martedì 28 giugno 2016

Kiki & i segreti del sesso

"Kiki & i segreti del sesso" (Kiki, el amor se hace) di Paco León. Con Natalia de Molina, Álex García, Paco León, Ana Katz, Belén Cuesta, Candela Peña, Luis Callejo, Luis Bermejo, Mari Paz Sayago, Alexandra Jimenez, David Mora, Alex García. Spagna 2016 ★★★
La penuria dell'offerta nel periodo, induce a essere generosi nel giudizio e anche un filmetto senza grosse pretese, che affronta il sesso in maniera ironica e giocosa, senza cadere mai nel percoreccio e nello sguaiato pur utilizzando un linguaggio per niente censurato e delle immagini esplicite e delle allusioni altrettanto dirette, diventa più che edibile consentendo di passare un paio d'ore al fresco e comodamente seduti durante un caldo pomeriggio estivo che non offre alternative calcistiche, essendo gli Europei di Francia in pausa per alcuni giorni in vista della volata finale. Confesso che la scelta è caduta su questa pellicola proprio perché spagnola, dopo essermi divertito ieri sera a vedere le "Furie Rosse"  iberiche addomesticate ed eliminate dal torneo a opera degli Azzurri. La commedia ha per oggetto quattro coppie collaudate, una di recente formazione e una in fieri in cui almeno uno dei partner ha delle predilezioni sessuali nascoste, alcune delle quali decisamente curiose ma realmente esistenti: chi ha orgasmi potenti solo guardando l'altro dormire o piangere, chi sentendo il fruscio di particolari tessuti, chi ha pulsioni bisessuali represse e così via: le vicende si dipanano contemporaneamente in una Madrid estiva, coinvolgendo persone di ceti e di età diversi, unite dal fatto di vivere nel caratteristico barrio centrale di La Latina, poco a Sud della Plaza Mayor, dalle parti della Puerta de Toledo e del Rastro (fra l'altro la zona che prediligo della capitale) e hanno un esito soddisfacente per tutte le parti in causa che finiscono per festeggiarlo in occasione della Fiesta de la Paloma, che si svolge ogni Ferragosto nell'animato quartiere. Il tutto perché, invece di tenere per sé le proprie preferenze, ognuno a modo suo cerca di comunicarle al partner, anche se inizialmente costa uno sforzo non indifferente superare l'imbarazzo o anche solo ammettere la "stranezza" a sé stessi ma la parola, sembra dire l'autore, regista e attore Paco León, ci è stata data proprio per usarla, a maggior ragione con la persona a cui teniamo di più, e a dargli man forte è un gruppo di affiatati interpreti, protagonisti di alcune scene decisamente esilaranti, che sembrano complici prima ancora che attori ai suoi ordini, e non a caso i i personaggi hanno tutti i loro nomi o soprannomi reali. Peccato che alcune sfumature legate alle diverse origini regionali si perdano nel doppiaggio in italiano, ma per il resto il film è gradevole e rinfrescante. 

