, la Alice di Elizabeth Debicki, la più contraddittoria e però riuscita del gruppo. Impossibile svelare altro sulla trama a meno di non rovinare la visione di un film in cui le sorprese non mancano e, se anche sembra partire col freno a mano tirato e divagando, girando in cerchio, ha il fuoco a covare sotto la cenere, e rimane realistico, per quanto riguarda i personaggi, al di là della credibilità della vicenda in sé. Efficace dunque sia come thriller d'azione, sia come film che racconta la realtà di una fetta d'America, per quanto tratto da una serie inglese di una trentina d'anni fa, soprattutto girato con ottimo mestiere da un regista che aveva già dato prova del suo talento in Hunger, Shame e 12 anni schiavo, sebbene quest'ultimo non mi avesse convinto.

domenica 18 novembre 2018

Afghanistan: Enduring Freedom



"Afghanistan: Enduring Freedom". Gli ultimi cinque episodi. Di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace. Traduzione di Lucio De Capitani, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; scene e costumi di Carlo Sala; video Francesco Frongia; luci Nando Frigerio; suono Giuseppe Marzoli. Con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana. Coproduzione Teatro dell'Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Napoli Teatro Festival.
Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 25 novembre.

Seconda parte del polittico sull'Afghanistan portato in scena con la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, rispetto alla prima, che privilegiava la ricostruzione storica in ordine cronologico, si concentra maggiormente sulle ripercussioni che gli eventi che hanno continuato ad abbattersi su quel martoriato Paese dal 1996 a oggi hanno sulle vicende umane di chi vi è coinvolto: di propria iniziativa, come i militari inglesi o americani, i talebani, le organizzazioni di aiuto umanitario o lo stesso Massud, il Leone del Panshir che nel suo desiderio di un Afghanistan moderno e democratico è andato a fidarsi della buona fede degli USA; oppure passivamente, in balia degli accadimenti e delle velleitarie e arroganti pretese altrui di essere in grado di risolvere un verminaio da essi stessi creato, si trattasse dei colonialisti inglesi di un secolo e mezzo fa, dell'imperialismo russo, di quello a stelle e strisce, dei vari signori della guerra e, da ultimi, gli "studenti" coranici. Come la prima parte, questo sequel è composto di cinque scene tratte da altrettanti distinti racconti di autori anglosassoni: Il Leone di Kabul di C. Teevan; Miele di B. Ockrent; Dalla parte degli angeli di R. Bean; Volta Stellata di S. Stephens e Come se quel freddo di N. Wallace, che non appartiene all’originario progetto del Trycicle Theatre. Soprattutto quest'ultimo, particolarmente suggestivo, che chiude le tre ore di questo intensissimo spettacolo, si svolge in una dimensione onirica, l'unica in cui possono trovarsi insieme e sullo stesso livello due ragazzine afghane, di cui la più piccola imprigionata in un burqa, e un giovane soldato americano arruolatosi per potersi pagare gli studi universitari, mentre ripercorrono la loro vita e i loro stessi sogni poco prima di morire, e anche l'unica dimensione in cui possono avere soluzione conflitti dovuti ad arroganza, delirio di potere, ignoranza, valori inconciliabili, linguaggi diversi e dove nessuno può pretendere di avere ragione o una soluzione in mano, com'è stato da sempre dimostrato dalla storia di questo Paese straordinariamente variegato e complesso. Le scene, semplici ed essenziali, in cui gli inserti multimediali sono ridotti rispetto alla prima parte, coi loro colori quasi stinti sottolineano l'aspetto di sospensione in cui si muovono i personaggi in una realtà di cui non hanno il minimo controllo, e di cui non sono in grado di comprendere il senso. Gli ottimi interpreti sono gli stessi della prima parte, Il Grande Gioco, già in cartellone all'inizio dell'anno scorso e che si può tuttora vedere, sempre all'Elfo/Puccini, nelle giornate di martedì 20 e sabato 24, mentre domenica 25 avrà luogo una maratona con inizio alle 11.30 del mattino.

