sabato 30 dicembre 2017

Fake news, pseudo News e cadute dal pero

Carico di "confetti" su un Boeing 747 della SilkWay (Azerbaigian) all'aeroporto di Cagliari Elmas il 19 novembre 2015

Chissà com'è che quando una notizia arriva dagli USA, sia che riguardi l'ennesima sparatoria con strage, oppure le ricorrenti ondate di grande freddo sulla costa orientale, eventi prevedibili in inverno quanto una nevicata a Cortina (che da un secolo è una stazione sciistica famosa in tutto il mondo, ma quando fiocca diventa immancabilmente emergenza), nonché l'ultimo demenziale tweet compulsivo del presidente che degnamente rappresenta un Paese di scappati di casa, immediatamente conquista l'apertura di tele e radiogiornali nonché le prime pagine dei quotidiani nazionali, mentre se la stessa è data, nella sua sostanza, con due anni di anticipo da due giornali locali, da siti di contro-informazione (rectius: contro-disinformazione) o blog complottisti tutto tace e soprattutto nessuno si cura di approfondire l'argomento: il lavoro di indagine i pennivendoli nostrani, salvo rare eccezioni, preferiscono lasciarlo ai colleghi d'oltreoceano, che ci mettono 26 mesi per mettere insieme 7' di inchiesta filmata per dimostrare che delle bombe Made in Sardegna sono state usate dal governo di Riyadh per bombardare lo Yemen e uccidere dei civili innocenti (meri danni collaterali, si sa). E noi che pensavamo si trattasse di petardi da far scoppiare in occasione del matrimonio di un qualche principe saudita oppure la notte di San Silvestro... Comunque la legge è rispettata, come sottolinea una nota della Farnesina, e tutto va bene, come già ribadiva madama la marchesa Pinotti in Parlamento nell'ottobre dell'anno scorso.

mercoledì 27 dicembre 2017

Smetto quando voglio - Ad honorem

"Smetto quando voglio - Ad honorem" di Sydney Sibilia. Con Edoardo Leo, Stefano Fresi, Neri Marcorè, Greta Scarano, Francesco Acquaroli, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Giampaolo Morelli, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Lorenzo Lavia, Valeria Solarino, Marco Bonini, Rosario Lisma, Luigi Lo Cascio, Peppe Barra. Italia 2017 ★★★★½
Terzo e ultimo episodio della "saga dei ricercatori", girato in contemporanea con il secondo, Masterclass, è la perfetta sintesi dei due precedenti, dove nel primo predominava l'elemento satirico e nel secondo l'aspetto noir e d'azione, non cedendo di una spanna sul piano del ritmo, dell'inventiva, della tenuta di una sceneggiatura compatta, senza sbavature, del tutto adeguata a reggere una schiera di personaggi tutti, dal primo all'ultimo, strutturati e affidati a interpreti perfettamente adeguati alla parte, a cui è inevitabile affezionarsi: se nelle serie televisive questo capita al massimo con tre o quattro, qui succede sia con ogni singolo, sia col gruppo nel suo insieme. Anzi, in quest'ultimo episodio, come già accennato in quello precedente, i gruppi di ricercatori in competizione diventano due: quello dei reclusi (pur dopo aver collaborato con la polizia in un'operazione "coperta") e "originali" e quello capeggiato dal tenebroso ed enigmatico Walter Mercurio (Luigi Lo Cascio), un valente chimico che ha trafugato assieme al suo gruppo di seguaci un impianto capace di sintetizzare il gas nervino che, come ha giustamente intuito e ammonito, passando per pazzo, Pietro Zinni (Edorardo Leo), il leader del gruppo storico, è finito nelle mani di qualcuno che intende usarlo per un attentato e che, per incontrare chi lo aiuti a identificarlo, riesca a farsi trasferire da Regina Coeli a Rebibbia dove prima incontra il Murena (Neri Marcoré: da non perdere), un ingegnere navale che lavorava nello stesso centro studi lasciato andare in rovina assieme a Mercurio (a questo punto s'innesta il prequel su ciò che è accaduto a questo gruppo di studiosi e che ha fatto scatenare la loro sete di vendetta), e poi riesce a far riunire nello stesso carcere romano tutta la banda col pretesto di adeguarsi a un patteggiamento, e così trovare la maniera di sventare una strage. No spoiler, ovviamente, anche se anticipo che il finale non è tragico come a un certo punto avrei quasi auspicato che fosse, perché l'eliminazione fisica sarebbe ciò che si meritano politicanti, ministri, baroni e leccaculi che hanno distrutto ciò che restava delle nostre università e che si sono divorati il Paese, ma nemmeno buonista e ovvio. Un po' di malinconia a lasciare personaggi a cui, per l'appunto, si era finito di voler bene come a dei vecchi amici ma, come si suol dire, gioco è bello quando dura poco e la bravura sta anche nel sapere quando chiudere in bellezza, e questo il giovane regista e sceneggiatore lo sa. Tra tutti i bravissimi interpreti, una menzione, naturalmente ad honorem, a Stefano Fresi, talento polivalente (qui anche nei panni di un più che discreto tenore alle prese col Barbiere di Siviglia in una esilarante citazione dei Taviani) che se la merita. Un rammarico il relativamente scarso successo di pubblico di quest'ultimo episodio, a mio parere penalizzato dall'uscita in questo periodo dell'anno, particolarmente infelice: a inizio autunno, e perfino in estate, anche più a ridosso di Masterclass, sarebbe stato meglio. Peccato.

