lunedì 27 febbraio 2017

Jackie

"Jackie" di Pablo Larraín. Con Nathalie Portland, Billy Crudup, Greta Gerwig, Caspar Parsgaad, John Hurt, Caspar Philipson, Richard Grant, David Caves, Sunnie Pelant, Maria Aaron e altri. USA 2016 ★★★★★
Primo film statunitense del cileno Pablo Larraín, e che per di più affronta la nascita di uno dei grandi miti con cui quella nazione cerca al contempo di darsi un'identità ed esportare i propri "valori", in parte riuscendoci se la moglie Jacqueline, nata Bouvier, è diventata una figura iconica almeno per quelli che appartengono alla mia generazione, e che si ricordano ancora le immagini trasmesse milioni di volte in TV dell'attentato di Dallas del 22 novembre del 1963. Lo era già prima di quel giorno, al centro delle riviste per famiglie come di quelle di gossip di tutto il mondo: moglie giovane, bella e bennata del presidente giovane, bello e bennato (mah: lei 31 anni, lui 43 al loro arrivo a Washington; bella proprio no, con quel muso rincagnato e le fronte sporgente, lui nemmeno; bennati secondo gli standard a stelle e strisce: lui veniva da una progenie di contrabbandieri e trafficoni, lei da una pseudonobiltà d'origine francese); eleganti (sempre secondo i canoni yankee: sì, lei vestiva Chanel e spendeva patrimoni in abiti dai colori sgargianti e in cappellini non meno ridicoli di quelli di Elisabetta II), e poi ancora dopo l'assassinio, non chiarito a oltre mezzo secolo di distanza, un'ossessione da rotocalco. E' fuor di dubbio che la figura della First Lady, di fatto, nasca con lei. E comunque fu lei a creare il mito di JFK, secondo la lettura che Larraín fa dei cinque giorni successivi all'attentato, tra il rientro a Washington con la bara, il giuramento del successore e vice Lyndon B. Johnson, i preparativi degli sfarzosi funerali di Stato, voluti dalla vedova sulla falsariga di quelli avuti da Abraham Lincoln quasi un secolo prima e l'intervista da lei concessa al notista politico di Life, a cui si confida off the records vietandogli di citare altro che la versione da lei riletta e approvata. Larraín racconta tutto ciò sfalsando i piani narrativi, come già aveva fatto in Neruda, e anche in questo film utilizza il genere del biopic per destrutturarlo dall'interno, mostrando quanto non esista una sola versione dei fatti, e che le realtà è plasmata a seconda della visione personale che ognuno dei protagonisti ne ha. Lo stesso vale per il potere, la cui autorappresentazione è sempre al centro dell'attenzione del regista cileno: per rendere tutto questo Larraín è fedelissimo ai fatti ufficiali, come sono documentati soprattutto dalla TV, mentre lavora di fantasia (ma quanta verosimiglianza!) quando racconta i "dietro le quinte", a cominciare dai rapporti con l'entourage della Casa Bianca, Johnson e soprattutto il cognato Bob Kennedy, preoccupato invece del miserrimo lascito politico dalla presidenza del fratello che tante speranze aveva suscitato alla sua elezione: sarà Jackie a voler creare una mistica, un'immagine epica del marito e del suo sacrificio, che ne renda luminosa la figura, mettendo in ombra la scarsezza dell'opera e dei risultati. Vediamo una grandissima Nathalie Portman nei panni della vedova Kennedy in numerosi flashback, a cominciare da una famosa trasmissione della CBS in cui presenta al pubblico americano l'interno della Casa Bianca e spiega le modifiche che vi ha apportato: già qui è chiaro che Jackie sa sfruttare al meglio un mezzo che proprio in quegli anni diventa decisivo nel racconto che di sé fa il potere, così come conosce bene i meccanismi della comunicazione in generale. E ci riesce non per scienza infusa o un'intelligenza particolare, ma perché lei stessa era parte dello spettacolo, protagonista di una favola che era andata in frantumi con l'assassinio del marito, e che poteva continuare sotto altra forma solo attraverso la creazione del suo mito. Larraín ce la presenta come l'interprete di questa favola, con tutte le insicurezze e gli infantilismi tipici dell'attore e dell'artista, abituato a indossare maschere per ogni occasione proprio per esorcizzarli, e ha affidato Jackie a una attrice dei giorni nostri che la rappresenta in maniera portentosa, più Jackie ancora di quella vera, probabilmente anche più complessa. Il tutto in 90' così intensi e ricchi di sfaccettature da richiedere un'attenzione costante e una certa fatica che però viene ampiamente compensata. Il livello è altissimo: da vedere. 

sabato 25 febbraio 2017

C'è un solo Emiliano

Emilano Zapata Salazar, 8 agosto 1879-10 aprile 1919
Mi guardo bene dal seguire nei dettagli le tappe della grottesca pantomima della scissione del PD e dei penosi tentativi di costruire una sinistra parlamentare che questo Paese non ha mai davvero avuto con un personale politico di livello talmente miserevole che i bonzi della Prima Repubblica, nessuno escluso, nemmeno Mario Tanassi, al confronto giganteggiano; ma non mi è sfuggita la citazione di Che Guevara da parte Michele Emiliano nel discorso con cui si è candidato alle primarie pidiote: "Chi non lotta ha già perso". Un ex magistrato che si vede come il Che Guevara della sinistra italiana: nemmeno sul palco dell'Ariston a Sanremo si era arrivati a questo punto. Dadaismo puro.

