mercoledì 29 novembre 2017

L'importanza di chiamarsi Ernesto


"L'importanza di chiamarsi Ernesto" di Oscar Wilde. Regia, scene e costumi di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; luci di  Nando Frigerio, suono di Giuseppe Marzoli. Con Ida Marinelli, Elena Russo Arman, Giuseppe Lanino, Riccardo Buffonini, Luca Torraca, Cinzia Spanò, Camilla Violante Scheller, Nicola Stravalaci. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 10 dicembre.
Domenica 3 dicembre Wild(e) Day, maratona teatrale dalle 15.30 a mezzanotte dedicata a Oscar Wilde.
Scoppiettante, intelligente, profonda nella sua satira feroce quanto lieve nella forma della falsa morale vittoriana, la versione pop di una delle più belle e tra le più rappresentate commedie al mondo proposta da Bruni e Frongia è in realtà estremamente rigorosa nella sua aderenza al testo di Oscar Wilde, che è un gioco di parole fin dal titolo (i registi ipotizzano una traduzione dell'inglese Earnest con Franco, nome e aggettivo che coincidono, che taglierebbe la testa al toro), introducendo nel gioco delle parti anche il tema del doppio, con chiaro riferimento alla vita binaria condotta da tanti presunti integerrimi gentiluomini (e gentildonne) di quell'epoca, come del resto in quella odierna: vizi privati e pubbliche virtù, un eterno ritorno. Rappresentata per la prima volta a Londra il 14 febbraio del 1895 (San Valentino) la commedia in tre atti vede protagonisti due dandy e amici: un nobile spiantato, Algernon (il frizzante Riccardo Buffonini), e un trovatello che ha acquisito la nobiltà dopo un'adozione, Jack (Giuseppe Lanino), e le rispettive innamorate, la giovanissima Cecily (Camilla Violante Scheller), sotto tutela del secondo e la più matura Gwendolen (una perfetta Elena Russo Arman), la cugina del primo. Entrambi i bellimbusti hanno un alter-ego: Ernest per Jack e Bunbury per Algy, che tornano utili nelle scorribande del primo a Londra e del secondo in campagna (dove vivono Jack e la figlioccia Cecily), identità di comodo che sono costretti a dismettere, facendoli morire, dopo un irresistibile e surreale susseguirsi di equivoci, per svelarsi alle rispettive innamorate per quello che non sono, Ernest, per l'appunto, cominciando a essere finalmente Earnest, ossia onesti, sinceri, franchi. A completare il quadro, tre figure che non sono di semplice contorno: Lady Bracknell (una strepitosa Ida Marinelli), madre di Gwendolen e zia di Algy; Miss Prism (Cinzia Spanò), la matura istitutrice di Cecily, che in gioventù era stata bambinaia presso Lady Bracknell e si era "persa" il bambino affidatole a Victoria Station, guarda caso il trovatello Jack che dunque si scopre di nobili origini nonché fratello di Algy, e il reverendo Chasuble (l'ineffabile Luca Torraca) che sbava per lei; in tutto questo non poteva mancare il maggiordomo, che però risulta incolpevole, interpretato da Nicola Stravalaci. Adattamento pop, con musiche anni Sessanta, in particolare Rolling Stones in versione Swinging London (come gli abiti di scena e i mobili di design d'epoca), un meccanismo perfetto in cui si vede che gli interpreti sono i primi a divertirsi a fare quel che fanno. 

