martedì 30 maggio 2017

N€uroland


Le parole pronunciate da Angela Merkel, appena reduce dal G7 di Taormina domenica scorsa, a un convegno della CSU a Monaco di Baviera hanno suscitato una vasta eco perfino in un Paese come il nostro solitamente disattento alla dimensione internazionale, abituato com'è a essere governato non da servitori dello Stato (il proprio) ma, salvo rare eccezioni, del potente di turno, anche a costo di rendersi ridicoli fino al dileggio, com'era accaduto per le genuflessioni a  Gheddafi in occasione della sua ultima visita in Italia nel 2009 (salvo tradirlo all'occorrenza). In soldoni: non ci si può più fidare degli USA come alleati e l'Europa deve cominciare fare da sé. Al di là dello spaesamento degli esperti del nulla che sdottoreggiano sulla stampa nostrana, che ancora non si è ripresa dalla trumpata di novembre, schierata com'è da sempre sul fronte pseudo-democrat, nell'ultima occasione impersonato da Hillary Rodham Clinton e orfana di Barack Obama, non ha colto di sorpresa due bastian contrari come Massimo Fini e Slavoj Žižek, che ne scrivono in due articoli apparsi entrambi sul Fatto Quotidiano di oggi. Tutt'e due prendono spunto dall'effetto paradosso di avere a che fare con un individuo come Donald Trump a rappresentare gli USA: per Fini, in sostanza, l'aver fornito alla Merkel il pretesto per poter dire quanto chi comanda davvero in Eruropa avrebbe avuto sul gozzo da tempo; per Žižek l'opportunità, forse l'ultima, per le forze di sinistra, di progettare alternative radicali ma praticabili sotto la forma accordi internazionali di nuovo genere, alternativi al modello di quelli sul libero commercio, che pongano limiti al predominio delle banche, garantiscano i diritti dei lavoratori, i servizi sanitari e la salvaguardia dell'ambiente: tutto bene, anche se non pare di scorgere da alcuna parte una sinistra di tal genere, a meno che non ne sia interprete, a sua insaputa, proprio la cancelliera Merkel, la stessa delle bacchettate sulle dita e dei "compiti a casa" ai PIIGS, gli Stati membri dell'UE recalcitranti alla virtuosa contabilità teutonica e che fino all'altro ieri premeva per l'approvazione del TTIP da un lato, e per l'ingresso della Turchia di Erdogan nell'UE dall'altro, sponsorizzato proprio dagli USA, anche per il fatto ospitare almeno tre milioni di turchi in casa propria. Sono da sempre sulle posizioni di Fini per quanto riguarda la sostanziale occupazione dell'Europa da parte degli USA, che fino al 1989 si limitava alla parte occidentale con la messa sotto tutela, attraverso un paio di centinaia di basi militari, dei due Paesi sconfitti durante la Seconda Guerra Mondiale, la Germania e l'Italia, per estendersi dopo ai Paesi dell'area ex sovietica, attraverso la NATO a Oriente in barba agli accordi presi con l'URSS di Gorbaciov a suo tempo, e con il loro precipitoso e prematuro ingresso nell'UE, anch'esso incoraggiato dagli USA con lo scopo, evidente a chi avesse voluto vedere, di sabotarla dall'interno. Scrive Fini che la svolta anti-USA di chi comanda effettivamente in Europa, impersonato dalla Merkel, sia stato preceduto da un riavvicinamento tra Germania e Francia: si intende quella di Hollande, succube come pochi degli Stati Uniti? Quella del suo successore Macron, uno che ha cominciato la propria carriera come banchiere presso Rockefeller? La Germania che ospita qualcosa come un centinaio di basi USA e che affida la BCE, e dunque le sorti della Sacra Moneta Unica a un uomo di Goldman Sachs come Mario Draghi? Ci vuole molta fantasia per vederci qualcosa di buono. Uscire dalla NATO e formare un esercito europeo (posizione del tanto vituperato Generale De Gaulle ancora 50 anni fa)? Magari! Ma di quale Europa stiamo parlando? Quella originaria a sei? Quella a docici? Quella dell'Euro? Quella a 27 no di certo, perché nessuno degli Stati dell'ex patto di Varsavia rinuncerebbe alla "protezione" degli USA e alle loro basi nei rispettivi Paesi, a cominciare da quelli Baltici, alla Polonia, alla Romania, perfino al Kosovo (che pure della UE non fa - ancora - parte). E cosa farebbe l'Italia che, episodio di Sigonella del 1986 a parte, rispetto all'Amico Americano ha sempre avuto uno status simile a Portorico, ossia di territorio non incorporato negli USA? Misteri gaudiosi, che hanno tutta l'aria di rimanere tali, purtroppo. Ché di essere governato dai franco-tedeschi, piuttosto che dalla compagnia di mal tra insema espressa nel nostro Parlamento, grilloidi compresi, e con gli americani fuori dai coglioni sarebbe troppo bello. E, se fosse realizzabile, mi farebbe perfino votare Angela Merkel: ricordo che tempo addietro proposi, celiando ma fino a un certo punto, che di fronte allo stato di crisi permanente che ci colpisce e all'abnormità del debito pubblico, che l'Italia avrebbe dovuto chiedere l'incorporazione agli USA come 52° Stato (il 51° posto sarebbe stato riservato ad honorem, per i servizi resi, alla Gran Bretagna) o, in alternativa l'annessione alla Germania. Che si stia andando in quella direzione per davvero?