mercoledì 22 febbraio 2017

Manchester By The Sea

"Manchester By The Sea" di Kenneth Lonergan. Con Casey Affleck, Lucas Hedges, Michelle Williams, Kyle Chandler, Gretchen Moi,  Kara Hayward, Heather Burns, Anna Katharina Baryshnikov, Matthew Broderick, Tate Donovan e altri. USA 2016 ★★★★★
Che bel film e che bella sorpresa, quella di un drammaturgo, sceneggiatore e regista semisconosciuto, capace di confezionare una pellicola di raro rigore, pulizia, equilibrio, descrivendo per una volta gente comune (e per alcune tematiche torna alla memoria Common People girato quasi quarant'anni fa da Robert Redford e che fece man bassa di premi Oscar e Golden Globe, com'è possibile che faccia questo) e un'America lontana anni luce dalla stupidità e dalla cafoneria hollywoodiana come dal glamour e dagli intellettualismi newyorkesi, per lo più nella loro visione ebraica (un accenno all'immancabile Bar mitzvah che entra in qualche modo nel 50% dei film USA, probabilmente per una pervertita forma di politically correct, c'è anche qui all'inizio del film, e suona alle mie orecchie come una deliziosa presa in giro per chi la vuol capire). La storia è quella del rapporto fra un disadattato, Lee Chandler, e il nipote sedicenne, Patrick, di cui diventa tutore per volontà del rispettivo fratello e padre, morto improvvisamente ma non inaspettatamente per una malattia cardiaca che non lascia scampo e rimasto solo perché la madre, alcolizzata, se ne è andata di casa per risposarsi con una specie di fondamentalista evangelico. Lee torna nella cittadina natale, quella del titolo, un porticciolo sulla costa del Massachusetts, per organizzare i funerali e riprendere i contatti con Patrick da Boston, dove vive facendo il portiere e l'idraulico-tuttofare per quattro condomini, conducendo un'esistenza da disadattato, in preda a una perdurante depressione in seguito a un tragico incidente di cui è stato causa per una colpevole distrazione e che ha condotto alla morte dei tre figli piccoli e alla distruzione del suo matrimonio con Randy, la moglie con cui viveva felicemente a Manchester. Il suo passato, i rapporti con il fratello, col piccolo nipote, con Randy e i figli,  con l'amico di famiglia Rodney e il resto della comunità vengono ricostruiti mediante efficaci flashback mentre a sua volta prova a ricostruire quello col nipote sedicenne, in piena tempesta ormonale adolescenziale, per trovare una soluzione che permetta al ragazzo di rimanere nella cittadina natale, dov'è fortemente radicato e a lui di tornare a Boston per allontanarsene, invece, perché comunque non riesce a fare pace col suo passato benché un paio di incontri con Randy, l'ex moglie nel frattempo risposatasi e che ha appena avuto un altro bimbo, che l'aveva pesantemente incolpato per la morte dei loro figli, riescono in qualche modo a riconciliarlo con sé stesso e così aprire la possibilità di stabilire un rapporto proficuo anche col nipote. In particolare l'ultimo colloquio a quattr'occhi con Randy, verso la fine del film, è una scena potente e toccante come poche senza essere lacrimosa e artefatta. E' un film fatto di sfumature, di rara attenzione alla psicologia dei personaggi, tutti veri, tutti significativi e tutti attraversati da un qualche disagio, che per riuscire ha avuto bisogno di interpreti di grande bravura e sensibilità e di un regista in grado di sceglierli e guidarli: qui il miracolo è avvenuto, e Casey Affleck si dimostra ancora più convincente del più famoso e pur bravo fratello maggiore Ben. Più che un film, un blues bianco fatto a immagini che, al posto di Kenneth Lonergan, avrebbe potuto girare, con altrettanta essenzialità e credibilità, soltanto Clint Eastwood, e questo da parte mia è più che un complimento.

lunedì 20 febbraio 2017

L'ora di ricevimento (Banlieue)