domenica 26 novembre 2017

Borg McEnroe

"Borg McEnroe" di Janus Metz Pedersen. Con Sverrir Gudnason, Shia LeBoeuf, Stellan Skarsgaad, Tuva Novotny, Ian Blackman, Robert Emms e altri. Svezia, Danimarca, FInlandia 2017 ★★★½
Wimbledon, estate del 1980, tra fine giugno e inizio luglio. Il compassato svedese Borg, 24 enne, aveva già vinto  il torneo quattro volte di fila e, inanellando il quinto successo consecutivo, sarebbe stato incoronato Re di Wimbledon; John McEnroe, l'irascibile e irriverente pel di carota newyorkese di origini irlandesi, di tre anni più giovane, era l'astro nascente del tennis mondiale. Come si arrivò alla finale tra i due, che si incontravano per la prima volta in quell'ocasione, e il racconto di una partita al cardiopalma, rimasta nella memoria di molti, sono l'oggetto di questa pellicola avvincente e ben girata. E' fin troppo banale notare le affinità con Rush, il bel film che raccontava la storica rivalità fra due campioni dell'automobilismo degli anni Settanta, Niki Lauda e James Hunt; anche quella tra Björn Borg e John McEnroe nel tennis fece epoca, solo qualche anno più tardi. La differenza sostanziale sta nel fatto che mentre in Rush i due personaggi avevano uguale rilevanza, in realtà nel film del danese Pedersen, coadiuvato dallo sceneggiatore svedese Ronnie Sandhal, il protagonista è Borg (straordinaria la somiglianza con l'originale di Sverrir Gudnason) coi suoi tormenti, e John McEnroe il comprimario che li mette in luce per contrasto. Se per carattere non potevano essere più diversi, in realtà non solo si stimavano (diventando anche ottimi amici fuori dal campo) ma si riconoscevano l'uno nell'altro ed erano gli unici in grado di capirsi a vicenda, come del resto i loro colleghi della Formula 1, "condannati a vincere" com'erano, uno per motivazioni più interiori, l'altro più condizionato dall'ambiente esterno, specialmente famigliare. E' McEnroe che afferra al volo il segreto del rivale, osservandolo: una pentola a pressione che tiene tutto dentro, da lì l'apparenza glaciale, e sfoga tutta la sua rabbia ed energia (pur sempre controllata) nel gesto atletico: Borg dal canto suo, e il suo allenatore (a sua volta ex tennista svedese di buona fama) che lo segue dall'infanzia, sanno che smetterà di giocare nel momento in cui verrà detronizzato dal giovane rivale (cosa che accadde l'anno successivo, sempre a Wimbledon): fino a quel momento, sempre e solo "di testa", andrà alla conquista di un punto per volta, passo dopo passo, implacabilmente. Eppure tutt'altro che una macchina era Borg, preso da fissazioni e scaramanzie che nessuno sospetterebbe mai in uno scandinavo, e meno che mai in colui che la retorica dei media del tempo aveva dipinto come l'uomo di ghiaccio, una specie di automa in confronto dello scavezzacollo mancino "puro talento". Oltre a una credibile ricostruzione dell'epoca e dell'ambiente, a un ritmo sostenuto e con riprese pregevoli da un punto di vista sportivo, il film racconta anche l'epoca di passaggio dal tennis come sport per gentlemen a fenomeno di massa con protagonisti delle star mediatiche: ché in tali furono trasformati dalla stampa e dalla TV due personaggi che, Borg ancora meno di McEnroe, erano consoni al vecchio ambiente tennistico d'élite. Un buon film che racconta con fedeltà un ambiente e un periodo di cambiamenti, non solo nel tennis. 

mercoledì 22 novembre 2017

Pinter's Anatomy


"Pinter's Anatomy" di Ricci/Forte. Drammaturgia Ricci/Forte; regia Stefano Ricci, movimenti Piersten Leirom. Con Giuseppe Sartori, Anna Terio, Piersten Leirom, Simon Waldvogel. Produzione Ricci/Forte - CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia. Al Teatro San Giorgio di Udine il 22, 23, 24 novembre.
Riproposizione con una diversa formazione di protagonisti, quattro performer dotati di una straordinaria fisicità, di uno spettacolo creato appositamente per il CSS otto anni fa nell'ambito del Progetto Living Thing: Harold Pinter, in cui il sempre frizzante duo di drammaturghi, da tempo tra i più innovativi e provocatori della scena italiana, si confronta con le tematiche più care del grande autore inglese, già meritevole Premio Nobel per la letteratura, specie quelle più marcatamente politiche delle ultime opere, che hanno a che vedere essenzialmente col linguaggio come mezzo di potere e quanto questo possa diventare manipolatorio, violento, mistificante del ricordo e della stessa percezione che la persona ha di sé stesso e del passato. Uno spazio claustrofobico, i camerini del teatro, composto da un check-point di confine, un obitorio, una stanza con un albero di Natale, la ricostruzione della prima esperienza sessuale da due diversi punti di vista, a dimostrare quanto la memoria non sia condivisa, e quanto i ricordi cancellabili o alterabili solo per adeguarsi agli standard di un mondo plastificato che impone di farne a meno in nome di una omogeneizzazione che nulla ha a che vedere con l'uguaglianza e la parità ma piuttosto con l'asservimento e la cancellazione della propria personalità e specificità, anche culturale: per farne parte non dobbiamo essere portatori di alcun valore o caratteristica, in sostanza bisogna rinunciare a essere individui con una storia. Altrettanto evanescenti risultano le connessioni tra le persone, inevitabilmente ricondotte a rapporti di potere. Ad esprimere questa realtà schizoide, una performance tanto più corporea, intensa e coinvolgente quanto più "intima": a fruirne, per la durata di 35' mozzafiato con sottolineature musicali particolarmente azzeccate, come ormai tradizione per Ricci/Forte, 8 spettatori per volta immersi nella scena in cui operano i quattro ottimi interpreti. A rappresentazioni come queste è impossibile rimanere indifferenti e, per quanto mi riguarda, ne rimane sempre traccia perché toccano nervi scoperti e agiscono nel profondo. Le trovo ogni volta esperienze da affrontare, benché scomode, perché smuovono qualcosa nel profondo. Alla prossima, tra breve.

