domenica 29 maggio 2016

Re-cuencano



Sulla via del ritorno verso Quito, e perché mi era piaciuta molto, ho deciso di trascorrere la giornata del mio genetliaco a Cuenca. Cominciata in maniera piovigginosa, e con basse nubi incombenti, così come era finita quella di ieri, funestata altresì dalla sconfitta dell'Atletico di Madrid nella finale di Champions League tenutasi ieri a San Siro, a Milano (per me a ancora oggi "Stadio Meazza", con tutto il rispetto per il grande Pepìn, non significa nulla: ma che emozione, e che strangugloni vederlo in televisione, stracolmo, a più  didiecimila chilometri di distanza dopo averci trascorso innumerevoli domeniche di campionato fin dalla più tenera infanzia nonché serate di coppa infrasettimanali!). E' la seconda volta in tre anni che i colchoneros (materassai, per via delle maglie a righe che sembravano fatte coi resti delle tele per i matreassi) vengono sconfitti rocambolescamente e sempre nella finale del più prestigioso torneo calcidtico per club, dagli acerrimi rivali cittadini del Real che, da quando non sono più guidati dal Mou, sono tornati e essermi odiosi: una Juventus a livello continentale (cosa che la squadra sabauda e agnelliana non sarà mai) e per di più con un passato franchista e un presente tuttora monarchico, come esplicita la sua ragione sociale. Mi è dispiaciuto per i seguaci dell'Atletico, per il "Cholo" Simeone, di cui da buon interista serbo un'ottimo ricordo, in vero condottiero capace di guidare e portare ad altissimi livelli una squadra che alle spalle non ha un decimo dei capitali di cui dispongono il Real e le altre appartenenti all'oligopolio calcistico europeo. 


Una classica domenica cuencana, di quelle che in Italia, almeno nelle grandi città, non ce n'è ormai più memoria, col sole che a metà mattinata cominciava a bucare le nuvole, rendendo gradevole la temperatura e riducendo il tasso di umidità; placida, sonnolenta, con rari negozi e locali pubblici che aprivano con molto comodo, scarsissimo traffico, gruppi famigliari che si muovevano chi per andare a messa, chi in visita parenti, chi a farsi tentare dai baracchini di dolciumi allestiti tra la Catedral de la Inmaculada e la Plaza de San Francisco


Oggi, infatti, si ceebra il Corpus Domini e hi così ho capito a cosa si riferiva la scritta "Hay dulces de Corpus" che campeggiava in ogni panettria e pasticceria già durante il mio soggiorno di una decina di giorni fa: ora le stesse espongono i loro prodotti tradizionali (l'usanza risale all'epoca coloniale) negli stand che rimarranno allestiti fino a domenica prossima. 
Per ora ho "santificato" con churros y chocolate a colazione (un omaggio al derby madrileno di ieri) seguiti da assaggi di quesadillas (insuperabili quelle confezionate dalle locali Madres Conceptas, però: manine sante, e per dirlo io...), roscos, cocadas e alfajores, innaffiate da delizioso jugo de coco


Ma il pomeriggio è ancora in corso e promette ulteriori assaggi, e con le prime frescure della sera il cocco verrà sostituito dal canelazo, bevanda tipicamente andina, diffusa dalla Colombia alla Bolivia, di cui esiste un'infinità di varianti ma che di base è composta da acqua di cannella calda, zucchero di canna e aguardiente, spesso artigianale: un resuscita-morti e stronca-vivi. E con domani si torna verso Nord: colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che mi hanno fatto gli auguri quest'oggi, anche quelli che hanno proivato a chiamarmi ma hanno trovato a rispondere una segreteria telefonica in castigliano. Grazie ancora. 

sabato 28 maggio 2016

Lojano y lejano




A un'ora di viaggio da Saraguro, eccomi a Loja, capoluogo della provincia omonima, e meta piu meridionale di questo mio viaggio nel Continente Desaparecido, poco distante dal confine col Perú. Una gradevolissima sorpresa, questa città di poco meno di duecentomila abitanti, adagiata in una ridente e fertile vallata, il cui centro storico è racchiuso tra due fiumi, il Malacatus e lo Zamora, i quali confluiscono proprio all'altezza della Puerta de la Ciudad che, ricostruita una ventina di anni fa, segna l'ingresso al Casco Historico dal lato settentrionale. 



