domenica 30 ottobre 2016

In guerra per amore

"In guerra per amore" di Pierfrancesco Diliberto (Pif). Con Pif, Miriam Leone, Andrea Di Stefano, Sergio Vespertino, Maurizio Bologna, Samuele Segreto, Stella Egitto, Maurizio Marchetti, Vincent Riotta e altri. Italia 2016 ★★★+
Seconda pellicola di Pif, come regista sceneggiatore e attore che troviamo nei panni del personaggio principale. Come nel fortunato La mafia uccide solo d'estate, si chiama Arturo Giammarese e anche in questo caso racconta un percorso di presa di coscienza del fenomeno mafioso che, pur attraverso toni favolistici e solo apparentemente giocosi, avviene nel contesto di fatti storici realmente accaduti (lo sbarco delle truppe USA in Sicilia, nel luglio del 1943) e di retroscena ampiamente documentati quanto disconosciuti (e volutamente fatti passare sotto silenzio), e già per questo il film merita un'ampia sufficienza, oltre che per il fatto di raggiungere, attraverso la leggerezza e l'ironia, un ampio pubblico , specie giovane, altrimenti ignaro, benché alla fine riesca meno convincente del precedente, di cui in qualche modo può considerarsi un prequel. Arturo è un palermitano che a New York lavora in un ristorante italiano ed è innamorato della bella Flora (une radiosa Cinzia Leone), nipote del proprietario che l'ha però promessa a Carmelo,a sua volta  figlio di un mafioso braccio destro di Lucky Luciano: l'unico modo per uscirne, è che Arturo vada in Sicilia a chiedere personalmente la mano della figlia al padre della fanciulla, ed è qui che l'amore contrastato tra i due si innesta nella storia, ossia negli antecedenti dello sbarco degli americani in Sicilia, che avvenne pressoché senza colpo ferire, da una parte e dall'altra, per i noti accordi sottostanti fra Stato Maggiore e governo USA proprio con Lucky Luciano, il quale propiziò l'amichevole accoglienza delle truppa da parte delle famiglie mafiose dell'isola: è in questo scenario che Arturo decide di arruolarsi per raggiungere il suo obiettivo. Che rimane quello di coronare il suo sogno d'amore raggiungendo il padre di Flora, passando attraverso una serie di vicissitudini in cui spunti reali si mischiano alla fantasia, indifferente a tutto fino all'uccisione al suo posto, per mano mafiosa, del tenente italoamericano Philip Catelli, di cui aveva conquistato l'amicizia e che aveva redatto una lettere a Roosevelt per denunciare gli esiti esiziali della collaborazione tra alleati e mafia, che avrebbe avuto l'effetto di consegnare l'isola nelle mani di quest'ultima per gli anni a venire. Come in effetti avvenne e gli ultimi minuti della pellicola documentano, presentando tutta una serie di personaggi che avrebbero dominato le cronache negli anni a venire., da Calogero Vizzini e Vito Ciancimino a Michele Sindona, tutti messi in rampa di lancio col pretesto della loro funzione anticomunista delle autorità americane, che non tennero in alcun conto i rapporti del vero capitano Scotten, opportunamente secretati per anni. Rispetto a quella che l'ha preceduta, la pellicola ha una trama un po' troppo dispersiva affidandosi meno al lato surreale e perdendo un po' del mordente a cui ci aveva abituato Pif, che comunque si circonda di un gruppo di caratteristi di grande bravura confezionando un prodotto insieme gradevole e istruttivo. 