domenica 19 novembre 2017

Copenaghen


"Copenaghen" di Michael Frayn. Traduzione di Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi, regia di Mauro Avogadro. Con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Giuliana Lojodice. Scene di Giacomo Andrico; costumi di Gabriele Meyer; luci di Giancarlo Salvatori; musiche di Andrea Liberovici. Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione - CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli-Venezia Giulia.
Un balsamo per il cuore e un tonico per la mente questa immersione in un'immaginaria aula di fisica, una scenografia fatta di lavagne con formule matematiche alle spalle di un palco con quattro sedie di metallo, utilizzate e spostate all'occorrenza dai tre magnifici interpreti, che immaginariamente rievocano, post mortem, un incontro realmente avvenuto nel settembre del 1941 nella capitale della Danimarca ai tempi occupata dai nazisti, fra due premi Nobel per la fisica, entrambi tra i fondatori della meccanica quantistica, con Werner Heisenberg (Massimo Popolizio), padre del principio di indeterminazione, a capo del programma atomico di Hitler, a rendere visita al suo mentore e vecchio maestro Niels Bohr (Umberto Orsini), a malapena tollerato dagli occupanti in quanto mezzo ebreo. Terza voce, a fare da moderatore ma per nulla neutrale, la moglie di Bohr, Margrethe, per cercare di chiarire quale fu il motivo per cui quella visita tra maestro e allievo, tra cui esisteva un rapporto simile a quello tra padre e figlio, con tutte le contraddizioni che gli sono proprie, si concluse bruscamente con la rottura dell'antico sodalizio tra i due, motivo mai chiarito dalle parti in causa mentre erano ancora in vita. La vicenda viene ricostruita da ciascuno dei personaggi secondo il proprio punto di vista che, a parte quello piuttosto manicheo di Margrethe, è piuttosto indeterminato, a proposito del principio fisico che sta alla base della visione di Heisenberg e condiviso dallo stesso Bohr, e la discussione fra i tre, fra ricordi, ipotesi scientifiche, quesiti filosofici, influenzata da elementi e considerazioni contraddittori, ruota alla fine sull'eticità della ricerca in generale e per i dilemmi morali che pone in particolare quella sulla fissione nucleare in quel tempo di guerra. Fino a che punto ci si può spingere? E' o no la scienza responsabile dell'uso che viene fatto delle sue scoperte? Forse il rapporto fra i due luminari si era già deteriorato prima di quel fatidico incontro a Copenaghen senza che se ne accorgessero a causa di rancori non sopiti e di scelte diverse, come pare sostenere Margrethe, e forse la causa della rottura non fu proposta indecente avanzata da Heisenberg. Il quale forse ebbe più di uno scrupolo nel portare a termine le sue ricerche: egli confermò a Bohr in quell'occasione che Hitler stava puntando alla costruzione di un'arma definitiva dicendosi però certo che non ci sarebbe arrivato, come poi fu; in compenso Bohr successivamente ebbe una parte nel progetto Manhattan, trasferendosi negli USA, il cui governo decise di sperimentare la bomba su Hiroshima prima e Nagasaki tre giorni dopo, a guerra praticamente già vinta: un massacro perfettamente gratuito, un crimine di cui non hanno mai pagato il conto. Teatro semplice, magistralmente efficace, nonostante la complessità delle questioni poste sul tappeto: che fa riflettere. Essenziale la messa in scena, tre attori straordinari per nitore, ritmo, capacità di immedesimazione. Sala piena, all'Auditorium Zanon di Udine ieri sera, pubblico ipnotizzato e plaudente, che sarebbe stato pronto per un bis.  