Centro storico che non è esteso né ricco di monumenti e musei come quelli di Cuenca e Quito ma vivace, con alcune chiese discrete e un paio di musei interessanti, a parte quello ormai abituale di Arte Sacra ospitato presso il convento delle Conceptas, una presenza costante e un'istituzione ubiqua in questo Paese: quello de la Cultura Lojana, nella piazza principale, chiamata Parque Central, e il curioso e divertente Museo de la Música, dedicato alle vecchie glorie locali che avevano conquistato fama nazionale soprattutto nella prima metã dello scorso secolo. Musica e gastronomia (tamales, humitas, quimbolitos, tortillas de choclo, empanadas, bolones de verde, maduros con queso, pur diffusi in tutto l'Altipiano Andino, raggiungono qui vette eccelse), due aspetti che rendono ancora più gradevole il soggiorno a Loja, assieme alla sua vivacità, i bei negozi ben riforniti, le diverse attività artigianali, l'attenzione al decoro urbano e in particolare al verde pubblico. 



La prima cosa che mi è balzata all'occhio è stata la maggiore presenza di popolazione bianca rispetto alla media nazionale, che si attesta sul 7% (65% i meticci, 25 gli indigeni e 3% di neri): a occhio, a Loja è il triplo, il che conferma che qui circolano più quattrini che altrove. Per quanto geograficamente un po' isolata nel passato, Loja è comunque situata in una zona di transizione, e quindi di passaggio, in tutti i sensi, compreso quello climatico: a un'altezza relativamente bassa (la città è a duemila metri), si trova nella fascia più sottile di tutta la Cordigliera delle Ande, con un clima temperato-umido, a stretto contatto soprattutto con l'adiacente regione amazzonica a Est, con la quale un tempo gli scambi erano particolarmente intensi, a Ovest con la regione costiera e a Sud con le propaggini semidesertiche del Nord del Perú, mentre a Settentrione è ben collegata con la fertile zona attorno a Cuenca, distante circa 250 chilometri.



Come in tutto il resto dell'Ecuador, è impressionante la quantità di negozi che venndono e riparano cellulari e annessi e connessi, nonché internet point e copisterie (il wi-fi è diffusissimo e la connessione di buona qualirà, nei maggiori centri anche pubblico e con hot spot nelle maggiori piazze), in compenso non ho visto sale giochi per grulli da spennare né slot machine nei locali pubblici, né qui né altrove; è pieno di negozi che confezionano al momento maglie sportive, prevalentemente calcistiche ma non solo, di tutte le squadre del mondo: una vera mania; tanti sarti, e non solo laboratori di riparazioni (officine che si occupano di riparare qualsiasi cosa abbondano in tutti i settori, per fortuna) e, a Loja in particolare, artigiani che tagliano e confezionano prodotti in cuoio, anche al momento: ho visto delle giacche di ottima qualità e fattura a un prezzo medio di 90 dollari, da comprare di corsa, purtroppo mai della mia taglia (i locali sono mediamente più piccoli e spesso anche più "sdutti" rispetto ai nostri parametri) e per farle su misura ci vorrebbero un paio di giorni, e non mi bastano. Insomma artigianato, specie nel ramo tessile, e commercio, come dimostrano i due mercati municipali, i più belli visto fin qui: entrambi coperti, quello principale nel centro della città e il Gran Colombia, nell'immediata periferia, appena a Nord della Porta de la Ciudad



Ultima cosa, nemmeno qui, dove le alture circostanti sono più vicine al centro, mentre in Brasile, ma anche in altri Paesi meso e sudamericani, sorgerebbero immediatamente delle favelas, qui non ce n'è l'ombra, e a Loja più ancora che nel resto del Paese, si apprezza in relativo equilibrio nella distrubuzione delle risorse e della ricchezza, il che ne fa una città discretamente benestante, che me l'ha fatta definire,ndi primo acchito, la Milano dell'Ecuador, ma per rendere l'idea, considerate le sue dimensioni,mBolzano dell'Ecuador sarebbe più appropriata. In ogni caso sono contento di aver seguito ancora una golta il mio istinto e di esserci venuto.