"L'ora di ricevimento ((Banlieue)" di Stefano Massini; regia di Michele Placudo. Con Fabrizio Bentivoglio, Francesco Bolo Rossini, Giordano Agrusta, Arianna Ancarani, Carolina Balucani, Rabìii Brahim, Vittoria Corallo, Andrea Iarlori, Balkissa Maiga, Giulia Zeetti, Marouane Zotti. Scene di Marco Rossi; costumi di Andrea Cavalletto; musiche originali di Simone de Angelis (voce cantante Federica Vincenti); luci di Simone De Angelis. 
Produzione Teatro Stabile dell'Umbria. 
Al Teatro Verdi di Pordenone; 21 e 22 febbraio teatro Goldoni di Livorno; 23 febbraio teatro Verdi di Santa Croce sull'Arno; 25 e 26 febbraio teatro Verdi di Pisa; Dalll'1 al 5 marzo teatro Rossetti di Trieste; dal 7 al 26 marzo Teatro Eliseo di Roma.
Scritto dal drammaturgo Stefano Massini su spunti autobiografici per il Teatro Stabile dell'Umbria, L'ora di ricevimento affida a un Fabrizio Bentivoglio in forma smagliante e perfettamente a suo agio nei panni di un professore di letteratura in una scuola media il racconto della trentennale esperienza di "insegnate in trincea" in una scuola della banlieue di Tolosa, in Francia, ma potrebbe trattarsi di una qualsiasi periferia di una grande città italiana, come ha affermato lo stesso autore parlando della sua storia scolastica a Firenze. L'incarico, in una scuola fatiscente e in una realtà difficile, fatta di disagio sociale e immigrazione, è di quelli difficili: il professor Ardèche lo affronta ancora una volta, all'inizio dell'anno scolastico, già sapendo quali situazioni si troverà davanti con la nuova classe, composta da soli tredici studenti. Non importano i loro nomi, destinati, tranne rare eccezioni, a svanire nella memoria, ma i tipi che, invariabilmente, si troverà davanti, tanto che ha preso l'abitudine di identificarli con dei soprannomi fissi. Durante tutta la sua carriera nella "Media" di Les Izards, immancabilmente ha avuto in classe il "freddoloso", che invariabilmente si siede il più vicino possibile al calorifero, il panorama ossia il sognatore che si piazza vicino alla finestra; la fuggitiva, in prossimità della porta, primo banco, ossia lo sfigato che ha scelto il posto per ultimo; la cartoon, il boss con il suo bodyguard,  la campionessa, l'invisibile, la missionaria e così via. Li descrive e li racconta, ma in scena non li vediamo mai: compaiono invece i loro genitori, durante l'ora di ricevimento settimanale dalle 11 alle 12 di giovedì, un campionario di umanità multietnica che in parte fatica e in parte rifiuta di integrarsi, che usa l'occasione come uno sfogatoio per le tensioni da cui si sentono compressi e lì possono manifestarsi, e per comunicare con i quali la parola e la cultura laica di cui Ardèche è portatore è ancora più inutile che con gli studenti, e l'insegnante deve attingere alle sue doti diplomatiche e alle sue riserve di pazienza, ironia e a tratti cinismo, doti che ancora non possiede il suo più  collega di matematica, interpretato dal bravo Francesco Bolo Rossini, che presto giunge sull'orlo di un esaurimento nervoso. L'aspetto tragicomico raggiunge il suo acme quando Ardèche, che si è offerto di sostituire la collega che ogni anno accompagna i ragazzi nella gita scolastica, si trova ad organizzarla e a conciliare le diverse esigenze religiose di musulmani, ebrei, induisti, cattolici in fatto di alimentazione espresse dai combattivi genitori: richieste e pretese oltre i limiti del grottesco contro cui la ragione nulla può, ma reali, e finirà che il professore verrà sospeso e messo perfino sotto indagine per uso politicamente scorretto di un condimento, perché la demenza della burocrazia e del buonismo peloso e idiota vuole la sua parte. Il tema è attuale e complesso; gli spunti di riflessione ma anche gli aspetti paradossali messi in evidenza abbondanti e affrontati con ironia; la regìa di Michele Placido lineare, pulita e funzionale; il resto lo fanno un garbato, talvolta sardonico Bentivoglio, estremamente credibile nella parte di un insegnante disorientato, frustrato ma che non rinuncia a fare la sua parte, pur rassegnato all'inutilità della sua azione di fronte alla complessità ed esplosività della situazione. 

domenica 19 febbraio 2017

Vocazione maggioritaria

L'intevento di Uòlter Cialtroni all'Assemblea del PD 

Ricordiamo, ripeschiamo e opportunamente ripubblichiamo


Un partito maggioritario


di WALTER VELTRONI (aka "Yes We Can")
L'Italia ha bisogno di un partito che si proponga di dare cultura di governo al bipolarismo italiano. Se le parole hanno un senso, questo significa che il Partito democratico nasce per superare l'idea che quel che conta è vincere le elezioni. Ovvero battere lo schieramento avversario mettendo in campo la coalizione più ampia possibile, a prescindere dalla sua coerenza interna e dalla sua effettiva capacità di governare il Paese. 

Il Partito democratico nasce per affermare un'idea diversa e nuova: quel che conta è governare bene, sulla base di un programma realistico e serio. E lo schieramento che si mette in campo deve essere coerente con questo obiettivo. Non si tratta solo di un ribaltamento dello schema tattico che ha dominato il bipolarismo italiano in questa lunga transizione. Si tratta di una rivoluzione culturale e morale. Si tratta di restituire moralità alla politica. Si potrebbe dire che si tratta di affermare una visione "antimachiavellica" della politica stessa: scopo della politica non è organizzare la forza necessaria alla conquista e alla conservazione del potere. Questo è semmai un vincolo strumentale, che non può e non deve essere trascurato. Ma il fine della politica deve essere un altro: deve essere il perseguimento dell'interesse del Paese, attraverso la costruzione del necessario consenso attorno a un programma di governo. 