sabato 18 novembre 2017

The Big Sick

"The Big Sick" di Michael Showalter. Con Kumail Nanjiani, Zoe Kazan, Holly Hunter, Ray Romano, Anupam Kher, Zenobua Shroff e altri. USA 2017 ★★-
Quando, giustamente, davanti all'ennesima commedia all'italiana, o francese, o spagnola, con le loro eterne macchiette e i luoghi comuni, e lasciando perdere le derive cinepanettonesche, si grida alla solita solfa, non si vede per quale motivo quando viene propinata l'ennesima storiella romantica con contorno di malattia di uno dei due che funge da deus ex machina per il lieto fine della storia d'amore altrimenti impossibile bisogna gridare al miracolo soltanto perché arriva dagli USA e perché è il trionfo del buonismo politicamente corretto. Questo e poco altro è The Big Sick, che porta sullo schermo la vita vera degli sceneggiatori Kumail Nanjiani Kazan, che ne è anche l'interprete principale, e la moglie Emily V. Gordon (Gardner nel film: non si capisce perché sia ia fatta sostituire da Zoe Kazan), che dalla sua ha soltanto il buon ritmo e la simpatia dei caratteristi a cui è affidata una trama tanto gracile quanto banale. Kumail, un giovane d'origine pachistana trascinato non si capisce perché negli USA dai genitori, è un aspirante cabarettista che di giorno fa l'autista di Uber a Chicago, e durante una recita viene interrotto nel suo monologo, zeppo di sconfortanti banalità, da Emily, una spiritosa studentessa che aspira, ma guarda caso, a diventare psicoterapeuta. Inizia una relazione di sesso-e-simpatia che regge finché viene mantenuta a livello di disimpegno, perché Kumail in realtà deve destreggiarsi nello sfuggire alla schiera di fanciulle pachistane che gli vengono sottoposte dai genitori, e in particolare dalla madre, a ogni pranzo famigliare a cui partecipa, e si guarda bene dal confessare ad Emily che non ha mai pensato di presentarla alla sua famiglia che dà per scontato che accetti un matrimonio combinato, come vuole la tradizione. Quando Emily lo scopre, il loro rapporto va in fumo ma lei si ammala a causa di un morbo misterioso fino a entrare in un coma indotto autorizzato proprio da Kumail (presente all'ospedale al momento del ricovero e che s ifa passare per un parente), che l'assiste fin dal primo momento. Lì conosce i genitori di Emily e durante la lunga e delicata degenza di Emily comincia a rendersi conto dell'importanza della loro storia e delle sue ambiguità, fino a decidersi a chiarire la sua posizione con la propria famiglia: in quest'occasione l'unico spunto apprezzabile di tutto il film, quando lui chiede ai genitori, senza avere risposta, il motivo per cui lo hanno portato negli USA, di cui conoscevano la diversità di costumi rispetto al Pakistan, imponendogli di diventare americano ma con lo sguardo al passato, portandosi dietro usanze e credenze che non ha più. Tutto il resto è scontato, situazioni e battute trite e ritrite: una riedizione buonista e multi-culti delle commedie romantiche degli anni Novanta tipo Harry, ti presento Sally, dove i pachistani svolgono il ruolo stereotipato che là era esclusiva degli ebrei newyorchesi. Un sorriso stentato e poco altro: robetta. 

giovedì 16 novembre 2017

The Square

"The Square" di Ruben Östlund. Con Claes Bang, Elisabeth Moss, Dominic West, Terry Notary,  Christopher Laesso, Annika Liljeblad e altri. Svezia, Danimarca, USA, Francia 2017 ★★★★★
Mi tocca ammettere che su Ruben Östlund mi ero sbagliato: il suo precedente lavoro, Forza maggiore, mi era sembrato piuttosto inconcludente e masturbatorio, abbastanza in linea con l'idiotismo che domina la società scandinava, anche quando ne metteva in evidenza, sbertucciandole, gli aspetti più malsani; in quest'occasione, con un film più strutturato (per quanto volutamente sincopato, senza une vera e propria trama, a seguire una serie di eventi che sfuggono al controllo del personaggio principale), si rivela una vera pecora nera, una voce fuori dal coro perbenista e politicamente corretto, dalla visione acuta e capace di mettere alla berlina tutta una serie di ipocrisie e luoghi comuni del milieu pseudo culturale e progressista (si fa per dire) e dei media che lo blandiscono sputtanandone la pretesa di essere depositario di un'arte, quella contemporanea e posticcia che si muove in una dimensione completamente fuori dalla realtà, che ha pure la pretesa di spiegarla e di essere, quindi, autentica, oltre che necessaria. Il nostro eroe è Chiristian (il fin qui sconosciuto Claes Bang: notevole), il bello, vanesio, "distrattamente" elegante, infantile curatore dell'X-Royal, museo d'arte contemporanea collocato nell'ex palazzo reale di Stoccolma, e la vicenda ruota attorno al prossimo "evento" in programma, l'installazione "Square", opera di un'artista argentina, un quadrato di quattro metri per lato delimitato da una banda luminosa collocata nella piazza, pavimentata a porfido, antistante l'ingresso principale del museo, che vuole essere un santuario di fiducia e altruismo al suo interno dove tutti hanno gli stessi diritti e doveri, una zona franca, insomma, ben'altra rispetto al mondo circostante eppure inserita in esso, insomma una classica sega mentale come pressoché tutto ciò che ruota attorno all'arte contemporanea, almeno quella istituzionalizzata. Per lanciarla, vengono ingaggiati due giovani creativi, che puntano a un evento faccia parlare dell'"evento" e non trovano di meglio che proporre un video destinato a diventare virale sui social, tanto sarà dirompente e disturbante. E che, mandato in rete sul sito del museo, puntualmente scatenerà un coro di proteste da parte dei media che porteranno (forse) alle dimissioni di Christian il quale, preso dalle vicende seguite al furto e al successivo recupero dello smartphone, del portafogli e di un paio di gemelli d'ori del nonno, colpevolmente non aveva supervisionato il video. In mezzo, il cicaleccio delle presentazioni, dei briefing, delle interviste vuote, delle serate che in un caso finiscono nel letto di una giornalista che vive con uno scimpanzè e che svela Christian in tutta la sua superficialità, delle cene di gala in onore dei donatori (magistrale quella in cui un uomo scimmia, il bravissimo Terry Notary, già protagonista di un'installazione video che compare in più di un'occasione, viene sguinzagliato tra i tavoli "dal vero" a terrorizzare gli imbalsamati e ingioiellati convenuti, finendo per scatenare la vera "bestia" che è in essi), fino alla conferenza-stampa finale in cui da un lato Christian deve difendersi dalle accuse di scorrettezza politica, dall'altro di limitare la libertà d'espressione. Il tutto in un continuo ed esilarante corto circuito fra buone intenzioni e parole (alate quanto vuote) che vogliono illustrarle e realtà, tra apparire ed essere, condito sempre con qualche elemento spiazzante e apparentemente incongruo a punteggiare il caos. Due ore e venti di film che però non innescano mai stanchezza e noia, con la certezza fin dal primo momento che la sorpresa è in agguato. Qualcuno ha ricordato Marco Ferreri, a proposito di questo questo The Square che ha meritatamente conquistato la Palma d'Oro questa primavera a Cannes e il paragone non è irriverente nei confronti del compianto maestro. Entrato in sala perplesso, ne sono uscito con un sorriso beffardo sulla labbra, il cuore leggero e l'animo soddisfatto: qui siamo a livelli molto alti. Bravissimi tutti: imperdibile.