lunedì 25 dicembre 2017

Buona squola e buona feste!


Biglietto redatto a due teste da una coppia di ragazzine delle medie sui tredici anni, italianissime, non sbarcate da un gommone a Lampedusa qualche mese fa. 
Provincia di Venezia, dicembre 2017. Avanti così!

giovedì 21 dicembre 2017

Suburbicon

"Suburbicon" di George Clooney. Con Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glen Fleshler, Oscar Isaac, Gary Basaraba, Jack Conley, Megan Ferguson, Karimah Westbrook e altri. USA 2017 ★★★-
Ammetto che mi aspettavo di più sia da George Clooney, che già aveva dato prove più che convincenti da regista, sia da una sceneggiatura firmata, anni fa e solo ora adattata al grande schermo, dei fratelli Coen, ma in considerazione del penoso livello medio delle proposte nel periodo natalizio, tradizionalmente il momento più basso dell'intera stagione, anche questo film non del tutto riuscito è tutto grasso che cola. Siamo e fine anni Quaranta e Suburbicon è il classico sobborgo residenziale omogeneizzato e plastificato, una specie di "gated community" ante litteram pubblicizzata dagli immobiliaristi come una sorta di paradiso, il cui rassicurante tran tran viene turbato dall'arrivo di una famiglia afroamericana, i Meyers. Dapprima stupore, incredulità da parte della comunità di Suburbicon, poi monta la protesta prima in consiglio comunale e poi direttamente di fronte alla villetta abitata dalla famigliola di colore, con innalzamento di palizzate, lancio di oggetti, in un crescendo rossiniano. Su un livello parallelo, il film racconta le vicende della famiglia di Gardner Lodge, funzionario di una finanziaria, che vive nella villetta a fianco dei Meyers (Matt Dillon, ottimo) con la moglie Rose, rimasta paralizzata dopo un incidente automobilistico (guidava lui e lei non glielo perdona) e la cognata e gemella di Rose Margaret, che accudisce lei e il figlioletto Nicky (entrambe interpretate da una bravissima Julianne Moore), che viene visitata una sera da una coppia di inquietanti personaggi che anestetizza col cloroformio tutti i suoi componenti per motivi che inizialmente risultano misteriosi. Quando si risvegliano in ospedale, Rose risulterà morta e Margaret prenderà il suo posto anche nel letto di Gardner. Ma le cose non sono così semplici e poco alla volta si scatena il consueto svelamento degli altarini e della perversione che si nasconde dietro al perbenismo americano alla maniera dissacrante e farsesca dei Coen, e nella seconda parte la pellicola prende un ritmo sincopato che si addice alla vicenda, che è sì una commedia di umore nero ma anche un film politico con una sua morale, come ci ha abituato il regista, che affida la sua visione agli sguardi inorriditi  di Nicky e alla sua amicizia, indifferente al colore della pelle come ai rancori e ai vaneggiamenti degli adulti, con il figlio dei Meyers. Una prima parte un po' sfasata, al ralenti, la seconda a ritmi più confacenti, ma manca la scintilla.