giovedì 15 novembre 2018

Tutti lo sanno

"Tutti lo sanno" (Everybody Konows) di Asghar Farhadi. Con Penélope Cruz, Javier Bardem, Ricardo Darín, Eduard Fernández, Bárbara Lennie, Inma Cuesta, Elvira Mínguez e altri. Spagna, Francia, Italia 2018 ★★★★
Con Farhadi, a qualsiasi latitudine, longitudine o ambiente collochi le storie che racconta nei suoi film si va sul sicuro: che i segreti e la natura nascosta delle persone nei rapporti di coppia e famigliari vengano alla luce per via di eventi imprevisti, capaci di scatenarne la contraddizione, e che questo avvenga attraverso i dialoghi, dove le parole sono sì fondamentale, ma anche gli sguardi, i gesti e quanto viene taciuto; terza certezza, che il regista iraniano li affidi a interpreti capaci di reggere la parte, e anche in questo caso lo sono tutti, indistintamente. Laura (Cruz) torna dall'Argentina assieme ai due figli nel paesino rurale vicino a Madrid (per la cronaca si tratta di Torrelaguna) dove vive la famiglia d'origine in occasione del matrimonio di una sorella: grande festa, che coinvolge tutto il paese (dove tutto sanno di tutti) e in particolare, com'è ovvio, parenti e amici tra i quali Paco (Bardem), un viticoltore con cui aveva avuto una lunga e intensa relazione in gioventù. Grandi festeggiamenti, una vera fiesta dagli aspetti dionisiaci, durante la quale, proprio in occasione di un black out elettrico che risulterà essere stato causato artatamente, sparisce inspiegabilmente la figlia di Laura: entro breve verrà a sapere che si tratta di un rapimento, che però l'entourage decide di non denunciare alla polizia perché, in un caso precedente e in un paese vicino, la vittima, anche in quel caso una ragazza, fu uccisa dai sequestratori. Dovrà però dirlo al marito (Darín), rimasto a Buenos Aires per supposti motivi di lavoro, e questa è già la prima menzogna che verrà svelata: in realtà perché spiantato e in crisi da anni sia con la moglie sia a livello personale. Man mano che si procede nelle ricerche, e mentre ci si chiede chi fosse al corrente o meno della reale situazione finanziaria della famiglia della ragazza, si insinuano i dubbi su chi possa aver chiesto il riscatto, una somma peraltro non esorbitante, 300 mila euro, che comunque Laura e il marito Alejandro non sono nemmeno lontanamente in grado di pagare. Il sospetto dilaga, perfino sullo stesso genitore che nel frattempo è giunto in Spagna, per non parlare della posizione di Paco, e del motivo della sua disponibilità a fornire un aiuto più che concreto a risolvere una situazione che si fa disperata. Il finale è a sorpresa, anche se solo fino a un certo punto, ma tutto l'impianto regge perfettamente, in un alternarsi continuo di azione e momenti di pausa, esterni e interni, luce e ombra in un noir psicologico che può ricordare perfino Hitchcock. Un gran bel film, con attori impeccabili e, appunto, un autore che è una "certezza" a dirigerli. 

martedì 13 novembre 2018

First Man - Il primo uomo

"First Man - Il primo uomo" (First Man) di Damien Chazelle. Con Ryan Gosling, Claire Foy, Jason Clarke, Kyla Chandler, Corey Stoll, Patrick Fugit, Christopher Abbott, Ciarán Hinds e altri. USA 2018 ★★★★★
Ho i miei dubbi che l'Academy, riparando alla figura barbina fatta nell'edizione dell'anno scorso con La La Land, dopo aver premiato con l'Oscar il giovane Chazelle come miglior regista lo assegnino al suo First Man come miglior film: troppo poco patriottardo, per i gusti USA, uno che raccontando i momenti salienti della vita di Neil Armstrong, il primo uomo a mettere il piede sulla Luna, omette volutamente di proporre la scena della bandiera a stelle e strisce piantata sul suolo del nostro satellite. Particolare che fa crescere la mia stima nei suoi confronti, che già era alta. Come anche in Whiplash e, per l'appunto, La La Land, uno dei temi di fondo è l'ostinazione, il sacrificio, la volontà di realizzare un sogno e, forse, la nostalgia di tempi in cui era possibile farne; stavolta basandosi su una sceneggiatura non sua, ma tratta dalla biografia ufficiale scritta da James R. Hansen. Il ritratto che Chazelle fa dell'ingegnere-pilota-collaudatore che decide di entrare a far parte del Programma Gemini e, successivamente, delle missioni Apollo della NASA, che si concluderanno col con lo sbarco sulla Luna del luglio 1969, è quello di un uomo riservato, timido, talvolta impacciato nei rapporti col prossimo, specialmente con la moglie e i due figli maschi, in particolare dopo essere stato colpito da un lutto da cui non si è mai ripreso: la morte, a due anni, dell'amata figlioletta Karen, già in cura per un grave tumore infantile. E' a lei che aveva promesso la Luna, un impegno a cui terrà fede. Non c'è nulla di epico, retorico, roboante, eroico, né le riprese hanno bisogni di effetti speciali mirabolanti: anzi, è con estremo realismo che vengono mostrate le capsule sempre più piccole e claustrofobiche in cui vengono costretti a entrare gli astronauti, con i loro cigolii terrificanti, lamiere male assicurate, graffi nella verniciatura, viti mancanti, ed è alla verosimiglianza che dobbiamo l'emozione di trovarci, già nelle prime immagini, nella cabina di un aereo che sfonda per tre volte il muro del suono  con Armstrong ai comandi per un volo di prova nei primi anni Sessanta, per poi rientrare a casa e condurre una vita ritirata assieme alla sua famiglia in una tranquilla località di campagna. Il film, lasciando sullo sfondo ma evocando efficacemente il clima dell'epoca, tra Guerra Fredda, Vietnam, contestazione, non nasconde né le difficoltà e i fallimenti incontrati nelle missioni che si sono susseguite, compresa la tragedia della prima missione Apollo nel gennaio del 1967, con i tre astronauti carbonizzati sulla rampa di lancio durante una simulazione del count-down, né i rapporti andati incrinandosi tra Armstrong (straordinariamente interpretato da Ryan Gosling, a mio parere da tempo uno dei migliori attori in circolazione) e la moglie, la sorprendente Claire Foy, fino al suo compimento. Raggiunto lo scopo, che per il governo americano era battere sul tempo i sovietici nella conquista dello spazio, tant'è vero che da allora l'interesse per le avventure lunari è completamente scomparso. Assieme al nemico, l'URSS, i sogni, la bella musica (la colonna sonora è, come sempre nei fil di Chazelle, di primissimo ordine) e l'eroismo "dal volto umano" di persone come Armstrong e tanti suoi colleghi. Un film coinvolgente, destinato a rimanere dentro a lungo. 