martedì 14 novembre 2017

Siamo seri

Se questi “TOP SPONSOR” della nazionale di calcio italiana sono l’eccellenza del Paese (chiedere ai rispettivi clienti per credere), dove cazzo pensavamo di andare? Mission Impossible.

lunedì 13 novembre 2017

The Place

"The Place" di Paolo Genovese. Con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alessandro Borghi, Silvia D'Amico, Giulia Lazzarini, Vinicio Marchioni, Silvio Muccino, Rocco Papaleo, Vittoria Puccini, Alba Rohrwacher, Sabrina Ferilli. Italia 2017 ★★★
Non così convincente come il precedente Perfetti sconosciuti, con cui peraltro ha molti punti in comune, e probabilmente non ne ripeterà il clamoroso e inaspettato successo, però Paolo Genovese conferma di saperci fare e confeziona un  film che, pur essendo romani sia lui sia, in prevalenza, gli interpreti che ha scelto con occhio felice, non è per nulla romanocentrico né gioca su tratti del carattere e fissazioni puramente italiani: fatta anche in questo caso la scelta dell'unità di luogo, l'azione si svolge tutta all'interno di The Place, come si chiama il bar-tavola calda in fondo al quale siede in permanenza, alle prese con un grosso quaderno nero in cui a volte scrive e che altre consulta, un uomo riservato quanto impenetrabile, interpretato come meglio non avrebbe potuto da Valerio Mastandrea, da cui si recano in processione nove personaggi che non potrebbero essere più diversi, perché lui ha il potere di esaudire desideri, qualsiasi desiderio: in cambio, chiede soltanto una buona azione, che sceglie ad hoc consultando i suoi appunti, e che danno la sensazione di essere delle simboliche punizioni anticipate, dei contrappassi, per le richieste, a volte decisamente peccaminose, degli interessati. C'è chi chiede di riavere nelle sue piene facoltà il marito colpito da Alzheimer, chi la guarigione del figlio da un handicap, chi il riaccendersi del rapporto col marito, chi quello col figlio, chi la bellezza che pensa di non avere, chi di tornare a sentire la presenza di Dio e chi di riacquistare la vista, chi ancora il realizzarsi del proprio sogno erotico di carta: tutto è possibile, pagando adeguato pegno, questo è il contratto, da cui è possibile in ogni momento recedere, a patto di rinunciare al desiderio si è andato a chiedere. Chi è l'ambiguo personaggio? Un angelo o un demone? Un sorta di Doktor Faust alle prese ogni giorno con le debolezze umane? Stremato vieppiù nel constatare fino a che punto si è disposti ad arrivare pur di vedere realizzati i propri desideri? A fare eccezione la donna che gestisce il bar, l'unica che invece di chiedere qualcosa si limita ad aspettare, nel suo caso l'amore. Anche in questo caso si tratta di fatto di teatro filmato, e la riuscita è affidata alla bravura degli attori, i tratti dei cui personaggi sono solo abbozzati, alcuni un po' troppo vagamente; e la vicenda funziona e si volge abbastanza fluidamente nonostante alcuni intoppi nella sceneggiatura, non così cronometricamente precisa come nel film precedente, e anche in questo caso manca un tocco di cattiveria in più che non sarebbe guastato a tinteggiarla ulteriormente di nero. Comunque mi sono divertito e il film, tratto da una serie televisiva americana, non è male ed è sufficientemente originale e spiazzante. 