mercoledì 25 maggio 2016

Beato tra i Saraguros


Centoquaranta chilometri a Sud di Cuenca, lungo la Panamericana e a sessantaquattro da Loja, capoluogo della provincia omonima, la più meridionale di quelle andine dell'Ecuador, confinante con il Perú a Sud, con la regione costiera a Ovest e con quella amazzonica a Est, si trova incastonato il Cantón (distretto) di Saraguro, che è anche il nome sia del suo centro principale, sia di un gruppo etnico originario tra i più importanti e orgogliosamente coesi dell'America. I quattro giorni che ho trascorso tra loro, oltre a rammentarmi cosa significa essere una comunità, e continuare a esserlo perfino nel mondo globalizzante di oggi, pur facendone parte, rimarrà uno dei miei più bei ricordi di viaggio in assoluto. 


Controversa è la loro provenienza, ma pare che furono separati dai Palta, gruppo jibaro di origine amazzonica che si stabilì nell'area andina, per la loro resistenza alla conquista incaica e trasferiti attorno al 1470 su iniziativa di Huyna Cápac dalla zona del Lago Titicaca, forse dall'attuale Bolivia, oppure da quella di El Collao nella regione di Cuzco, e dislocati per motivi politico-militari nelle terre conquistate nell'attuale Ecuador secondo la pratica del mitimaes (che significa desterrado, e quindi sradicato) che assolveva al duplice scopo da un lato di indebolire delle tribù potenzialmente ribelli che avrebbero potuto infastidire l'élite inca, dall'altro di avere interi nuclei famigliari da inviare a colonizzare i nuovi possedimenti, difendere l'impero e diffondere la cultura inca: esattamente la stessa cosa che fecero gli absburgo con le popolazioni serbe facendo loro popolare le krajine, zone confinarie con l'impero ottomano, creando quelle enclave in Bosnia e nell'attuale Croazia che furono il detonatore delle tragedie delle recenti guerre balcaniche. Qui non è successo e non succederà, trattandosi di una realtà completamente diversa, ma in comune coi serbi i Saraguros hanno parecchie cose, a cominciare dall'orgoglio, dal senso di appartenenza (che non è razzismo: si calcola che soltanto un terzo di essi sia di discendenza indigena pura e il resto meticci, ma pur sempre Saraguros a tutti gli effetti), dalla laboriosità e competenza nel  lavorare i campi, dalla sintonia con la natura, dalla schiettezza, per finire con l'amore per la musica e per... l'alcol, come raccontava Sebastiāo Salgado ne Il sale della terra di Wim Wenders.



Nel cantone, i Saraguros sono circa 30 mila, altrettanti ne vivono sparsi nelle province vicine, specie amazzoniche, nell'Azuay e nel Pichincha (dove si trova Quito) e finanche in Spagna, a Vera (Almería), organizzati in 183 comunità, e conservando ovunque i loro riti, le loro tradizioni, il loro idioma originario, che è il quechua (anche per questo si ritengono discendenti diretti degli inca) per quanto ormai soppiantato come prima lingua dal castigliano, e il loro inconfondibile abbigliamento. Di lana e rigorosamente nero: perché trattiene il calore del sole e al contempo del corpo, in un clima piuttosto fresco (veleggiamo pur sempre attorno ai 2500 metri), ma soprattutto in segno di lutto per l'uccisione di Atahualpa per mano degli invasori spagnoli, che col loro arrivo hanno insozzato la loro terra, i loro costumi e il loro onore.



Per quanto l'associazione del nero al lutto sia stato introdotto dai conquistadores, come correlato della religione cattolica, gli attuali Saraguros insistono su questo tasto: in ogni caso sono estremamente curati, e molto eleganti in particolare le donne, spesso addobbate con ornamenti di valore e con appuntate grosse spille tempestate di pietre preziose chiamate tupus, specie nelle celebrazioni ufficiali, e quasi sempre a capo coperto col tradizionale cappello di lana bianco a falde larghe (pezzate di nero nella oarte inferiore) oppure scuro, come quello degli uomini, che portano invece dei calzoni tipo "pescatore", che coprono appena sotto il ginochio. Anche loro portano i capelli lunghi, simbolo di forza e di saggezza, per lo più intrecciati con molta cura, in una lunga coda.