domenica 28 maggio 2017

Cuori puri

"Cuori puri" di Roberto De Paolis. Con Selene Caramazza, Simone Liberati, Barbora Bobulova, Stefano Fresi, Edorado Pesce e altri. Italia 2017 ★★★★
Un altro esordio molto promettente e un ulteriore incoraggiante segnale di rinascita per il cinema italiano, che a mio parere si conferma in fase di decisa ripresa con nuovi e convincenti protagonisti, sia davanti, sia dietro la macchina da presa e, si spera, anche dal lato della produzione, il settore più critico (come testimonia Luca Bigazzi in Mexico! Un cinema alla riscossa) quando si tratta di incoraggiare nuovi talenti e idee. Storia di periferia (ambientata a Tor Sapienza a Roma, e che trae spunto da una vicenda vera) ma non una storia "coatta", che vede protagonisti Agnese, 18 anni appena compiuti, frequentatrice, con una madre ossessiva, di una comunità di cattolici integralisti, e Stefano, di qualche anno più grande, sorvegliante del parcheggio di un supermercato confinante con un campo rom, lavoro a cui è stato declassato per aver lasciato scappare la ragazza dopo un taccheggio: aveva rubato un cellulare di poco valore dopo che la madre le aveva sequestrato quello in uso perché un suo compagno di classe le aveva mandato alcuni messaggio "sconvenienti". I due si incontrano nuovamente quando la ragazza accompagna la genitrice a "fare volontariato" al campo rom, e lei trova un momento per ringraziarlo di non averla denunciata, e cominciano a frequentarsi proprio nei giorni in cui Agnese, assieme ad altri coetanei della sua comunità, ha fatto "promessa di verginità" fino al matrimonio, e a nutrire uno per l'altro un sentimento profondo. Anche Stefano, pur venendo da un'infanzia e un ambiente difficile e frequentando un giro di piccoli delinquenti di quartiere che vive di spaccio e altri espedienti, è un'anima "pura" e un generoso, nonostante i suoi scatti d'ira: non soltanto non ha tradito la ragazza, ma aiuta i propri inqualificabili genitori, che oltre ad avergli rovinato l'infanzia vivono alle sue spalle dopo uno sfratto, e i due si trovano, nonostante tutto, anche dopo aver "infranto" ciascuno la propria "purezza". Non entro nei dettagli per non svelare la trama anche se non si tratta di un noir, di cui pure, per certi aspetti, esiste qualche traccia. Di sicuro c'è che sia il regista, sia il cast, compresa la Bobulova, in questo caso decisamente in parte nei panni di una madre ambigua, angosciante e oppressiva, bigotta ma fino a un certo punto, la prima ad avere dei lati oscuri (è single per scelta? Ha una storia col capo dei volontari? Nasconde un passato imbarazzante?), hanno frequentato a lungo l'ambiente in cui hanno poi girato il film, la cui sceneggiatura, a cui De Paolis ha collaborato, è stata riscritta in corso d'opera e a contatto con le realtà che avevano sotto gli occhi. Non so se De Paolis sia un credente oppure no, comunque proporre il punto di vista cattolico sia sui rapporti prematrimoniali, sia sull'accoglienze e l'aiuto senza deriderlo per partito preso né banalizzarlo va a suo merito, così come non avere mai calcato la mano sul disagio e lo squallore di periferie che pure hanno una loro dignità: al centro c'è sempre e comunque l'individuo alle prese con le contraddizioni personali e con quelle dell'ambiente e della cerchia in cui vive, ambiente e cerchi che a loro volta di scontrano e incontrano, e dalla loro interazione nascono storie indicative e che fanno pensare, come quella raccontata nel film, resa ancora più verosimile dalla bravura dei protagonisti, a cominciare dal già apprezzato Simone Liberati, ma anche Selene Caramazza, al suo primo impegno fuori dalle serie TV, è più che convincente nel difficile ruolo dell'adolescente Agnese, alla scoperta di pulsioni e sentimenti per lei nuovi. Fresi e Pesce, in ruoli piccoli ma significatiivi, sono altrettante conferme e la regia, che per certi aspetti ricorda il compianto Claudio Caligari, è sicura e senza fronzoli. 

