mercoledì 29 marzo 2017

Animali da bar


"Animali da bar" di Gabriele Di Luca/Carrozzeria Orfeo. Regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi. Con Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasini, Paolo Li Volsi; voce fuori campo di Alessandro Haber. Musiche originali di Massimilano Setti; costumi Erika Caretta; luci di Giovanni Berti. Produzione Fondazione Teatro della Toscana 2015-Carrozzeria Orfeo in collaborazione col Festival Internazionale di Andria/Castel dei Mondi. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 2 aprile.
E' il bar, in Italia più che altrove, il luogo d'elezione per la socializzazione e per mettere in scena la propria terapeutica rappresentazione quotidiana, la zona franca per dar vita a una maschera che compensi le frustrazioni accumulate nella vita domestica e lavorativa nonché le proprie debolezze anche in tempo di sòscial media, il ring su cui sfogare la propria aggressività repressa senza pagare il dazio del confronto con la realtà esterna, ché il bar è una sorta di utero materno rassicurante e caldo, un porto franco per anime perse che lì trovano una propria dimensione e un riconoscimento. E' attorno a un lungo bancone, presidiato da Mirka, la barista ucraina che gestisce il locale e spilla birra da un fusto autentico, che si radunano quotidianamente e interagisono i quattro personaggi in carne ed ossa dell'atto unico, più un quinto di cui si ode soltanto la voce (quella registrata di Alessandro Haber), il vecchio inacidito proprietario del locale, malato di cancro ai testicoli infuriato col mondo e soprattutto con gli immigrati, che vive nell'appartamento sopra il locale con cui è in contatto per inferfono. Gli altri sono il suo nipote, un impresario di pompe funebri per piccoli animali (Gabriele DI Luca) in attesa che il vecchio tiri le cuoia; "Swaroski" (Paolo Li Volsi), uno scrittore alcolizzato incaricato dall'editore a scrivere un romanzo sulla Grande Guerra che non riesce a portare avanti; lo "Sciacallo", uno storpio maniaco depressivo incline al suicidio che svaligia le case di gente appena morta (su segnalazione di Mirka), il quale non ha ancora superato il trauma del rifiuto da parte dei suoi vecchi compagni di liceo (Pier Luigi Pasini) e "Colpo di frusta", il buddista militante dei diritti dei monaci tibetani (Massimiliano Setti) che si nutre di sole mele e si fa malmenare dalla moglie che, per non ostacolare i suoi progressi in carriera, rifiuta la maternità delegandola a un estranea, per l'appunto Mirka, la quale arrotonda le entrate affittando l'utero alla bisogna (la bravissima Beatrice Schiros) e che è il vero personaggio centrale attorno a cui ruotano le vicende giganteggiando sugli altri con la propria umanità scontrosa, che aggredisce per prima per autodifesa, come per riflesso condizionato. Dialoghi serrati, battute caustiche e cinismo a volontà a fare da schermo a inadeguatezza e senso di impotenza che aleggia sui personaggi. Come già in Thanks for vaselina, molta la carne al fuoco e temi affrontati con ironia dissacrante e politicamente scorretta ma senza esagerare e cadere nella scurrilità non necessaria; l'affiatamento del gruppo garantisce ritmo e tenuta, il divertimento è assicurato senza essere mai fine a sé stesso e lasciando sullo sfondo un quadro di desolante inutilità. Tutto esaurito: il pubblico dell'Elfo gradisce e la "Carrozzeria Orfeo" tornerà, la prossima volta in Sala Shakespeare, quella grande, in dicembre con un nuovo lavoro. 

lunedì 27 marzo 2017

Elle

"Elle" di Paul Verhoeven. Con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling, Josal Bloquet, Virginie Efra, Aluce Isaaz, Christian Berkel, Judith Magre, Vimala Pons e altri. Francia, Belgio, Germania 2016 ★★★★★
Davvero non capisco con quali lenti una buona parte della critica professionale visioni un film, se non con quelli del pregiudizio, sempre ammesso che lo veda veramente e non resti in redazione a sbirciare le recensioni di qualche altro trombone di maggior fama per scrivere il proprio pezzullo. L'uso di lenti deformanti nel caso del dirompente e geniale Elle di Paul Verhoeven è palese quando si leggono stronzate tipo "il pugno dello stomaco della scena iniziale: uno stupro a cui assiste un magnifico gatto grigio", che infatti è puntualmente grigio a meno di non essere daltonici; o della protagonista (una Isabelle Huppert a cui andrebbe innalzato un monumento in vita) che ingaggerebbe un'ossessiva caccia all'autore dello stupro, se non fosse che questo faccia palesemente parte di un acuto gioco  ad altissima tensione erotica orchestrato magistralmente da Michelle, la proprietaria della casa di produzione di videogiochi di ruolo particolarmente cruenti e, per l'appunto, ad alto contenuto sessuale (pur non essendo pornografici), una donna energica, cinica, sferzante,   brillante, capace di manipolare sapientemente chiunque abbia a che fare con lei e padroneggiare ogni situazione la quale, se si rifiuta di denunciare la violenza alla polizia, avrà pure un suo perché. Che non è soltanto quello di non rovinare la tenzone con il "violentatore", in  grado di procurarle quegli orgasmi devastanti che il suo pur focoso amante attuale non riesce più a garantirle (una donna speciale come Michelle ha bisogno di stimoli speciali), ma ha motivazioni che risalgono a un passato oscuro e alla relazione col padre, un killer seriale in galera da quarant'anni che, giusto nel periodo in cui si svolgono i fatti, è il giudizio per la richiesta di libertà condizionata (che gli verrà negata). Mi rifiuto di aggiungere altri particolari sulla trama per non rovinare la sorpresa a chi deciderà, e spero siano in molti, di andare a vedere questo compendio di sapienza cinematografica e capacità di racconto. Elle è un film spiazzante ancor più che sorprendente, che sfugge, volutamente, a ogni classificazione: ha la suspense dei migliori thriller, i toni beffardi della commedia grottesca, una vena surreale che porta dritto alle migliori opere di Luís Buñuel, la capacità di osservare con ironia i meccanismi di interazione di una borghesia rancida e dai valori putrescenti di un Truffaut, che oggi solo François Ozon sa riproporre. Verhoeven in Elle ha compendiato tutto ciò, e bisogna ringraziarlo per questo. 