Saraguro, che conta circa seimila abitanti, qualche ristorante, due mercati coperti, negozi, officine, centri medici, pensioni, uffici, scuole, banche cooperative e non, la sua brava Società Operaia ed è sede della cattedrale, è il cuore della cultura di questo gruppo indigeno, e punto di partenza ideale per le varie comunità sparse nel territorio, tutte dotate di scuole e centri di aggregazione, alcune raggiungibili con passeggiate (a seconda dello stato di forma e della disponibilità al trekking) o, in alternativa, con las busetas usate dai locali, ovvero camion con le panche in legno, coi bus per le località più distanti, coi taxi a prezzi più che accettabili o partecipando a dei tour organizzati dagli enti partecipanti al progetto di turismo comunitario messo in piedi per favorire l'interscambio culturale e far partecipare tutta la comunità dei proventi del turismo, e che sta avendo un discreto successo: in ogni caso una sosta in una località così amena e autentica, consente di fare un'esperienza diversa dal solito e davvero in contatto una  popolazione originaria. La quale, proprio per essere una comunità compatta, e avendo per questo attraversato pressoché indenne delocalizzazioni forzate e angherie di ogni genere, non ha nulla da temere dall'incontro col forestiero che la visita, e questo spiega l'attitudine aperta, amichevole, insolitamente espansiva tra le popolazioni indigene dell'America Latina e andine in particolare, la cui diffidenza è ben motivata dagli eventi storici così come l'introversione da fattori ambientali. 



Curata senza essere leziosa, pulita, quieta tanto da far rigenerare l'udito risarcendolo dai rumori molesti, la posizione di Saraguro è ottimale: ovunque si levi lo sguardo si scorgono le alture circostanti coltivate a ogni livello, e non c'è nulla che disturbi la vista. Tra le comunità più vicine, Namarín, col suo idilliaco baño del inca a mezz'ora di camminata lungo un sentiero, Oñacapac con le fragorose cascate del Sarashi e il Santuario de la Virgen del Agua Santa, Ilincho, la pittoresca Laguna dai dintorni incantevoli, infine Gera, una comunità sparsa su un territorio incredibilmente vario, con un canyon profondo ma interamente coltivato per quanto scosceso; un paio di centinaia di metri più in basso rispetto alle altre, il clima più temperato vi consente la crescita di una gran quantità di agavi, da cui è tratto il mishqi, bevanda fermentata parente del tlachique e simile al pulque, ancor più gradita agli indigeni della abituale chicha di mais, da cui peraltro deriva il loro nome, sara in quechua, mentre guro sta a significare germoglio. 



La loro agricoltura, basata sulla rotazione ed esercitata su appezzamenti di dimensioni ridotte con metodi tradizionali, è di sussistenza e basta e avanza a nutrire le famiglie (il sovrappiù fino agli anni Quaranta del Novecento veniva barattato con prodotti costieri come il sale, il pesce di mare e la frutta, ora è venduto al mercato) ma la loro specialità è l'allevamento, ovviamente non intensivo, del bestiame: bovini soprattutto, ma anche ovini e suini nonché, ovviamente, animali da cortile e porcellini d'india, i famosi cuy, specialità della cucina locale. Ogni domenica gran raduno a Saraguro, invasa da busetas e fuoristrada, dove in uno spazio apposito ai margini della cittadina (sul quale avevo la vista al risveglio tre giorni fa dallo hostal dive alloggio) si tiene anche la fiera degli animali, a dir pico suggestiva. Sempre domenica ho avuto modo, durante la Messa Grande delle 11, di assistere ad un rito caratteristico, per quanto minore, degli indigeni: in occasione della festa delle Tres Cruces, ossia della Trinità, una cerimonia in definitiva sincretica, coi rappresentanti della comunità che avanzavano verso l'altare, ai cui piedi era stata allestita una croce di fiori inserita in un cerchio costituito da una corona di fiori più mazzi di erbe e bevande, suonando in corni e in conchiglie vuote, e che portavano offerte di prodotti che simboleggiano i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco. 