mercoledì 22 giugno 2016

Love and Mercy

"Love and Mercy" di Bill Pohland. Con John Cusack, Paul Dano, Elizabeth Banks, Paul Giamatti, Jake Abel e altri. USA 2014 ★★★½
Buon film biografico che ricostruisce le sventurate vicende di un autentico genio della musica, Brian Wilson, fondatore e cervello dei Beach Boys, gruppo californiano a dimensione e conduzione famigliare che aveva a lungo rivaleggiato in fama con i Beatles e li aveva per certi versi anticipati, autore di tutti i loro pezzi più famosi, sperimentatore e innovatore riconosciuto da tutti gli specialisti del settore. Una personalità sensibile, complessa, vittima fin da piccolo di un dispotico e manesco padre-manager, sua vittima preferita proprio perché il più talentuoso dei fratelli Wilson e quello che più di tutti era lontano dalla dimensione surfistica e commerciale della band, tanto che presto si tolse dalle scene (saliva malvolentieri sul palco) per dedicarsi alla composizione e al lavoro di studio, in cui era uno dei maestri insuperabili (uno a cui perfino un mito come Phil Spector gli faceva una sega). Il film ne racconta la storia sdoppiandola e facendo interpretare il personaggio da due attori diversi: Paul Dano per il Brian giovane, in un rapporto di eterno conflitto e dipendenza nei confronti del padre, e John Cusack per il Brian maturo, caduto nelle mani di uno psicoterapeuta, il dottor Landy, a ben vedere un'altra figura paterna, che prima lo ha aiutato a uscire da un periodo di profonda depressione e di dipendenza da droga in cui si era completamente isolato, relegandosi a letto e ingozzandosi a dismisura, e poi lo aveva letteralmente plagiato dopo una diagnosi erronea di schizofrenia paranoide. Che l'artista fosse ormai completamente succube di Landy, il quale lo imbottiva di quantitativi industriali di psicofarmaci micidiali, se ne accorse a metà degli anni Ottanta Melinda Ledbetter, ex modella e all'epoca venditrice di automobili, quando Brian riuscì per un attimo a eludere la sorveglianza del suo "tutore" entrando nel suo salone per acquistare una Cadillac e dopo aver cominciato a frequentarlo: fu lei, assieme a Gloria, la governante messicana del musicista, a mettere all'erta gli altri componenti della band e suoi parenti nonché l'ex moglie e le due figlie, che Brian non vedeva da anni: in seguito, dopo averlo recuperato a un'esistenza normale sottraendolo alle grinfie di Landy (un Paul Giamatti che rasenta la repellenza) diventò sua manager e moglie, e lo è tuttora. Curiosamente, il più vecchio e disastrato dei tre fratelli Wilson, che formavano il nucleo della band, è anche l'unico sopravvissuto ed è ancora in attività. Ben interpretato e sceneggiato, il film ha il merito di far conoscere la storia poco nota di un personaggio  fondamentale nella musica contemporanea, e si chiude con un omaggio a Brian Wilson che interpreta al pianoforte il suo pezzo che dà il titolo alla pellicola: "Love and Mercy", ossia amore e misericordia.

lunedì 20 giugno 2016

Sballottati


L'avevo detto e lo ripeto: ride bene chi ride ultimo e i risultati dei ballottaggi di ieri sono incoraggianti in vista del referendum costituzionale d'autunno (di cui ancora si ignora la data). Che è l'unico appuntamento alle urne per cui abbia un senso impegnarsi in prima persona. E siamo anche a buon punto con la vera missione del De Firenzie: la dissoluzione, per rottamazione o implosione, del PD, come avevo auspicato e predetto a suo tempo. Un sogno, quello della sparizione dell'ultima mutazione genetica di ciò che fu il PCI, che coltivo fin dal 1977, quando quel partito rivelò definitivamente il suo vero volto: chi ha più o meno la mia età sa bene a cosa mi riferisco; i più giovani che eventualmente leggessero queste righe farebbero bene a informarsi su cosa accadde in questo Paese nei 10 anni che seguirono l'autunno caldo del 1969 e su chi, più ancora delle destre, gli abbia divorato il futuro, conculcando diritti, lavoro, istruzione e sanità e rendendo il presente un precariato continuo senza prospettive. Cose che, chi aveva gli occhi aperti e il cervello non obnubilato da ideologie fraudolente, non aveva faticato a capire ancora quarant'anni fa. Ma tornando ai risultati di ieri, il partito renziano non solo è stato annientato a Roma, Napoli e Torino (particolarmente goduriosa la débâcle di Fassino, già pezzo grosso della nomenklatura postcomunista e ora pidiota: eppure l'informazione di regime, ossia quasi tutta, lo fa tuttora passare per essere stato un buon sindaco, non capacitandosene), ma ha vinto solo per il rotto della cuffia a Milano (candidando alla successione di Pisapia l'ex City Manager di Letizia Moratti nonché commissario unico di Expo 2015) e di poco, e con partecipazione assai scarsa, a Bologna, roccaforte "rossa" (si fa per dire) da sempre. Per quanto riguarda realtà a me più vicine, i centrosinistrati sono riusciti a perdere anche Trieste che, dopo un solo mandato di Coso(lini), ha avuto così abbastanza della sua inconsistenza da preferire il ritorno, fino a poco tempo fa impensabile, del vecchio Di Piazza, e Pordenone, passata ai fascioleghisti dopo 15 anni di amministrazioni "progressiste" (si fa sempre per dire), e questo nonostante in Regione sieda alla presidenza Debborah Serracchiani, la vice di Renzie nel PD, e il suo vice sia Sergio Bolzonello, già sindaco per due mandati di Pordenone e caldeggiatore del suo successore Pedrotti, un'altra nullità, e della candidata a questa tornata Daniela Giust, che al ballottaggio ha superato di poco il 40%: un trionfo! Son soddisfazioni: come inizio dell'estate non c'è male, e ora torniamo a occuparci di altro in attesa del piatto forte, in arrivo forse in ottobre.