mercoledì 22 marzo 2017

Il diritto di contare

"Il diritto di contare" (Hidden Figures) di Theodore Melfi. Con Taraj P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Glen Powell, Mahershala Ali, Aldis Hodge e altri. USA 2016 ★★½
Rispetto agli ultimi due film black  e politicamente corretti come Moonlight e Loving, come avevo previsto Il diritto di contare,  gioco di parole del titolo italiano che allude alla professione delle tre eroine di cui la pellicola vuole essere un biopic, matematiche di colore che alla NASA lavoravano ai piani spaziali che mandarono nello spazio i primi astronauti americani, recuperando il gap procurato dai russi prima con la cagnetta Laika e poi con Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio, almeno si fa vedere ed è vitale, per quanto non si allontani dallo stile della commedia di costume (in questo caso i mitici Sixties, con tanto di colonna sonora adeguata al caso) per il largo pubblico di bocca buona. Il tutto abbastanza in stile Disney e quindi favolistico e con toni morbidi, benché abbia apprezzato i riferimenti all'ossessione di essere spiati ed eventualmente aggrediti dall'URSS, una vera paranoia che stava alla base dei progetti spaziali degli USA, ben più che il mero intento scientifico e l'esplorazione in sé. Per il resto qui il Politically Correct ha preso due piccioni con una fava facendo uscire il film, almeno in Italia, nei dintorni dell'8 Marzo e cogliendo due minoranze di cui celebrare la conquista (?) dei diritti civili al prezzo di una: donne e per di più di colore. La storie delle tre scienziate è ovviamente addomesticata e abbondano le battute ironiche e le situazioni sdrammatizzanti, benché il film si concentri soprattutto sul personaggio di Katherine Goble Johnson, colei che calcolò traiettorie e finestre di lancio per le missioni Mercury che mandarono John Glenn nel 1962, primo americano in orbita attorno alla terra, fino a quelle Shuttle, una talento matematico eccezionale tuttora vivente, alla bella età di 99 anni, affidato all'interpretazione leziosa e sopra le righe di Taraj P. Jenson, che l'ha resa in un modo decisamente edulcorato, mentre sono più credibili le due attrici nei panni delle colleghe Dorothty Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (la peperina Janelle Monáe). Di contorno e nella parte Kevin Costner (il grande capo del progetto (un personaggio inventato, fusione di tre veri) e una Kirstin Dunst dirigente donna, razzista sotto traccia ma poi redenta, prima odiosa e che s'addolcisce col passare dei minuti. Per il resto, oltre agli inserti delle immagini d'epoca, interessanti da un punto di vista documentario, un film per molti versi già visto. Insomma, la lotta per i diritti civili a quell'epoca fu tutta un'altra cosa, e combattuta con ben altri mezzi e sostanza che col buonismo. Comunque vedibile, considerato  quel che passa il convento in questo periodo cinematograficamente scarso. 