giovedì 9 novembre 2017

Atti osceni - I tre processi di Oscar Wilde


"Atti osceni - I tre processi di Oscar Wilde" di Moises Kaufman. Traduzione di Luci De Capitani; regia, scene e costumi di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; Luci di Nando Frigrerio; suono di Giuseppe Marzoli. Con Giovanni Franzoni, Riccardo Buffonini, Ciro Masella, Nicola Stravalaci. Giuseppe Lanino, Giusto Cucchiarini, Filippo Quezel, Edoardo Chiabolotti, Ludovico D'Agostino. Produzione Teatro dell'Elfo. Fino al 12 novembre al Teatro Eflo/Puccini di Milano.
Non stupisce che Oscar Wilde, la cui attualità è perfino superfluo sottolineare, sia uno degli autori di riferimento di un gruppo teatrale particolarmente attento agli autori anglosassoni come quello dell'Elfo: ricordo l'emozionante e intensa Salomè messa in scena due anni fa, come anche la lettura Il fantasma di Canterville che Ferdinando Bruni riproporrà nelle prossime settimane (21 novembre - 3 dicembre) e, a partire dalla fine della prossima settimana (17 novembre - 10 dicembre), L'importanza di chiamarsi Ernesto, sempre per la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Qui, quasi a introdurre il personaggio, la cui conoscenza è spesso superficiale e limitata al suo dandysmo nonché alla capacità di inventare aforismi fulminanti, si è deciso di proporre al pubblico italiano un testo del drammaturgo venezuelano-americano Moises Kaufman, che lo mette al centro in prima persona, magnificamente interpretato da Giovanni Franzoni, di cui peraltro è impossibile non notare la somiglianza fisica con uno dei più noti ritratti di Wilde che campeggia nell'ultima scena, quando tutti gli attori gli si rivolgono, spalle al pubblico, per un silenzioso omaggio. L'occasione sono i tre processi per atti osceni subiti da Oscar WIlde nel 1895 e che portarono alla dura condanna di due anni ai lavori forzati a causa della sua omosessualità, inevitabile per un uomo che ha denunciato nella vita come nelle opere l'ipocrisia e la doppia morale vittoriana; processi che vengono ricostruiti attraverso la narrazione degli interpreti, che a loro volta diventano anche personaggi, secondo il loro personale punto di vista: dell'accusa come della difesa oltre che testimoni a favore e contro, a cominciare dall'esilarante esibizione del gruppo di "ragazzi di vita" di varia estrazione sociale e compagni di bagordi pronti a tradirlo e dall'ambigua figura dell'amico-amante Lord Alfred Douglas, responsabile più o meno consapevole della condanna e della rovina dello scrittore. Processi e conseguente condanna esemplare di un autore "fuori dal coro" che ha sempre rivendicato l'assoluta libertà di ispirazione e creazione e che considerava la sua stessa vita come una forma d'arte; mentre nel testo di Kaufman vengono sottolineate e messe in bocca a Wilde stesso non solo le sue concezioni estetiche, ma anche quelle filosofiche e politiche, tutt'altro che banali, attraverso brani tratti da opere meno note come Il Rinascimento Inglese dell'Arte e L'Anima dell'Uomo sotto il Socialismo. Soprattutto, neanche un accenno di pappa buonista e politically correct sulla questione dell'omosessualità, anzi: fieramente rivendicata in nome di un'etica e di un'estetica a cui si è fedeli, e per la quale non viene chiesto alcun riconoscimento o permesso da parte di un'autorità che si disprezza. Spettacolo palpitante, vivo, coinvolgente, ineccepiblle da qualsiasi punto di vista, da non perdere.

lunedì 6 novembre 2017

Una questione privata

"Una questione privata" di Paolo e Vittorio Taviani.  Con Luca Marinelli, Lorenzo Richelmy, Valentina Bellè, Francesca Agostini, Jacopo Olmo Antinori. Italia, Francia 2017 ½
Ennesimo adattamento letterario nella loro interminbabile carriera e, per quanto mi riguarda, ennesima occasione in cui mi chiedo il motivo per cui il cinema dei Fratelli Taviani (una specie di marchio COOP) sia tanto osannato. Dalla critica, s'intende, in particolare quella militonta di matrice ex comunista, molto meno dal pubblico. Della loro produzione ho apprezzato davvero un solo film: Cesare deve morire, che peraltro era un documentario su uno spettacolo teatrale realizzato da detenuti nel carcere di Rebibbia, e solo per la parte che li vedeva in scena: tutto il resto è noia, velleitarismo e artificio, benché ci provino ogni volta a inserire elementi ironici (che quasi nessuno è in grado di cogliere realmente), semplicità, realismo. Anzi: più insistono sul vero e sull'autentico e più risultano posticci. L'impressione è sempre di assistere a qualcosa di stantìo, scollegato, senza ritmo: c'è immobilità anche nell'azione, che pure in Una questione privata, tratto da un romanzo incompiuto di Beppe Fenoglio, esiste. Perfino interpreti bravissimi e intensi  come Luca Marinelli (l'unico motivo che mi abbia motivato a vedere la pellicola, dando per scontato che avrebbero rovinato il mio amato Fenoglio) mostrano la  corda e sembrano recitare roboticamente. Marinelli è Milton, uno studente che fa parte della resistenza badogliana nelle Langhe, che capitando nella villa dove aveva conosciuto e s'era innamorato di Fulvia, una studentessa torinese sfollata, viene a sapere dalla custode che forse c'è stata una relazione tra lei e il suo migliore amico, Giorgio, anche lui partigiano, ma in una formazione diversa dalla sua. Per scoprire la verità va a cercarlo, e quando Giorgio viene catturato dai repubblichini il pensiero diventa doppiamente ossessivo e parte alla disperata caccia di un fascista da catturare a sua volta e scambiare con l'amico. Ecco: sul lato umano, personale di chi aveva partecipato alla lotta partigiana aveva scritto in questo romanzo Fenoglio, come ne Il partigiano Johnny, lontani dalla retorica della Resistenza tanto cara al PCI e ai suoi discendenti fino ai giorni nostri, convinti come erano e sono di averne l'esclusiva, e questo traspare sì nel film dei Taviani, ma facendo di Milton un personaggio più che altro grottesco, e anche degli altri non ce n'è uno che susciti un minimo di empatia. Insomma, una cosa di poco spessore e piuttosto squallida che per fortuna dura soltanto 84 minuti che però sembrano il doppio.