venerdì 17 giugno 2016

L'intrusa - Quesito con la Susi

Spilimbergo (PN), Furlanìa, Piazza Garibaldi e Via Roma, ore 8.20

I primi dieci che indicheranno correttamente il corpo estraneo nella zona commenti potranno riscuotere il premio, un tajutblanc o neri a piacere, alla sempre benemerita Osteria Al Buso di Via Simoni contattandomi personalmente

giovedì 9 giugno 2016

Nostalgía canalha



Per la serie: vai dove ti porta il naso. E io eseguo. Che ci posso fare se la casa madre di Belém (Lisboa) ha aperto la sua unica succursale proprio a Madrid e io ci capito casualmente davanti? E poi, se la carne è debole, figurarsi la mia gola...

Casa Mingo: un rito madrileno


Per la serie Langsame Heimkehr, ossia Lento ritorno a casa...

lunedì 6 giugno 2016

Sogno e realtà a Mompox


Ho sempre pensato che la Macondo di Gabriel García Márquez fosse frutto di un suo sogno, e all'incirca lui stesso lo confermava, dicendo che aveva fatto galoppare la fantasia a partire dai ricordi d'infanzia, trascorsa coi nonni materni ad Aracataca, e dai racconti di questi ultimi; più difficile immaginare che un sogno possa essere frutto di una realtà, così suggestiva, colorata, ricca di suoni, immersa nella natura e come sospesa nel tempo da sembrare immaginaria: questo mi è successo a Mompox, situata sull'isola Margarita, tra il corso del Cauca e del Magdalena, sulle rive di quest'ultimo, in una zona di paludi pescose e terre molto fertili che ricorda il Pantanal brasiliano, 250 chilometri circa a Sud-Ovest di Cartagena, nel dipartimento di Bolívar. 


Fondata il 3 maggio del 1537 come Santa Cruz (Mompoj era il
nome del cachique locale) da Don Juan Quintero de Heredia, fratello di quel Pedro che a sua volta aveva fondato Cartagena, era dopo questa il secondo porto della regione, fondamentale per il commercio con l'interno e fu qui che dalla costa si trasferirono molte famiglie abbienti, sia per sfuggire ai continui attacchi pirateschi, sia per seguire da vicino i propri affari, che avvenivano per via fluviale lungo il corso del Magdalena: qui affluiva l'oro, che era ciò che principalmente cercavano gli invasori spagnoli che chiamavano queste terre l'Eldorado, e non a caso vi fu impiantata una zecca e vi si sviluppò l'arte orafa, per cui Mompox (o Mompós, come viene anche chiamata) va famosa ancora oggi. 


La città, con ben sei chiese, un tribunale, un ospedale, scuole, un paio di conventi, un grosso mercato situato in uno splendido edificio (restaurato ma oggi non più adibito alla sua funzione originaria), un paio di belle piazze e un cimitero stupefacente, prosperò fino alla fine del XIX secolo, quando il trasferimento dei traffici su un altro ramo del Magdalena, in seguito alla deviazione del corso del fiume, ne decretò la decadenza economica a vantaggio di Maguengué, immobilizzandola, per così dire, nella dimensione in cui era al momento del suo massimo splendore, nel XVII e XVIII secolo. 