domenica 19 marzo 2017

Loving

"Loving" di Jeff Nichols. Con Joel Edgerton, Ruth Negga, Marti Csokas, Terry Abney, Nock Croll, Alano Miller, Michael Shannon, Sharon Blackwood, Bill Camp e altri USA 2016 ½
Quanto debba essere sporca la coscienza nel Grande Paese delle Libertà e delle Opportunità al di là dell'Atlantico anche da parte dell'establishment progressista che domina a Hollywood e dintorni, il tutto acuito dal non essere stato in grado di produrre un'alternativa credibile a un personaggio come Donald Trump alle recenti elezioni presidenziali, lo testimonia la contemporanea presenza di tre film che hanno per argomento la segregazione razziale: lo squallido e imbarazzante Moonlight, il Loving in oggetto, già un poco più guardabile, e Il diritto di contare che, visti i due precedenti, comincio ad avere qualche dubbio se affrontare, anche se pare fornito di maggiore verve dei due precedenti. Loving ha l'indubbio merito di far conoscere una vicenda che ha avuto un'importanza storica perché portò, nel 1967, a una sentenza della Corte Suprema degli USA che dichiarò incostituzionale il Racial Integrity Act dello Stato della Virginia, che vietava i matrimoni interrazzali, ancora in vigore perfino dopo la promulgazione del Civil Rights Act da parte di Lyndon Johnson nel 1964, che poneva fine, almeno in linea teorica, alla discriminazione razziale nel Paese e questo ben un secolo dopo l'abolizione della schiavitù da parte dl Lincoln col 13° emendamento alla Costituzione (quest'ultimo particolare non viene sottolineato nemmeno dalle didascalie finali), ma i pregi della pellicola si fermano qui. Siamo nel 1959 e Richard Loving, un muratore con la passione dei motori, tanto bianco da sembrare quasi un albino, per sposare la sua amata Mildred, nera, anzi: sanguemisto, deve recarsi a Washington ma la coppia viene arrestata nello Stato di residenza, la Virginia, dove vive nella casa dei genitori di lei (le Virginia rurale, per la sua interrazzialità, faceva eccezione nel panorama degli Stati Uniti del Sud): Richard esce subito di prigione su cauzione, lei viene trattenuta per alcuni giorni, benché incinta. Per risolvere la questione, patteggiano la pena dopo essersi dichiarati colpevoli e il giudice dispone che non possano rientrare insieme in Virginia per i 25 anni successivi, così che i due coniugi si trasferiscono a Washington, dove non si ambientano e decidono di tornare; ma assieme torneranno le grane con sceriffo e giudici. Mildred decide di rivolgersi all'allora ministro della Giustizia Robert Kennedy che li affida agli avvocati della ACLU, Unione Americana per i Diritti Civili, i quali riescono a portare il caso alla Corte Suprema, vincendolo. Il problema è che il film è di una lentezza esasperante, spezzettato in brevi episodi che si ripetono: Richard al lavoro, con cazzuola e livella a bolla, o alle prese con un motore; Mildred in cucina o ad accudire i figli; il parentado silenzioso: nessuno parla mai dell'argomento. Richard, che testimonianze dal vero, a cominciare dal fotoreporter di Life Grey Villet, un sudafricano che ben conosceva la segregazione razziale e prese a cuore la loro vicenda, era sicuramente una persona semplice e taciturna, ma il film lo presenta ai limiti dell'autismo; pure Mildred era una donna discreta, ma non è possibile che i due coniugi e la loro variegata parentela non comunicassero, né che Richard non interloquisse o quasi coi suoi compagni di lavoro (prevalentemente bianchi). In questa afasia generalizzata, si inseriscono nella mezz'ora finale i due avvocati che si occupano della questione e la pellicola prende un minimo di vita, ma troppo poca per un risultato accettabile, e questo nonostante la bravura degli attori, che a tutta evidenza si limitano a fare quel che chiede loro un regista dalla mano non particolarmente felice (fra l'altro, che l'interprete di Mildred, Ruth Negga, fosse etiope o eritrea, e quindi improbabile come discendente di schiavi afroamericani, l'avevo capito prima ancora di aver controllato la sua biografia). Raccontare in modo non plausibile una storia vera significa rendere un pessimo servizio sia alla verità sia a una causa meritevole; farlo attraverso i cliché dei neri remissivi e sempre rispettosi della legge, alla "sì buana", è perfino insultante nei loro confronti, e questo senza parlare della svergognatezza di una Nazione che si dice portatrice di valori universali di uguaglianza e libertà, e che per diffonderli per il mondo non esita a usare le armi, ma non è nemmeno in grado di applicare la Costituzione in casa propria. Insomma un'altra dose letale di buonismo a buon mercato. Non è un caso che l'unico che cinematograficamente abbia detto qualcosa di serio sul razzismo negli USA, rendendo al contempo giustizia a chi ne è vittima, sia un regista bianco, d'origine italiana, fuori dagli schemi e politicamente scorretto come Quentin Tarantino, soprattutto in Django Unchained, a mio parere un capolavoro assoluto. Perché non è un ipocrita, oltre a sapere usare la macchina da presa e utilizzare degnamente gli attori; e in grado di raccontare verità attraverso storie inverosimili. 