In primis, va da sé, il mais. Anche il prete sfoggiava paramenti indigeni: un poncho verde squillante con ornamenti peculiari della zona, e prima di iniziare la messa, cantata e suonata, benediceva un gruppo di catechisti in semicerchio ma solo dopo che uno degli "offerendi", munito di rami di erbe, aveva "purificato" ognuno di loro percorrendone il corpo dal capo in giù. Altro evento a cui mi è capitato di assistere, ieri pomeriggio, una manifestazione di protesta con con rumoroso corteo che scendeva dalla sede della Società Indigena al curatissimo Parque Principal, la piazza in cui si trova la cattedrale, con in testa l'alcalde (sindaco), in occasione dell'udienza preliminare a Loja, capoluogo regionale, del processo contro 29 Saraguros che rischiano tre anni di reclusione per violenza e resistenza, i consueti reati addebitati in caso di scontri con i "tutori dell'ordine", in seguito ai gravi incidenti di cui è stata teatro Saraguro il 17 agosto scorso, nel corso di uno sciopero nazionale indetto dalla Confederazione delle comunità indigene che aveva portato a un massiccio intervento di esercito e polizia per rimuovere dei blocchi stradali e conclusosi con l'occupazione militare della città, a pestaggi indiscriminati e l'intrusione nelle abitazioni nonché all'arresto perfino di cinque minoribe un handicappato. Guarda caso lo sciopero aveva a che fare con le concessioni per l'acqua, intaglinall'educazione e alla sanità nonché aumenti di tasse da parte del governo centrale, ivviamente in nome dell'austerirà, e restrizioni al commercio di prodotti locali. Ma i Saraguros ne hanno viste di ben peggio nella loro lunga storia, resistendo a tutto e non si fanno scoraggiare, combattivi, testardi e fieri come sono hanno d'ora in poi un posto speciale en mi corazón

sabato 21 maggio 2016

Cuencano - 2


Quattro giorni senza annoiarmi un attimo: non perché fossi preso dalla frenesia di vedere tutto o fare chissà che, ma perché la città è così gradevole da consentire di provvedervi in tutta tranquillità, senza farsi venire l'ansia di prestazione, quella che coglie il turista, magari facente parte di un tour organizzato, con tempi contingentati e visite "obbligate". Viaggiare è un'altra cosa, significa innanzitutto prendersi i propri tempi, anche se non soprattutto di riposo, e adattarsi al ritmo del posto in cui ci si viene di volta in volta a trovare: in alcuni casi riesce, come mi ero accorto dal primo impatto con Cuenca; altre no, e allora lasci il luogo senza provare, nella giornata prima del distacco, quella che io chiamo "nostalgia preventiva". Che non mi ha colto del tutto semplicemente prrché sto complottando con me stesso un possiblie passaggio con sosta nel viaggio di ritorno verso Quito, dove dovrò trovarmi tra dieci giorni.


Il centro storico della città risale al XVII Secolo ed è pressoché intatto: quando vi giunsero gli spagnoli, attorno al 1540, rasero al suolo la fiorente Tomebamba, che in lingua quechua significa "valle del sole", salvo utilizzarne le pietre come basi per i loro edifici, esattamente come fecero al Cuzco o a Città di Messico, ma prima ancora degli inca, e per tremila anni, la zona era abitata dai cañar, una popolazione indigena: alcuni resti delle mura inca, rinvenuti non molti anni orsono, sono visibili nel Parco Archeologico compreso nel Museo Pamapungo e presso il vicino Museo Manuel Agustín Landivar, sempre nella zona del Barranco che da  sul fiume Tomebamba. 


Sede di università, capoluogo amministrativo dell'Azuay, Cuenca è tutt'altro che una città sonnolenta, ed è ricca di attività artigianali, sia per quanto riguarda la ceramica, sia la lavorazione dei metalli per non parlare del ramo tessile, dove dalla fine dell'Ottocento trionfa la produzione dei famosi cappelli erroneamente chiamati Panama, e qui invece sombreros de paja toquilla, e  Montecristi dagli intenditori, dal nome della località costiera dove principalmente viene coltivata la particolare palma da cui deriva la paglia utilizzata per i copricapi, che in effetti è abbastanza strano siano stati inventati qui dove, per quanto il sole, quando c'è, picchia, le temperature raramente superano il 20 gradi, e il tempo è estremamente variabile e, da quando sono qui, non c'è giorno esente da almeno una spruzzata d'acqua, quando non un vero e proprio scravasso improvviso. Eccezionali per leggerezza, eleganti, pratici, hanno trovato a Cuenca e dintorni la località d'elezione per la loro fattura, che viene effettuata con metodi rigorosamente artigianali nelle fabriche in città (la più famosa, con annesso museo, è quella di Homero Ortega) ma anche a domicilio, come attività integrativa, dai contadini delle ricche campagne circostanti. Esportati inizialmente soprattutto in Brasile e Messico, durante ilo scavo del Canale di Panama venivano massicciamente utilizzati dai lavoratori addetti all'opera e successivamente Panama divenne il principale porto da dove venivano inviati verso l'Europa e l'America del Nord: da lì il nome che li ha resi famosi nel mondo, e ancora oggi sono il principale manufatto d'esportazione del Paese. 