E' stata in compenso la fortuna di chi viene a visitarla oggi, affrontando un viaggio relativamente lungo e disagevole, ma che vale assolutamente la pena di intraprendere, benché la cittadina, che ora conta circa trentamila abitanti, non viva di solo turismo, anche se l'inserimento nella lista dei Patrimoni dell'Umanità protetti dall'UNESCO ha contribuito a farla conoscere e anche ad aiutarne la preservazione: l'attività agricola e la pesca sono comunque vivaci, così come quella artigianale, che ha la sua punta d'eccellenza nella lavorazione della filigrana d'oro e d'argento, una tradizione che si tramanda in famiglia e nei numerosi laboratori. Più che le parole, però, credo che qualche immagine descriva meglio l'atmosfera di quando si dice che un luogo è sospeso nel tempo: tre giorni sono trascorsi così, senza sentirlo incompete, se non placido, impercettibile scorrere delle acque del fiume.



sabato 4 giugno 2016

Mompesino y bolivariano


Se a Caracas devo la vita (vi nacque), a Mompox devo la Gloria. Così il Libertadór Simón Bolivar, riferendosi ai 400 mompesinos che costituirono il nocciolo duro del suo esercito dopo che la città fu una delle prime a proclamare, il 6 agosto 1810, l'indipendenza assoluta dal regno di Spagna. Un motivo in più, oltre a essere un luogo stupefacente dove il tempo pare essersi fermato e la vita scorrere al ritmo placido del suo fiume, un ramo del rio Magdalena, per visitare la Ciudad Valenterosa e rendere onore ai suoi abitanti.

giovedì 2 giugno 2016

Y, Alejandro Obregón


Muro della casa di Cartagena dove nel 1969 Gillo Pontecorvo girò Queimada, dirigendo Marlon Brando. Y, Alejandro Obregón.

mercoledì 1 giugno 2016

Guigo, el cartagenero




Tornato sul livello del mare dopo tre settimane di permanenza a una media di duemilacinquecento metri, con punte fino ai quattromila e oltre, ho ricominiato a vedere anche dei gatti, oltre a della gente che sembra sempre contenta di stare in un mondo che qui nel Caribe si rivela immediatamente multicolore, assume toni musicali e dove batte un cuore a ritmi africani. Cartagena de Indias sarà anche una città turistica, e in effetti è infestata soprattutto di anglosassoni tra cui i più sgradevoli si distinguono, come sempre, gli yanques, che qui si sentono nel loro cortile di casa, sbracati, anzi: per lo più in costume da bagno, a dimenare culi spropositati e deformi, trippe prominenti, a strepitare come galline e a trapanare l'udito a voce alta nonché offendendolo con la loro pronuncia sguaiata e indecente di una lingua che poco ha ormai a che vedere con l'inglese, ma non si fatica, seguendo la regola aurea di evitare come la peste i posti che frequentano questi bifochi e volgendo lo sguardo dove Il loro non si soffermerebbe mai, per scoprirne ancora gli aspetti dove si mostra la sua essenza, che è ancora quella di uno dei maggiori centri afroamericani dell'intera America Latina (guarda caso, gli yanques WASP, tanto razzisti a casa loro, trovano pitorescou tutto quel che fa colore locale, perfino il nero).



E infatti le somiglianze con Salvador de Bahía, ma soprattutto con l'Avana mi sono immediatamente saltate all'occhio, specie quelle con la sorella maggiore caraibica, sia per l'affinità lingustica, sia per lo stile architettonico, essendo l'influenza lusitana e manuelina a Salvador preponderante, e la presenza nera nello Stato di Bahía ancora più massiccia che qui, con la differenza che Il centro storico di Cartagena è infinitamente più curato e meglio mantenuto di quello dell'Avana (ci penseranno le companies nordamericane a stravolgerlo a breve, dopo la fine dell'embargo). 



Questa la sensazione al primo impatto con questo gioiello coloniale pressoché intatto circondato e in qualche modo protetto da un a possente cinta di mura che l'hanno difesa dai ripetuti attacchi dei pirati di "Sir" Francis Drake, il corsaro nominato baronetto dalla Corona Britannica (e dunque anglosassone per definizione), dagli assedi della Marina inglese nel 1741 e successivamente di un'altra corona, quella spagnola, purtroppo infruttuosamente, nel 1815, ad opera di Pablo Morillo, il Capitano Generale incaricato di combattere le truppe rivoluzionarie di Simón Bolívar, dopo che la città aveva proclamato per la prima volta l'indipendenza nel 1811. Poi occorsero quasi altri quattro decenni perché un governo finalmente liberale abolisse, nel 1851, la schiavitú, e facesse entrare in vigore una costituzione che, oltre a proclamare la libertà di stampa e i fondamentali diritti civili, sancisse la separazione fra Stato e Chiesa. Ma questa è ormai storia.