venerdì 17 marzo 2017

Il prezzo


"Il prezzo" (The price) di Arthur Miller, traduzione dall'inglese di Masolino D'Amico. Con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale, Elia Schilton. Regia Massimo Popolizio; scena Maurizio Balò; costumi Gianluca Sbicca; luci Pasquale Mari. Produzione Compagnia Umberto Orsini. Al Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone il 14 e 15 marzo 2017. Dal 16 al 19 a Bolzano; il 22 a Cittadella (PD), dal 22 al 26 a Mestre (VE); dal 28 al 2 aprile a Verona.
Atto unico del 1968 di Arthur Miller, "Il prezzo" è un classico moderno pochissimo rappresentato in Italia e riproposto due anni da, in occasione del centenario della nascita del drammatrurgo americano, dalla Compagina Orsini per la regia, la prima in carriera, di Massimo Popolizio, e che ora è in tournée nei teatri della Penisola. Quanto mai attuale, il dramma si svolge in un'unico spazio, un appartamento ormai ridotto a un magazzino in un palazzo di prossima demolizione dove, dopo sedici anni in cui si sono persi di vista, si ritrovano due fratelli che convocano un broker, Salomon, un vecchissimo ebreo che le ha viste tutte, per stabilire il prezzo della mobilia lasciata dal padre, un tempo ricco ma che si era rovinato dopo la crisi del 1929. Quest'ultimo, interpretato magistralmente con ironica leggerezza e disincanto da un intramontabile Umberto Orsini, rimane così testimone delle schermaglie tra Victor, il fratello diventato poliziotto che, per assistere il padre, ha rinunciato a una brillante avvenire da scienziato, l'insopportabile moglie Esther, depressa e alcolista, che lo vessa rinfacciandogli l'atteggiamento rinunciatario, da perdente nato, e l'incapacità di gestire gli affari, e il redivivo fratello Walter, riapparso per l'occasione, diventato nel frattempo un chirurgo di fama e arricchitosi gestendo case di riposo, che ha fatto carriera infischiandosene dei doveri famigliari, delegati a Victor. Miller non giudica, ché ognuno ha le sue responsabilità, pure Victor, per cui il "sacrificio" opera anche come giustificazione per non essersi messo in gioco e non aver voluto vedere la realtà per quello che è e che, nell'America a stelle e strisce, nonostante la dura lezione della Grande Depressione, rimane dominata dal business in tutte le sue declinazioni e dal prezzo che ogni cosa ha, perfino la negazione del proprio passato. Regia asciutta ed efficace, interpretazione volutamente ingessata quella del Victor di Popolizio, a sottolinearne l'impaccio esistenziale e i tormenti interni, brillante quella dello strafottente Walter da parte di Elia Schilton, efficace e nella parte Alvia Reale nei panni della petulante Esther. Bello spettacolo, all'altezza delle aspettative, che nell'occasione erano piuttosto elevate. 

martedì 14 marzo 2017

Triste, solitario y final


Dall'autosospensione (un istituto giuridico inesistente partorito dalla creativa mente dei politici italiani beccati in castagna e inquisiti dalla magistratura e riportato in auge alla bisogna dal sindaco milanese Beppe Sala, di recente utilizzato anche  da Tiziano Renzi, segretario della sezione pidiota di Rignano all'Arno nonché padre del segretario nazionale del partito) all'aspettativa per sei mesi senza stipendio: si conclude così la parabola di Roberto Napoletano al vertice del Sole-24Ore, e questo dopo ben quattro giorni di sciopero a oltranza indetto dal CdR del giornale confindustriale, e già questa "lotta dura senza paura" mi suscita uno sghignazzo. Una vicenda grottesca, riassunta qui nelle sue linee essenziali dall'AGI. Ovviamente nessuna solidarietà a Napoletano e men che mai alla sua redazione: se anche lil Sole, che già non splende da un pezzo, scomparisse dall'orizzonte delle edicole e la sua voce dall'etere, non sarebbe certo a detrimento dell'informazione in questo Paese, già messa male di suo; quanto ai pennivendoli, un po' di prepensionamenti per qualche nuova legge sull'editoria e per il resto chi se ne frega, tanto si tratta di precari e stagisti. I quali, prestandosi a farlo per il Sole, non mi fanno alcuna pena. Come esempio di affidabilità e serietà prendiamo proprio questo personaggio oggi al centro della cronaca giudiziaria che, ci piace ricordare, era uso propinare ricette politiche ed economiche a destra e a manca, in nome dell'efficienza, del merito e, va da sé, dell'onestà e della trasparenza, su come risolvere i problemi italiani da qualsiasi pulpito gli desse l'occasione di fare le sue prediche: e gli davano pure retta. Nella storia rimane il suo editoriale del 10 novembre del 2011 e il titolo a caratteri cubitali che lo sovrastava, quando invocava l'arrivo di Mario Monti al governo. Detto e fatto: ne paghiamo le conseguenze ancora oggi. Non ci mancherà, Napoletano, come non ci manca Monti. E nemmeno ci mancherebbe il Sole. Che non è dell'avvenir.

