martedì 31 gennaio 2017

Afghanistan: il Grande Gioco


"Afghanistan: il Grande Gioco"*. I primi cinque episodi. Di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson. Traduzione di Lucio De Capitani, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; scene e costumi di Carlo Sala. Con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Leonardo Lidi, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri. 
Coproduzione Teatro dell'Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Napoli Teatro Festival.
Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 5 febbraio.

* "The Great Game: Afghanistan" è stato commissionato e prodotto dal Tricycle Theatre di Londra nell'aprile 2009


Un corso accelerato di storia contemporanea, un saggio di recitazione da parte di un affiatato gruppo di interpreti convinti di ciò che stanno proponendo sul palcoscenico e una magistrale regia da parte dei due "padri" del Teatro dell'Elfo, Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, che ci hanno abituato in questi anni a proporre il meglio della più moderna produzione teatrale anglosassone (vedi Angels in America) con traduzioni  puntuali e adattamenti scenici attuali e innovativi, che integrano, all'occorrenza, anche mezzi espressivi diversi come quello cinematografico, come in questo caso. Per lo spettacolo Afghanistan: il Grande Gioco, che prende il nome dall'omonimo e famoso libro di Peter Hopkirk (Adelphi editore) ideato e prodotto dal Tricycle Theatre di Londra, uno dei maggiori laboratori di teatro politico esistenti, sono stati commissionati 13 racconti ad altrettanti tra i migliori autori inglesi (alcuni americani) da inserire in una carrellata che ricostruisce i rapporti tra il mondo occidentale e l'Afghanistan, Paese misterioso e cruciale sempre al centro del contendere, prima tra l'impero inglese e quello russo, ora tra i loro epigoni, a loro volta sempre costretti a fare i conti con una realtà locale che ignorano e sottostimano, un po' per supponente ignoranza, molto per stupidità e mancanza di memoria. Questa prima parte, che contiene i primi cinque episodi, si compone di due atti: "Invasione e Indipendenza, 1842-1930" con Trombe alle porte di Jalalabad di Stephen Jeffreys, La linea di Durand di Ron Htchinson", Questo è il momento di Joy Wilkinson; e "Il comunismo, i mujaheddin e i talebani, 1979-1996" con Legna per il fuoco di Lee Blessing e Minigonne a Kabul di David Greig: cinque scene emblematiche che vedono protagonisti una ventina di figure, maschili e femminili, tra i protagonisti più diversi (inglesi, afghani, russi, pakistani, americani) che costellano la storia dei rapporti tra quest'aera cruciale dell'Asia Centrale e il mondo occidentale negli ultimi due secoli e che vengono recitate da un insieme di attori ottimamente assortito e calibrato nei momenti in cui il sipario su cui scorrono filmati, immagini e mappe che accompagnano il racconto a voce delle tappe della vicenda si apre su un palcoscenico su cui si alternano scenografie semplici e al contempo suggestive, illuminate da giochi di luce sempre ben congegnati. Memoria, storia, geopolitica: il tutto in una forma teatrale moderna e innovativa scevra da ogni intellettulismo e da suggestioni velleitariamente sperimentali: ancora una volta esemplare. 