venerdì 26 maggio 2017

Mexico! Un cinema alla riscossa

"Mexico! Un cinema alla riscossa" di Michele Rho. Italia, 2016 ★★★★+
Quando ho visto la locandina del film sul sito di CinemaZero di Pordenone, programmato nella serata di ieri, mi era sembrato rivedervi ritratto un volto a me noto, e quando sono andato a verificare che si stava parlando del Cinema Mexico di Milano e dell'uomo che con esso si identifica, Antonio Sancassani, non ho avuto dubbi: "l'è lu!", così come l'ho visto tante volte alla cassa del suo locale in Via Savona, un luogo di culto e una certezza per chiunque, a Milano, amasse e ami il cinema e in particolare quello fuori dai circuiti consueti, e che frequentavo da molto tempo prima che il quartiere, un tempo operaio per la presenza di numerose fabbriche, in primis l'Ansaldo, diventasse un posto modaiolo e da fighetta. Antonio Sancassani da Bellagio si era innamorato del cinema fin da ragazzino, ed è un uomo che nella sua vita ha realizzato il suo sogno: occuparsi di ciò che gli piace, ossia di cinema. Ha iniziato gestendo la sala "Vittoria" di Bellagio, poi chiusa, quindi calando a Milano, dove si è occupato di alcune sale centrali come il Gloria per conto di una società fino a realizzare, verso ila fine degli anni Settanta,  la sua aspirazione di proporre una programmazione autonoma rilevando la sala di Via Savona che sarebbe diventata il Cinema Mexico, questo proprio nel momento in cui le  sale, che a Milano erano quasi duecento (per chi non lo sapesse o se ne fosse dimenticato, ai tempi esistevano le sale delle Prime Visioni, i Proseguimenti, le Seconde visioni, le Terze visioni, eufemisticamente chiamate Altre, le Sale d'Essai nonché quelle parrocchiali e dei vari circoli culturali) stavano chiudendo una dopo l'altra, per la concorrenza del fenomeno home video e delle mega-sale collocate in periferia, con le medesime caratteristiche alienanti dei centri commercial e per la medesima logica aberrante. Una sfida ardua che Sancassani ha vinto benché osteggiato dalla distribuzione perché giustamente aveva e ha la pretesa di scegliere lui stesso quali film proiettare e quali no. Osteggiato dai circuiti ufficiali, per stare a galla si è inventato di tutto: fu il primo a proporre film in lingua originale in giorni prefissati; film musicali altrimenti invedibili su cui gli appassionati si sono fatti una cultura; fino al fenomeno del Rocky Horror Picture Show, quando il venerdì divenne l'appuntamento fisso per la proiezione con partecipazione di attori e pubblico: prima un vero e proprio happening, poi una tradizione che dura tutt'ora, dopo più di trent'anni; infine proponendo film che altrimenti non avrebbero trovato modo di essere proiettati, come Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, che rimase in sala per due anni di fila e divenne un caso damanuale di successo su scala nazionale nato col passa-parola. Perché da sempre a Milano Mexico ha voluto dire qualità: si poteva stare certi che i film proposti, per quanto nessuno ne parlasse, avevano un loro perché, senza che fossero necessariamente dei pipponi da cinéphlie radical chic, anzi: Sancassani ha sempre avuto un fiuto particolare per produzioni non banali che al pubblico del suo cinema, che conosce molto bene ed è fatto di gente comune, può piacere e per lo più ci azzecca. Il documentario racconta il personaggio, che nel suo cinema si occupa di ogni aspetto, per come è davvero, che non si sente un eroe per quel che fa (anche se poi lo è, e benemerito) ed è integrato da interviste coi suoi collaboratori più stretti, critici come Maurizio Porro e Paolo Mereghetti, attori come Moni Ovadia, Claudio Bisio o Isabella Ragonese, fotografi di scena come Luca Bigazzi, che racconta i retroscena delle produzioni per film di esordienti, il regsita Giorgio Diritti, lo stesso ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che ha insignito Sancassani dell'Ambrogino d'Oro per quel che ha fatto per Milano.. A presentare il documentario e a intrattenersi col pubblico il regista di questo bel documentario, Michele Rho, in una istituzione, come il CinemaZero, che ha non poche affinità con la filosofia di Sancassani. Que Viva il  Mexico!

lunedì 22 maggio 2017

Una serie di stravaganti vicende


"Una serie di stravaganti vicende", un omaggio a Edgar Allan Poe con Ferdinando Bruni. Scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; musiche originali di Teo Teho Teardo. Assistente scene e costumi Saverio Assumma; luci di Nando Frigerio; suono di Giuseppe Marzoli; voci del ricordo di Ida Marinelli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 21maggio. 
Sono felice di essermi sottoposto a un tour de force andata-e-ritorno a Milano in giornata per assistere all'ultima recita in programma alla "casa madre" dell'ultimo lavoro della coppia Bruni-Frongia, prodotto dal Teatro dell'Elfo, un'omaggio alla straordinaria e tragica figura di Edgar Allan Poe di cui riproducono la parola scritta, così profonda ed evocativa da avere incantato e fortemente influenzato già Baudelaire e arrivata fino a noi a scavare nei lati oscuri dell'animo umano, ma al contempo capaci aprire le "porte della percezione" (non stupisce che abbia influenzato prima i Doors di Jim Morrison e poi un altro artista e intellettuale rock come Lou Reed), riprodotta attraverso la voce poliedrica e magica di Ferdinando Bruni in perfetta unione con una suggestiva e potente scenografia di luci e ombre  e sottolineate dalle musiche scritte apposta per lo spettacolo da Teho Teardo. Lo spettacolo, poco meno di un'ora di un'intensità di cui raramente ho avuto esperienza, prosegue sulla linea ibrida, multimediale, da sempre nelle corde delle produzioni più originali del teatro milanese, del bellissimo Alice Underground, che dava voce e immagini alle inquietudini oniriche di Lewis Carroll, mentre qui la cosa si fa spessa, alle prese con i deliri, il dolore straziante, le iperboli e la forza del geniale e tormentato poeta e scrittore americano, dalla vita breve (morì a soli quarant'anni) quanto intensa, un vero precursore che ha lasciato un'impronta indelebile con la sua poliedrica opera: così come Edgar Allan Poe lavorava sulla parola scritta e ne fu un innovatore come pochi, lo stesso ha fatto Ferdinando Bruni con la voce per esprimerne le più varie e straordinarie sfumature, accompagnate da una gestualità perfettamente calibrata ma altrettanto potente: una presenza scenica e vocale che mi ha immediatamente ricordato le performance più straordinarie dell'indimenticato Carmelo Bene. Siamo a quelle altezze, e il pubblico, ammaliato, lo ha percepito benissimo. Grazie Ferdinando. 

sabato 20 maggio 2017

I migliori ed i più belli sono nati nei gemelli


Un Gemelli non può seguire la massa. È unico, non può. Saprà sempre come sorprenderti e capirlo realmente è molto difficile. Puoi conoscerlo, ma non conoscerai mai tutta la sua storia. 

