domenica 25 giugno 2017

In un'altra vita...


In visita al faro di Punta Bjanka (sic, in croato) a tre chilometri dal paesino di Veli Rat, sulla punta settentrionale dell'Isola Lunga (Dugi Otok), in Dalmazia, il più alto dell'Adriatico con i suoi 42 metri, edificato nel 1849 e che tra l'altro offre possibilità di alloggio, mi sono trovato a pensare che la scelta di andare a farne il guardiano per un congruo periodo sarebbe stata un'ottima soluzione in quei momenti-no, particolarmente molesti tra i 35 e i cinquant'anni, in cui non ne puoi più ma non riesci a staccare perché sei troppo coinvolto dal tuo andazzo e dai doveri che ti sei autoinflitto; in cui senti che hai bisogno di riflettere, cambiare aria, darti una possibilità diversa; altrimenti il tuo destino è di affogare, perché più il tempo passa, meno avrai l'occasione per farlo. Un anno sabbatico con sé stessi e la natura; isolati quanto basta, col proprio orticello, l'asino, un baule di libri, un'adeguata scorta di vino, la ginnastica obbligata dello saliscendi, quattro stagioni da assaporare in tutti i loro aspetti lontani dal chiacchiericcio, dalle convenzioni, dalle cose senza senso. A riprendere contatto cn sé stessi e con la natura. Con la vista che spazia a Nord fino all'Istria, tutte le isole in fila una dopo l'altra, e a Ovest, nelle terse, fino alla linea costiera italiana e, di notte, le luci di Ancona. E magari capisci che stai meglio lì, sull'isola, nel faro, con l'asino e l'orto, che sono diventati il tuo mondo. 

mercoledì 21 giugno 2017

Lady Macbeth

"Lady Macbeth" di William Oldroyd. Con Florence Pugh, Cosmo Jarvis, Naomi Ackie, Paul Hilton, Christopher Fairbank, Golda Rosheuvel e altri. Gran Bretagna 2016 ½
Sei inquadrature fisse: tre in interno (sala da pranzo, camera da letto, vano scala) tre al'esterno (brughiera, cortile, stalla); un personaggio principale, la Lady Macbeth del titolo, con riferimento a quella originale di Shakespeare mentre la vicenda è tratta dal racconto breve di un autore russo, e gli altri che le ruotano attorno: suocero, marito, governante, stalliere/amante. Che William Oldroyd, esordiente al cinema, provenga dal teatro, e che questo sia il suo ambiente naturale, non c'è dubbio. Siamo sul finire del XIX secolo in un maniero di un'Inghilterra del Nord  che, in quanto ad affollamento di coloured, sembra essere l'Alabama: ciò che cambia è la luce, fredda, opprimente, inquietante, come lo sguardo di Catherine, una diciassettenne diversamente attraente, almeno per i miei giusti, comprata in cambio di un terreno da un vecchio nobile latifondista per dare un erede al figlio negligente, violento e completamente disinteressato alla moglie. La quale vive sotto le loro direttive come una reclusa di fatto, ma che prende in mano la propria esistenza e dà sfogo alle sue pulsioni erotiche così come di potere nel momento in cui i due maschi si assentano: il suocero per affari a Londra, il marito, in perenne disaccordo col padre, per destinazione ignota. Catherine "va in fissa" per un prestante stalliere e matura in lei l'idea di fare in modo di eliminare qualsiasi ostacolo si frapponga alla sua volontà di dividere la propria vita con lui, dando così via a una serie di omicidi che eliminano tutta la parte maschile della famiglia, compreso un figlio naturale del marito, pure questo meticcio, comparso non si sa da dove a reclamare i suo diritti quando il padre è stato dichiarato scomparso (in realtà accoppato dalla moglie con l'aiuto dello stalliere). Il polpettone vittoriano vira al noir con svariati colpi di scena, ma le trame di Lady Macbeth, che alla fine ha manipolato e coinvolto anche il recalcitrante ma poi pentito amante, hanno come conseguenza che rimanga nuovamente ingabbiata, questa volta nella solitudine per essersi creata il vuoto intorno. Se Oldroyd ha scomodato un personaggio così evocativo immagino che secondo lui simboleggi qualcosa, ed è proprio quel qualcosa, il "messaggio", o il senso che sfugge in questa storia, per quanto ben fotografata, accettabilmente recitata (ma nulla più) e più cupa che tesa. Per fortuna il tetro feuilleton dura appena 89', eppure il fatto che in questo breve lasso di tempo mi sia ritrovato a guardare l'ora per ben tre volte avrà pure il suo perché. O no?

