mercoledì 25 maggio 2016

Beato tra i Saraguros


Centoquaranta chilometri a Sud di Cuenca, lungo la Panamericana e a sessantaquattro da Loja, capoluogo della provincia omonima, la più meridionale di quelle andine dell'Ecuador, confinante con il Perú a Sud, con la regione costiera a Ovest e con quella amazzonica a Est, si trova incastonato il Cantón (distretto) di Saraguro, che è anche il nome sia del suo centro principale, sia di un gruppo etnico originario tra i più importanti e orgogliosamente coesi dell'America. I quattro giorni che ho trascorso tra loro, oltre a rammentarmi cosa significa essere una comunità, e continuare a esserlo perfino nel mondo globalizzante di oggi, pur facendone parte, rimarrà uno dei miei più bei ricordi di viaggio in assoluto. 


Controversa è la loro provenienza, ma pare che furono separati dai Palta, gruppo jibaro di origine amazzonica che si stabilì nell'area andina, per la loro resistenza alla conquista incaica e trasferiti attorno al 1470 su iniziativa di Huyna Cápac dalla zona del Lago Titicaca, forse dall'attuale Bolivia, oppure da quella di El Collao nella regione di Cuzco, e dislocati per motivi politico-militari nelle terre conquistate nell'attuale Ecuador secondo la pratica del mitimaes (che significa desterrado, e quindi sradicato) che assolveva al duplice scopo da un lato di indebolire delle tribù potenzialmente ribelli che avrebbero potuto infastidire l'élite inca, dall'altro di avere interi nuclei famigliari da inviare a colonizzare i nuovi possedimenti, difendere l'impero e diffondere la cultura inca: esattamente la stessa cosa che fecero gli absburgo con le popolazioni serbe facendo loro popolare le krajine, zone confinarie con l'impero ottomano, creando quelle enclave in Bosnia e nell'attuale Croazia che furono il detonatore delle tragedie delle recenti guerre balcaniche. Qui non è successo e non succederà, trattandosi di una realtà completamente diversa, ma in comune coi serbi i Saraguros hanno parecchie cose, a cominciare dall'orgoglio, dal senso di appartenenza (che non è razzismo: si calcola che soltanto un terzo di essi sia di discendenza indigena pura e il resto meticci, ma pur sempre Saraguros a tutti gli effetti), dalla laboriosità e competenza nel  lavorare i campi, dalla sintonia con la natura, dalla schiettezza, per finire con l'amore per la musica e per... l'alcol, come raccontava Sebastiāo Salgado ne Il sale della terra di Wim Wenders.



Nel cantone, i Saraguros sono circa 30 mila, altrettanti ne vivono sparsi nelle province vicine, specie amazzoniche, nell'Azuay e nel Pichincha (dove si trova Quito) e finanche in Spagna, a Vera (Almería), organizzati in 183 comunità, e conservando ovunque i loro riti, le loro tradizioni, il loro idioma originario, che è il quechua (anche per questo si ritengono discendenti diretti degli inca) per quanto ormai soppiantato come prima lingua dal castigliano, e il loro inconfondibile abbigliamento. Di lana e rigorosamente nero: perché trattiene il calore del sole e al contempo del corpo, in un clima piuttosto fresco (veleggiamo pur sempre attorno ai 2500 metri), ma soprattutto in segno di lutto per l'uccisione di Atahualpa per mano degli invasori spagnoli, che col loro arrivo hanno insozzato la loro terra, i loro costumi e il loro onore.



Per quanto l'associazione del nero al lutto sia stato introdotto dai conquistadores, come correlato della religione cattolica, gli attuali Saraguros insistono su questo tasto: in ogni caso sono estremamente curati, e molto eleganti in particolare le donne, spesso addobbate con ornamenti di valore e con appuntate grosse spille tempestate di pietre preziose chiamate tupus, specie nelle celebrazioni ufficiali, e quasi sempre a capo coperto col tradizionale cappello di lana bianco a falde larghe (pezzate di nero nella oarte inferiore) oppure scuro, come quello degli uomini, che portano invece dei calzoni tipo "pescatore", che coprono appena sotto il ginochio. Anche loro portano i capelli lunghi, simbolo di forza e di saggezza, per lo più intrecciati con molta cura, in una lunga coda.



Saraguro, che conta circa seimila abitanti, qualche ristorante, due mercati coperti, negozi, officine, centri medici, pensioni, uffici, scuole, banche cooperative e non, la sua brava Società Operaia ed è sede della cattedrale, è il cuore della cultura di questo gruppo indigeno, e punto di partenza ideale per le varie comunità sparse nel territorio, tutte dotate di scuole e centri di aggregazione, alcune raggiungibili con passeggiate (a seconda dello stato di forma e della disponibilità al trekking) o, in alternativa, con las busetas usate dai locali, ovvero camion con le panche in legno, coi bus per le località più distanti, coi taxi a prezzi più che accettabili o partecipando a dei tour organizzati dagli enti partecipanti al progetto di turismo comunitario messo in piedi per favorire l'interscambio culturale e far partecipare tutta la comunità dei proventi del turismo, e che sta avendo un discreto successo: in ogni caso una sosta in una località così amena e autentica, consente di fare un'esperienza diversa dal solito e davvero in contatto una  popolazione originaria. La quale, proprio per essere una comunità compatta, e avendo per questo attraversato pressoché indenne delocalizzazioni forzate e angherie di ogni genere, non ha nulla da temere dall'incontro col forestiero che la visita, e questo spiega l'attitudine aperta, amichevole, insolitamente espansiva tra le popolazioni indigene dell'America Latina e andine in particolare, la cui diffidenza è ben motivata dagli eventi storici così come l'introversione da fattori ambientali. 