domenica 12 marzo 2017

T2: Trainspotting

"T2 Trainspotting" di Danny Boyle. Con Ewan McGregor, Ewen Bremner, Jonny Lee Miller, Rober Carlyle, Anjela Nedyalkova, Simon Weir e altri. Gran Bretagna 2016 ★★★½
Dopo le tre invereconde pellicole visionate di seguito, una più deludente dell'altra eppure osannate da una buona parte della "critica" luogocomunista, perfino un sequel ad altissimo rischio come Trainspotting 20 anni dopo fa gridare al miracolo e al capolavoro, pur essendone lontano ma pur tuttavvia assai dignitoso, e comunque costituisce una bella boccata di ossigeno dopo tanta noia e mediocrìità. Trainspotting, tratto da un romanzo breve di Irwine Welsh e trasferito nel 1996 in immagini da Danny Boyle con gli stessi interpreti di oggi è stato un film che ha fatto epoca, dipingendo un ritratto delirante di una generazione perduta ma vitale, risultato residuale di vent'anni di cura thatcheriana che aveva scardinato, assieme alla working class e al welfare, il sistema di convivenza della società britannica, e questo in un'area del Paese di per sé considerata periferica, almeno dal punto di vista di Downing Street, come la Scozia, raccontando la storia di un gruppo di amici tra musica, furti, spaccio e quantità esagerate di additivi chimici, parlando anche dell'aspetto droga e tossicodipendenza con un linguaggio rivoluzionario in forma di black comedy dal ritmo adrenalinico. Vent'anni dopo, con il ritorno di Marc Renton a Edimburgo, dopo che ne era fuggito con la "cassa" di 16 mila sterline frutto della vendita di una partita di eroina sottratta agli amici per rifarsi un'esistenza piccolo borghese da contabile ad Amsterdam, viene riproposto il seguito, comprensibilmente con ritmi più blandi dovuti all'incedere dell'età. Tranne Tommy, morto già nel film precedente e omaggiato in questo, Marc ritrova i compagni di allora: Simon Sick Boy, l'amico d'infanzia, ha rilevato la gestione del decrepito pub di famiglia e integra le entrate ricattando riccastri  viziosi dopo averli filmati in incontri erotici con una prostituta bulgara, Veronica, la sua fidanzata; Spud è sempre lo stralunato tossicomane rifiutato da moglie e figlio, ma più disperato, tanto da tentare il suicidio: lo salverà Marc ma soprattutto la scoperta dentro a sé stesso di un'inaspettata vena di narratore; Begbie, sempre più incattivito, è in galera, da cui però riesce a fuggire rocambolescamente per riprendere i suoi furti e iniziare al mestiere il figlio recalcitrante, che invece si è iscritto al college: quando viene a sapere del ritorno di Marc in città, si scatena per rintracciarlo e punirlo per il tradimento di vent'anni prima. "Sei tornato perché nostalgico, sei un turista della tua adolescenza" dice Simon a Marc; in realtà è tornato perché l'azienda in cui lavorava ha tagliato il personale per via della crisi generalizzata e anche la sua vita da "regolare" è andata all'aria, e così il suo matrimonio: il mondo della sua gioventù a questo punto non poteva essere peggio, almeno non gli era estraneo. La vicenda è comunque spassosa e le immagini del passato ritornano in fulminei flash-back che impregnano il sequel dell'atmosfera del film precedente pur occupando in totale non più di un minuto. Se il primo film parla comunque dell'energia giovanile, positiva di per sé anche in una realtà senza speranze com'era quella degli anni Novanta, T2 si concentra sulle delusioni della maturità e le miserie della modernità, ma lo fa con tutti gli elementi, dalla sceneggiatura, all'alchimia fra gli interpreti, all'ambientazione e alla colonna sonora, al ritmo che servono per dare vita a un prodotto cinematografico degno di questo nome.

venerdì 10 marzo 2017

La Pordenone dei morti viventi

Ado Scaini, Marco Minuz e Gianni Zanolin alla presentazione del libro "Viale Marconi" ieri sera ìall'ex Convento di San Francesco di Pordenone

Pienone ieri sera alla sala grande dell'ex Convento di San Francesco in Piazza della Motta, a Pordenone, per la presentazione di Viale Marconi di Gianni Zanolin (edito da L'omino Rosso), quarto noir dell'appassionante serie che vede protagonista il commissario di Polizia Vidal Tonelli, sempre ambientato nel capoluogo della Destra Tagliamento, ovvero Friuli Occidentale. Questa volta il caso ruota attorno al ritrovamento, nelle acque del Noncello, del cadavere orrendamente deturpato di un personaggio ben conosciuto in città, nonché carissimo amico di Tonelli (e dell'autore): Ado Scaini, protagonista e anima della stagione del Great Complotto, fenomeno musicale e sociale tutto pordenonese, unico in Italia ma non solo nell'epoca post-punk a cavallo della fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta e oggi apprezzato promoter musicale, nonché mio coetaneo e cugino fraterno. Il quale peraltro gode di ottima salute nella realtà, essendo intervenuto all'evento dialogando con Zanolin e il moderatore Marco Minuz. Che si tratti di un omicidio è chiaro fin dai primi rilievi, e che l'assasinio abbia una valenza simbolica e in che senso lo ha scritto come meglio non si sarebbe potuto ieri in una bellissima presentazione Giuseppe Ragogna sul Messaggero Veneto e lascio a lui la parola: buona lettura.  
L'autore parteciperà alla presentazione di "Viale Marconi" stasera all'Osteria Da Afro di Spilimbergo alle 18.30 e, alla stessa ora, sabato prossimo, 18 marzo, alla Biblioteca Civica di Pasiano; mentre incontrerà i lettori anche domani alla Libreria Al Segno di Pordenone dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 17.30 alle 19.30.
E ricordate: l'è dove che i more i sogni che i nasse i 'sassini!