domenica 29 gennaio 2017

sabato 28 gennaio 2017

Allied - Un'ombra nascosta

"Allied - Un'ombra nascosta" (Allied) di Robert Zemeckis. Con Brad Pitt, Marion Cotillard, Jared Harris, Lizzy Caplan, Simon McBurney e altri. USA 2016 ★★★+
Il cinema è anche divertimento, disimpegno, immersione in una storia dai toni favolistici ma in qualche modo plausibile (perché già raccontata dal cinema: da Casablanca a Bastardi senza gloria, solo per fare due esempi inerenti ad Allied); se a dirigere il film è un regista eclettico e votato all'intrattenimento come Robert Zemeckis, a suo agio nel mescolare i generi più diversi, dal mélo al noir al film d'azione col suo lato storico, a sua volta innamorato del cinema (da qui le svariate citazioni, nonché l'accuratezza della ricostruzione dell'ambiente d'epoca, nonostante alcune sbavature: fino agli anni Settanta, i pub in Inghilterra erano off limits per le donne), il risultato è assicurato e le due ore in sala risultano più che gradevoli. La vicenda inizia nel 1942 a Casablanca, in Marocco, dove viene paracadutato Max Vatan, un Brad Pitt serioso, dall'espressione forse immobilizzata da un eccesso di botox, tenente colonnello dell'aviazione canadese, che deve incontrare Marianne Beaausejour (una Marion Coccordillard dal volto quanto mai cubista nonostante la bravura del truccatore che riesce farla passare per una maliarda), di cui deve fingersi marito per farsi invitare a una festa organizzata dall'ambasciatore tedesco e compiere con lei la missione ad alto rischio di ucciderlo. I due ci riescono e salvano pure la pelle nonostante si siano dati un 40% di possibilità di farla franca e riparano in Inghilterra, base della missione. Ma c'è stato un "infortunio" sul lavoro e le due spie si sono incautamente innamorate, e benché sia contro l'etica professionale (e i superiori tentino di dissuaderlo) Max Vatan riesce a ottenere il permesso di sposarla, così i due avranno una bimba e andranno a vivere a tra Hampstead e Highgate, nella suggestiva parte settentrionale di Londra. La città è costantemente sotto i bombardamenti delle V1 e V2 tedesche e si sta preparando il terreno, con missioni notturne sul suolo francese, allo sbarco in Normandia, e il bel Max, ligio al dovere, vi è coinvolto ad alti livelli ma c'è un però: il sospetto da parte dei servizi segreti che Marianne sia in realtà una spia tedesca infiltrata in mezzo a una rete di "dormienti" locali da poco entrati in attività, e che la sua partecipazione attiva all'attentato di Casablanca fosse dovuta al fatto che l'ambasciatore tedesco in Marocco era in realtà un oppositore di Hitler, sulla lista nera della Gestapo. Viene così sottoposta, col coinvolgimento del marito, benché incredulo, a quella che in gergo si chiama prova del "blu di metilene": la risposta se abbia lasciato traccia nel comportamento di Marianne, è una sorpresa che vi attende se andrete a vedere il film. Detto che è gradevole e ben fatto, mentre non ho mai disprezzato Brad Pitt, per me rimane un mistero il successo e la presenza prezzemolesca della Coccodrillard (in Italia abbiamo un caso analogo con Barbora Bobulova): se ci sono attori e attrici specializzati nello sguardo ammaliatore, ambiguo, glaciale, appassionato, lei ha semplicemente lo sguardo bovino, liquido e l'unica vero talento è la lacrimazione particolarmente copiosa e a comando; ciò che la rende relativamente sopportabile in Allied è l'inconsueta parsimonia in questo senso. E pur sempre meglio dell'ex consorte del bel Brad, Angelina Jolie.