martedì 19 dicembre 2017

Austrian brownie


Ich gratuliere der österreichischen Regierung es geschafft zu haben von schwarz-blau bis braun zu werden.
Als halber österreicher schäme ich mich für den Kanzler Sebastian Kurz. So wie es mit Kurt Waldheim war.
Aber wie auch immer, kein Wunder: nichts wirklich Neues, leider.

Mi congratulo con il governo austriaco di essere riuscito a diventare da nero*-blu** a marrone.

Come mezzo austriaco mi vergogno del cancelliere Sebastian Kurz, così come era stato per Kurt Waldhein.
Comunque nessuna sorpresa: niente di veramente nuovo, purtroppo.

* così chiamata la ÖVP, Partito popolare (democristiano) 

** così chiamata la FPÖ, Partito "liberale" (neonazista), quello che fu di Jörg Haider, per intenderci

Per  chiarire: il pericolo non viene certo da quei quattro pirla di skinhead di Como o dal manipolo di forzanovisti che avrebbero minacciato la libertà di disinformare di Repubblica, ma dal capo del governo di un Paese confinante e smemorato come il nostro, che affida tre ministeri chiave come Interni, Difesa ed Esteri a dei nazisti veraci e rispetto ai quali Viktor Orban, al confronto, è un moderato.

sabato 16 dicembre 2017

Quesito: il minimo comun denominatore

Al solutore (risposta nei commenti) verranno inviati personalmente gli auguri di buone feste dal titolare di questo blog


giovedì 14 dicembre 2017

L'insulto

"L'insulto" (L'insulte) di Ziad Doueiri. Con Adel Karam, Kamal El Basha, Rita Hayek, Diamand Bou Abboud, Christine Choueiri, Julia Kassar, Camille Salameh, Carlos Chahine. Libano 2017 ★★★★
Un film schietto, semplice, senza arzigogoli, forse schematico per i palati fini e gli onanisti mentali a oltranza ma efficace, che arriva direttamente allo scopo del regista e sceneggiatore: ricordare che nessuno ha il monopolio della sofferenza e illustrare la spaccatura verticale all'interno del suo Paese, il Libano, mai superata, perché se la guerra che l'aveva sconvolto è finita ormai da quasi trent'anni, basta un piccolo incedente, una grondaia che perde acqua, uno screzio verbale tra due uomini per innescare un caso mediatico montato in modo irresponsabile su un processo e capace di dividere ancora una volta una nazione che, se ha rimosso il passato, non lo ha però affrontato mancando così una riconciliazione effettiva tra le sue diverse componenti. Toni, titolare di un'officina meccanica, militante della destra cristiano-maronita, è infastidito dai lavori che gli operai di una ditta di costruzioni sta eseguendo su una tubazione rotta che esce dal suo terrazzo e ha un alterco con Yaser, profugo palestinese, ingegnere che lavora come capomastro; questo degenera e Toni lancia un insulto che è inaccettabile per Yaser, perché offende tutto il suo popolo, e quest'ultimo reagisce con un cazzotto. Il titolare della ditta e anche un deputato filo-palestinese insistono perché Yaser chieda scusa, ma questi proprio non ce la fa e finisce che Toni lo denuncia, ma non per la ferita, quanto per il fatto di non essersi scusato. Si inestardiscono entrambi e non mollano né su consiglio delle rispettive mogli e nemmeno quando finiscono in tribunale, pur ammettendo entrambi le proprie colpe e non chiedendo risarcimenti, ma giustizia. Entrano in campo entrambi gli avvocati, curiosamente padre e figlia, in un arguto duello di questioni di principio giuridiche e morali, mentre fuori dall'aula monta la tensione, alimentata dalla spettacolarizzazione del processo scatenata dai media, che non aspettavano altro che di gettare benzina sul fuoco, mentre Toni e Yaser sistemano la faccenda dopo un breve dialogo e una "riparazione" tra  di loro, tacitamente e tra sguardi e silenzi di intesa dopo essersi riconosciuti parimenti come vittime di traumi risalenti al periodo bellico. Sceneggiatura solida, dialoghi serrati e precisi, ottime le interpretazioni di tutti i personaggi, resi credibili e "vivi", e premiata con la Coppa Volpi quella di Kamal el Basha, nei panni di Yaser, al Festival di Venezia di quest'anno. Consigliato.