martedì 13 giugno 2017

Sieranevada

"Sieranevada" di Cristi Puiu. Con Mimi Branescu, Mirela Apostu, Judith State, Bogdan Dumitrahce, Dana Dogaru, Ana Ciontea, Tatiana Iekel, Marin Grigore, Petra Kurtela, Simona Ghita, Rolando Matsangois e altri. Francia, Romania, Bosnia-Erzegovina 2016 ★★★★+
Quasi tre ore di claustrofobico interno balcanico con famiglia in un appartamento di Bucarest dove si tiene la cerimonia del quarantesimo giorno della morte di Emil, padre di Lary, medico rumeno che da qualche anno si dedica alla più lucrosa vendita di apparecchi sanitari, che partecipa alla riunione parentale assieme alla petulante moglie, classico esempio di consumismo sfrenato, pochi giorni dopo l'attacco del 7 gennaio di due anni fa a Charlie Hebdo, a Parigi. Episodio poco chiaro che si mescola, nei discorsi tra i personaggi che attendono l'arrivo del pope perché benedica la casa e la tavola in cui si consumerà il pasto in onore del morto, a quelli dell'11 Settembre ma anche agli avvenimenti che, venticinque anni prima, avevano portato alla deposizione di Nicolae Ceausescu dopo una rivoluzione per nulla chiara. 173 minuti che però sono tutto il tempo che occorre al regista, che nel rigore formale come nella capacità di rappresentare la realtà di persone, situazioni e rapporti rendendone tutti i lati più oscuri, contraddittori e anche meschini, facendoli esprimere e muovere in tutta naturalezza, ricorda il suo connazionale Cristian Mungiu. Perché sono tanti i personaggi che si incrociano in questo spaccato di famiglia ritrovata: tre fratelli della media borghesia professionale, madre, zia e marito fedifrago, due cugini, due cognati, degli amici di famiglia, una tostissima ex dirigente del partito comunista e ne dimentico certamente qualcuno, perché, in unità di tempo reale, si svelino per quello che sono, ciascuno alla ricerca di una qualche verità, impossibile da stabilire, e al contempo alle prese con la menzogna su cui si basa la propria esistenza. Metafora di un Paese, per decenni governato da un satrapo, più ancora che autentico tiranno, considerato come una sorta di Piccolo Padre in contrapposizione a un altro, ancora più temuto (Stalin e l'URSS) ma anche del disagio e della rete di finzioni, ipocrisie, violenze psicologiche che scaturiscono all'interno dell'istituzione famigliare, prima cellula in cui si mettono in atto i rapporti di forza e quindi di potere nonché la definizione dei ruoli e l'inquadramento in essi che si riproporranno, a salire, nel corso della vita e ai vari livelli della società: impossibile non ritrovarsi, rivedersi, e anche identificarsi con uno o più dei personaggi, pur con qualche disagio, assistendo a questa forzosa rimpatriata da quadrigesimo, a meno di non aver completamente rimosso dalla propria memoria certi convegni di famiglia in alcune situazioni "comandate". Anche sotto questo aspetto, per quanto il film sia espressione della realtà rumena e rifletta sulla storia recente del Paese, la rappresentazione portata sullo schermo da Puiu ha una valenza che non si ferma al suo Paese e nemmeno all'Europa. Di primo acchito si potrebbe definire Sieranevada (titolo che volutamente non evoca nulla) un film "teatrale", per la preponderanza del parlato, che si intreccia e sovrappone ma riesce sempre a essere intellegibile anche quando sussurrato; in realtà la macchina da presa, manovrata in modo da dare l'impressione a chi guarda di essere sempre all'interno della scena e di aggirarsi di persona nelle varie stanze prestando di volta in volta l'attenzione a questo o a quell'altro, è non solo quanto mai necessaria per ottenere questo scopo ma manovrata con una maestria rara. Attori bravissimi, regista che sa il fatto suo, un'ironia di fondo che stempera un quadro che può assumere toni inquietanti e nessun intellettualismo ne fanno una pellicola di ottimo livello e che non si dimentica facilmente proprio per la normalità che sa raccontare. 