mercoledì 8 marzo 2017

Vi presento Toni Erdmann

"Vi presento Toni Erdmann" (Toni Erdmann) di Maren Ade. Con Peter Simonischek, Sandra Hüller, Michael Wittenborn, Trystan Pütter, Ingrid Bisu, Thomas Loibl, Hadewych Minis, Radu Bananu, Vlad Ivanov e altri. Germania, Austria 2016 ★-
Non c'è due senza tre, come dice il proverbio: terza cagata colossale di fila in sala, anche questa osannata da una buona parte della critica prezzolata, cieca o in malafede. Anche se già solo l'accostamento degli aggettivi divertente, lieve e tedesco è piuttosto azzardato nonché sospetto, ero curioso di come una sceneggiatrice e regista germanica avrebbe sviluppato i tentativi di riavvicinamento di un padre anziano e propenso alla burla alla figlia mannagger in carriera in trasferta a Bucarest al servizio di una qualche azienda di servizi teutonica di tagliateste (sono loro i veri tagliagole, non i selvaggi balcanici), anche confidando nella bravura di Peter Simonischek, attore di teatro austriaco di grande spessore e bravura: la si intravede, ma sprecata in questo film insulso e indisponente  quanto velleitario e insopportabilmente tedioso (supera abbondantemente le due ore e mezzo), ma in questo frangente utilizzato soltanto per il suo talento di ortodontotecnico, mestiere a cui lo aveva avviato il padre dentista al suo rifiuto di seguirne la strada, iscrivendosi invece ad architettura e, segretamente, alla scuola di recitazione. Ecco da dove nasce l'ossessione di Winfried Conradi, il protagonista del film, conosciuto anche come Toni Erdmann quando si maschera con parrucche improbabili, per i denti finti, che completano regolarmente i suoi travestimenti. Che sono il mezzo col quale questo insegnante di musica in pensione (non viene detto esplicitamente ma lo si evince dalle sinossi e dalle recensioni mentre solo un paio di indizi sono disseminati da una sceneggiatura sciatta e scombinata a confermarlo) tenta di rientrare in rapporto con una figlia nevrotica, mentecatta, in carriera, incarognita, anaffettiva e odiosa (in questi tratti resa egregiamente dalla frigida e scostante Sandra Hüller). Winfried, che vive solo con il vecchio cane e passa il tempo facendo scherzi puerili e andando a far visita alla madre immobilizzata su una sedia a rotelle, incontra per caso la figlia Ines a una festa di compleanno presso la ex moglie e, vedendola costantemente attaccata al cellulare, intuisce che qualcosa non va e che è infelice nonostante la disinvoltura e sicurezza esibite. Quando gli muore il cane Billy, ha la bella pensata di andarla a trovare per qualche giorno a Bucarest, dove Ines è stata trasferita da qualche anno dalla sua società per elaborare piani di riduzione dei costi (leggi personale) di un'azienda petrolifera locale, e dove esporta le sue trovate imbarazzanti per quanto siano poco divertenti, per di più improbabili quanto le reazioni di Ines, tanto nazista sul lavoro quanto inebetita e vacua nella vita privata, ammesso e non concesso che ne abbia una. Il riavvicinamento tra padre e figlia funziona così bene che quest'ultima si dimette dalla società che l'aveva mandata in Romania per andare a lavorare per una multinazionale ancora più grande e prestigiosa ben più lontano: nella quasi irraggiungibile, per Toni Edrmann aka Winfried, Singapore. E così avanti per oltre 260 interminabili minuti, con delle gag patetiche e dei riferimenti simbolici quantomeno discutibili e raffazzonati. Eppure gli spunti non mancavano, a prescindere dalle farneticanti letture in chiave "psicanalitica" e perfino "bergmaniana" di qualche critico troppo indulgente con i viaggi a base di acido lisergico o di schnaps alla frutta, a cominciare dal colonialismo tedesco nel Sud in particolare nell'Est europeo, consentito grazie alla posizione di dominus della Germania nella UE, dall'uso delle maschere e di codici di comportamento artefatti e intercambiabili nelle diverse situazioni in cui viene vissuta un'esistenza ormai parcellizzata e schizoide, in cui il singolo ormai è un attore/spettatore al contempo oggetto e soggetto di molteplici ruoli nonché cliché e in cui si perde ogni dimensione individuale e sociale. Gli interpreti, per quanto bravi, non possono essere crediblili perché non lo sono i personaggi, sbozzati con l'accetta e senza alcuna profondità: non a caso gli unici nella parte sono proprio quelli rumeni, non ancora completamente disumanizzati ma ormai pronti ad adattarsi agli schemi del nuovo padrone. Si può anche intravedere qualche segno di autocritica da parte dell'autrice nonché regista di questa farsa desolante e triste, ma è decisamente troppo poco per rendere edibile un prodotto che del racconto cinematografico dimostra di non conoscere nemmeno l'alfabeto di base. In attesa di verificare di persona che perfino l'ultima fatica turca di Ferzan Otpetek si riveli meno indigesta di questa mappazza, sconsiglio caldamente chi legge di andarsela a infliggere.