martedì 12 dicembre 2017

Miracolo a San Siro - Ore 21: Inter-Pordenone

                                                                                                  (Thanks to Gianni "Gibson")

sabato 9 dicembre 2017

Cento anni

"Cento anni" di Davide Ferrario. Con Mario Brunello, Diana Hobel, Fulvio Falzarano, Laura Bussani, Marco Paolini, Gabriele Benedetti, Massimo Zamboni,  Franco Arminio, Fabio Nigro. Italia 2017 ★★★★
Terza e ultima puntata delle sua trilogia sulla Storia d'Italia, che prende le mosse dalla disfatta di Caporetto, l'archetipo della catastrofe che sola può portare al riscatto e alla rinascita (un mantra ricorrente nel racconto che la nazione fa di sé stessa a sé stessa), Davide Ferrario è venuta a presentarla qui nel Friuli dove avvenne proprio di questi giorni giusto un secolo fa, regione che più ne ha pagato le conseguenze: a Udine, che fu la "Capitale di guerra" (600 mila morti per cosa? Liberare Trento e Trieste? Bolzano che mai fu né sarà italiana?), al Cinema Visionario, e a Pordenone, che fu in gran parte evacuata (tutta la mia numerosa famiglia a Firenze, ad esempio) a CinemaZero mercoledì 6 scorso. Film in quattro parti, Ferrario prende l'avvio proprio dalla Caporetto originale, nel 1917, facendone raccontare aspetti sconosciuti (ad esempio la triste sorte dei "bastardi di guerra", nati dagli stupri seguiti alla rotta e all'arrivo dagli austro-germanici e la diffidenza e spesso l'astio con cui venivano accolti oltre Piave i profughi, considerati perlopiù disfattisti quando non degli austriacanti e traditori tout court) da alcuni artisti locali, con riprese tra Redipuglia, Vajont, Monte Grisa, Risiera di San Sabba e Porto Vecchio a Trieste, passando quindi ad altre Caporetto emblematiche: il 1922 con l'avvento del fascismo (conseguenza proprio della prima, sciagurata Guerra Mondiale, a cui ne seguì la logica continuazione con la Seconda) e la relativa Resistenza, nel racconto del musicista reggiano Massimo Zenobi attraverso le vicende del nonno fascista irremovibile della prim'ora e di chi fu protagonista delle lotte partigiane fino alle vendette interne perfino tra questi ultimi fino agli anni Sessanta, frutti avvelenati di una riconciliazione mai avvenuta e di una storia mai del tutto affrontata; terza tappa il 1974 con la strage di Piazza della Loggia a Brescia e la resistenza, anche questa volta, attraverso il ricordo, tenuto vivo con tenacia dai famigliari delle vittime lungo l'arco di ormai più di 40 anni e una serie interminabile di processi alla ricerca di una giustizia che ha tardato ad arrivare, e che ha coinvolto e coinvolge tutta la cittadinanza, compresi i nuovi italiani, anche se nati all'estero o di etnia non padana; infine, ai giorni nostri, un'altra catastrofe incombente, raccontata dal "paesologo" Franco Arminio, la crisi demografica che porta allo spopolamento e alla desertificazione delle comunità montane, specie quelle appenniniche, prendendo a esempio la zona tra l'Irpinia e la Basilicata. "A cosa servono i morti" è la domanda che ci si è posta all'inizio di questo film-dociumentario, a cui fa da contrappunto quella speculare "a cosa servono i vivi" che prende il sopravvento verso la fine, e la risposta spetta a ognuno di noi, almeno a pensarla: Cento anni serve esattamente a questo. Un lavoro ben fatto, senza fronzoli, ben calibrato, educativo, quanto mai necessario. Grazie a Davide Ferrario, a chi ha collaborato al film e a chi lo ha prodotto.