giovedì 26 gennaio 2017

Silence

"Silence" di Martin Scorsese. Con Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Yosuke Kubozuka, Issei Ogata, Nana Komatsu e altri. USA 2016 ★★★★½
A metà del XVII secolo due giovani gesuiti portoghesi di stanza a Macao, padre Rodrigues (Andrew Garfield, voce narrante) e padre Guarupe (Adam Driver) riescono a convincere i loro superiori a inviarli in missione in Giappone, nonostante le feroci persecuzioni di cristiani in atto nel Paese, per cercare di recuperare padre Ferreira (Liam Neeson), già loro mentore e confessore, non volendo dare credito alle voci che lo vogliono colpevole di apostasia. I due giungono avventurosamente in Giappone sotto la guida dell'ambiguo Kichijiro, un pescatore avvinazzato finito a Macao in fuga dalle vessazioni che hanno sterminato la sua famiglia: emblema della debolezza umana, ha tradito e tradirà a ripetizione rinnegando piùà volte la fede ma sempre pentendosi lungo tutto l'arco della vicenda. Il film di Scorsese è la trasposizione su grande schermo del romanzo dello scrittore giapponese di fede cristiana Shusaku Endo, a sua volta ispirato a personaggi e fatti veri, e nonostante una certa flemmaticità e ripetitività, che però giovano alla riflessione, affronta il rapporto dell'uomo con la fede nel senso più vasto e molteplice oltre a quello tra peccato e redenzione, presente in tutta la sua cinematografica, e lo fa mescolando i punti di vista: perché se sono di per sé buone le intenzioni dei due gesuiti, è innegabile la loro arroganza intellettuale che li porta a non rendersi conto di far pagare la loro visione furiosamente fanatica a dei poveri contadini e pescatori che, a loro volta, vedono nel cristianesimo più che altro un modo per sfuggire, nella vita non terrena, all'oppressione che subiscono in quella reale ma che è loro completamente estraneo culturalmente. Cosa di cui invece sono ben consci i governanti locali e in primis l'inquisitore nonché governatore di Nagasaki, la mente della campagna contro i cristiani, che dialetticamente si dimostrano non solo all'altezza dei gesuiti, e in particolare del raffinato e colto padre Rodrigues, ma più scaltri e realisti, e riescono a combatterli e vincerli sul piano della speculazione intellettuale: prima padre Ferreira, poi lo stesso Rodrigues, vedendo giustamente nell'insistenza del voler imporre una fede in una realtà in cui non può affondare radici perché estranea, il supporto ideale al tentativo di colonizzazione da parte delle litigiose comari europee in competizione per arraffarsi l'esclusiva del commercio con l'arcipelago: Portogallo, Spagna, Olanda e Inghliterra. Come ha dimostrato la storia, sono stati respinti. Ci sono riusciti, in parte, gli USA, dopo due bombe atomiche e per mezzo della Coca Cola: uguale rimane l'incapacità di concepire una cultura diversa dalla propria e di rispettarne valori e ambiti. Alla fine del film, che gode di una scenografia superba benché poco spettacolare ma perfettamente in linea con il tema del racconto nonché di interpreti scelti con cura e bene amalgamati, benché provati dalla sua lunghezza (due ore e 40), si rimane soddisfatti, specie nella mezz'ora finale, che ripaga ampiamente di alcune lentezze e ridondanze precedenti: davanti ai Maestri come Scorsese, ci si inchina.

martedì 24 gennaio 2017

The Founder

"The Founder" di John Lee Hancock. Con Michael Keaton, Nick Offerman, John Carrol Lynch, Laura Dern, Linda Cardellini, Patrick Wilson, B. J. Novak. USA 2016 ★★★★
Poco o nulla sapevo del regista, John Lee Hancock, salvo che avesse lavorato per la Disney e che fosse specializzato in biopic, così mi sono fidato del fatto che un attore di cui ho la massima stima, Michael Keaton, avesse accettato di interpretare il personaggio su cui ruota il film: niente di meno che Ray Crok, il fondatore dell'impero McDonald's per come lo conosciamo oggi. Questo film ne racconta la storia sorprendente e poco conosciuta dagli inizi e nei dettagli, senza minimamente cadere nell'agiografia e anzi illuminando senza alcuna indulgenza di quali abissi di avidità, arrivismo, spietatezza, scorrettezza, insomma miseria umana è intriso il Sogno Americano, di cui questa vicenda è un caso esemplare. Nel 1954 Ray Croc è un modesto commesso viaggiatore dell'Illinois che cerca disperatamente di piazzare un particolare modello di frullatore per milk shake quando si imbatte nel fratelli McDonald, proprietari di un chiosco a San Bernardino in California, che di colpo glie ne ordinano sei pezzi. In uno di quei meravigliosi macchinoni dì'epoca, attraversa il Paese da Est a Ovest lungo la mitica Route 66 per andare e verificare di persona chi siano questi acquirenti-benefattori e, vistando la cucina del loro innovativo ristorante, dove vede applicato al massimo dell'efficienza il fordismo alla produzione e al consumo dell'hamburger, ha l'illuminazione: è un modello da perfezionare, espandere e moltiplicare e, dopo essersi messo in affari coi due fratelli, lo fa con la forma del franchising. Anche se i Mc Donald sono restii alle innovazioni e frenano i suoi entusiasmi, l'idea ha successo ma senza che Crox si arricchisca più di tanto: il grande salto lo fa quando un consulente finanziario gli apre gli occhi su qual è veramente il core business: la speculazione immobiliare sottostante, non il margine di utile sulla vendita dei panini, che farà diventare la Mc Donald's Corporation, la società che Crox fonda e con la quale in sostanza dà scacco matto ai fratelli di cui acquisisce non solo il nome ma soprattutto il marchio (i due famigerati archi gialli su fondo rosso), uno dei maggiori gruppi immobiliari al mondo. Una storia esemplare, in cui intuito, fortuna, paranoia, perseveranza (la parola d'ordine di Crox), capacità di osservazione e di sintesi, oltre che la totale mancanza di scrupoli morali, si combinano per spiegare un successo che a ben vedere non ha nulla di così miracoloso, in un ambiente che consente agli squali sbranare qualsiasi concorrente trovino sul loro cammino. Regia fluida, sceneggiatura agile e ben calibrata, senza fronzoli, ambientazione credibile quanto suggestiva, e un interprete capace di esprimere con la sua incredibile malleabilità tutte le sfumature di un personaggio complesso e per niente facile da rendere. Da vedere.