Curata senza essere leziosa, pulita, quieta tanto da far rigenerare l'udito risarcendolo dai rumori molesti, la posizione di Saraguro è ottimale: ovunque si levi lo sguardo si scorgono le alture circostanti coltivate a ogni livello, e non c'è nulla che disturbi la vista. Tra le comunità più vicine, Namarín, col suo idilliaco baño del inca a mezz'ora di camminata lungo un sentiero, Oñacapac con le fragorose cascate del Sarashi e il Santuario de la Virgen del Agua Santa, Ilincho, la pittoresca Laguna dai dintorni incantevoli, infine Gera, una comunità sparsa su un territorio incredibilmente vario, con un canyon profondo ma interamente coltivato per quanto scosceso; un paio di centinaia di metri più in basso rispetto alle altre, il clima più temperato vi consente la crescita di una gran quantità di agavi, da cui è tratto il mishqi, bevanda fermentata parente del tlachique e simile al pulque, ancor più gradita agli indigeni della abituale chicha di mais, da cui peraltro deriva il loro nome, sara in quechua, mentre guro sta a significare germoglio. 



La loro agricoltura, basata sulla rotazione ed esercitata su appezzamenti di dimensioni ridotte con metodi tradizionali, è di sussistenza e basta e avanza a nutrire le famiglie (il sovrappiù fino agli anni Quaranta del Novecento veniva barattato con prodotti costieri come il sale, il pesce di mare e la frutta, ora è venduto al mercato) ma la loro specialità è l'allevamento, ovviamente non intensivo, del bestiame: bovini soprattutto, ma anche ovini e suini nonché, ovviamente, animali da cortile e porcellini d'india, i famosi cuy, specialità della cucina locale. Ogni domenica gran raduno a Saraguro, invasa da busetas e fuoristrada, dove in uno spazio apposito ai margini della cittadina (sul quale avevo la vista al risveglio tre giorni fa dallo hostal dive alloggio) si tiene anche la fiera degli animali, a dir pico suggestiva. Sempre domenica ho avuto modo, durante la Messa Grande delle 11, di assistere ad un rito caratteristico, per quanto minore, degli indigeni: in occasione della festa delle Tres Cruces, ossia della Trinità, una cerimonia in definitiva sincretica, coi rappresentanti della comunità che avanzavano verso l'altare, ai cui piedi era stata allestita una croce di fiori inserita in un cerchio costituito da una corona di fiori più mazzi di erbe e bevande, suonando in corni e in conchiglie vuote, e che portavano offerte di prodotti che simboleggiano i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco. 



In primis, va da sé, il mais. Anche il prete sfoggiava paramenti indigeni: un poncho verde squillante con ornamenti peculiari della zona, e prima di iniziare la messa, cantata e suonata, benediceva un gruppo di catechisti in semicerchio ma solo dopo che uno degli "offerendi", munito di rami di erbe, aveva "purificato" ognuno di loro percorrendone il corpo dal capo in giù. Altro evento a cui mi è capitato di assistere, ieri pomeriggio, una manifestazione di protesta con con rumoroso corteo che scendeva dalla sede della Società Indigena al curatissimo Parque Principal, la piazza in cui si trova la cattedrale, con in testa l'alcalde (sindaco), in occasione dell'udienza preliminare a Loja, capoluogo regionale, del processo contro 29 Saraguros che rischiano tre anni di reclusione per violenza e resistenza, i consueti reati addebitati in caso di scontri con i "tutori dell'ordine", in seguito ai gravi incidenti di cui è stata teatro Saraguro il 17 agosto scorso, nel corso di uno sciopero nazionale indetto dalla Confederazione delle comunità indigene che aveva portato a un massiccio intervento di esercito e polizia per rimuovere dei blocchi stradali e conclusosi con l'occupazione militare della città, a pestaggi indiscriminati e l'intrusione nelle abitazioni nonché all'arresto perfino di cinque minoribe un handicappato. Guarda caso lo sciopero aveva a che fare con le concessioni per l'acqua, intaglinall'educazione e alla sanità nonché aumenti di tasse da parte del governo centrale, ivviamente in nome dell'austerirà, e restrizioni al commercio di prodotti locali. Ma i Saraguros ne hanno viste di ben peggio nella loro lunga storia, resistendo a tutto e non si fanno scoraggiare, combattivi, testardi e fieri come sono hanno d'ora in poi un posto speciale en mi corazón

1 commento:

  1. "...in nome dell'austerità, e restrizioni al commercio di prodotti locali..."

    E questa mi pare la prova regina del fatto che le politiche di "austerità" nulla abbiano a che vedere con la penuria di beni di prima necessità e tutto con l'asservimento del globo alle politiche imposte dall'Fmi, cioè il braccio armato della finanza globale.
    Per noi non c'é più speranza ormai, ma spero davvero che Atahualpa fulmini dall'alto chiunque osi imporre al saraguros zucchine e cetrioli standardizzati o allevamenti intensivi.

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