venerdì 8 dicembre 2017

Miseria e nobiltà


"Miseria e nobiltà" di Michele Sinisi e Francesco Maria Asselta dal testo di Eduardo Scarpetta. Regia di Michele Sinisi. Con Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D'Addario, Giulia Eugeni, Francesca Gabucci, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Bruno Ricci, Michele Sinisi. Produzione Elsinor, Centro di Produzione Teatrale. Al Teatro Palamostre di Udine.
Felice reinterpretazione della celebre commedia in tre atti scritta in napoletano da Eduardo Scarpetta nel 1887, lo spettacolo messo in scena da Sinisi (che lo dirige anche in scena nei panni di Peppeniello, maneggiando una misteriosa botola luminosa che si sposta di qua e di là e che, aprendosi e chiudendosi all'improvviso, segna cambi di tempi, di scena e di prospettiva), che aveva debuttato a Milano due anni fa, la ripropone non tanto in chiave attuale quanto come una sorta di sintesi di tutte le versioni in cui è stata proposta nel corso del tempo diventando un archetipo del teatro italiano: da quella originale, a quella radiofonica, a quella in pellicola (il film di Mario Mattioli con protagonisti Totò e Sofia Loren è del 1954) e conosiuta ai più. La farsa, un meccanismo perfetto per catturare l'attenzione dello spettatore senza dargli tregua, è erede diretta della commedia dell'arte combinata alla tradizione napoletana: qui la lingua partenopea dell'originale viene sostituita da una miscellanea di accenti italici diversi, dal pugliese all'emiliano, al lombardo, al campano, a raccontare l'arcinota vicenda dello scrivano Felice Sciosciammocca e del suo compare Pasquale che, vivendo di stenti e non sapendo a quale santo votarsi per nutrire le rispettive famiglie, vengono miracolati dalla richiesta di un giovane marchese di prestarsi, insieme ai propri famigliari, a travestirsi da nobili sostituire i parenti del proprio casato, contrari alla sua relazione con Gemma, figlia di un cuoco arricchito, per estorcere a quest'ultimo, rozzo e ignorante, il consenso alle nozze, in cambio di un sontuoso pasto (l'abbuffata di maccheroni diventata iconica con Totò) e di ben tre anni di mantenimento a casa del credulone. Colpi di scena, equivoci e trovate lessicali, calembour a getto continuo in dialoghi dal ritmo sincopato; sogno e realtà, passaggio repentino dalla condizione di miserabile a quella di nobile e ritorno, differenze e similitudini, tra apparenze, inganni e vocazione al "tirare a campare" tra due mondi diversi ma simili, separati ma al contempo comunicanti. Una radiografia precisa dei rapporti sociali e personali che rimane attuale perché è quanto c'è di immutabile in un Paese che, in questo campo, non è mai cambiato finora. E se lo farà radicalmente, annullandosi nella cannibalizzante omologazione in atto, non è certo per il meglio. Palestra ideale per mettere alla prova le capacità degli interpreti da tutti i punti di vista, gli undici attori dell'affiatata compagnia vista all'opera ieri sera a Udine, Sinisi compreso, la superano di slancio. Peccato soltanto per il pubblico sotto le attese: chi c'era, ha apprezzo e si è divertito; chi è rimasto a casa si è perso uno spettacolo all'altezza.