È precisamente questo che intendiamo, quando diciamo che il Partito democratico è un partito "a vocazione maggioritaria": un partito che punta non a rappresentare questa o quella componente identitaria o sociale, per quanto ampia possa essere, ma a porsi l'obiettivo di carattere generale di conquistare nel Paese i consensi necessari a portare avanti un programma di governo, incisivamente riformatore. Non per questo, un partito a vocazione maggioritaria, quale il Pd deve essere, è una forza che si pensa come autosufficiente: al contrario, è un partito che intende valorizzare l'alleanza di centrosinistra. E intende farlo sulla base del principio fondamentale della democrazia dell'alternanza, per il quale le alleanze di governo si fanno e si disfano davanti agli elettori, prima del voto. Ma il Pd nasce per riordinare, nel bipolarismo, la gerarchia dei valori tra la coalizione e il programma: è il programma comune, un programma di governo e non genericamente elettorale, che fonda la coalizione, non viceversa: non si può giustificare la vaghezza o l'ambiguità del programma, in nome del feticcio dell'unità della coalizione. Sarebbe come considerare la parte più importante del tutto, il partito (o la coalizione) più importante del Paese. 


Del resto, in nessuna grande democrazia europea sarebbe immaginabile presentarsi agli elettori con una coalizione priva dei requisiti minimi di coesione interna, tali da rendere credibile la sua proposta di governo: un'operazione politico-elettorale siffatta non avrebbe alcuna possibilità di vittoria, perché sarebbe inesorabilmente bocciata dagli elettori. In Gran Bretagna come in Spagna, in Germania come in Francia, i partiti che intendono candidarsi a governare non possono dar adito ad alcun dubbio circa la loro affidabilità. Memorabile è la lezione di moralità politica di Jacques Delors, che preferì rinunciare alla candidatura alle presidenziali del 1995, perché non avrebbe potuto dar vita, alle successive elezioni legislative, a una maggioranza parlamentare coerente. 

Quasi quindici anni di bipolarismo immaturo hanno ormai reso assai sensibile anche l'elettorato italiano su questo punto: non solo per propria scelta dunque, ma anche per una precisa esigenza di sintonia con il Paese, qualunque sarà il sistema elettorale che avremo in futuro, il Pd non potrà presentarsi alle elezioni all'interno di coalizioni disomogenee sul piano programmatico. Piuttosto, dovrà accettare il rischio, o sperimentare l'opportunità, di correre da solo. 

Il Partito democratico nasce anche per rompere una falsa alternativa: quella tra governabilità e democrazia. Come non ha senso considerare la sfida del governo come un limite alla partecipazione democratica, allo stesso modo è un errore pensare di poter affrontare le resistenze che si oppongono alle riforme riducendo, anziché allargando, gli spazi di esercizio della cittadinanza. Il Pd al quale penso è un partito che intende mettere al servizio di un incisivo programma riformatore tutta la forza della partecipazione democratica, la mobilitazione delle energie intellettuali e morali, civili e politiche, delle quali dispone una società viva come quella italiana. Non c'è altra strada per fare le riforme: non si può immaginare di dare alla politica la forza necessaria a far prevalere gli interessi generali sulla tirannia di quelli particolari, corporativi, microsettoriali, senza conferirle una nuova legittimazione democratica. 

Per questo il Partito democratico dovrà essere un partito davvero nuovo. Perché dovrà pensarsi non più come un bene privato, di proprietà della comunità chiusa, per quanto larga possa essere, dei suoi fondatori, dei suoi dirigenti, dei suoi militanti. Ma al contrario come una istituzione civile, che svolge una funzione pubblica e che come tale appartiene a tutti i cittadini che intendono abitarlo. Questo è del resto il modo di intendere i partiti proprio delle grandi democrazie: le quali, non a caso, dispongono di pochi, grandi partiti politici, il ciclo di vita dei quali si misura in svariati decenni, quando non in secoli. Uno dei sintomi più preoccupanti della grave malattia che affligge la democrazia italiana è invece proprio la proliferazione di tanti, piccoli ed effimeri soggetti politici, che è perfino improprio definire partiti, almeno nel senso europeo (per non dire nordamericano) del termine, e che per la loro spiccata vocazione oligarchica, quando non familistica, è ancor più difficile descrivere come democratici. 

Il Partito democratico nasce per segnare una discontinuità profonda con questo stato di cose. Non a caso si è deciso di fondare il partito nuovo, non sulla base del semplice mandato dei partiti preesistenti e neppure a partire da un appello di uno o più leader, bensì attraverso un vero e proprio "big-bang" democratico: l'elezione di un'assemblea costituente e di un segretario da parte di tutti i cittadini che si dichiarano interessati a contribuire a questa straordinaria impresa collettiva. Di conseguenza, il prossimo 14 ottobre, giorno stabilito per le elezioni costituenti, nascerà un partito che non sarà di proprietà privata di qualcuno, ma si proporrà come un'istituzione della democrazia italiana, a disposizione di tutti i cittadini che, riconoscendosi nei suoi orientamenti di fondo, vogliano utilizzarlo "per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale", come recita l'articolo 49 della Costituzione. 