giovedì 27 ottobre 2016

American Pastoral

"American Pastoral" di Ewan McGregor. Con Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Strathairn, Uzo Aduba, Valorie Curry, Rupert Ewans, Molly Parker e altri. USA 2016 ★★=
A Ewan McGregor va dato atto di avere avuto un coraggio leonino nell'esordire alla regìa traendo ispirazione da un romanzo osannato quanto famoso come quello che valse il premio Pulitzer a Philip Roth, considerando la difficoltà a trasporre sullo schermo un'opera letteraria rimanendole fedele, benché sia a mio avviso sbagliato giudicare una pellicola in base agli stessi criteri di un romanzo, rimanendo stupiti dell'impossibilità di renderne la complessità e profondità in due ore di immagini; vero è che il film, sebbene non del tutto malvagio, non risulta convincente nemmeno a prescindere dal fatto di aver letto il libro. In sostanza, la vicenda tratta del crollo del "sogno americano", minato alle sue basi dagli eventi che hanno segnato gli anni Sessanta e Settanta, dalla guerra d'aggressione in Vietnam alle rivolte dei neri in patria, esemplificata dalla parabola del protagonista, Seymour Levov detto "Lo svedese", un perfetto esempio di middle class man di origine ebraica perfettamente integrato, baciato dalla fortuna da giovane: bello, benestante, un eroe sportivo, sposo felice dell'invidiata Miss New Jersey ed erede dell'avviata attività paterna, il cui mondo va progressivamente in pezzi quando l'adorata figlia Merry si rende responsabile di un attentato dinamitardo in cui perde la vita il gestore dell'ufficio postale del paese in cui vive la famiglia Levov e che successivamente entra in clandestinità sparendo dalla circolazione. Il film si concentra su due aspetti: i motivi dell'avversione di Merry verso i propri genitori, in particolar modo la madre, troppo perfetti per non essere oggetto dell'iconoclastia adolescenziale della ragazza, peraltro imperfetta sia perché balbuziente sia perché bruttina anziché no, e la sua ostinata ricerca da parte del padre, resa come un thriller non privo di colpi di scena, ossessionato dalla domanda se la figlia fosse consapevole delle sue azioni e da considerarsi colpevole oppure vittima di una sorta di lavaggio del cervello da parte dei suoi compagni di ribellione, fino al loro reincontro. Quello che manca, seppure evocata fin dall'inizio dalla voce narrante di un amico del fratello di Seymour, uno scrittore che partecipa a una riunione di ex compagni di liceo il giorno prima della sepoltura dello "Svedese", è la figura di quest'ultimo da giovane, che spiegherebbe meglio l'evoluzione del personaggio che invece, nel film, rimane sempre identico a sé stesso, complice anche una certa fissità di  McGregor, che ha pressoché la stessa espressione attonita per tutta la durata del film, senza che mai una ruga gli solchi il volto o un segno di affaticamento renda evidenti la sua sofferenza e il suo progressivo disfacimento psicofisico, e in questa sostanziale inerpressività non sono da meno le due coprotagoniste, Jennifer Connoly nei panni della moglie e madre Dawn e Dakota Fenning in quelli di Merry: decisamente meglio gli interpreti di contorno. Insomma, si può vedere ma davvero non è un granché.

martedì 25 ottobre 2016

Io, Daniel Blake

"Io, Daniel Blake" (I, Daniel Blake) di Ken Loach. Con Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, KEma Sikawze e altri. Gran Bretagna, Francia 2016 ★★★★★
Può anche darsi che questo ultimo film del maestro inglese, che peraltro ha vinto la Palma d'Oro al Festival di Cannes di quest'anno, non sia il suo migliore ma, come tutti i suoi lavori, è rigoroso, pieno di sincera umanità, senza mai scadere nel buonismo d'accatto, a tratti duro, ma come non mai necessario. Qui la vicenda, ambientata a Newcastle on Tyne, è centrata su Daniel, un falegname di 59 anni con pesanti problemi cardiaci in fase di riabilitazione, che i medici curanti considerano ancora inidoneo al lavoro e che rimane intrappolato nei meandri delle (volutamente) demenziali procedure burocratiche nel momento in cui chiede l'indennità di malattia, che gli viene negata in seguito a un questionario stile Comma 22, e si trova costretto a dimostrare di aver cercato lavoro per non perdere il sussidio di disoccupazione e venire perfino sanzionato. Durante i suoi andirivieni al Centro dell'Impiego e dell'Accoglienza, gestito da arroganti, stupidi e informatizzati funzionari di nuova generazione (2.0), conosce Katie, una giovane ragazza con due figli, costretta a lasciare Londra per il Nord pur di ottenere un misero alloggio, con cui si instaura un legame speciale, fatto di solidarietà, comprensione e calore. Non ha un lieto fine, la vicenda, e Loach, descrivendo puntigliosamente a che livello infame si è ridotto il welfare nel Paese stesso che lo ha inventato ed esportato nel mondo, concependo chi ne ha bisogno come una sorta di usurpatore, per definizione responsabile e anzi colpevole del proprio stato, e "configurato" al più come un utente petulante e un consumatore di servizi congegnati in modo tale da non essere forniti se non al costo di una totale sottomissione a regole astruse e dettate dal Dio Mercato, denuncia ancora una volta tutto questo. Di fatto l'ammissione di una sconfitta che viene da lontano, 40 anni fa almeno, e che è sulla via di togliere man mano ogni residuo diritto, ma deve fare i conti con la resistenza di persone che non sono disposte a mettere in discussione la propria dignità  e che rivendicano di essere considerate dei cittadini e non dei sudditi o dei numeri, il che è lo stesso. Finché c'è gente come Ken Loach a ricordarci che è neccessario tenere duro. 