domenica 22 gennaio 2017

Arrival

"Arrival" di Denis Villeneuve. Con Amy Adams, Geremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Tzi Ma, Marc O'Brien e altri. USA 2016 ★★★
In attesa che Villeneuve finisca di produrre il sequel niente meno che di Blade Runner, ecco il regista esercitarsi con la fantascienza con un film profondamente umanista, delicato, intelligente, per niente scontato ma che non finisce di convincere sia per una mancanza di ritmo in parte voluta, sia per una certa fumosità che non lo rende immediatamente comprensibile nonché per alcune incongruenze di non poco conto. Dodici astronavi aliene, dalle forme allungate e oscure che richiamano il monolite di 2001 Odissea nello Spazio, appaiono in dodici diversi siti del pianeta a poca distanza dal suolo, la cui scelta sembra del tutto oscura così come gli scopi della missione, al di fuori di quella che sembra un'attesa di contatto. Per scoprire le loro intenzioni e indagare nel sito del Montana, negli USA, dall'esercito viene ingaggiata Louise Banks, linguista di fama mondiale nonché in possesso di nulla osta governativo per traduzioni coperte dal segreto di Stato (Amy Adams, sulla cui bravura regge l'intero film) che deve collaborare con il fisico teorico Ian Donnelly (Geremy Renner che, insieme al poco credibile colonnello Weber impersonato da un quanto mai mediocre Forest Witaker è poco più che una comparsa). Sarà lei a prendere contatto con i Tom e Jerry, come vengono ribattezzati i due eptapodi (così vengono immaginati con scarsa fantasia gli extraterrestri), che comunicano attraverso schizzi di nero di seppia che fuoriescono da uno dei loro tentacoli e che disegnano della macchie variabili che si compongono su una lastra trasparente che li separa dagli umani nella sala dell'astronave che funge da luogo di incontro. Tutto il film ruota attorno alla necessità di comunicare e alla disponibilità a farlo, e quindi di trovare un modo di intendersi, innanzitutto per capire gli scopi della visita degli alieni e agire di conseguenza. In une crescente psicosi collettiva alimentata dalla cialtroneria e dal sensazionalismo dei media nonché dalla congenita paranoia dei militari (e naturalmente sono russi, cinesi e sudanesi a fare la parte dei più intransigenti, tutti d'accordo nell'interrompere la collaborazione scientifica dei "loro" siti con quelli delle altre nazioni interessate e nel far parlare le armi), l'unica a tenere i nervi saldi e viva la volontà di comunicare è Louise, la cui volontà di comprensione viene premiata dagli eptapodi col dono della visione del futuro che consiste nell'interiorizzare il loro modo di concepire il tempo, che non è lineare bensì circolare, concetto che sta anche alla base del loro linguaggio. Proprio prevedendo il futuro Louise riuscirà e entrare in contatto col comandante in capo dell'esercito cinese per convincerlo a fermare l'azione militare contro le astronavi aliene e queste potranno allontanarsi dalla Terra avendo però potuto consegnare il loro dono soltanto a una esponente dell'umanità e non all'intera comunità scientifica che avrebbe voluto beneficiare nella sua interezza, ma non divisa com'è secondo gli interessi nazionali; non manca la cotê sentimentale tra linguista e scienziato, di cui non sto a svelare l'esito, e che conferma la forze della convinzione di Louise nella capacità della comunicazione in sé. Insomma, "Arrival" si fa vedere, è tutt'altro che stupido ma si sente la mancanza di un qualcosa, che non è solo spettacolarità ma proprio un po' di energia e forse convinzione in più.