Il codice genetico col quale nasce il Pd determina necessarie coerenze rispetto allo sviluppo della sua forma-partito, del suo modello politico-organizzativo. Innanzi tutto, il "big-bang" democratico non potrà restare un unicum irripetibile, ma dovrà diventare la regola generale con la quale saranno prese le decisioni più importanti, a cominciare da quelle che riguardano la selezione della leadership, a tutti i livelli, e più in generale delle candidature, in modo da garantirne la effettiva contendibilità. In secondo luogo, e in coerenza con la natura di partito "a vocazione maggioritaria", a regime la leadership di partito dovrà coincidere con la premiership, o con la candidatura a premier, come avviene in tutte le grandi democrazie europee. Terza, necessaria coerenza, il Pd dovrà essere un partito federale, in grado di dare espressione alla diversità delle realtà territoriali: non ci dovranno essere sezioni "periferiche" di un partito centralizzato, ma una rete di partiti territoriali federati, profondamente radicati nelle società locali, anche se culturalmente aperti a una prospettiva nazionale, europea e globale. Infine, le modalità di associazione e di militanza dovranno essere le più varie e flessibili, secondo un modello a rete, che valorizzi le sezioni territoriali come i circoli di ambiente, le associazioni culturali come le forme più innovative di contatto telematico: è anche in questo modo che il Partito democratico potrà contribuire a portare all'impegno e all'assunzione di responsabilità politiche più donne e più giovani. 

L'articolo è tratto dalla prefazione al libro "La nuova stagione" (Rizzoli), in cui è pubblicato il discorso pronunciato a Torino il 27 giugno scorso per annunciare la candidatura alla leadership del Partito Democratico 


(La Repubblica, 24 agosto 2007)

martedì 14 febbraio 2017

The Bigger Bang


Son cose belle. Non c'era bisogno di essere degli acclamati opinionisti, degli annusapatte dei potenti, degli oracoli del loro oscuro parlar politichese e degli esegeti delle loro manovre di palazzo e nemmeno dei profeti per prevedere come sarebbe andata a finire. Già alla vigilia delle primarie pidiote del novembre/dicembre 2012, poi vinte da Bersani, avevo auspicato la vittoria di Renzi, perché avrebbe affrettato la deflagrazione del PD. Il suo momento è arrivato un anno dopo: ecco cosa scrivevo su questo blog il giorno prima in cui fu eletto segretario, nel bis della pagliacciata tenutosi nel dicembre del 2013. Il fanfarone fiorentino ce l'ha quasi fatta: missione pressoché compiuta, parola del suo predecessore alla guida della gloriosa Ditta. Lo spumante è in fresco già da allora (non sempre lo stesso, sia chiaro) e non vedo l'ora di stapparlo. Beninteso: sarà la fine del partito comunistiano, non del morbo autoritario-inciucista che infetta questo Paese. Ma comunque la fine di un penoso equivoco.

venerdì 10 febbraio 2017

Smetto quando voglio - Masterclass

"Smetto quando voglio - Masterclass" di Sydney Sibilia. Con Edoardo Leo, Stefano Fresi, Greta Scarano, Francesco Acquaroli, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Giampaolo Morelli, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Lorenzo Lavia, Valeria Solarino, Marco Bonini, Rosario Lisma, Luigi Lo Cascio. Italia 2017 ★★★★½
Sì! Sì! Sì! Sydney Sibilia e la sua banda di apparenti squinternati, a cui nel seguito della vicenda della "banda dei ricercatori" si sono aggiunti la "poliziotta" Greta Scarano, l'ingegnere e piazzista di armi e congegni strani Giampaolo Morelli e il capo di una banda di ricercatori concorrenti Luigi Lo Cascio (lo vedremo sicuro protagonista nella prossima puntata, in lavorazione), tutti attori che non si prestano a puttanate dozzinali e non concedono il proprio volto a chiunque, ce l'hanno fatta non solo a mantenere le promesse, ma a confezionare un sequel perfino migliore del primo film (era riuscito, ad esempio, cinematograficamente nel caso della Famiglia Addams; in campo musicale, al Volume II dei Led Zeppelin), a dimostrazione che, nelle mani giuste, la vera "commedia all'italiana" c'è ancora, specie se tonificata dalla commistione con generi che il nostro cinema raramente accosta, come la fiction più spinta, il noir, il film d'azione, perfino le saghe dei supereroi: quando lo fa, come nel caso de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti o Veloce come il vento di Matteo Rovere, il risultato è perfino superiore alle più sofisticate produzioni hollywoodiane. Perché in questo Paese c'è ancora gente capace di fare e inventare cinema (e non solo: musica, teatro e altro), e ci riesce quando trova produttori coraggiosi come Domenico Procacci con la sua Fandango o altri che riescono a tenersi a distanza dal circuito televisivo-pecoreccio RAI-Merdasettesco. Mastercalss è il seguito del capostipite Smetto quando voglio, e vede il ritorno in azione della "Banda dei ricercatori" dopo che è stata neutralizzata e blindata in carcere, quando viene loro offerta una fedina penale pulita e la libertà in cambio della collaborazione, in un'operazione sotto parziale copertura, con la polizia, per individuare produttori e spacciatori di smart-drugs non ancora illegali ma in procinto di essere dichiarate tali. No spoiler, il resto è spasso. Con spunti a profusione tutt'altro che banali e stupidi, solo a volerli vedere. Non che ci voglia molto: un minimo di retroterra culturale basico ma solido e la disponibilità ad attivare le sinapsi. Cosa che non occorre con prodotti come, ad esempio, L'ora legale, da cui il divertente ma mai ridicolo film di Sibilia è lontano anni luce, per fortuna.