mercoledì 6 dicembre 2017

Amori che non sanno stare al mondo

"Amori che non sanno stare al mondo" di Francesca Comencini. Con Lucia Mascino, Thomas Trabacchi, Carlotta Natoli, Valentina Bellè, Camilla Semino Favro, Iaia Forte. Italia 2017 ★★★
Credo che nessuno, se non l'autore stesso, avrebbe potuto adattare meglio allo schermo un proprio romanzo e quindi ecco la poliedrica e brava Francesca Comencini cimentarsi nel racconto di un "amore che non sa stare al mondo", quello durato sette anni tra due docenti universitari di lettere che si sono conosciuti punzecchiandosi a un convegno e innamorandosi durante il pranzo che ne è seguito quando Claudia, che inizialmente aveva visto in Flavio (Thomas Trabacchi, che rende con garbo e misura il frastornato maschio di turno), un fascinoso quanto vanesio baronetto della facoltà, lo conquista con la spontaneità con cui, dopo avergli dato dello stronzo, si dichiara perdutamente innamorata di lui, senza (apparenti) difese. Una storia lunga e tormentata come tante, con un epilogo banale come tanti, con l'uomo di mezza età che si sente messo in continua discussione su ogni cosa e al centro delle contraddittorie aspettative della compagna e, incapace e stanco di affrontare una contraddittorio continuo, gli altalenanti umori e le piazzate di lei, sceglie la fuga dalle angosce e trova sicuro rifugio e tranquillità nel rapporto con una ragazza più giovane, Giorgia, che gli si affida come a una figura paterna, mentre Claudia non se ne fa una ragione, lo tempesta di messaggi per ricordargli che si amano per davvero e che la loro storia non può finire, rasentando uno stalking dagli aspetti grotteschi; il tutto però affrontato dall'autrice e regista senza alcuno schematismo di genere, anche se il punto di vista affrontato, e con sguardo tutt'altro che compiacente, è del tutto al femminile, concentrandosi non solo su Claudia, interpretata nella sua molteplicità a volte sconcertante di toni da Lucia Mascino, ma anche su Nina (Valentina Bellè), una ballerina già sua allieva, un nuovo (altrettanto impossibile?) amore ad alleviare la presa di coscienza della definitiva fine della storia con Flavio, la collega e confidente (Carlotta Natoli), la "rivale" Giorgia (Camilla Semino Favro). Francesca utilizza i toni della commedia con una continua variazione di toni dal brillante al drammatico inserendo pure dialoghi immaginari e sgranati filmati di vecchie superotto, con stereotipate immagini felici di coppie d'antàn. Un tema affrontato un'infinità di volte ma in questo caso in modi del tutto originale e per niente banale. 