giovedì 19 gennaio 2017

Adiós, senza rimpianti


Tanto rumore per nulla. Accolto con aspettative mirabolanti quanto malriposte ed esagerato clamore di fanfare al momento dell'inizio del suo primo mandato otto anni fa, specialmente da parte dei servili alleati europei che, per motivi che già allora mi erano incomprensibili, ne furono stregati (ricordo la sua tournée nel Vecchio Continente del 2008 al tempo delle primarie, come se dovesse convincere noi ad eleggerlo), la presidenza di Barack Obama non lascerà traccia, probabilmente nemmeno per il fatto di essere stato il primo afroamericano (peraltro soltanto a metà) nella serie dei presidenti degli Stati Uniti, di cui è stato il 44°. Belle parole, bel portamento, bei vestiti, bella famiglia, belle location, otto anni di sit comedy buonista e politicamente corretta: tutta apparenza e niente sostanza, quando va bene la mediocrità infiocchettata da orpelli, più spesso l'inganno, la malafede e la vigliaccheria (il Nobel per la pace che fa la guerra coi droni, il killer a distanza come nel caso dell'individuazione (?) e susseguente assassinio di Osama Bin Laden). Pallone definitivamente sgonfiato dopo aver perso perfino il controllo del Senato in seguito alle elezioni di mid-term del 2014, l'anatra si era già abbondantemente azzoppata da sola durante i primi sei anni di mandato, indecisa a tutto, in balia degli eventi e di chi ne tirava i fili alle spalle, dimenticando o contraddicendo una dopo l'altra tutte le (false) promesse seminate in campagna elettorale e avidamente bevute dai babbioni che l'hanno prima votato e poi portato in cima agli scudi. Pessimo uomo di partito, oltretutto, visto il risultato ottenuto da Hillary Clinton due mesi fa: nessun presidente da che io abbia memoria si era mai battuto con tanto fervoroso quanto incauto impegno e convinzione per una candidata che chiunque fosse in grado di valutare la situazione con un minimo di obiettività e cognizione di causa (non certo la stampa partigiana: quella statunitense come quella nostrana, con le sue legioni di sondaggisti e di strapagati e riveriti "esperti") avrebbe dato per sicura perdente. Incensato per la sua abilità come politico, è stato dannoso perfino per la sua parte, immaginarsi se non sarebbe stato ridicolizzato come statista da un personaggio che, per quanto discutibile sia, lo sovrasta per intelligenza, visione, capacità, realismo, abilità e concretezza come Vladimir Putin, che invece pensava di poter mettere nel sacco. Per quanto inadeguato, ignorante e imbecille possa essere, Trump questo non solo lo ha capito ma ne ha tenuto conto. Con quest'oggi se ne va, e mancherà soltanto a chi ne ha tanto decantato le virtù senza mai riuscire a spiegarne i motivi e convincerne nemmeno gli elettori del suo stesso partito. 

martedì 17 gennaio 2017

Obamabilia - 3


"Il momento americano non è passato. Respingo quei cinici che dicono che questo nuovo secolo non possa essere un altro in cui, con le parole di Franklin Roosevelt, guideremo il mondo nella battaglia contro il male e nella promozione del bene. Io credo ancora che l'America sia l'ultima e migliore speranza sulla Terra“ (Barack Obama). Per fortuna dell'umanità non ne ha mai imbroccata una.

domenica 15 gennaio 2017

E se elas fossem para Moscou?