Impagabile andare a zonzo per le vie lastricate del centro storico, con l'unico inconveniente del transennamento della Calle Gran Colombia che lo attraversa da Est a Ovest In tutta la sua lunghezza a causa dei lavori di costruzione della tranvia che, mi auguro, toglierà dalla circolazione un po' dei bus completamente scarburati che emettono nuvole di fumo tossico a ogni, frequente, passaggio in servizio attualmente. Nulli, anche qui, quelli di gatti: in due settimane di viaggio ne ho avvistato casualmente un esemplare per un attimo a Riobamba, e qui neanche uno neppure nei dintorni dei due grandi mercati coperti comunali, il 9 de Octubre, verso Nord, e il 10 de Agosto a Sud, lungo la Calle Larga costruita sopra il barranco


Mercati che, assieme ai mezzi pubblici, sono gli strumenti migliori per cercare di capire come, vive, mangia e la pensa la gente comune, in tutto il mondo, e non mi riferisco agli ipermercati o alle catene transnazionali  che infestano ormai le nostre città, e che cominciano a prendere piede pure qui, non luoghi frequentati da umani ridotti ormai a una sola dimensione. Mercati che sempre, qui, hanno una parte, il patio de comidas, riservata alla ristorazione, sia per i visitatori, sia per chi ci lavora, dove piccole cucine famigliari propongono le autentiche specialità locali con materia prima di provenienza certa e controllata, avendola sotto gli occhi fin dall'alba: questo si chiama "chilometro zero", non le parodie che vanno di moda da noi.


Rimane da dire dei monumenti, che non mancano se anche Cuenca è stata inserita tra i Patrimoni Culturali del'Umanitá tutelati dall'UNESCO: oltre alle due cattedrali che si fronteggiano nella piazza principale (quella vecchia adibita però a museo), le altre chiese sono quasi sempre chiuse e non visitabili salvo che in orario di messa; notevolissimo, anche qui, il museo presso il monastero delle Conceptas, situato nella parte aperta al pubblico e, tra gli altri, quello di Arte Moderno, nella Plaza di San Sebastián, dove la città si incontrava con la campagna (quella da cui prende il nome era detta "la chiesa degli indios"), situato in un ex orfanotrofio; il Pamapungo del Banco Central, molto interessante per la sua sezione etnografica; una citazione particolare meritano il delizioso Museo de las Culturas Aborigenas, costituito da una collezione di oltre 5000 pezzi, alcuni risalenti a 15000 anni fa, testimonianze della ventina di culture esistenti in Ecuador nel periodo preispanico, messa assieme da Juan Cordero Iñiguez, insigne studioso e docente e già ministro della Cultura edell'educazione, e l'originale e altrimenti istruttivo Museo de Esqueletologia Doctor Gabriel Moscoso, che raccoglie circa 150 scheletri, tra rettili, mammiferi, uccelli e pesci viventi nel Paese. Oltre a tutto questo, e soprattutto, a Cuenca ci si vive bene e in poco tempo vi si sente di casa. Ma ora è tempo di scendere ancira verso Sud!