venerdì 9 giugno 2017

Fortunata

"Fortunata" di Sergio Castellitto. Con Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Nicole Centanni, Alessandro Borghi, Edoardo Pesce, Hanna Schygulla. Italia 2017 ★★=
Fortunata lo è Margaret Mazzantini ad avere un marito devoto come Sergio Castellitto che si ostina  benevolmente a tradurre in film i polpettoni melodrammatici di cui è inesausta produttrice; molto meno la pur brava Jasmine Trinca a doversi immedesimare in una borgatara sulla trentina, parrucchiera a domicilio e al nero, separata da poco da un marito manesco e ignorante che fa la guardia giurata, e madre di una bimba di otto anni, Barbara, costretta dal giudici dell'affido a sottostare a un ciclo di sedute psichiatriche per problemi comportamentali (per reazione sputacchia addosso a chiunque). Terapeuta è Patrizio, interpretato da Stefano Accorsi, il quale più che curare la bambina pensa a psicanalizzare la bella madre, riuscendo a individuarne i punti deboli da sfruttare per conquistarla, in barba a qualsiasi deontologia professionale che pure invoca all'occorrenza in altre circostanze. Altre figure di contorno l'ex marito stalker e ricattatore; Chicano, vicino di casa e socio in affari di Fortunata, un ex (?) tossicodipendente troppo sano per essere vero, personalità bipolare convivente con una madre ex attrice di teatro tedesca in preda all'Alzheimer (una rediviva Hanna Schygulla), che di mestiere fa il tatuatore e la affiancherebbe nell'avventura di aprire un negozio suo, per il quale si fanno dare denaro a strozzo dalla comunità cinese che vive nel quartiere, Torpignattara per la precisione, a Roma. Oltre al pianerottolo e ai progetti per il locale, i due hanno in comune la compulsione per la schedina del Superenalotto. A un tipo così Fortunata lascia la custodia della figlioletta, di cui è conteso l'affido, per una scappatella in moto tra Genova e il casinò di Sanremo con Patrizio, finché Barbara non ha un incidente che la porta in ospedale e fa precipitare i due piccioncini fuggitivi a Roma. Tutta l'improbabile vicenda si svolge nell'arco di non più di un paio di settimane a cavallo di Ferragosto, dalle sedute psicoterapeutiche di Barbara, alle udienze dal giudice, all'innamoramento di parrucchiera e giovane medico, un altro infelice a modo suo: invariabilmente tutti quanti i disagi e le manifestazioni caratteriali dei personaggi hanno origine in un qualche trauma infantile, che per lo più è il fatto di essere rimasti orfani in circostanze tragiche oppure abbandonati, puntualmente, dal padre che a sua volta è un malvivente, un avventuriero, un tossico e comunque un figlio di puttana. Non che non si diano storie anche ben più tristi e scabrose nella realtà, ma l'impressione che se ne trae è un mondo fantastico di sfighe e stereotipi che esiste solo nella fantasia della Mazzantini, che lo descrive come farebbe un turista straniero dopo un paio d'ore di passeggiata lungo l'Acquedotto Adriano ar Pigneto con immancabile sfondo ozpetekiano der gazometro. Castellito, a cui probabilmente si deve il generoso coinvolgimento dei colleghi Trinca e Accorsi, cerca di rendere la mappazza digeribile e vagamente verosimile e quasi ci riesce, perché il film non risulta inguardabile e anzi ha un buon ritmo ed è girato bene, però non ci siamo nel complesso: se nasci tondo non puoi morire quadrato, e se i libri della Mazzantini sono quel che sono e la sceneggiatura la scrive lei, nemmeno Fellini ne avrebbe tratto un capolavoro. 