mercoledì 8 febbraio 2017

Billy Lynn - Un giorno da eroe

"Billy Lynn - Un giorno da eroe" (Billy Lynn's Long Halftime Walk) di Ang Lee. Con Joe Alwyn, Garret Hedlund, Mason Lee, Arturo Castro, Kristen Stewartl, Vin Diesel, Makenzie Leigh, Steve Martin e altri. USA, GB, Cina 2016 ★★★★
Buona parte della critica si concentra sull'aspetto tecnico, dolendosi che pochissimi hanno potuto vedere il film (girato in 3D e con 120 frame al secondo, cinque volte la normale frequenza) al massimo delle sue potenzialità, il che spiega la concentrazione del registra sui primissimi piani degli interpreti, soprattutto dell'ottimo esordiente Joe Alwin, più che credibile nei panni dell'eroe per caso al centro del film; meno sul suo significato, dato che non solo mostra ancora una volta le contraddizioni di una società degenerata e prossima al collasso, fondata su "valori" che è essa per prima svaluta e ridicolizza, ma denuncia con forza la mercificazione e la spettacolarizzazione di ogni aspetto dell'esistenza. Siamo nel 2004 e il diciannovenne Billy, diventato un eroe nazionale suo malgrado perché una telecamera rimasta casualmente di un reporter rimasta accesa ha filmato il suo tentativo di salvare un sergente (l'ottimo, in questo caso, Vin Diesel, nella parte di un sottufficiale paternamente zen e filosofeggiante) durante un'azione di combattimento in Irak, viene mandato assieme agli altri componenti della Bravo Squad degli Airborne (divisione della fanteria aviotrasportata) in tournée in patria per due settimane, in cui vengono sottoposti a un fuoco di file di interviste e celebrazioni nonché costretti a partecipare a eventi grotteschi, il cui culmine è costituito dalla presenza sul palco nelll'intevallo di un match del Superbowl con protagonisti i Dallas Cowboys che si svolge nel Giorno dell'Indipendenza, il 4 di luglio nella città texana, durante lo spettacolo di Byoncé (da qui l'altrimenti incomprensibile Halftime Walk del titolo originale, tradotto al solito con ampia licenza e puntualmente ad minchiam). Il ragazzo e i suoi colleghi attraversano questo incubo, molto più squassante e deprimente di quello che vivono in Irak, odiati dalla popolazione e consci di partecipare e una guerra sbagliata oltre che inutile e anzi controproducente, come in un mondo parallelo e paranoide rendendosi conto di far parte di un meccanismo implacabile quanto dettato da regole assurde, e Billy rivive nei momenti culminanti dello spettacolo la propria "azione", che per primo ritiene tutt'altro che eroica, in flashback di grande efficacia. Illuminante anche la situazione di incomunicabilità ed estraneità nella sua stessa famiglia, a parte il rapporto con la sorella maggiore Katryn, la quale è, ironia, della sorte, involontariamente responsabile dell'arruolamento del fratello pur essendo l'unica persona con una certa cultura e sensibilità in famiglia, e completamente contraria alla guerra e al militarismo in generale. Sarà lei a tentare di convincerlo fino all'ultimo a trovare un pretesto per sganciarsi dall'esercito ma prevarranno il senso del dovere, nei confronti dei commilitoni e non certo della Paese, e il disgusto per la manipolazione di cui sono oggetto in patria, nonché l'atteggiamento della neo-fidanzata, una cheerleader che per prima lo considera un eroe e dà per scontato che continui ad esserlo, in divisa. Insomma un film tutt'altro che banale, pieno di spunti di riflessione, efficace, che mi sento di consigliare perché spiega molto di quel che dono gli USA. E perché un giovane in condizioni disagiate, per lo più di recente immigrazione, spesso non abbia in quel Paese altre prospettive se non la carriera militare, preferendo rischiare la pelle in una situazione in qualche modo reale piuttosto che un'esistenza alienante e senza prospettive, affrontabile soltanto imbottendosi di psicofarmaci o droghe, il che è lo stesso. 