giovedì 19 maggio 2016

Cuencano - 1



Ci sono città con cui si entra immediatamente in sintonia ed è amore a prima vista: Cuenca è una di queste. Già la marcia di avvicinamento da Riobamba, sei ore e mezzo di saliscendi su una strada tortuosa ma in buone condizioni, cominciando con la "circumnavigazione" del Chimborazo, era stata promettente: panorami spesso idilliaci, campagne popolate, nessuna coltivazione estensiva, ma fino in alta quota, anche 3500 metri e oltre (come nella zona di Cuzco in Perú, per esempio), spesso sfruttando terreni con pendenze da capogiro, dove pascolava liberamente una gran quantità di bovini, prevalentemente pezzati bianconeri, forse di razza frisone, senza slcun pericolo di inquinamento da delezioni, di utilizzo di mangimi chimici e di sprechi spropositati di acqua da allevamenti intensivi, ma anche cavalli e pecore, al punto che pareva di essere in Irlanda, anche per il clima, con la differenza che la terra vulcanica di qui è ben più fertile e generosa. Insediamenti urbani nelle vallate come Alausí, El Tambo, Cañar, che si intravedevano dal finestrino della corriera, nubi sottostanti permettendo, cambiavano man mano aspetto e colore procedendo verso Sud, e cambiando regione già Azogues dava una impressione di maggiore ordine e cura: mezz'ora dopo Cuenca si è rivelata subito in gioiello raro, fatte sole poche centinaia di metri dal terminal dei bus e dall'aeroporto, che si trovano nell'immediata periferia cittadina in direzione dell'albergo che avevo scelto. 



Comodo, pulito, sviluppato su più livelli perché costruto sul barranco, il dirupo che dà sul fiume, il Tomebamba, che scorre impetuoso da Est a Ovest, dotato di terrazze con viste spettacolari sul lato Sud della città e le alture che la racchiudono, per l'appunto, in una conca. Parte, quella meridionale, che sarebbe quella moderna di Cuenca, ma priva di obbrobri architettonici e di grattacieli megalomani che in questo contesto risulterebbero un pugno nell'occhio. Già il fatto fi essere più omogrenea me la fa preferire a Quito, oltre all'atmosfera più rilassata, la cordialità della gente, la dimensione e misura umane (i suoi 350 mila abitanti ne fanno comunque un centro di grande rilevanza), l'attenzione alle persone e alle cose che trasmettono bellezza, serenità, tranquillità e anche benessere e che insieme mettono a proprio agio il visitatore fin dal primo impatto. 




Una differenza che balza subito all'ochio con il centro storico pur curato della capitale, che col tramonto si svuota e dalle 20 in poi divemta un deserto quasi inquietante dove a muoversi sembra essere soltanto la polizia, è che qui le strade e i locali sono animati fino a tardi e il controllo poliziesco risulta molto più rilassato ma non per questo blando: è comunque consideara una delle città più sicure di tutto il Continente; l'altra si percepisce nell'aria, meno inquinata nonostante i pestilenziali scarichi dei bus urbani, e più mite di un paio di gradi: effetto dei trecento metri d'altura in meno (siamo a quota. 2540) e della relativa vicinanza con la Costa, ormai non più così remota. In qualche modo Cuenca mi ha subito ricordato Salisburgo, non solo re tanto per la presenza di un fiume ma soprattutto per la posizione e la concentrazione di beni culturali, però per nulla imbalsamata, bamboleggasnte e cartolinesca come invece la città austriaca, e soprattutto non così fastidiosamente spocchiosa e offensivamente cara. Insomma: procedendo verso Sud (perché ogni Paese ne ha uno) la insospettabile componente terrona che pure alberga in me riprende vita e comincia a sentirsi di casa. Alla prossima...