"E se elas fossem para Moscou?" (E se andassimo a Mosca) da "Le tre sorelle" di Anton Cechov. Adattamento, sceneggiatura e regia dal vivo di Christiane Jatahi. Con Isabel Teixeira, Stella Rabello e Julia Bernat nonché, in video, Paul Camacho, Felipe Norkusand, Thiago Katona. Musiche di Domenico Lancellotti, direttore della fotografia e operatore dal vivo Paul Camacho, set desgn di Marcelo Lipiani, costumi di Antonio Madeiro e Tatiana Rodrigues. Produzione C.ia Vértice de Teatro in collaborazione con Le Centquatre-Paris, Theater Spectacle, Sesc.

Al PalaMostre di Udine
Era un'occasione da non perdere, l'unica replica prevista per questa rivisitazione del capolavoro di Cechov allestita per CSS/Teatro Contatto dalla regista brasiliana Christiane Jatahi, ed è valso la pena ignorare le avvisaglie di un incipiente stato influenzale, il quale non mi ha impedito di assistere a una rappresentazione sorprendente e coinvolgente come poche negli ultimi anni. Commistione tra teatro e cinema, si era detto in fase di presentazione di questo dramma in due atti, avevo letto: in realtà si tratta di due fasi speculari dello stesso spettacolo, col pubblico diviso in due gruppi che si danno il cambio assistendo prima, com'è capitato a me, alla proiezione su un telo che sostituisce il sipario del filmato di ciò che viene recitato nel palcoscenico dietro ad esso, e poi, da una gradinata  allestita in tubi innocenti, allo spettacolo teatrale vero e proprio, nella sua interezza e con tutti i laboriosi cambi di scenografia e spostamenti di pannelli e mobili, nonché le telecamere a mano in azione, in un rapporto di complicità e interazione con le tre magnifiche attrici. Jatahi conosce bene il mezzo cinematografico e la parte filmata (in diretta) e proiettata su un telo che è diaframma più immaginario che reale tra realtà e finzione le consente di scavare nel primi piani delle interpreti e cogliere particolari che acquisiscono un senso diverso quando, dall'altro lato, si assiste alla performance nella sua tridimensionalità tipicamente teatrale. Mosca, per le tre sorelle di Cechov, Olga, Maria e Irina, che si riuniscono nel giorno del ventesimo compleanno di quest'ultima, che è anche l'anniversario della morte del padre, è l'emblema dell'altrove possibile, del cambiamento, della vita nuova; trasposta la situazione al momento attuale, la domanda che la regista e le tre interpreti, che hanno attivamente collaborato alla drammaturgia e alla sceneggiatura si pongono e pongono allo spettatore, è cosa sia l'utopia e quale cambiamento, e in che termini sia possibile, interrogativo che rimane aperto dopo un confronto tra modi di vedere e aspirazioni diversi, nostalgie, traumi, riflessioni su sé stessi, tentativi frustrati. Lo spettacolo è in portoghese, sottotitolato in italiano, ma le tre attrici si sforzano di rendersi comprensibili usando anche termini italiani, inglesi e francesi e ci riescono benissimo, anche grazie alla loro comunicativa: non mancano alcuni riferimenti all'attualità brasiliana, e ho notato con disappunto che le sole parti non tradotte in italiano fossero proprio quelle che si denunciavano la presa di potere dell'attuale presidente Temer senza passare per le elezioni, dopo l'impeachment di Dilma Rousseff: cosa ormai abituale dal 1991 in qua anche in Italia, e forse a qualche solerte pidiota di casa nostra saranno fischiate le orecchie e ha preferito soprassedere... Se lo spettacolo è stata una maratona impegnativa per quanto piacevole per il pubblico (due volte 90 minuti di spettacolo e 45' di pausa) dev'essere stata massacrante per le interpreti, alle prese, oltre che col facchinaggio, anche con immersioni in acqua e libagioni varie, a dimostrazione che fare l'attore di teatro non è un mestiere per tutti, ma solo per i migliori e i più forti. E la dimostrazione, specie facendo seguire la parte "dal vero" a quella filmata, di quanto la dimensione teatrale sia assorbente rispetto a quella cinematografica, facendo perdere la dimensione del tempo, quasi azzerandola. Grande successo e applausi, meritati, a non finire. 