lunedì 6 febbraio 2017

L'ora legale

"L'ora legale" di Salvatore Ficarra e Valentino Picone. Con Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Leo Gullotta, Vincenzo Amato, Antonio Catania, Alessia D'Anna, Eleonora De Luca, Sergio Friscia, Ersilia Lombardo, Tony Sperandeo e altri. Italia 2017    
Tempo di campagna elettorale a Pietrammare, in Sicilia (è Termini Imerese) e i due cognati Salvo e Valentino sono impegnati su fronti opposti: il primo a favore del sindaco intrallazzone di sempre, il secondo sostenendo l'altro cognato, un insegnante di liceo a capo di una lista civica per il cambiamento, che inaspettatamente vince e salvo si ricicla immediatamente salendo spudoratamente sul carro del vincitore. Ma c'è un problema: il nuovo sindaco fa sul serio e mette in atto alla lettera il proprio programma elettorale: per la prima volta vigili e impiegati comunali si mettono a lavorare, la locale fabbrica viene minacciata di chiusura se non si adegua alle normative ambientali, appaiono le piste ciclabili, vengono multati gli abusi edilizi e distrutti gli ecomostri, soprattutto viene organizzata la raccolta differenziata dei rifiuti. Risultato: tempo pochi mesi e la cittadinanza intera che l'aveva portato al trionfo si coalizza per farlo dimettere, e ci riescono quando scoprono che anche lui non è perfetto, per aver raccomandato la figlia affinché venisse ammessa al conservatorio. Insomma, il consueto ritratto dell'Italietta cialtrona a voltagabbana, lontana però anni luce dalla commedia alla Age e Scarpelli: giusto qualche giorno fa avevo rivisto il loro "I mostri" girato da Dino Risi e il confronto è impietoso. Qualche critico aveva perfino delirato di cinema civile: non metto in dubbio la buona fede di Ficarra e Picone, che personalmente a piccole dosi trovo due cabarettisti discreti oltre che due persone simpatiche e di cui condivido molte posizioni, però qui siamo al trionfo del luogo comune e alla rassegnazione sotto mentite spoglie: Perfino Checco Zalone è più pungente, senz'altro più cattivo. Alcune buona caratterizzazioni, a cominciare da Leo Gullotta nei panni del prete gestore di un Bed and Breakast privo di licenza, ma per il resto poca roba e per di più di tipo televisivo che al più strappa qualche sorriso stiracchiato; aggiungiamo il tipico gusto del marchio Medusa (cfr Merdaset) e la visione del filmetto in una desolante sala UCI Cinamas, con proiezione quaranta minuti dopo l'orario previsto farciti di pubblicità e trailer di altre pellicole dello stesso livello sconfortante, con intervallo incorporato per consentire all'inclito pubblico di fornirsi di pop corn e Coca-Cola, la conclusione è che ho fatto una cazzata a perdere così tre ore in tutto del mio tempo: non fate lo stesso errore.

sabato 4 febbraio 2017

La parola padre

"La parola padre". Drammaturgia e regia di Gabriele Vacis, con Irina Andreeva (Bulgaria) Alessandra Crocco (Italia), Alexandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia). Scene e luci di Roberto Tarasco; coordinamento artistico Salvatore Tramacere; assistente alla regia Carlo Durante; training Barbara Bonrtiposi; tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale. Produzione Cantieri Teatrali Koreja, Teatro Stabile del Salento (Lecce)
Al Teatro San Giorgio di Udine, per CSS Teatro Contatto; stasera al Teatro Al Parco di Parma, martedì 7 febbraio al Teatro Monticello di Grottaglie (Taranto)
Nell'interessante incontro con la compagnia alla fine dello spettacolo, dal pubblco è stato chiesto alle attrici se il lavoro fatto assieme a Gabriele Vacis (attraverso un laboratorio durato alcuni mesi nell'internato dei Cantieri Teatrali Koereja di Lecce ancora cinque anni fa) e la sua rappresentazione avesse il valore di una seduta psicanalitica, e la riposta è stata che non è esattamente così, anche se gli spunti sono nati dalle storie personali emerse durante i colloqui/interviste effettuati con l'autore e regista, che fa parte del loro mestiere filtrare attraverso sé stessi il materiale su cui stanno operando, e che assume a ogni rappresentazione forme e modalità diverse, proprio perché non siamo sempre uguali e sulla stessa onda in ogni momento; più in generale a mio parere è il teatro in sé stesso, per sua natura, come sapevano già gli antichi greci, a essere terapeutico e catartico per lo spettatore che vi viene coinvolto, sempre che questa magia avvenga. Ed è il caso di questo meritevole, intenso e variegato spettacolo, recitato, raccontato, ballato, cantato da un gruppo di sei giovani donne, tre italiane e tre provenienti da Paesi dell'Europa Orientale usciti dall'esperimento del socialismo reale, in cui viene sviscerato il loro rapporto con la figura di riferimento maschile nella sua duplice accezione: quella strettamente parentale e quella più vasta di patria, che etimologicamente ha la stessa radice, di appartenenza. Mentre nel primo caso il fatto di essere figlie costituisce il terreno comune per cui simile risulta il linguaggio, per quanto possano essere diverse le esperienze personali, nel secondo il legame, già conflittuale e complesso per definizione, si intreccia con le vicende storiche del "comunismo realizzato" per come lo hanno nella memoria le tre donne provenienti dall'Est. Tre Est a loro volta diversi, con tratti comuni quello polacco e quello bulgaro, caratterizzati da miseria e oppressione (e da una diversa adesione all'ideale), e peculiari quello macedone, filtrato attraverso l'esperienza della Jugoslavia, dove tutte le nazionalità erano uguali sotto l'ala protettiva del comune padre Tito, mentre la nuova, piccola Macedonia pretende di modellarsi sull'immagine mitizzata del suo padre putativo, Alessandro Magno, rivendicandone l'esclusiva appartenenza, col risultato di litigare con tutti i "concorrenti", greci albanesi per primi, che pure sono un terzo di una popolazione di soli due milioni di abitanti, per non parlar dei serbi. In questa Europa, con muri che si abbattono e si ricostruiscono, simbolizzati da una onnipresente parete formata da bidoni d'acqua di volta in volta distrutta e ricomposta dalle protagoniste, non rimane che piangere a queste sei donne che si raccontano comunicando per mezzo di quella specie di esperanto che è diventato il panglish, l'inglese basico adattato alla comunicazione transnazionale, dopo essersi incontrate in un aeroporto, simbolo per eccellenza, assieme ai centri commerciali, dei "non luoghi" diventati il centro nevralgico del sistema e punti di contatto tra le monadi impazzite e senza punti di riferimento che lo fanno funzionare. Bravissime le interpreti, senza fronzoli la regia, di buon impatto l'impianto scenico, ritmo incalzante e tanto materiale su cui riflettere. A cominciare dalla domanda sul rapporto che con il concetto di patria hanno i figli maschi.