lunedì 6 marzo 2017

A House in Asia / Agrupación Señor Serrano


"A House in Asia" / Agrupación Señor Serrano di Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal. Con Àlex Serrano, Pau Palacios e Alberto Barberá e la partecipazione del gruppo Country Soul di Santa Maria di Lestizza; voci James Philips e Joe Lewis; scene e luci Alberto Barberá; colonna sonora a cura di Roger Costa Vendrell; project manager Barbara Bloin;  creazione video Jordi Soler; modellini in scala Nuria Manzano; costumi Alexandra Laudo. Produzione GREC 2014 Festival di Barcelona, Hexagone Scène Nationale Arts et Sciences - Meylan, Festival TNT - Terrassa Noves Tendències, Monty Kultuurfaktorij, La Fabrique du Théâtre - Province de Hinault.
Al Teatro PalaMostre di Udine per CSS Teatro Contatto
Geniale, folgorante, esplosiva (nel vero senso del termine) rappresentazione dei tre performer catalani dell'Agrupación Señor Serrrano in azione sabato sera al PalaMostre di Udine con il loro spettacolo A House in Asia premiato col Leone d'argento per l'innovazione teatrale alla Biennale di Venezia 2015. Il terzetto, tra cui il fondatore del collettivo Àlex Serrano, azionano un apparato scenico costituito da modellini in scala (esposti al pubblico sul palcoscenico per poterli apprezzare a distanza ravvicinata alla fine del breve ma intenso show), proiezione video, regia in presa diretta, attuazione vera e propria: un uomo che, sedendosi in un'immaginario e deserto parcheggio texano vicino a un pick up rosso racconta a tappe il suo passato da Navy Seal: è colui che uccise Geronimo, aka Osama Bin Laden, a conclusione dell'Operazione Neptune Spear nel 2011, esito letale e misterioso della più colossale caccia all'uomo che si ricordi, scatenata da George W. Bush nell'ambito della Guerra al terrorismo dichiarata in seguito agli attentati dell'11 Settembre 2001 e durata per l'appunto dieci anni ma che proseguirà ad libitum finché durerà il delirio di onnipotenza dell'Impero USA con la fase successiva, già in atto, in cui il nemico è l'ISI, creatura peraltro statunitense come il babau precedente. Una caccia che si svolge tra finzione e realtà: le tre case in questione sono la prima quella che lo Sceicco del terrore abitava ad Abbottabad in Pakistan con la sua famiglie e i suoi fedelissimi; la seconda, ricostruita identica, nel North  Carolina dove si esercitavano le squadre dei corpi speciali, e la terza in Giordania, sulle scene del film Zero Dark Thirty diretto da Kathryn Bigelow che avrebbe descritto l'intervento già l'anno successivo; agghiaccianti le affermazioni rigorosamente autentiche che escono dalle bocche di Bush Junior prima Barack Obama poi e, per finire, l'ultimo arrivato tra i cacciatori di balene bianche più immaginarie che vere, e con ogni probabilità create ad arte, Donald Trump. Il tutto al ritmo di una colonna sonora martellante come quello a cui si svolge l'azione, proiettata su un grande schermo su cui, oltre ai sottotitoli in italiano, scorrono anche le immagini di vecchi western con cowboy, apaches e Settimo Cavalleria e dell'inseguimento ossessivo a Moby Dick. Accoglienza entusiastica da parte di un pubblico di tutte le età per un evento teatrale imperdibile: se vi capita a portata di mano, andateci di corsa. 

sabato 4 marzo 2017

Moonlight

"Moonlight" di Barry Jenkins. Con Mahershala Ali, Naomie Harris, Janelle Monae, Alex R. Hibbert, Ashton Sanders, Trevante Rhodes, André Holland, Jaden Piner, Shariff Earp e altri. USA 2016 ★-
"Se questo è un Oscar" è la traduzione del mugugno generalizzato che ha accompagnato l'accensione delle luci alla fine del film nella sala di Udine dove ho avuto modo di vederlo ieri sera, rovinandomi l'umore. Perché è palese che il premio per il miglior film drammatico (più appropriato sarebbe in questo caso il termine grottesco) e la miglior sceneggiatura non originale da parte dell'Academy è nient'altro che un dispetto del milieu progressista (quanto lo può essere un democrat USA) a Trump e al suo entourage, perché i temi o supposti tali, ossia emarginazione dei neri e minoranze varie, omosessualità, bullismo, povertà, violenza, droga, sono quelli che ha sbandierato per otto anni Obama, senza peraltro risolvere nulla in proposito, e che l'elettorato dell'attuale presidente ascolta con fastidio. Il che ci potrebbe anche stare, se questo assai mediocre adattamento di una pièce teatrale non avesse avuto come concorrenti due gioielli come La La Land e Manchester On The Sea, di cui ho ancora fresco il ricordo. Se il Demo-ShowBiz avesse voluto davvero dare un segnale serio, avrebbe dovuto premiare con l'Oscar al miglior documentario Fuocoammare, e lo dice uno che non ama particolarmente i lavori di Gianfranco Rosi. Oppure avrebbe dovuto conferire non tre, ma dieci statuette al nostrano Un bacio, che affrontava, in un altro contesto, gli stessi temi in modo incomparabilmente più maturo. Il film, suddiviso in tre capitoli che ritraggono il protagonista a circa dieci anni di distanza uno dall'altro, racconta della difficile formazione ed educazione sentimentale di Chiron, da quando ha circa sei anni e viene già vessato dai coetanei perché non aderisce ai loro modelli già machisti e veniva soprannominato "Piccolo" perché molto gracile; a circa 16 quando viene preso di mira dai bulli del liceo; a quando ne ha 26 ed è diventato a sua volta spacciatore, emulando, anche nella somiglianza fisica e nel modo di vestire, l'unica figura paterna avuta nell'infanzia: Juan, un pusher di origine cubana, compagno di Theresa, la sola persona con cui Piccolo riusciva a spiccicare qualche parola (la madre di Chiron era una tossicomane che si prostituiva in casa, presente il bambino). In quest'ultima fase è diventato Black e si trova ad operare ad Atlanta e non più nella natìa Miami, dove però torna per incontrare nuovamente un suo amico di infanzia e di gioventù, Kevin, con cui aveva avuto una fugace e innocente esperienza omosessuale da adolescente, e fare il punto su cosa e chi siano diventati entrambi. Questa la trama di Moonlight che, se non si rivolgesse principalmente al pubblico statunitense e alla cattiva coscienza tanto dei bianchi quanto degli afroamericani, si potrebbe pensare sia un insulto all'intelligenza dello spettatore medio, risultato di una sceneggiatura ridicola, farraginosa e poco credibile. Però premiata dall'Academy. Di seguito solo alcune delle favole per bambini idioti propinate nel film, peraltro di una lentezza e noia strazianti: 1) a sei anni a Chiron, pronunciato Sciàiron, viene impartita la prima lezione di correttezza politica: nel caso, non si dice frocio ma gay. E non da parte di un insegnante o di un parente: dallo spacciatore buono, filosofo, altruista e che si è davvero affezionato a "Piccolo"; 2) nel suburbio di Miami, un universo completamente coloured con qualche traccia ispanoamericana dove si svolge l'intera Epopea Chironiana, salvo una scappata notturna sulla spiaggia, in centro, dove viene filmata l'unica scena castamente omosex al chiar di luna (da cui il titolo) girano solo canne, droga leggera: così leggera che Paula, la madre di Chiron, finisce in un centro di disintossicazione e riabilitazione; 3) la ex puttana non solo si redime, ma diventa pure operatrice del suddetto centro; 4) last, but not at least, durante dieci anni da quando ha avuto la prima, fugace esperienza omosessuale con Kevin, in parte trascorsi in un riformatorio, per di più americano, Black, alias Chiron venticinquenne diventato un Maciste da mezza sega che è stato fino all'adolescenza (forse ha fatto uno stage a base di steroidi alla Juventus nel frattempo) non ha mai sfiorato, e soprattutto non è mai stato sfiorato, da un altro uomo. Come no: è rimasto puro come una verginella. Si salvano soltanto gli attori, e non tutti. E quesa roba circola regolarmente per i cinema di tutto il mondo. Una prece. 