sabato 4 novembre 2017

Finché c'è prosecco c'è speranza

"Finché c'è prosecco c'è speranza" di Antonio Padovan. Con Giuseppe Battiston, Teco Celio, Roberto Citran, Silvia D'Amico, Rade Serbedzija, Liz Solari, Vitaliano Trevisan e altri. Italia 2017 ★★★+
Il conte Desiderio Anzillotto è un uomo intelligente, colto, raffinato e allo stesso tempo alla mano e di saldi principi: a una vita mondana e al jet set internazionale ha preferito la fedeltà alle sue radici che affondano nelle colline attorno a Valdobbiadene, come quelle delle viti di prosecco, che coltiva con passione e competenza e senza additivi, al naturale, come pochi ancora fanno. Il suo plateale suicidio, nel cimitero adiacente alla sua magnifica villa e a suoi vigneti, è il primo caso che capita al neopromosso ispettore Stucky della questura di Treviso, mezzo veneziano e mezzo persiano, all'apparenza risolto in partenza perché il nobiluomo ha ingerito un'intera scatola di barbiturici bevendoci sopra una della sue bottiglie scrivendo sull'etichetta di sua mano "bevuta nell'ultimo giorno di battaglia". Di quale battaglia si trattasse, e quale legato testamentario il conte avesse assegnato ad alcune persone di sua massima fiducia, lo scoprirà il pacioso, impacciato, un po' trasandato e apparentemente timido poliziotto a cui dà vita e corpo (in tutti i sensi) e un'anima complessa Giuseppe Battiston, indagando con pazienza e acume quando nello stesso paese viene assassinato prima il titolare di un cementificio altamente inquinante costruito proprio di fronte alla villa di Anzillotto e contro cui quest'ultimo aveva combattuto dalla sua entrata in attività, e poi il tecnico che aveva firmato una relazione rivelatasi falsa sull'innocuità dei residui del combustibile utilizzato per la produzione: raggiunge lo scopo perché riesce, con pazienza, ad entrare in sintonia con gli abitanti del luogo, diffidenti verso i foresti e con una concezione parziale ma in definitiva sana di ciò che è giusto, muovendosi felpatamente tra luoghi, persone, sentimenti, storie personali comprese le sue che lo tormentano. Lungometraggio d'esordio di un giovane cineasta di Conegliano trasferitosi da dieci anni a New York per lavoro e tratto dall'omonimo romanzo di Fulvio Ervas, che lo ha sceneggiato, è un noir (o giallo) a tinte tenui, garbato, senza dettagli scabrosi e la frenesia di quelli metropolitani come Gomorra o Suburra, che pure hanno un loro perché, molto veneto e anzi molto trevigiano, morbido come il paesaggio collinare della Marca Gioiosa dove i patrizi veneziani andavano a godersi i frutti dei loro commerci e a riposarsi dai continui conflitti che li vedevano coinvolti. Per la serie: non si uccide solo a Roma, a Napoli o a Milano, ma anche nella paciosa provincia veneta, e per un motivo ben preciso. C'è chi ha definito il film troppo simile a una puntata di una serie televisiva; io l'ho trovato godibile, lieve, ironico e, pur con qualche ingenuità, aderente allo spirito dei luoghi, che mi sono molto famigliari. 