martedì 6 giugno 2017

I figli della notte

"I figli della notte" di Andrea De Sica. Con Vincenzo Crea, Ludovico Succio, Fabrizio Rongione, Yuliia Sobol, Luigi Bignone, Pietro Monfreda e altri. Italia, Belgio 2016 ★★★½
Ancora un brillante esordio nel lungometraggio di un giovane regista, questa volta dal cognome famoso: con l'augurio, per il futuro, che abbia ereditato il talento direttamente dal nonno, senza passare per lo zio. A giudicare da questo primo film, si direbbe di sì; tecnicamente ineccepibile, e avvalendosi di una fotografia efficace e suggestiva (l'ambientazione è in Alto Adige, in un complesso isolato in mezzo alle montagne che ricorda l'albergo di Shining), racconta l'impatto del 17 enne Giulio con un collegio per ricchi rampolli della borghesia imprenditoriale, dove viene mandato dalla giovane madre, rimasta vedova a 23 anni e ora a capo dell'azienda di famiglia, dopo aver annunciato, dal cellulare di lei, un allarme-bomba fasullo, con lo scopo di far chiudere lil liceo che frequentava. Riservato e tutto sommato obbediente, quanto meno alla madre, lega immediatamente con Edo, un ragazzo dall'indole ribelle, che si considera trattato dai propri genitori come un bagaglio da piazzare qui e là e come un investimento senza ritorno ed è pienamente cosciente dei mezzi usati dall'istituto, a cominciare dalla videosorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro, per manipolarli e renderli dei predatori, caratterialmente adatti all'ambiente manageriale che li aspetta in cui è essenziale non avere la minima remora morale davanti alla prospettiva di licenziare in un colpo solo centinaia di lavoratori, tradire chicchessia o eliminare un concorrente. I due stringono un rapporto di forte complicità riuscendo a neutralizzare anche con durezza ii tentativi di bullismo nei loro confronti, pure questi ben conosciuti dagli "educatori" ma funzionali all'educazione manageriale così come le scorribande notturne che Edo e Giulio intraprendono per recarsi in una discoteca-postribolo dove Giulio si innamora di Helena, una giovane prostituta dell'Est. Edo propone una fuga definitiva da quella prigione dorata ma piena di misteri inconfessabili e, a modo suo, ci riesce, mentre non avrà successo quello di Giulio, che però sfrutterà l'esito del tentativo di Edo per "salvarsi il culo" e finirà, per questo, perfettamente integrato in quel mondo che l'amico ha invece rifiutato, e la scena finale, di lui ai bordi della piscina di casa in una soleggiata giornata estiva, a differenza dell'ambientazione invernale e prevalentemente notturna, conferma che la sua educazione da squalo è avvenuta con successo e che l'istituzione ha raggiunto lo scopo. Argomento, se si vuole, quello dell'educazione sentimentale e della formazione di un giovane-bene non nuovo, ma risolto con sviluppi noir piuttosto inconsueti, almeno per quanto riguarda il cinema nostrano.Da sottolineare la bravura dei due giovani interpreti principali, soprattutto Ludovico Succio nei panni di Edo, due giovani attori di cui sentiremo sicuramente ancora parlare, se decideranno di intraprendere definitivamente la carriera. 

sabato 3 giugno 2017

The Beatles: Sgt Pepper & Beyond

"The Beatles: Sgt Pepper & Beyond" di Alan G. Parker. Con Julia Baird, Paula Boyd, Tony Bramwell, Pete Best, Ray Connolly, Steve Diggle, Freda Kelly, Andy Peebles, Simon Napier-Bell e altri. GB 2017 
Attenzione: questo film è una truffa. Spacciato come "evento speciale" e presentato nella sale approfittando del cinquantenario dall'uscita dell'album forse più famoso dei Beatles, il primo registrato dopo la decisione, presa nel corso del 1966, di interrompere l'attività dal vivo, gioca fin dal titolo ad essere il seguito dell'ottima pellicola di Ron Howard dell'anno scorso, The Beatles - Eight Days a Week (The Touring Years). Peccato che sia tutt'al più un documentario di tipo strettamente televisivo, e non certo dei più brillanti, in cui si parla di tutto fuorché dell'album in questione, salvo per quanto riguarda la storica copertina e due brani che non vi erano stati inclusi, Penny Lane e Strawberry Fields Forever, pubblicati come un singolo dal "doppio lato A", il primo scritto da Paul McCartney, il secondo da John Lennon (come capisce chiunque fin dalle prime note) e una sequela di consuete banalità su Lucy in The Sky With Diamonds, senza che dell'intero disco si ascolti financo una traccia. Il documentario è esclusivamente parlato, compresi alcuni filmati di interviste d'epoca, ma centrato sulle testimonianze, invero ripetitive, di un gruppo di persone del loro entourage, il cui punto in comune è il tentativo di far passare Paul McCartney come il vero innovatore del gruppo, quello con più contatti con il mondo dell'arte d'avanguardia, solo per il fatto di abitare nel centro di Londra, a Notting Hill, mentre Lennon (un pigro bastardo, secondo qualcuno, poi "traviato" da Yoko Ono) e Harrison preferivano la quiete della campagna; al solito Ringo Starr viene considerato come un povero idiota incolto, l'ultima ruota del carro e quindi una specie di accessorio. Grande arrangiatore e compositore, Il "bel" Paul, forse persino di livello eccelso (mah...), però pur sempre nell'ambito del pop, e commerciale assai, come avrebbe confermato tutta la sua sterminata produzione successiva. Si parla dell'ultima tournée americana del '66, a rischio per il timore che qualche fanatico gliela facesse pagare per la famosa affermazione di Lennon di essere più famosi di Gesù Cristo (una banale constatazione, del resto, consideratra una blasfemia negli USA), quindi del rifiuto di esibirsi in pubblico con la conseguente emarginazione del loro manager Brian Epstein, suggerendo che questa fosse la causa della sua morte , al culmine di una pesante depressione, avvenuta l'anno successivo; delle lunghissime sessioni di registrazione ad Abbey Road (senza il conforto di un solo filmato, a malapena qualche foto in bianco e nero), dell'incontro con Maharishi Mahesh Yogi (che Lennon aveva presto individuato come un sicuro ciarlatano) e infine dell'avventura dell'Apple Corps e della breve avventura della boutique di Baker Street. Nulla più. Il tutto per 10 €, il doppio del biglietto normale. Sconsigliato anche ai beatlesiani più agguerriti. 