venerdì 19 maggio 2017

Serenissima desolazione


Da che ho memoria, Venezia per me ha sempre avuto un significato speciale. Tutta la mia famiglia da parte paterna ha sempre avuto un legame viscerale con la città, a prescindere da mia nonna che ci era nata, per averci studiato e anche lavorato, a cominciare da mio nonno alla fine dell'800, e anche molto più indietro, essendo gli Scaini originari di quella parte confinaria del Friuli ai tempi governata e comunque sotto l'influenza diretta della Repubblica, insomma la zona descritta da Ippolito Nievo ne Le confessioni di un italiano, meritorio romanzo ottocentesco ai più sconosciuto a scapito de I promessi sposi. Fin da quando ero piccolo, a Venezia ci andavo almeno un paio di volte all'anno, e le visite si sono vieppiù infittite, avendo la disponibilità di un alloggio di famiglia, specie in occasione del mio onomastico, il 25 aprile, festa della Liberazione, del "bòcolo" ma, soprattutto, dell'Evangelista, di cui non a caso porto orgogliosamente il nome: festeggiarlo nella "nostra" città d'elezione è stata a lungo una tradizione che ho rispettato fino agli inizi degli anni Novanta, quando a mio avviso il degrado, iniziato come minimo agli inizi degli anni Sessanta, con il progressivo spopolamento, ha raggiunto il punto di non ritorno. Sì, certo: il declino dallo zenit della potenza era già cominciato nel '500, ma la città aveva saputo reinventarsi e svolgere comunque un ruolo consono alla sua gloria fino alla metà del secolo scorso, poi si è persa e la responsabilità, lo dico fin da subito, è in gran parte dei veneziani stessi, a cominciare da coloro che hanno scelto per farsi amministrare. Che uno Stato pagliaccesco e cialtrone come quello italiano non fosse in grado di capire quali pericoli corresse la città più bella e più fragile del mondo, e quindi come arginarlo, avrebbero dovuto saperlo per esperienza pregressa: l'unica possibilità era una vera presa di coscienza in ambito locale a cominciare dalla cittadinanza stessa, ma è accaduto il contrario, col risultato che la città è completamente snaturata, oltraggiata, verrebbe da dire stuprata perfino da cadavere, ché è quello che ormai sembra essere, o almeno entrata in coma irreversibile. Un parco a tema, ormai, il cui svolgimento è segnato e ineluttabile, di cui uguale all'originale rimane solo il titolo: Venezia. Una sensazione angosciosa, sempre più una certezza, mi pervade a ogni nuova visita, sempre più rara e sempre più veloce, per non concedermi nemmeno il tempo di rendermi del tutto conto dello scempio perpetrato tra una puntata in Laguna e l'altra. Ieri l'ultima della serie, a oltre un anno di distanza da quella precedente e a tre da quella ancora prima, nonostante da quasi vent'anni abiti a poco più di un'ora da Piazza San Marco: il pretesto è stata la mostra "Jheroninus Bosch e Venezia" che si tiene a palazzo Ducale fino al 4 giugno (da non perdere se ne avete l'occasione). Sceso dal treno a Santa Lucia, già uno si sente oppresso da frotte di turisti sbracati e possibilmente in infradito e già alle prese con un piatto di spageti bolognaise con capusino o la prima pinta di birra alle 10 del mattino e dal tanfo di kebap, fritti improbabili e anglosassoni bercianti come mai farebbero a casa loro, tutti armati di smartphone con attivato Google Maps, per cui si aggirano tra le calli con sicumera pari alla disattenzione verso ciò che non vedono, a cominciare da coloro contro cui vanno a sbattere; ci si mettono anche nugoli di asiatiici subcontinentali fastidiosi come insetti che insistono per vendere "bacchette da selfie" e che non si danno nemmeno la briga di distinguere tra turisti da sbarco e da diporto e normali visitatori o cittadini, per non parlare dei farabutti nostrani e d'importazione comunitaria: ne ho beccati un gruppetto che aveva allestito un banchetto di gioco delle tre carte in cima al Ponte dell'Accademia: indisturbato tanto dai tutori dell'ordine statali quanto da quelli locali (e fin qui poco male, se infinocchiano dei mentecatti). Lasciamo stare i banchetti e negozi di carabattole e souvenir indecenti ovunque, dove chi ha concesso le licenze è molto più colpevole di chi esercita il commercio da abusivo, perché Venezia è ormai un suq a cielo aperto, e sono sempre meno i negozi di qualità, anche nei dintorni di San Marco e Rialto, salvo oasi come Calle XX Marzo, dove la concentrazione di vetrine di extralusso (e il nitore della sede stradale) è uguale se non maggiore a quella di Via Montenapoleone a Milano o Via Condotti a Roma: si va da un estremo all'altro senza che ci sia una via di mezzo, pensata per gente normale, che abiti o visiti la città. 



Ma l'oltraggio è stato in Strada Nuova, andando verso Rialto, quando sono incocciato nell'edifiicio liberty che ospitava il Cinema Teatro Italia (in una città che è sede di uno dei festival cinematografici più prestigiosi al mondo, mi risultano in attività un paio di esercizi in centro e uno al Lido), dalla fine dell'anno scorso sede di un supermercato Despar. E non mi raccontino che ce n'era necessità per gli abitanti del Sestiere, Cannaregio, ancora uno dei più abitati e popolari: c'è una Coop praticamente di fronte e un'altra, ancora più grande, poco più oltre (e così via i mercati e i negozi di prossimità: e avanti con supermercati e magari centri commerciali!). E così sempre sulla stessa arteria MerDonalds, Wild West (con tanto di terrazza con vista sui canali), a avanti con gli onnipresenti  simboli del consumismo globalizzato e ciarlatano, quando va bene finti bacari dove la "venezianità" non va oltre a indecorose imitazioni dei cicchetti tradizionali, perfino i ristoranti che provano a "darsi un tono" hanno personale prevalentemente esotico (definiamolo così) e pure quello nazionale non ha nemmeno la più vaga idea di cosa siano dei bigoli in salsa o un risotto di castradure o ai bruscandoli, come siano fatti un go oppure un bisato, o anche soltanto un fegato alla veneziana. Ma tanto chi se ne frega? Il turista intruppato e smutandato ingoia tutto, perfino l'euro e mezzo che i cessi a gestione comunale fanno pagare per una pisciata (senza che la macchinetta dia il resto), e il foresto che ha comprato le abitazioni dai veneziani che non potevano mantenerle e men che mai ristrutturarle (ci pensano loro con gusto da architetto milanese) ci viene solo per l'Aperol Spritz con pediluvio nel canale un paio di volte l'anno o per darsi una patina culturale, con gli esiti visti a Palazzo Grassi con la gestione da parte della famiglia Agnelli. Ma ora, come se non bastassero i ricchi milanesi, torinesi, romani e americani, inglesi, tedeschi e anche russi, è la volta dei magliari trevigiani che si sono sono alzati di tono con la "rivalutazione" del Fondaco dei Tedeschi a vetrina del lusso e dell'esclusività. Con un groppo alla gola e un vuoto nello stomaco, sono ripartito di corsa tre ore e mezzo dopo il mio arrivo, comprese due a passo di marcia forzata attraverso mezza città e tutti i suoi sestieri. Già alle viste di Porto Marghera ho cominciato a sentirmi meglio, e quando sono sceso in stazione a Mestre per riprendere la macchina al parcheggio ho tirato un sospiro di sollievo: ero di nuovo a casa. A Mestre, dove sono finalmente riuscito a mangiare un tramezzino degno di questo nome.