domenica 23 ottobre 2016

Neruda

"Neruda" di Pablo Larraín. Con Luís Gnecco, Gabriel García Bernal, Mercedes Morán, Diego Muñoz, Pablo Derqui e altri. Argentina, Cile, Spagna, Francia 2016 ★★★★★
Per curiosità, oltre che per corroborare le mie sensazioni ad contrarium, sono andato a leggermi la recensione che di Neruda ha fatto Goffredo Fofi su Internazionale, il quale di fatto stronca uno dei migliori film dell'ultimo biennio, che sta alla pari, pur differendone in tutto, dell'ultimo di Pablo Larraín, Il club. La prima argomentazione, se può chiamarsi tale, è la stessa con cui aveva "demolito" anche Il clan dell'argentino Trapero, ossia che il regista è "antipatico", e si commenta da sola; Larraín, inoltre, secondo Fofi, ha la colpa di appartenere a una famiglia "coinvolta nel potere fino al collo" e, a dargli retta, tenterebbe di emendare il proprio pinochettismo di fondo con abili provocazioni intellettuali in grado di incuriosire e sedurre il pubblico internazionale, né più e né meno di quanto aveva scritto a proposito di Yorgos Lanthimos, il regista greco di The Lobster, "il rappresentante esemplare di una leva di registi internazionali che si fanno strada nel loro paese, ma si affermano all’estero nel quadro delle multinazionali della comunicazione" e via farneticando, confermando che qualsiasi cosa non rientri nei precostituiti schemi mentali che sono l'armamentario dell'intellettuale organico eugubino, non essendo in grado di capirla, la disprezza. Lasciando l'attempato critico militonto ai suoi furori e alle sue ubbie e tornando a Neruda, la prima cosa che mi è venuta in mente è che si tratti di un gioco letterario che utilizza la forma di un finto biopic (dove però il falso si confonde col vero) che, a mio parere, trova i riferimenti da un lato in Borges e dall'altro in Bolaño, gloria argentina il primo e cileno (rifugiato in Messico dopo il golpe di Pinochet del 1973) il secondo, purtroppo prematuramente scomparso. Ed è tra questi due Paesi, lungo la Cordigliera andina dopo essere passato da Valparaíso, che si svolgono le tappe della clandestinità di Neruda, che davvero nel 1948 era un deputato comunista che finì per essere perseguitato e ricercato. Qui viene descritto in tutte le sue contraddizioni di uomo e di intellettuale, borghese per quanto di umili origini e al contempo rivoluzionario, vanesio e sotto sotto classista ma anche generoso, capace di toni alti e di trivialità, il tutto in un tono tra il serio e il caricaturale che finiscono per fondersi. A inseguirlo, un giovane e tenace poliziotto, un perfetto detecitve selvaggio, Pelochennau che, come l'uomo a cui dà la caccia, ha molte facce e si fa passare per quello che non è e che a sua volta ha sentimenti contrastanti nei confronti della sua preda, cui assomiglia per più di un aspetto e con cui  instaura un rapporto sempre più stretto e complesso, per cui il ruoli finiscono per ribaltarsi e l'inseguitore finisce per essere l'inseguito, intrappolato alla fine nella trama del suo autore. Tipico film dai molteplici livelli di lettura, raccontato dalla voce narrante di Pelochennau, Neruda completa la serie dei film che Larraín ha dedicato alla società e alla storia recente del suo Paese, ma sottintende una generale constatazione del fallimento sia della politica sia dell'arte nella loro pretesa di cambiare il mondo, per cui da raccontare non rimangono che le persone e le loro storie, e questo Larraín, alla guida della sua corte di fidati interpreti lo sa fare come pochi altri, con in più una padronanza in tutte le sue sfaccettature del mezzo cinematografico, dalla sceneggiatura, alla fotografia, all'ambientazione, alla colonna sonora semplicemente straordinaria. 

venerdì 21 ottobre 2016

Qualcosa di nuovo

"Qualcosa di nuovo" di Cristina Comencini. Con Paola Cortellesi, Micaela Ramazzotti, Eduardo Valdarnini, Eleonora Danco e altri. Italia 2016 ★★★
Cristina Comencini ha la mano felice e dirige per il grande schermo con grazia, leggerezza e buon ritmo l'adattamento di della sua pièce teatrale "La scena"; sceneggiata da sua figlia Giulia Calenda e da Paola Cortellesi, splendida coprotagonista assieme a Micaela Ramazzotti e al giovane Eduardo Valdarnini, e conferma la sua bravura pienamenta espressa con l'ottimo Latin Lover uscito un anno e mezzo fa. Maria e Lucia sono amiche dai tempi del liceo, così diverse da essere perfettamente complementari: rigida, efficiente, fondamentalmente perbenista la prima, cantante jazz raffinata (la Cortellesi si esibisce in alcuni pezzi a riprova di un talento poliedrico) che dopo il fallimento del suo matrimonio con un collega musicista sembra aver chiuso con gli uomini e Maria, madre di due ragazzini, separata dal marito, scombinata e dedita ad avventure di una sola notte, in realtà romanticamente alla ricerca dell'uomo giusto. In questo tran tran tra le due amiche che si raccontano a vicenda le proprie giornate e i loro incontri, irrompe il giovane maturando Luca, carico di ormoni e stufo di una madre in carriera che pretende di assumere anche il ruolo paterno senza riuscirci e di una fidanzata coetanea che pare avere già tutto chiaro sul suo futuro e pretende da lui uguale concretezza ma anche il suo contrario, che dopo una notte trasgressiva con Maria per un'amnesia su quel che era successo la scambia con Lucia per cui tra le due amiche finisce per avvenire un'inversione di ruoli e ciascuna si trova costretta a fingere di essere l'altra, finché non si scoprono le carte e l'ambigua situazione venutasi a creare si chiarisce, scogliendosi in un finale per nulla scontato. Sembra all'apparenza una commedia degli equivoci, in realtà ruota attorno alla reinvenzione della propria identità non solo da parte delle due donne, vicine ai quarant'anni, ma anche del ragazzo, privato della figura paterna e pressato da due figure femminili che sembrano ricordargli soltanto dei doveri; e all'accettazione della diversità dell'altro e del sui diritto di avere una propria visione delle relazioni e delle cose in generale, senza per questo cadere nel consueto e banale buonismo e caricare all'eccesso i toni. Il divertimento c'è ma non è mai banale ed è accompagnato da una riflessione anche su altri aspetti: da quello dei reciproci ruoli maschili e femminili, al giorno d'oggi quanto mai confusi, a quello della famiglia, a quello della maternità nei suoi vari aspetti. Le due interpreti femminili sono entrambe bravissime ma è la Cortellesi a superare sé stessa nel rendere credibile la metamorfosi di Lucia da fredda (ma calda e sensuale voce quando si esibisce sul palco) e ingessata a donna che rinasce e rifiorisce lasciandosi andare senza mai per questo cadere nella caricatura della milf allupata e perdere l'equilibrio, anzi: riconquistandolo; mentre la Maria della Ramazzotti tutto sommato rimane sé stessa, con le sue fragilità ma anche la sua gioia di vivere, sebbene nel disordine. E niente male anche il giovane Valdarnini a tener testa alle due più esperte nonché bravissime colleghe. E complimenti ancora a Cristina Comencini, che con la commedia ben confezionata non sbaglia mai.