giovedì 12 gennaio 2017

Il cliente

"Il cliente" (Forushande) di Asghar Farhadi. Con Shahab Hosseini, Taraneh Alidoosti, Babak Karimi, Medi Koushki, Mina Sadati, Farid Sajjadi Hosseini e altri. Iran, Francia 2016 ★★★★½
Teheran, ai nostri giorni. Una coppia di attori di teatro (lui anche insegnante in un liceo), affiatata nella vita come nel lavoro (hanno il ruolo di protagonisti in Morte commesso viaggiatore di Arthur Miller), è costretta a lasciare l'appartamento dove abita perché il palazzo è pericolante (primo accenno alle speculazioni in atto in Iran e che ne hanno devastato la capitale) e, con l'aiuto di un collega, si trasferiscono in quello che era occupato, si scoprirà, da una prostituta. Una sera lei, Rana, lascia aperta la porta di casa mentre va a vare la doccia pensando che a chiamarla al citofono fosse il marito, Emad, e viene aggredita da un uomo che era un abituale cliente della precedente inquilina: questo fatto innesca un meccanismo implacabile per cui da un lato la donna diventa sempre più insicura, cade nel panico, non vuole denunciare il fatto per non dover affrontare le domande insidiose e magari allusive degli inquirenti, finendo perfino per colpevolizzarsi, in qualche modo, dell'accaduto (e qui il riferimento non è solo alla misoginia della mentalità di un Paese musulmano ma vale anche da noi, considerati casi anche recentissimi); dall'altro il marito, dopo essersi dissuaso dall'andare alla polizia, intraprende un'indagine personale per rintracciare il colpevole, dando inizio a una vera e propria caccia all'uomo finché non riesce a identificare il colpevole riuscendo ad attirarlo, con la scusa di fare un trasporto, nel vecchio appartamento, incastrandolo e facendolo confessare, fino all'epilogo, che non rivelo. L'impianto è quello della tragedia classica, quella greca, con il fato, l'elemento casuale, che irrompe nella quotidianità sconvolgendo il normale corso della vita e delle relazioni, rivelando aspetti nascosti e contraddizioni che si accumulano in un crescendo di tensione degne del miglior noir psicologico e non solo; la vicenda raccontata si intreccia e rimanda a quella che sta andando in scena a teatro, e trovano così spazio anche gli accenni alla censura operata dal regime iraniano nonché al momento incerto che sta attraversando un Paese in una fase di cambiamenti profondi già in atto, che vengono vissuti come ineluttabili e che entrano in conflitto sia con i residui di un modo di pensare tradizionale sia con le aspirazioni delle persone, in particolare i più giovani e più colti. Il film è molto bello, scritto e sceneggiato dallo stesso regista, Asghar Farhadi, è fluido e al contempo compatto, teso e coinvolgente, lasciando fino all'ultimo il dubbio sull'esito della vicenda; gli attori bravissimi, ma ha un'unica pecca: il doppiaggio, per cui la scuola italiana è universalmente riconosciuta ma in questo caso lascia a desederare. Imperdonabile, in una pellicola di questo valore, affidare le parole di alcuni personaggi non secondari a voci monocordi e dalla dizione incerta che sembrano leggere l'elenco della spesa e con immotivate cadenze dialettali, tra il ciociaro, l'abruzzese e il marchigiano. Peccato, ma per il resto notevole.

martedì 10 gennaio 2017

Non bastavano i pirla...