mercoledì 17 maggio 2017

Tutto quello che vuoi

"Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni. Con Giuliano Montaldo, Andrea Carpenzano, Arturo Bruni, Donatella Finocchiaro, Emanuele Propizio, Antonio Gerardi, Riccardo Vitiello, Raffaella Lebboroni, Carolina Pavone, Andrea Lethoská. Italia 2017 ★★★★½
E' da un po' che lo ripeto: qualcosa sta cambiando nel panorama del cinema italiano che, con pellicole come Tutto quello che vuoi, dimostra di essere vivo e vegeto perfino nella sua più consueta forma di commedia, ultimamente opportunamente rigenerata e innestata da altri filoni, e questo ottimo film di Francesco Bruni, che testimonia i continui progressi come regista di uno sceneggiatore di valore, ne è la conferma. D'altronde non è un caso se è riuscito a convincere un collega e Maestro della nostra cinematografia come Giuliano Montaldo, probabilmente senza dover troppo insistere, a tornare davanti alla cinepresa per interpretare Giorgio, un poeta ottantacinquenne già famoso, pisano d'origine e trasferitosi a Roma negli anni Cinquanta, affetto da una lieve forma di Alzheimer, che viene accudito dal ventiduenne Alessandro (il sorprendente Andrea Carpenzano, già notato in Il permesso - 48 ore fuori), giovane sfaccendato che vive nel suo stesso quartiere, Trastevere, dedicandosi al piccolo spaccio e a far passare ii tempo allo storico Bar Calisto coi quattro amici del suo "giro". Un lavoretto procuratogli da Claudia (Donatella Finocchiaro), la piacente madre del suo migliore amico, Riki, della quale è l'amante clandestino (e lei madre sostitutiva). Alessandro accetta controvoglia e inizialmente si limita a portare l'anziano a fare passeggiate sul Gianicolo con sullo sfondo sfumato di una indistinta Roma  invernale, in seguito impara a conoscere e frequentare Giorgio anche assieme agli altri suoi amici, a giocare a carte e perfino alla play-station nonché a infrangere alcuni divieti posti dalla governante Laura e ascoltarne gli spezzoni di vita vissuta fino a trasferirsi per un periodo da lui e assisterlo a tempo pieno, e per ultimo a fargli compiere un ultimo viaggio nei luoghi della sua gioventù, la Toscana appenninica in cui partigiani e truppe americane combatterono i nazisti, in una sorta di zingarata nata come un'autentica caccia al tesoro. Il film si sviluppa sul binario del contrasto e al contempo confronto tra due generazioni che quanto più lontane non potrebbero essere non solo temporalmente, ma anche nel modo di pensare e di esprimersi: una che sta perdendo per esaurimento la memoria di una vita intensa e piena di significato, l'altra che non può averne finché è costretta a vivere in un presente vuoto. Il gioco delle differenze non è banale e scontato, così come non è melenso l'avvicinamento tra due estremi sempre allo specchio: il giovane e l'anziano, l'ignorante e il colto e così via: c'è molto di più ed espresso con grazia, ironia e partecipazione da parte di interpreti intimamente convinti di quello che stanno facendo; infine Il rapporto che si instaura tra Giorgio e Alessandro permette a entrambi di recuperare qualcosa: al primo quello con il fratellino Carlo, perso in un bombardamento su Pisa durante l'ultima guerra, e al secondo quello con suo padre e la nuova compagna, che fin lì, orfano di madre da quando aveva due anni, non aveva accettato. Come nei film precedenti, Scialla e Noi 4, Francesco Bruni ambienta le sue vicenda in una Roma che in altri, troppi, film e serie televisive farebbe da sfondo a film "terrazzat"i e intellettualoidi (à la Ozpetek o Archibugi, per intenderci) o vanziniani, scontati o pecorecci, mentre nelle sue pellicole è quella vera: mi piace pensare che, da persona intelligente e acuta qual è, citi di proposito location e situazioni abusate per prenderne le distanze, e lo fa con classe e bene, così com'è attento a scegliere interpreti convincenti e capace come pochi di far recitare giovani e financo bambini. Complimenti vivissimi a tutti, si esce dalla sala soddisfatti di aver visto una bella storia, che tocca il cuore e anche la mente, raccontata bene: con l'animo confortato.