mercoledì 19 ottobre 2016

Alla cena dei lecchini



Sulla Cena di Stato (l'ultima della sua presidenza) offerta da Barack Obama e signora al nostro capo del governo nonché all'élite scelta dallo Statista di Rignano a rappresentare il Paese più supinamente vassallo degli USA, c'è poco da aggiungere, considerando la fama universale del servilismo, dell'esterofilia (in tutti i sensi) e del provincialismo italiani, ma colgo l'occasione per sottolineare, anche visivamente, gli effetti dell'americanizzazione di seconda, o forse terza generazione. Quello che vedete nell'immagine è Mario Batali, lo chef scelto su raccomandazione di Michelle Obama (la stessa che, in visita all'Expo milanese l'anno scorso, ci propinò le ricette "ecologiche" per cucinare la pasta: nella pentola a pressione) per l'occasione, nato a Seattle da un italoamericano e da una franco-canadese, erede, quindi, di due tra le migliori tradizioni gastronomiche al mondo nonché dell'eleganza. Affinatosi in Italia, non metto in discussione le sue capacità (benché ne dubiti) e meno che mai la professionalità, però anche se l'abito non fa il monaco, come si suol dire, nel mondo dell'immagine il come ci si presenta e si appare ha una certa importanza. Lui si è ridotto così. Vogliamo farlo anche noi?

lunedì 17 ottobre 2016

Lettere da Berlino

"Lettere da Berlino" (Jeder stirbt für sich allein) di Vincent Perez. Con Emma Thompson, Brendan Gleeson, Daniel Brühl, Mikael Persbrandt, Katharina Schüttle, Uwe Preuss, Hans Quangel e altri. Germania, Francia, GB 2016 ★★★+
Diretto e sceneggiato dall'attore e regista svizzero Vincent Perez, "Lettere da Berlino" è fedelmente tratto dall'ultimo romanzo di Hans Fallada Ognuno muore solo (edito in Italia da Sellerio), scritto nel 1946 poco prima di morire e considerato da Primo Levi "Il libro più bello sulla resistenza tedesca al nazismo", che si rifà a sua volta su una storia vera, basandosi su un'inchiesta della Gestapo per identificare gli autori di 287 cartoline dal contenuto antinazista che vennero rinvenute nella capitale e consegnate all'autorità tra il 1940 e il 1943 e che portò al gigliottinamento di una coppia di coniugi di mezza età. Otto e Anna Quangel, lui capo officina in una fabbrica di falegnameria, lei casalinga, decidono che è giunto il momento di reagire al torpore generalizzato dopo aver ricevuto dalla Wehrmacht la lettera che comunica la scomparsa del loro unico figlio sul fronte francese, proprio nei giorni in cui l'esercito tedesco conquista Parigi e Berlino è in festa, ed escogitano un modo per denunciare le menzogne del regime, la sua inumanità e la follia della guerra, pur consapevoli di quanto il loro sforzo sia inutile considerato il clima di terrore e l'ottundimento delle coscienze, se non altro per sentirsi a posto con la loro e non avendo più nulla di più importante da perdere di chi abbiano già perso: infatti soltanto 18 delle cartoline che seminano nei punti più disparati della città non vengono consegnate all'ufficio dell'ispettore  della Gestapo Escherich che, a differenza dei pezzi grossi delle SS cui è sottoposto e che hanno scatenato una caccia all'uomo sproporzionata, ragiona da poliziotto e cerca di ricostruire un ritratto psicologico dell'autore, riuscendo a individuarlo anche dopo che era stato acciuffato e ucciso il presunto responsabile. A parte il significato della storia, il film ha il ritmo e le tensioni di un thriller ben costruito, coi tempi giusti, che fa venire in mente quelli ispirati alle opere di Le Carré, e si avvale di ottimi interpreti, a cominciare dai tre principali, Thompson, Gleeson e Brühl, che si muovono in maniera del tutto credibile in una serie di ambienti ricostruiti perfettamente quando si tratta di spazi chiusi, purtroppo molto meno per quelli quelli esterni, chiaramente girati in studio con fondali di cartapesta purtroppo nemmeno molto ben fatti, ma pazienza, anche se contrasta con l'accuratezza dei primi e a mio parere questo inficia un po' il risultato, per il resto all'altezza, della pellicola. In ogni caso, l'esito è più che discreto.