giovedì 2 febbraio 2017

La La Land

"La La Land" di Damien Chazelle. Con Ryan Gosling, Emma Stone, J. K. Simmons, Finn Wittrock, Sandra Rosko, Sonoya Mizuno, John Legend, Mhemky Madera, Ana Flavia Gavlak, Callie Hernandez. USA 2016 ★★★★★
E' buona regola diffidare di un film che viene incensato unanimemente dalla critica ufficiale, di cui si sottolineano i premi vinti (a Venezia in settembre, ben sette Golden Globe, pluricandidato agli imminenti Oscar dove gli si pronosticano statuette a man bassa), ma quando mantiene ampiamente tutte le aspettative già notevoli, anche in considerazione che Whiplash, il precedente lavoro del giovane regista Damien Chazelle, aveva ampiamente convinto, siamo di fronte a una pellicola che fa epoca, una delle migliori in assoluto dell'ultimo decennio. E questo utilizzando un genere considerato desueto, ma al contempo quello che aveva contraddistinto Hollywood nel suo periodo del massimo splendore, il Musical. Ed è nella "Mecca del Cinema", nella fabbrica dei sogni californiana che si svolge la vicenda che vede protagonisti Mia, una giovane attrice e drammaturga che, tra un provino e l'altro, lavora nella caffetteria di uno dei mitici studios, e Sebastian, un talentuoso pianista jazz costretto a suonare brani natalizi per campare e che sogna di rilevare e dare nuovo lustro a uno storico locale di jazz trasformato in un orripilante ristorante fusion, perfettamente adatto ai nefasti tempi che corrono. Tra i due scocca la scintilla, dopo une serie di battibecchi iniziali a sottolinearne le differenze e contraddizioni, proprio sulla base della comune determinazione a inseguire i loro sogni, e nonostante tutte le difficoltà riescono a darsi la forza a vicenda per continuare a crederci e a lottare, senza pentirsene mai. Riusciranno a realizzare i loro sogni, pur prendendo strade diverse ma ricorderanno da dove erano partiti e riconoscendo la profondità del sentimento che stava alla base del sodalizio che li legava, un amore profondo fatto di comprensione e rispetto del talento e della personalità dell'altro. Il tutto a suon di musica di qualità e balletti mozzafiato. Nonostante i richiami al musical classico e i rimandi anche ad alcuni film di Woody Allen siano evidenti, non è un film citazionista. Parla di talento, di disillusioni, di caparbietà, di coerenza con sé stessi e di memoria: della capacità di non rinnegare chi e cosa si era, e perché. Chazelle, uno che la musica la ama, la capisce e ne conosce il mondo dall'interno, si conferma un regista di qualità superiori, innanzitutto nella capacità di scegliere gli interpreti (tra i quali J.K Simmons in un ruolo opposto a quello che aveva in Whiplash) e nel montare un suggestivo spettacolo a tutto tondo dove il genere non ha il sopravvento, in un misto di fantasia e realtà che riesce a renderlo credibile e comunque a coinviolgere lo spettatore anche più restìo. Una considerazione a parte meritano i due interpreti: quella femminile, Emma Stone, un talento naturale e una bellezza non omogeneizzata che non ha alcun bisogno di passare sotto le mani di un chirurgo plastico, e Ryan Gosling, senz'altro il miglior attore della sua generazione, che si conferma in grado di interpretare in modo convincente qualsiasi ruolo gli affidino, e che ha l'intelligenza e ormai la forza contrattuale di scegliersi quelli che preferisce, anche dei copioni da realizzare dietro la macchina da presa.