mercoledì 1 marzo 2017

Beata ignoranza

"Beata ignoranza" di Massimiliano Bruno. Con Marco Giallini, Alessandro Gassman, Valeria Bilello, Carolina Crescentini, Teresa Romagnoli e altri. ★=
Vogliono rilanciare la "commedia all'italiana", riescono a coinvolgere anche due attori bravi e affiatati in grado di richiamare il pubblico come Alessandro Gassman e, soprattutto, Marco Giallini, che salva il salvabile, perché almeno centra il personaggio (le interpreti femminili sono una peggio dell'altra e riuscirebbero meglio in qualunque altro mestiere), poi cadono nel consueto luogo comune: non appena un film di genere ha successo, come Perfetti sconosciuti, perché lancia un'idea originale sulle possibili nefaste conseguenze dell'abuso dei sòscial, arriva quello che la scopiazza, banalizzandola e unendola a un altro filone della risata nazionale che, credendosi furbo, ritiene d'oro, ossia quello della scuola. Il risultato è un disastro, e avrei dovuto ricordarmi di un precedente di Massimiliano Bruno alla regìa e, quel che è peggio, alla sceneggiatura: Gli ultimi saranno i primi, sempre con Gassman Junior, che a questo punto è da considerarsi recidivo. Tutta una costruzione improbabile in partenza: Ernesto (Giallini) e Filippo (Gassman) si conoscono da una vita ma non si vedono da 25 anni: hanno amato la stessa donna, Marianna, sposata dal primo ma messa incinta dal secondo all'insaputa del primo, che lo scoprirà quando capita che si trovino a insegnare nello stesso liceo, ovviamente romano, diretto nonché frequentato da una manica di mentecatti. Si detestano e vengono alle mani in classe: il video che li ritrae furoreggia in rete (secondo la neolingua diventa virale) e fornisce il destro a Nina, la figlia in questione, di girare un documentario che li veda protagonisti della sfida di disintossicarsi dallo smartphone e dalla sua dipendenza per Filippo/Gassman, un deficiente laureatosi in matematica a tempo quasi scaduto col minimo dei voti nonché ex forzitaliota, e di convertirsi alla rete per Ernesto/Giallini, intellettuale all'antica che insegna letteratura, ovviamente sinistrorso ed ex sessantottino, che vi si butta rincoglionendosi per una collega, Margherita, una vera e propria drogata da chat. Per non farci mancare niente, pure Nina è incinta, ma non del suo compagno, bensì di un suo ex docente: però il suo fidanzato, un vero gggiòvane d'oggi, una "risorsa" che gravita guarda caso a Berlino (c'è anche il tema dell'emigrazione dei "cervelli", pensa te!) è più comprensivo dei due vecchi babbioni. Perché è moderno, lui. Ci mancava solo che fosse gay o quantomeno bisessuale. Naturalmente vissero tutti felici e contenti e pronti a esibirlsi in una cantatina in una terazza de Romabbbella con vista sulla Balduina. Racconto anche l'epilogo per fare passare la voglia a chiunque legga queste righe di andare a vedere questa pellicola davvero scoraggiante. Era meglio la saga del Pierino di Alvaro Vitali: almeno non aveva pretese di illustrare il mondo d'oggi.