venerdì 14 ottobre 2016

Breve storia di lunghi tradimenti

"Breve storia di lunghi tradimenti" di Davide Marengo. Con Guido Caprino, Carolina Crescentini, Maya Sansa, Flora Martínez, Philpppe Leroy, Michele Vanitucci, Franco Ravera, Ennio Fantastichini, Francesco Pannofino e altri. Italia 2011 ★★★½
Ecco un altro caso in cui, per motivi imperscrutabili di distribuzione, un film più che godibile girato cinque anni fa, e presentato già nel 2012 al Courmayeur Noir Festival, è uscito di soppiatto nelle sale soltanto nel gennaio di quest'anno e, circolando in poche copie almeno in Italia (pare abbia goduto di un buon successo in Cina), sbarcato in Friuli soltanto ieri sera, alla presenza però dell'autore del romanzo omonimo da cui è tratto, il pordenonese (nato a Valvasone) Tullio Avoledo. Il quale lo vedeva per la prima volta e, non potendo propriamente presentarlo, lo ha introdotto, in occasione di una chiacchierata pubblica con un giornalista del Gazzettino, raccontando dei gustosi retroscena della vendita dei diritti dei libri da parte degli editori, su cui gli autori possono intervenire poco o niente (per esempio quelli sul suo L'elenco telefonico di Atlantide, acquistato da un produttore di porno-soft fissato con gli inseguimenti sui tetti mentre il libro si svolgeva nei sotterranei di un claustrofobilco condominio); dei contributi alla sceneggiatura (come in questa pellicola) di cui si ignorano i risultati fino a cose fatte; dell'osservazione dei fenomeni della finanza dalla prospettiva di una persona che, come lui, lavora nell'ufficio legale di una banca ed è stato testimone oculare dei più che insoliti movimenti in borsa pochi minuti prima del cosiddetto attacco alle Torri Gemelle l'11 settembre 2001, fenomeno ripetutosi anche prima di altri eventi "catastrofici" forse per nulla casuali; ha parlato anche dell'Europa di oggi, ridotta a un continente omogeneizzato che nulla ha più a che fare con il Continente la cui ricchezza stava, ancora solo ai tempi della nostra gioventù, quando la si girava con l'Inter-Rail, proprio nella sua diversità, che nulla ha che fare col localismo xenofobo e col nazionalismo nazistoide ma nemmeno con questa Unione di Consumatori di cui non siamo cittadini ma sostanzialmente sudditi. Questo davanti a non più di 25 persone che "gremivano" soltanto metà della Sala Minerva del VIsionario di Udine, che ha ospitato la "serata speciale". Quanto al film, si tratta di un bank-thriller, come lo ha definito il regista, che risulta più che mai attuale alla luce non solo della crisi finanziaria globale esplosa nel 2007 ma anche delle sue conseguenze, compresa quella nostrana del Monte dei Paschi (con relativi "suicidi" eccellenti), tutte cose anticipate dal libro di Avoledo che fu scritto nel 2006 e uscì prima del suo verificarsi. A renderlo più che dignitoso, anche in confronto ad altre pellicole americaneggianti sul tema, l'interpretazione di un cast di ottimo livello e una regia spigliata, sicura, in grado di tenere un ritmo alto e un registro equidistante tra l'azione, la denuncia degli intrighi e delle storture finanziarie e le vite dei personaggi, senza eccedere né in un senso né nell'altro e, in più, con una costante vena ironica in soffondo. In sostanza la storia, Ambientata tra Torino e il Lago di Como, ruota attorno a un avvocato, Giulio Rovedo, che lavora in una banca di provincia che all'improvviso viene inglobata da una banca d'affari sotto il controllo di una multinazionale, e che viene coinvolto suo malgrado dalla nuova amministratrice delegata, Cecilia Schwarz, in una spericolata operazione tesa al recupero, in un Paese Sudamercano chiamato "Queimada" (omaggio a Gillo Pontecorvo), di un documento che permetterebbe lo sfruttamento del litio ("il petrolio del futuro") da parte di John Milton, un finanziere che si fa credere convertito alla preservazione dell'ambiente (quel che si vede è, in realtà, il Salar de Uyuni, che si trova in Bolivia, mentre la capitale di Queimada dove i due si recano per tentare di corromperne il presidente è Cartagena, in Colombia: lo so perché ho avuto al fortuna di visitare entrambi i luoghi). Già in Sudamerica l'avvocato si rende conto che qualcosa non va ed entra in contatto con gli oppositori del presidente corrotto, ma la situazione precipita quando rientrano in Italia e si scatena la caccia al documento mancante e man mano ogni tassello torna al suo posto anche con la collaborazione della moglie in via di separazione del legale, Valeria, una giornalista di "Internazionale" e del suo collega e amante, a sua volta amico di Giulio. il finale, senza forzati happy end, è aperto benché meno cinico che nel libro. Il risultato finale è più che dignitoso, se il film fosse stato prodotto negli USA e distribuito come si deve, sarebbe stato un successone, ma dati che si tratta di RAI-Cinema, occorre aspettare che passi in TV.