lunedì 4 dicembre 2017

Assassinio sull'Orient Express

"Assassinio sull'Orient Express" (Murder on the Orient Express) di Kenneth Branagh. Con Kenneth Branagh, Penelope Cruz, Willem Dafoe, Johnny Depp, Judy Dench, Josh Gad, Derek Jakobi, Leslie Odon, Michelle Pfeiffer e altri. USA 2017 ★★★
Forse non era strettamente necessaria una nuova versione del più famoso romanzo di Agarha Christie, dopo quella diretta da Sidney Lumet e uscita sugli schermi nel 1974 con un cast memorabile e che contribuì non poco a rendere ancor più popolare l'impareggiabile giallista inglese, ma quella diretta da Kenneth Branagh, che interpreta anche da par suo Hercule Poirot, ha una sua dignità e un tono leggermente diverso e più "filosofico". La  vicenda, universalmente nota, ruota attorno al misterioso e sanguinoso assassinio di un ambiguo uomo d'affari americano avvenuto sullo storico treno che collegava Istanbul a Parigi (e, da lì, a Londra) nel tratto balcanico del percorso, e alla indagine che il celebre detective belga compie mentre il treno è fermo su un ponte per un deragliamento causato da una slavina. Riuscirà il nostro eroe a scoprire l'assassino o forse gli assassini? Ambientato anche questo adattamento a metà degli anni Trenta e piuttosto fedele al testo originale, presenta un Hercule Poirot meno macchiettistico e isterico ma forse più mitteleuropeo, se non anglosassone, e Kenneth Branagh sfoggia un paio di sontuosi baffi a manubrio argentati che probabilmente avrebbero soddisfatto Agatha Christie e che, sul volto di Albert Finney, nel film di Sidney Lumet, non l'avevano del tutto soddisfatta (mentre aveva dato complessivamente il suo placet alla pellicola per quanto riguarda il resto). Convincenti le interpretazioni di Johnny Depp, Judy Dench e, soprattutto, Michelle Pfeiffer, ma il cast che il regista americano aveva a disposizione era complessivamente a un altro livello. Un film comunque più che dignitoso e che si vede con piacere, di cui è Branagh stesso ad annunciare il sequel sul Nilo nel finale, con l'auspicio che regista e interprete del personaggio principale resti lui. Per l'imminente Ponte dell'Immacolata, se rimane nelle sale, sicuramente un'ottima scelta.

sabato 2 dicembre 2017

Easy to remember


"Easy to remember" di Ricci/Forte. Drammaturgia di Ricci/Forte; regia di Stefano Ricci; movimenti di Piersten Leirom. Con Anna Gualdo e Liliana Laera. Produzione Ricci/Forte. Al Teatro San Giorgio di Udine per Teatro Contatto 36.  
Prima nazionale a Udine, all'apice di una intensa e fruttuosa collaborazione triennale con il CSS-Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, del nuovo lavoro della premiata ditta di drammaturghi e registi nostrani, che prende spunto dalla figura della poetessa russa Marina Cvetaeva, spirito libero e insofferente, che pagò con una vita di incredibili stenti e di dolore, culminata col suicidio nel 1941, la sua scelta di indipendenza e di totale dedizione all'arte. Non un convenzionale racconto biografico, ma uno spunto per comporre una trama di memoria attraverso frammenti di ricordi di una vita di solitudine e di emarginazione: due donne in una camera, riferimento al centro di rieducazione staliniano di cui la Cvetaeva fu ospite a partire dal 1939, immersa in una luce abbagliante e velata da una sorta di zanzariera che separa la scena dal pubblico rendendola a tratti opalescente; la poetessa (Anna Gualdo) seduta in una carrozzella a ripercorrere pezzi di passato; un'algida infermiera ad assisterla inizialmente muta, poi parlante e a dar voce (meccanizzata) a un pupazzo che rappresenta una figura maschile (Efron, l'ex marito, un ex militare "bianco" coinvolto nell'omicidio di Trockij in Messico? L'Autorità?) ad estrarre da una bara degli oggetti di plastica gialli, forse dei girasoli, a conferire un tocco naturale e di colore in una realtà anestetizzata e agghiacciante, radiografie umane proiettate sullo schermo. Memoria smembrata, personalità schizoide e realtà alienata: un tema ricorrente nelle produzioni Ricci/Forte, riproposto ancora una volta in maniera spiazzante e originale in uno spettacolo che tanto più è coinvolgente, quanto più ci si abbandona alle suggestioni dei suoni e al flusso di parole senza cercarne un senso immediato, che viene invece a galla nel suo insieme alla fine della rappresentazione.