giovedì 11 maggio 2017

Lear di Edward Bond


"Lear di Edward Bond". Traduzione di Tommaso Spinelli; adattamento e regia di Lisa Ferlazzo Natoli; scene di Luca Brinchi, Fabiana Di Marco, Daniele Spanò; costumi di Gianluca Falaschi; realizzazione immagini a china Francesca Mariani.
Con Elio De Capitani, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Pilar Perez Aspa, Diego Sepe, Franceso Villano. 
Suono di Alessandro Ferroni e Umberto Fiore; disegno video di Maddalena Parise. 
Coproduzione Teatro di Roma/Tealtro dell'Elfo/Lacasadargilla.
Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 7 maggio scorso.
Presentata lo scorso autunno a Roma in una prima versione, con Danilo Negrelli nei panni dl Lear, questa rilettura del 1971 della tragedia di Shakespeare da parte di Edward Bond era stata riproposta in cartellone al Teatro India di Roma nel mese scorso per poi trasferirsi a Milano, questa volta con Elio De Capitani, nel teatro di cui quest'ultimo è presidente, fino a domenica scorsa. Un testo non facile, quello di uno dei maggiori drammaturghi inglesi contemporanei in cui, all'interno di una parabola sui rapporti di forza, pubblici quanto privati, che sfociano nella violenza, viene messa in rilievo soprattutto l'essenza stessa del potere, la sua natura comunque perversa, da qualsiasi parte si origini. Lear, per difenderlo, erige un gigantesco muro, ed elimina chiunque venga soltanto sospettato di sabotarne la costruzione; altrettanto ossessionate dal potere, gli si rivoltano contro le due figlie Bodice e Fontanelle, che si sposano con due suoi acerrimi nemici contro la sua volontà, dando il via a un regime se possibile ancora più dispotico e a guerre e violenze senza fine. Deposto e fuggitivo tra i boschi, Lear viene accolto da un giovane, pacifico popolano, coltivatore e allevatore di maiali e, controvoglia dalla moglie Cordelia (che nella tragedia shakespeariana era la terza figlia di Lear). Quando Lear comincia a ravvedersi sui suoi trascorsi, il ragazzo viene ucciso e il re viene riacciuffato, internato come malato di mente e accecato. A sua volta Cordelia capeggia un'ennesima rivoluzione, beninteso nel nome del popolo, tornando a sua volta ad erigere lo stesso muro per proteggerlo dagli avversari. Adattando il testo alla rappresentazione, Ferlazzo Natoli ha avuto l'accortezza di non fare riferimenti all'attualità,  ché il discorso sulla natura del potere per definizione non ha tempo e per quante giustificazioni o ragioni d'essere esso stesso si dia, ideologiche, religiose o scientifiche, si traduce sempre, inevitabilmente ne ovunque nella sopraffazione di chi lo detiene e lo esercita nei confronti e a discapito di chi lo subisce. La platea di questi ultimi può essere più o meno estesa, i metodi possono essere più o meno disgustosi, ma quel che non cambia è la sua sostanza, indipendentemente in nome di chi o cosa  lo si eserciti e a quale titolo, e la degenerazione nella perversione consequenziale; per sottrarsene non rimane che affidarsi all'immaginazione e, in definitiva, all'arte che mostra i re e i vari tiranni sotto altro nome in tutta la loro nudità. Gli originali 35 personaggi shakespeariani vengono distribuiti fra gli otto attori, dove il solo De Capitani, capace di rendere i lati più contraddittoriamente umani di Lear, si limita a un ruolo: ne deriva una certa difficoltà a seguire la vicenda, già contorta di suo, ma le scritte proiettate su teloni posti in corrispondenza di ognuno alla sia entrata in scena aiutano allo scopo. La scena è spoglia, quasi post-atomica, dall'aspetto di un cantiere in continua costruzione, con strutture metalliche in movimento che la trasformano a seconda delle situazioni; inquietanti i suoni, spesso stridii metallici, di sottofondo e le sciabolate di luce che illuminano a tratti il pubblico come a chiamarlo sul palcoscenico. Bravissimi tutti e applausi convinti, abbondanti e meritati anche alla regista, salita sul palco assieme agli interpreti a fine spettacolo. 

lunedì 8 maggio 2017

Mangiamerda

Non era bastato due anni fa in tempi di EXPO lo showcooking di Michelle Obama, l'opulenta signora allora First Lady USA venuta a darci lezioni di light coocking: ora è il turno del suo degno consorte di fare la sua apparizione a Milano, accolto da ali di folla plaudente a altrimenti nullafacente nel salotto della città, la Gallery, al cui imbocco, in Via Tommaso Grossi, si trova lo Hyatt Park Hotel, in una suite del quale alloggia il fu Mr President. E sempre per un'occasione gastronomica: dopo una cena stasera all'ISPI di Via Clerici, l'Istituto di studi di politica internazionale, nella messa in pratica della quale il già Premio Nobel per la Pace (alle intenzioni) ha dato il suo meglio, domattina terrà uno speech all'"evento" Seed&Chips, nell'ambito del Global Food Innovation Summit (non un termine in italiano manco a morire) che si tiene a Rho-FieraMilano, giunto alla terza edizione e che fa della capitale europea del sushi e della fuffa quella mondiale del cibo spettacolo. Il tutto sulla prime pagine on line delle principali gazzette nazionaliTutti esauriti i biglietti fino a 850 € per ascoltare 45' di conferenza di questo personaggio che in otto anni, oltre ai danni causati e alle azioni criminali commesse fuori dai confini della sua nazione non è riuscito a combinarne una giusta nemmeno in patria, col risultato che la candidata che doveva esserne l'erede, caldeggiata come nessun'altra mai dal presidente uscente, è stata silurata da un avversario altrimenti improponibile a qualsiasi latitudine. Non poteva mancare, a salutare il suo degno amico, un altro ex, trombato di recente per interposto referendum,  Mattèo Rènzi, dello il ribollito, che terrà una concione sulla versione femminile del suo nomignolo: la ribollita, pietanza regina della sua terra d'origine.