martedì 11 ottobre 2016

La verità sta in cielo

"La verità sta in cielo" di Roberto Faenza. Con Riccardo Scamarcio, Maya Sansa, Greta Scarano, Valentina Ludovini, Shel Shapiro, Paul Randall e altri. Italia 2016 ★★+
Sono andato a vedere questo film sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi, irrisolto da più di trent'anni, di cui attendevo l'uscita con curiosità e fiducia, con una cara amica il cui commento, all'uscita, è stato: "Con tutto quel materiale di prim'ordine, si sarebbe potuto fare un film di ben altro spessore, pensa solo a Spotlight. Per non parlare del fatto che tutto è ridotto a una visione provinciale e per di più parlato in romanesco stretto: insopportabile". Avevo tentato di difendere la scelta romanocentrica di Faenza per la stima che porto a questo regista dalla produzione discontinua ma sempre professionale e significativa, con l'argomentazione che, in effetti, tutta la vicenda era tipicamente capitolina, così come tutti o quasi i personaggi coinvolti e l'artificio di far fare il punto della situazione a una giornalista sì italiana (Maya Sansa), ma che lavora all'estero, per una TV inglese, un modo per dire che in questo Paese un giornalismo investigativo è pressoché inesistente e, quando qualche coraggioso reporter, perlopiù free lance, si attiva per svelare i Misteri Forti dei Poteri Forti, viene sistematicamente invischiato prima nella melma delle menzogne incrociate e poi inevitabilmente respinto dal muro di gomma eretto a loro protezione; meno credibile che il direttore di una rete televisiva inglese, per quanto informale, abbia l'aspetto di Shel Shapiro ma soprattutto l'interesse a sollevare nuovamente il coperchio, a trenta e passa anni di distanza, su un cold case vedendone il collegamento con le recenti vicende di "Mafia capitale" (a meno di non essere per davvero Shel Shapiro, che vive a Roma da mezzo secolo ed è più italiano che inglese). Ma non è solo questo il difetto della pellicola che, sposando la tesi sostenuta dalla famiglia Orlandi e dal libro sul caso di Vito Bruschini a cui si ispira il film, ossia dell'"avvertimento" al Vaticano (o della vendetta) per una caterva di soldi prestati allo IOR di Marcinkus usati per finanziare la rivolta anticomunista in Polonia (nel 1983 Oltretevere "regnava" Papa Woityla) dalla mafia tramite Renatino De Pedis, già membro di spicco della Banda della Magliana e gestito da lui stesso, ha il meritorio intento di sollecitare la magistratura a non chiudere definitivamente il caso e a sollecitare la consegna di documenti e prove sempre promessi dal Vaticano e mai forniti:  i dati si affastellano e, benché ricavati da pregevoli filmati d'epoca e ampiamente documentati, finiscono per generare confusione nello spettatore. Non solo: alla fine la tesi sostenuta appare la meno convincente, perché se la mafia, tramite De Pedis, aveva interesse a riavere indietro il denaro incautamente investito nello IOR di fronte alla loro gestione forsennata, non si capisce perché avrebbe dovuto far sparire le prove di un coinvolgimento di membri del Vaticano nel rapimento della ragazza e nella sua probabile soppressione, e ci si domanda perché non si sia voluta percorrere, nelle indagini, l'ipotesi del festino a sfondo sessuale o anche, chissà, rituale, ancora più vergognosa ma ancor più verosimile, considerate le tendenze pervertite e spesso pedofile di tanto clero anche altolocato, che nelle alte sfere della chiesa cattolica ha da sempre trovato ampia protezione. Apprezzabili, a mio parere, le prestazioni degli interpreti, in particolare della versatile Greta Scarano, ormai una sicurezza, ma alla fine proprio deludente la regia, con una domanda di fondo: perché ormai, per fare dei film di impegno civile, e che vadano a scavare negli scandali e negli eterni misteri di cui la nostra storia nazionale è piena, esiste ormai un solo format, quello che si rifà a Romanzo Criminale? L'originale era ottimo, la serie ancora meglio, ma si potrebbe anche cominciare a cambiare registro. 