domenica 11 novembre 2018

Italoargentinità - 3 / Amore e libertà


In un altro sogno lei girava, smarrita, per il purgatorio insieme a Ducante, sicura che non sarebbe arrivata in paradiso neppure con la benedizione di Dio. E quella parola - amore - faceva vedere alla nonna che dietro un concetto indefinibile c'è sempre un'idea. "Qual è in questo caso?" si domandava. Possedere ed essere posseduto. Violare ed essere violato. Curare ed essere curato. Verbo e ontologia, notevole. [...]
"Perché vediamo un po'", indagava inarcando le sopracciglia e sorridendo come Jerry Lewis: "quale idea ha costruito l'impero romano? Dominare il mondo, espandersi, sottomettere. La schiavitù come forma di sostentamento. Idea che la cristianità fece propria. Per questo non si è mai opposta alla schiavitù, anzi l'ha ammessa fino alla Rivoluzione francese, non l'ha mai messa in discussione e l'ha perfino santificata. Tutto in nome dell'amore!
"E quale idea sostiene l'imperialismo capitalista?" ci chiedeva dopo aver sollevato l'indice verso la ragnatela che pendeva dal centro del tinello: espansione e potere, sottomissione. E quale idea regge il comunismo sovietico? La liberazione dell'uomo attraverso la creazione di nuove forme di relazioni (che non sarebbe neanche male) ma controllate, delimitate, regolate - sottolineava le sillabe inarcando le sopracciglia in tono ammonitorio - ma tutto questo porta a nuova forme di sottomissione. 
"L'amore ha in sé l'idea di libertà, vi rendete conto?" E dava un cazzotto sul tavolo come uno che ha scoperto di essersi messo due calzini di colore diverso. "Per questo i dogmi, le religioni, i sistemi politici hanno sempre la pretesa di definire l'amore e lo separano dal sesso, condannando l'erotismo perché, semplicemente, non possono tollerare la libertà.
"La libertà è insopportabile, quindi bisogna restringerla. Questo è il problema centrale del nostro tempo, di tutti i tempi. Si tratta, allora, di capire che la lotta dell'umanità attraverso i secoli è stata sì la lotta contro lo sfruttamento e l'ingiustizia, ma solo nel suo aspetto visibile. Nella sua essenza, la lotta dell'umanità è stata sempre quella di sapere cosa farsene della libertà, come gestirla. E di conseguenza come interromperla, prestabilirla, come dominarla e amministrarla. Vale a dire: come controllare l'uomo, come sottometterlo, come evitare l'espressione e l'espansione dei suoi istinti. 
"Adamo ed Eva furono espulsi dal paradiso perché ebbero l'ardire di essere liberi e da lì derivò tutto il resto. Si lasciarono trasportare dall'istinto. Questione di un attimo. Come in un attimo in Messico ti può portar via la morte: inevitabilmente. Perché avevano di-sob-be-di-to. Ed eccoci al punto: l'idea della disobbedienza è un'idea di libertà, ma neanche Dio la consente e per questo li espelle dal paradiso"
Si eccitava con i suoi stessi ragionamenti, la nonna. E non riusciva più a fermarsi. E' questo che definisce la condizione umana più bella: la disobbedienza come filosofia è più del semplice spirito di trasgressione, che nelle nostre culture ha un senso assai poco ludico, alla Cortázar, giocoso. No, è molto più di questo: disobbedire vuol dire essere se stessi, vuol dire affermare il proprio io profondo, e se si è in coppia, in due, meglio ancora, e se si è in coro pericolosissimo perché racchiude l'autentica liberazione dei popoli. Per questo il marxismo è stato rivoluzionario; perché ha proposto l'idea nel modo più intelligente. Il suo limite è stato aver reso possibile il comunismo reale, quello che esiste oggi e che altro non è se non la stessa idea divenuta dogma e sistema di vita. (Franca Domeniconelle, una nipote di Angela Stracciattivaglini)


Da Sant'Uffizio della Memoria di Mempo Giardinelli, 1991. Prima edizione italiana febbraio 2016, Eliot - Lit edizioni.