sabato 6 maggio 2017

Gold - La grande truffa

"Gold - La grande truffa" (Gold) di Stephen Gagan. Con Matthew McConaughey, Edgar Ramirez, Bryce Dallas Howard, Michael Landes, Toby Kebbell , Carey Stoll, Bill Camp, Rachael Taylor e altri. USA 2016 ★★★★+
Nei panni della Black Bear, la casa di produzione statunitense di Gold, citerei per danni Eagle Pictures, i distributori italiani del film, che hanno pensato bene di aggiungere al titolo originale una postilla che è a tutti gli effetti uno spoiler, svelando fin dall'inizio ciò che nel film, che prende spunto da una intricata, incredibile vicenda realmente accaduta sul finire degli anni Ottanta, viene reso esplicito solo nei minuti finali. Quella dei titoli demenziali dei film stranieri, anche quando come nel caso di Gold una traduzione letterale benché non necessaria sarebbe stata più che sufficiente, è una sciagurata costante nostrana che non viene meno nemmeno quando si dimostra del tutto controproducente: un peccato, per un film riuscito, teso, dai ritmi giusti, pieno di svolte imprevedibili e tuttavia aderente alla realtà. Siamo alla fine degli anni Ottanta e Kenny Wells, erede di una gloriosa società mineraria del Nevada che ha preso in mano dopo la morte del suo amato padre, sta vedendo svanire tutte le sue fortune e dirige l'azienda famigliare, assieme a un manipolo di fidati impiegati, usando un bar come ufficio. Nei fumi dell'alcol, risvegliandosi da un sogno, gli torna in mente un geologo conosciuto anni prima, Micheal Acosta, che sembra aver scoperto una vena d'oro nelle montagne del Kalimantan, nel Borneo indonesiano, e lo raggiunge là impegnando gli ori della moglie  per pagarsi viaggio e soggiorno e gli propone di finanziarlo nella sua impresa, e alla fine riesce anche a raccogliere il denaro necessario per procedere ai carotaggi e alle analisi. Nella giungla, i due affrontano una serie di peripezie degne di Fitzcarraldo, Wells torna negli USA dopo che nemmeno una grave forma di malaria è riuscito a fermarlo, tutto sembra crollare finché dall'Indonesia giunge la conferma che sì, la vena d'oro è stata trovata. La grande finanza se ne accorge, punta sul cavallo che appare vincente e la compagnia di Wells viene quotata a Wall Street: ma ciò che la muove è pura furia speculativa, mentre le motivazioni di Kenny hanno più a vedere con una rivalsa personale e con un omaggio alla figura del padre, e diverse ancora quelle di Acosta, spirito avventuriero e, a modo suo sovversivo. Non aggiungo altro per non aggiungere spoiler a spoiler, ma si tratta di un gran bel film, verrebbe da dire "come quelli di una volta", ossia l'epoca  presa in considerazione, trenta anni fa, in cui convergono avventura, azione, dramma, descrizione accurata di luoghi e spazi diversi a sottolineare i contrasti di cui sono fatti gli USA: il Nevada, l'ambiente rustico della provincia di frontiera che conserva nella memoria i carri degli avventurieri che giungenvano al'Ovest e che, come il padre e i nonni di Kenny, letteralmente" grattavano le montagne con le unghie", e la rutilante New York del lusso smodato. Ottima la regìa e indovinato un cast dove ognuno fa la sua parte al meglio ma uno spicca di gran lunga sugli altri: un Matthew McConaughey che dà letteralmente "corpo" a Kenny, un personaggio sempre al limite del crollo ma che non si arrende mai, forte a modo suo di un idealismo in cui l'oro è metafora di sfida e di ricerca di riscatto, morale più che materiale. 

giovedì 4 maggio 2017

Le cose che verranno

"Le cose che verranno" (L'avenir) di Mia Hansen Love. Con Isabelle Huppert, André Marcon, Roman Kolinka, Edith Scob, Sarah Lepicard e altri. Francia 2016 ★★★★-
Di solito il cinema francese tende a focalizzarsi più sul parlato che sulle immagini: quando un film è supportato da una sceneggiatura di prim'ordine e da una trama che regge si può assistere a delle tenzoni verbali di rara intensità e vivacità, altrimenti si scade nel chiacchiericcio e nell'incessante e spesso fastidioso parlarsi addosso dei personaggi. Qui la trama è semplice, lineare e robusta: la vita di Nathalie, una ultracinquantenne insegnante di filosofia in un liceo parigino, appassionata della sua materia e moglie, madre e figlia equilibrata e affidabile, che subisce una brusca sterzata quando nell'arco di poche settimane il marito, anche lui filosofo (ma del genere trombone), l'abbandona per andare a vivere con una donna molto più giovane dopo 25 anni di matrimonio e la madre, che ha accudito finché ha potuto a domicilio, muore dopo che è stata costretta a farla ricoverare in una casa di riposo. Anche i figli sono ormai fuori casa da tempo, e così si trova nella condizione di dover affrontare una condizione di libertà a cui per tutta la sua vita non era mai stata abituata. A salvarla dalla depressione o da una crisi di identità proprio la materia che ama e insegna, la filosofia: maestra di vita quanto la storia, cui fornisce gli strumenti per interpretarla e darle un senso, nonché ginnastica e terapia della mente, che si pone le domande sull'essere e l'esistere indispensabili per individuare e inquadrare i problemi, pesarli, analizzandone le cause per ipotizzare delle soluzioni percorribili, un'abitudine mentale che Nathalie ha da sempre e le fa vedere le cose con chiarezza, senza chiudersi in sé stessa ma confrontandosi in modo non dogmatico con gli avvenimenti e col  prossimo. In questo percorso, che compie da sola salvo la compagnia di Pandora, la vecchia gatta nera e obesa ereditata dalla madre, a cui pure è allergica (e che come lei trova un suo nuovo equilibrio, passando da animale di compagnia domestico alla vita in campagna) e il rapporto intellettuale con Fabien, un suo brillante ex allievo di tendenze anarchiche che si è ritirato a vivere nelle Prealpi del Vercors ad allevare capre e scrivere saggi filosofici, Nathalie si apre a una nuova dimensione della sua esistenza rafforzata, anziché diminuita. La registra accompagna Nathalie tra la scuola dove insegna, la sua casa, quella della madre, quella della famiglia del marito in Bretagna a cui si era affezionata, quella di Fabien e dei suoi amici, sempre attiva e pronta a citare, senza mai diventare fastidiosamente saccente, il pensiero dei filosofi che ama e a discuterlo. Non c'è alcuna gravità e insistenza, nella maniera in cui la giovane e brava regista racconta questo percorso: il suo film ha una sua grazia lieve senza essere mai lezioso; attento senza essere pedante; didascalico quanto può (e vuole) esserlo un film sulla vita di un'insegnate di filosofia che si immedesima nel suo ruolo (e su un'interprete straordinariamente credibile come Isabelle Huppert, mai sufficientemente lodata) però mai saccente. Un film riuscito e più che discreto.