giovedì 2 novembre 2017

Nico, 1988

"Nico, 1988" di Susanna Nicchiarelli. Con Trine Dyrholm, John Gordon Sinclair, Anamaria Marinca, Thomas Trabacchi, Fabrizio Rongone, Karina Fernandez, Calvin Dembra, Sandor Funtek. Italia, Belgio 2017 ★★★★
Dopo aver visto questo film che racconta gli ultimi due anni di vista di Nico, al secolo Christa Päffgen, seguendola nella sua ultima tournée europea dopo la decisione di proporsi come solista, non apprezzo la celebrata sacerdotessa delle tenebre più di quanto facessi trent'anni fa, ossia per niente, però la capisco meglio e sono molto contento di essermi deciso ad affrontare un personaggio che mi è sempre risultato ostico fino al rifiuto perché Susanna Nicchiarelli, di cui avevo molto apprezzato l'esordio alla regia con Cosmonauta del 2009, si conferma un'autrice di grande valore e capace di rivolgersi a un pubblico più vasto di coloro che conoscevano e  apprezzavano Nico come artista a livello internazionale, perché il film è molto poco italiano. Il fatto che Susanna Nicchiarelli realizzi poche pellicole, in compenso di alto livello, è dovuto probabilmente al modo con cui le prepara, con grande approfondimento nella documentazione, accuratezza nello studio dei dettagli e instaurazione del rapporto con gli interpreti che sceglie con molto acume. Il film ci presenta Nico a 48 anni, nel 1986, quando si ristabilisce in Europa, scegliendo una città relativamente periferica come Manchester, reduce dagli ormai lontani fasti newyorkesi, quando era diventata donna-immagine della Factory di Andy Warhol e simbolo dei Velvet Underground, da questi alla fine mal sopportata per le sue velleità artistiche (a mio avviso piuttosto prive di sostanza) mentre a suo dire ne sarebbe stata emarginata, decisa a continuare da sola e ad esprimere la propria creatività lontana dall'icona costruita su di lei, come se fosse stato contro la sua volontà. Ora, dopo essere stata una modella famosa in tutto il mondo e avendo a che fare con il giro di Warhol ci sarebbe poco da stupirsi, e probabilmente viaggiava con la mente abbondantemente annebbiata da massicce dosi di eroina lontano dalla realtà per non accorgersi di essere parte di una sistematica manipolazione, che alla fine le dev'essere pur stata bene. Quando se ne rese conto, oltre a tornare in Europa, si presentò completamente diversa, coi capelli biondi tinti rigorosamente di funereo nero, ingrossata, vestita con quel che le capitava ma sempre di scuro ed emanando attorno a sé quell'aura di desolata disperazione che coltivava già da prima, se possibile accresciuta dai lugubri testi che ora scriveva in proprio e alimentata dai due grandi traumi della sua vita: l'infanzia sotto le bombe in Germania seguita da un dopoguerra da fame e il figlio Ari avuto con Alain Delon, mai riconosciuto dal padre (pur essendone il ritratto vivente) e sottrattole quando aveva 4 anni a causa della sua impossibilità di accudirlo adeguatamente. Ora: viene da dire che ci sono alcuni milioni di tedeschi che hanno subito, incolpevoli, gli stessi traumi di Nico per responsabilità dei padri senza che l'esperienza impedisse loro di guardare avanti e che alla nascita del figlio a 24 anni era già adulta e vaccinata, e dunque in grado di valutare le conseguenze della scelta di spostarsi negli USA privilegiando la carriera, e questo la Nico che racconta il film, basato su numerose testimonianze dirette, lo ammette senza reticenze e senza mai cadere nell'autocommiserazione e nel vittimismo. E' una donna dura e piena di contraddizioni, imprevedibile, non facile da affrontare e sopportare; che conserva tratti da diva con alti e bassi acuiti dalla dipendenza dalla droga, sbalestrata quanto conformista per altri aspetti, ed è così che la vediamo on the road su un pulmino di seconda mano in tournée in location decisamente defilate (c'è anche Anzio) e platee riempite a fatica da pochi ma devoti seguaci della principessa delle tenebre, come veniva definita, accompagnata da una band di giovani e inesperti musicisti e assistita amorevolmente dal suo manager-amico. Ancor più significative le tappe in alcuni Paesi dell'Est all'immediata vigilia della caduta del Muro, in Cecoslovacchia come nella Polonia in fermento, con esibizioni semiclandestine in cui a tratti aveva dato il suo meglio che, parlando della Nico cantante e musicista, quale era  convinta di essere, è molto relativo oltre che soggettivo. Al termine del faticoso tour, durante il quale aveva cercato di riannodare il rapporto col figlio, e col progetto di incidere un nuovo album, si concede con Ari una vacanza a Ibiza, nel luglio del 1988, durante la quale muore in seguito a una caduta dalla bicicletta causata da un'emorragia cerebrale mentre andava a cercare di banale hashish, ironia della sorte non per overdose come sarebbe stato scontatoStupefacente e che da sola vale il film l'interpretazione di Trine Dyrholm, che alle straordinarie doti di attrice aggiunge quelle di interprete, perché è lei che canta tutti i pezzi di Nico del film, e tutti molto meglio dell'originale, pur avendoli, a suo dire, cantati volutamente male, che non è cosa da poco. Bravi anche gli altri interpreti, a cominciare da John Gordon Sinclair, l'amico-ammiratoree-manager, ma soprattutto la regista, brava davvero.