giovedì 1 giugno 2017

Ritratto di famiglia con tempesta

"Ritratto di famiglia con tempesta" (Umi yori mo mada fukaku/After the Storm) di Kore'eda Hirokazu. Con Hiroshi Abe, Kirin Kiki, Yôko Maki, Rirî Furankî, Sôsuke Ikematsu, Satomi Kobayashi e altri. Giappone 2016 ★★★★
Come Father and Son, il precedente film di Kore'eda, anche "Ritratto di famiglia con tempesta" esce a un anno di distanza dalla sua presentazione al Festival di Cannes e grazie alla distribuzione della sempre benemerita Tucker Film. Impeccabile scandagliatore dei rapporti famigliari, e in particolare di quelli tra padre e figlio, il regista riesca a raccontare tutta una storia di relazioni facendo interagire i protagonisti prevalentemente nella piccola casa dell'anziana e deliziosa madre di Ryoto, già scrittore emergente al suo esordio ma impantanato in una crisi d'ispirazione quanto personale per via del  matrimonio fallimento del proprio matrimonio. Improbabile come marito così come padre, si arrangia lavorando per un'agenzia di investigazioni private e cerca di "svoltare", per poter pagare gli alimenti arretrati all'ex moglie, scommettendo ai cavali e con qualche piccolo ricatto. Va a trovare la madre, rimasta vedova da poco e che sta liberandosi degli oggetti lasciati dal padre, un altro fallito da cui sembra aver ereditato debolezze e tendenza alla menzogna, con la speranza di recuperare qualcosa e vi trova la sorella, con cui pure esiste qualche frizione. Senza che ci sia bisogno di grandi spiegazioni, solo dallo scambio di alcune battute, sguardi, azioni della più normale quotidianità Kore'eda e i suoi abituali attori riescono a rendere un quadro famigliare di una chiarezza esemplare e di valore universale, comprensibile a qualsiasi latitudine a prescindere dalla cultura d'appartenenza; in esso si innestano il rapporto con le bella ex moglie, di cui Ryoto è ancora innamorato e i suoi goffi tentativi di riconquista e, soprattutto, quello col figlioletto, che ha il permesso di vedere una sola volta al mese. Combinazione, è proprio questa la giornata, così come vi è pure un allarme per un tifone che si abbatterà la sera su Tokyo, per cui dopo averlo seguito all'agenzia in cui lavora, poi assieme al suo aiutante all'ippodromo, poi col figlio a cercargli un regalo, rivelando tutta il suo stesso infantilismo che non passa certo inosservato dall'interessato, fino a una forzata (grazie all'imminente tifone) e forse provvidenziale rentré con la ex moglie di nuovo a casa della madre e suocera, ben contenta di poter accudire la famigliola nuovamente riunita e  speranzosa, come Ryoto, in una riconciliazione. Di cui, maldestramente, forse Ryoto pone alcune basi, ma che hanno più a che vedere con una sua crescita, soprattutto attraverso il rapporto col figlio, che con una riconquista dell'ex moglie. Non c'è bisogno di lieto fine, né di alcunché di consolatorio: il film basta a sé stesso e quel che deve dire lo fa attraverso immagini di vita quotidiana, minimaliste quanto si vuole ma efficaci ed espressive; i dialoghi tra i personaggi e le loro interazioni. Ancora una volta un gioiellino, e uno squarcio che ci permette di intravedere, al di là dei luoghi comuni, le dinamiche famigliari di una fetta non minoritaria della società giapponese di oggi e del ruolo tutt'altro che marginale che vi svolgono le donne. Meritevole.