martedì 2 maggio 2017

Rieccolo


Non occorre: le hai già abbondantemente insanguinate per aver seguito il tuo compare George W. Bush nelle sue guerre di aggressione in Asia Centrale e Medio Oriente e insozzate per aver distrutto quel che restava del welfare dopo la cura Thatcher nel Paese che lo ha inventato e avere asservito definitivamente quest'ultimo alla nazione di gangster schiavisti e genocidi partorito dai suoi stessi lombi. Dopo quello dello Statista di Rignano, colui che si sarebbe dovuto ritirare dalla vita polìtica se avesse perduto il referendum del 4 dicembre scorso, ecco un altro rientro in pista al Circo Barnum della politioca politicante: quello di Toni Bleah, il capostipite della Terza Via (quella di va a da via el cu), il nuovo corso della socialdemocrazia europea globalizzante, finanziaria, americanizzata e, naturalmente, politicamente corretta a cui si richiamava il neonato PD. Bentornato e vieni avanti, cretino, ché a noi ci viene da ridere!

lunedì 1 maggio 2017

Le donne e il desiderio

"Le donne e il desiderio" (Zjednoczone Stany Milosci) di Tomasz Wasilewski. Con Julia Kijowska, Magdalena Cielecka, Dorota Kolak, Marta Nieradkiewicz, Anrdej Chyra, Lukasz Simlat, Tomek Tyndik. Polona, Svezia 2016 ½
Polonia, 1990: un anno dopo la caduta del muro e l'implosione del sistema "comunista". Alla vigilia dell'elezione di Lech Walesa alla presidenza della repubblica in un'epoca di cambiamenti, quattro donne fanno i conti coi propri desideri tentando ciascuna a suo modo di realizzarli prendendo in mano le redini delle rispettive esistenze: questo presunto geniale e originale accostamento induce il giovane e autoreferenziale regista polacco Tomasz Wasilewski ad azzardarsi a narrare un improbabile intreccio di vicende che collega quattro donne che condividono lo stesso spazio claustrofobico di un orrido falansterio realsocialista dall'architettura carceraria in stile gregottiano che, all'interno, ricorda le famigerate "Vele" di Scampia nonché gli altri spazi pubblici che frequentano: la chiesa e la scuola, di cui è direttrice Iza, da sei anni amante e poi stalker di un medico, padre di un'allieva di lei, che la respinge proprio nel momento in cui rimane vedovo e la quale Iza è sorella maggiore di Marzena, insegnante di danza aerobica con un passato di reginetta di bellezza e un futuro da Witney Houston (alcol compreso) e il marito che lavora in Germania; di cui a sua volta si invaghisce Renata, insegnante di russo che nonostante sia stata appena licenziata da Iza pensa a come concretizzare il suo invaghimento per Marzena, che traffica videocassette con Agata, madre di un'allieva delle altre tre che gestisce un negozio di noleggio delle stesse e a sua volta è  vittima di una irresistibile attrazione erotica verso un giovane e prestante sacerdote e la concretizza surrettiziamente pensando a lui attraverso rapporti sessuali insolitamente furiosi con un marito che altrimenti disprezza e da cui abitualmente è fisicamente così schifata da non porgergli nemmeno la mano. Non vedo come altro riassumere se non in maniera contorta e arzigogolata la trama di questa pellicola ad alto tasso di presuntuosità e squallore, concepita come un'opera circolare che però non porta da nessuna parte, così come non si chiude il cerchio delle vicende sordidamente  pruriginose delle quattro donne in questione, con tanto di esagerate esibizioni di corpi senza motivo e senza grazia alcuna, e gran profusione di tristi stanze da bagno e cessi in particolare, il tratto unificante delle varie vicende. Non è un film sul desiderio femminile, checché ne faccia pensare il titolo, dunque, ma in tutta evidenza sulle ossessioni onanistiche e compulsive dell'autore, pur premiato incautamente con un Orso d'Argento per la sceneggiatura (?) alla Berlinale dell'anno scorso, palesate da una scena di masturbazione da parte di un fotografo davanti al corpo denudato di Marzena caduta in coma etilico mentre gli faceva da modella e con conclusione della stessa sul ventre della ragazza. Detto questo, nella speranza di far desistere chi legge dalla visione di cotanta pena, avrebbe già dovuto mettermi sul chi vive una produzione polacco-svedese, per la comune propensione alla psicanalizzazione segaiola delle proprie fissazioni e turbe sessuali e comportamentali (benché tecnicamente le due cinematografie abbiano un indubbio spessore, nonché abbondanza di interpreti di qualità, come confermano  le prestazioni di tutti i componenti dal cast: solo a questo è dovuto il giudizio non del tutto negativo dell'opera) nonché uno sguardo a qualche immagine di Wasilewski: con quella faccia un po' così e l'espressione un po' così da cinépirle e pettinatura, barbetta e occhiali a metà tra il nerd e lo hipster, per la serie Rivalutare Lombroso: il professore sì che se ne intendeva. Mugungi e borbottii a scena aperta in sala, e commenti tipo "che palle", "meno male che è finita" dopo un'ora e quaranta in tutto che sono sembrati tre ore di martellamento sugli zebedei, e la voglia di dire a Walisewski "ma và mo a cagher!"