Mai più senza. Autorevoli, affidabili e disinteressati "consigli per gli acquisti" per i sempre più rari, e quindi preziosi, lettori del CorServa: potete fidarvi. O no?

lunedì 9 gennaio 2017

Obamabilia - 2


"Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza, unilateralmente se è necessario, per proteggere noi stessi e i nostri interessi vitali quando siamo attaccati o minacciati di essere attaccati".  - Barack Obama, Premio Nobel per la pace 2009

venerdì 6 gennaio 2017

giovedì 5 gennaio 2017

Obamabilia - 1


"We want you to join the EU": mi ricordo quando Barack Obama caldeggiava l'adesione della Turchia all'UE, suscitando una reazione perfino in due lacché come Sarkozy e Merkel, e nell'assenso servile dei nostri, specie quelli dell'asinistra come Wuolter Cialtroni alias Veltroni che erigevano a loro campione e modello di azione politica uno dei più ipocriti, inetti, dannosi e stupidi presidenti che gli USA abbiano mai avuto, inutile perfino a sé stesso, oltre che al suo Paese, il 44° della serie. Ancora 15 giorni e avanti un altro che, pur essendo Donald Trump, difficilmente potrà essere peggio. Staremo a vedere: tanto non possiamo farci niente, con le atomiche a stelle e strisce disseminate sotto al culo. 

martedì 3 gennaio 2017

Il medico di campagna

"Il medico di campagna" (Médecin de campagne) di Thomas Lilti. Con François Cluzet, Marianne Denicourt, Cristophe Odent, Patrick Descamps, Isabelle Sadoyant, Géeraldine Schiffer, Féelix Moati e altri. Francia 2016 ★★★½
Un film curioso: convinto di assistere a una classica commedia francese (la locandina rimanda a La famiglia Bélier, grande successo della scorsa stagione), ecco una pellicola che utilizza sì il genere, raccontando la vicenda di un medico condotto che si trova a passare le consegne a una collega che, per motivi di salute, deve sostituirlo, ma lo fa per parlare della professione e della medicina odierna sotto tutti gli aspetti: quello del rapporto coi pazienti e tra colleghi; dell'eccesso di specializzazione e della perdita della capacità di fare diagnosi che è soprattutto incapacità di ascolto, nel senso letterale del termine: Jean Pierre, il protagonista, sostiene che è il paziente stesso, con le sue parole, a fornire la gran parte degli elementi utili allo scopo, e che quindi occorre farlo parlare senza interromperlo. Jean Pierre si dedica a tempo pieno a quella che, umanisticamente, ritiene una missione, per quanto profondamente laica, e quando a sua volta gli viene diagnosticato un tumore al cervello che lo costringe a cercare un sostituto, il primo impatto con la collega Nathalie, fresca di studi ma non più giovanissima perché diventata medico dopo dieci anni da infermiera in ospedale, è fatto di diffidenza e quasi di astio: inizialmente sembra quasi che lui sia geloso dei suoi pazienti. Man mano però Jean Pierre impara ad apprezzare Nathalie, sempre più sicura in un ruolo non facile e sempre più negletto in una medicina sempre più specializzata da un lato e centralizzata in grossi nosocomi dall'altro. Uno potrebbe pensare che il tutto sia un pretesto per narrare la nascita di un inevitabile rapporto sentimentale e invece non è così, perché il regista stesso è stato medico internista e questo è il secondo film che dirige sulla sua professione dopo Hippocrate, mai uscito in Italia, che raccontava invece la formazione di un medico nelle corsie di un ospedale. Vero che la pellicola è piuttosto didascalica in alcuni aspetti e che indugia su particolari corporei non sempre gradevoli, però ha anche buon ritmo, dei dialoghi veritieri e spesso frizzanti, e ritrae personaggi e situazioni tipici ma non banali dell'universo agricolo, ancora molto vivo in Francia nonostante l'imperante globalizzazione, che non fanno tendenza ma esistono, per quanto quasi nessuno ne parli. Thomas Lilti invece sì, senza buonismi pelosi né riducendo i personaggi a macchiette, e questo è un grande merito al di là del valore "artistico" del film. I due interpreti principali, Cluzet e Denicourt, sono entrambi all'altezza della situazione, così come tutti gli altri, forse meno professionali ma estremamente credibili. 

domenica 1 gennaio 2017

Scaramanzie

Ma non è che dopo la morìa di cantanti, musicisti e altra gente di spettacolo dell'anno scorso in quello nuovo tolgano il disturbo un bel po' di politicanti, banchieri, squali della finanza e vecchi tromboni?