sabato 8 ottobre 2016

Café Society

"Café Society" di Woody Allen. Con Jesse Eisenberg, Kristen Stewart, Steve Carrell, Blake Lively, Jeannie Berlin, Corey Scott, Parker Posey, Ken Scott, Paul Schneider, Tony Sirico e altri. USA 2016 ★★★★
Un divertissement elegante, come sempre intelligente, con un tocco di malinconia, ambientato, almeno nella prima parte, nel mondo dorato che ruota attorno al cinema nella Los Angeles degli anni Trenta, dove Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg), un giovane di famiglia ebrea newyorchese, viene catapultato per cercar fortuna affidandosi allo zio di successo, Phil (Steve Carrell), fratello della madre, famoso agente delle star di Hollywood, che dopo avergli dato l'incarico di fattorino lo affida alle cure della giovane segretaria, Vonnie, per svezzarlo e farne il suo factotum. Inevitabilmente si innamora della ragazza, che per un certo periodo lo ricambia nonostante gli dica di avere un fidanzato, al punto che Bobby, che nel frattempo, essendo un ragazzo intelligente e gentile è riuscito a imparare a muoversi nell'ambiente diventando l'uomo di fiducia di Phil, le propone di sposarlo e trasferirsi a New York ma, dalle confidenze dello zio, emerge che in realtà è Phil l'uomo con cui Vonnie ha una relazione ed è lui che sceglierà quando questi lascerà moglie e figli. Deluso, Bobby ritorna a New York, l'unico luogo in cui si senta davvero sé stesso e riesca a immaginarsi (evidenziando, se ancora servisse, quanto sia l'alter ego di Allen nell'occasione), e diventa l'animatore di un locale notturno, il Café Society per l'appunto, che gestisce per conto del fratello Ben, un gangsters che ha investito in esso i proventi delle sue attività criminali. Il Café Society, dove si suona peraltro dell'ottimo jazz (mai visti tanti neri in una pellicola di Allen: era l'occasione buona per rifarsi!), che giustamente funge da colonna sonora, diviene presto, grazie all'affabilità di Bob e alle sue conoscenze, un locale di grande successo frequentato dalla gente che conta, fino a diventare di sua proprietà quando il fratello viene arrestato e poi giustiziato sulla sedia elettrica. Nel frattempo Bob si è sposato, combinazione, con un'altra Vonnie (Blake Lively), divorziata da poco, ma ecco che, in visita, vengono per una settimana zio Phil e la giovane moglie, la vonnie californiana, l'amore del passato, quello che sempre rimane vivo, nonostante tutto, nel cuore di Bobby. Parabola autobiografica, ironica e un po' cinica al contempo, e sempre con un tocco nostalgico, Café Society, che deve non poco alla maestria di un direttore della fotografia del calibro di Vittorio Storaro, alla prima collaborazione con Allen, appartiene al gruppo dei migliori film dell'ultima produzione del maestro newyorchese, non solo a parere mio ma pressoché unanimemente almeno a sentire quel che diceva il pubblico all'uscita della proiezione, lontano dalle sue pellicole turistiche europee: Woody Allen c'è ancora e ha battuto un colpo.

giovedì 6 ottobre 2016

'Ndranghetì, 'ndranghetà, 'ndranghetiamo la città!

Gli effetti dell'esplosione nella notte di domenica al bar "I cinque gradini" in Viale Regina Giovanna, 38 a Milano

mercoledì 5 ottobre 2016

martedì 4 ottobre 2016

Bridget Jones's Baby

"Bridget Jones's Baby" di Sharon Maguire. Con Renée Zellweger, Colin Firth, Patrick Dempsey, Emma Thompson, Kate O'Flynn, Gemma Jones, Jim Broadbent e altri. Gran Bretagna 2016 ★★½
Nulla di nuovo sotto il sole di Bridget Jones, che da quindici anni ormai è un brand, come lo erano Rambo, Rocky Balboa, a suo modo Batman e, rimanendo in Gran Bretagna, Harry Potter, a parte il bebé che, dopo aver soffiato da sola nel suo appartamento londinese da zitella più o meno in carriera sulle candeline della torta per il 43° compleanno, Bridget Jones alias Renée Zellweger porta in grembo senza sapere chi sia il padre. I papabili sono due: l'americano Jack, incontrato nel weekend organizzato per consolarla dalla collega e amica MIranda a un Festival Rock (Glastonbury?) oppure il mai dimenticato Mark Darcy (Colin Firth), famoso avvocato in cause sui diritti umani e alle prese con un secondo divorzio, con cui il ritorno di fiamma aveva il sapore dell'inevitabilità: l'occasione dell'incontro era stato il funerale di Daniel Clearer (Hugh Grant, presente solo in fotografia) dopo essere stato dichiarato morto presunto in un misterioso incidente in qualche lontana landa esotica, e in seguito un battesimo, a cui partecipano entrambi. Invecchiata, dimagrita, un po' meno inetta ma sempre catastrofica nel gestire le situazioni innescate dalla sua stessa goffaggine, Bridget ha fatto carriera producendo un programma di interviste a personaggi famosi condotti in studio da Miranda a cui finisce per invitare, per riuscire a procurarsi elementi utili alla prova del DNA, proprio Jack, diventato milionario grazie a un sito per incontri basato sulla percentuale di compatibilità di coppia secondo un sistema di sua invenzione. Fra preservativi scaduti, esilaranti incontri con la ginecologa (Emma Thompson), il personaggio più riuscito del film, corsi pre-parto a cui partecipano entrambi i presunti padri, rincorse, equivoci e alcune idee felici come la nuova boss dark e i suoi assistenti hipster invariabilmente dotati di barbe definite generosamente "ironiche", la terza puntata della saga, diretta da Sharon Maguire come la prima, scorre via gradevolmente fino all'inevitabile happy end che lascia aperto uno sèpiraglio per un ulteriore episodio della serie, e alla fine questa rassicurante continuità ben confezionata è ciò che importa se da una pellicola non ci si aspetta altro che trascorrere un paio d'ore di completo relax col sorriso sulle labbra in compagnia di personaggi che si possono ormai considerare "vecchi amici", e che abbia una sua coerenza con le puntate precedenti: in questo senso il risultato è pienamente raggiunto.

domenica 2 ottobre 2016

Partizani - La resistenza italiana in Montenegro

"Partizani - La Resistenza italiana in Montenegro" di Eric Gobetti. Italia, 2015 ★★★★
Tappa a Udine, venerdì sera al Cinema Visionario, del giro di presentazione dell'interessantissimo documentario dello storico torinese Eric Gobetti alla presenza del regista, autore di numerosi studi e pubblicazioni sull'ex Jugoslavia e di Federico Tenca Montini, sociologo e dottorando all'università di Zagabria, anche lui studioso delle conseguenze dell'occupazione italiana in Jugoslavia tra il 1941 e il 1943, quando le nostre truppe vennero mandate nel Balcani per dar corpo, senza risultati, ai deliri espansionistici di Mussolini, presto tramontati, per poi renderle conniventi con nazisti, ustascia e cetnici nella persecuzione della Resistenza d'ispirazione comunista guidata da Tito. Ma ci furono ben ventimila militari italiani che non si resero complici e, dopo l'armistizio, volsero le armi contro i tedeschi alleandosi contro i partigiani titini contro cui erano stati obbligati a sparare fino al giorno prima. Si trattava di un caso, molto poco conosciuto, di adesione su base pienamente volontaria alla Resistenza in territorio d'occupazione, di militari dell'ex Regio Esercito Italiano appartenenti alla19ª Divisione fanteria "Venezia", alla 1ª Divisione alpina "Taurinense", al Gruppo artiglieria alpina "Aosta" e ai superstiti della 115ª Divisione fanteria "Emilia", raggruppati nel Battaglione "Bijela Gora" che, dopo l'8 settembre del 1943, si trovavano nel Montenegro, nella zona di Nikšić: insieme, il 2 dicembre dello stesso anno, nelle campagne di Pljevllja (dove in loro onore nel 1983 fu inaugurato un monumento commemorativo alla presenza del presidente italiano Sandro Pertini e di quello jugoslavo Mika Spilijak), formarono la Divisione italiana partigiana "Garibaldi", al comando del generale Oxilia, inquadrata nel II Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo come unità dell'Esercito Italiano. Il documentario racconta la loro storia attraverso filmati reperiti tra il materiale non di repertorio ma "amatoriale" conservato da un tenente delle divisione e quindi di eccezionale valore, alcuni dei quali girati con rarissime, per i tempi, pellicole a colori, e interviste con un gruppo di superstiti; solo per questo, la visione di Partizani è raccomandato a chiunque abbia interesse a ciò che la storia ufficiale non racconta: né quella che si studia sui libri, né quella di partito, e mi riferisco a quella del PCI, che della Resistenza si è sempre dichiarato portatore dei valori pretendendo di esserne pure l'unico interprete: sull'episodio in questione fu alquanto ambiguo e reticente. Per più di un motivo: l'adesione alla Resistenza jugoslava di ispirazione comunista non solo dimostrava che la conquista del potere armi in pugno era possibile, mettendo in discussione nei fatti la linea del PCI dopo la "svolta di Salerno" (per quanto i soldati della Garibaldi non si fossero dichiarati comunisti) ma, dopo la rottura tra Tito e Stalin del 1948, mise in serio imbarazzo Togliatti, da sempre appiattito sulla linea del PCUS: non a caso Valdo Magnani, che pure era cugino di Nilde Jotti, la compagna del cosiddetto "Migliore", già capitano del Regio Esercito in Montenegro e che della Divisione Garibaldi fu tra i fondatori nonché commissario politico, venne espulso dal PCI nel 1951 insieme ad Aldo Cucchi (cfr l'eresia dei magnacucchi per gli appassionati di storia del "partitone" nostrano) per aver osato criticare l'onnipotente segretario e rifiutato il ruolo dell'URSS come Stato-guida della rivoluzione: sono cose che le scuole non insegnano e su la cattiva coscienza degli ex comunisti preferisce stendere pietosi veli. Un grazie a Eric Gobetti, quindi, e una raccomandazione a chi legge di andare a vedere questo interessantissimo Partizani  quando dovesse capitarne l'occasione.