domenica 15 maggio 2016

Riobambito



Prima o poi doveva succedere. O forse no, se fossi stato più accorto: quando, arrivato al terminal dei bus di Riobamba, tappa intermedia in direzione Cuenca, lungo le Ande, ho preso lo zainetto riposto obbedientemente nello scomparto sopra il sedile, l'ho sentito fare poca resistenza, in confronto ala fatica fatta per farcelo stare. Non lo si può tenere sulle ginocchia o sotto il sedile di sicurezza, mi era stato detto da un (apparente) addetto della compagnia. Soprattutto era più leggero: mancava il mio prezioso e fedele portatile, il suo alimentatore e il caricabatterie del cellulare (che invece era ancora là: è un vecchio modello piuttosto scamuffo ma affidabile che evidentemente schifano perfino da queste parti). Con ogni probabilità la gabola si è perfezionata e consumata interamente ancora alla piattaforma da cui doveva partire il mezzo dal moderno Terminal Quitumbo di Quito, attorno a mezzogiorno di venerdì quando il tipo, educato, serio, non indigeno, ci tengo a dirlo, ma meticcio molto chiaro, che accoglieva i (pochi) passeggeri chiedendo il biglietto, a fianco dell'addetto ai bagagli nonché bigliettaio ufficiale e secondo autista (e probabile complice, ma non posso provarlo), mi ha pilotato a un sedile diverso da quello indicato dal biglietto (per di più si fatica a leggere il numero), probabilmente in un punto cieco per le telecamere di controllo che pure sono a bordo e producendosi nella commedia di cui sopra: pirla io a esserci cascato, abile il furfante e una faccia di merda il suo plausibile connivente che, al mio immediato reclamo una volta accortomi del furto, come prima cosa ha tenuto a precisare essere responsabile unicamente del bagaglio stivato, e alle mie rimostranze sul tipo che alla partenza aveva asserito esistere l'obbligo di mettere il bagaglio a mano nello scomparto superiore e poi mai più visto, mi ha ribattuto chiedendomi se avesse un cartellino di riconoscimento... Morta lì, è andata: ho contattato i funzionari della compagnia; potrebbe anche darsi che sporga denuncia di furto (si fa via internet, poi la si porta a vidimare al commissariato: sono avanti, qui!), ma mi lascia perplessa la palese inutilità insieme alla sicura perdita di tempo nonché di pazienza avendo a che fare con la sbirraglia, e con una sudamericana in particolare: il rischio di andare fuori dai gangheri è forte e potrebbe rivelarsi assai controproducente.



La sgradevole vicenda, specie per quanto riguarda il mio contributo in dabbenaggine, non mi porterà però a detestare gli ecuadoriani in generale né ad avere un ricordo negativo di Riobamba, una città che non si può certo definire bellissima ma che ha rivestito un ruolo importante nel Paese in passato e continua ad averlo, possiede alcuni tesori e, soprattutto, si trova ai piedi del Cimborazo, il vulcano che coi suoi 6310 metri è la più alta vetta delle Ande Ecuadoriane ma possiede anche, considerato il rigonfiamento del globo all'Equatore, la cima più lontana dal centro della Terra e quindi, da questa prospettiva, la montagna più alta del pianeta. Il nome della città è composto da rio, parola spagnola che significa fiume, e bamba che in quechua vuol dire valle, e indica chiaramente la sua collocazione ai piedi del maestoso Cimborazo nonché la mescolanza di etnie, lingue e culture che la caratterizza. 



La zona, abitata in origine dagli indigeni peruhá (la loro presenza incrementa notevolmente al sabato, quando vengono a "fare mercato" nelle vie attorno a quelli municipali coperti, assai simili ai nostri per struttura ma ben più coloriti) e per un breve periodo dagli inca, mentre Riobamba fu la prima città spagnola fondata in Ecuador col nome originario Santiago de Quito il 15 agosto 1534 da Diego de Almagro, cambiato poco dopo, sul sito dell'attuale Cajabamba, una ventina di chilometri a Sud della posizione attuale, dove la popolazione fu trasferita dopo un devastane terremoto avvenuto nel 1797. Non rimane pressoché nulla, dunque, degli edifici barocchi che rendono così preziosa la capitale, ma fortunatamente ne rimangono testimonianze nelle 14 sale del Museo de Arte Religioso, ospitato nel cinquecentesco convento delle Conceptas, che possiede una delle più ricche collezioni di arte sacra del XVIi e XVII secolo presenti in Ecuador. Mi piace prendere in castagna la Lonely Planet, la quale afferma che il pezzo più prezioso sia "un ostensorio di inestimabile valore, alto un metro e mezzo, con incastonate più di 1500 pietre preziose. Realizzato in oro massiccio su base d'argento, pesa oltre 360 kg (e dunque risulta piuttosto difficile da rubare)". Infatti fu trafugato nel 2007 e ne rimane l'immagine fotografica su un pannello da cui pendono,  a mo' di orecchini, due piccoli crocifissi con rubini, recuperati nel 2008 a Bogotá, in Colombia. 



Sempre a Riobamba, venne scritta una volta per tutte la parola fine dell'opprimente dominio spagnolo con la firma della prima Costituzione ecuadoriana nel 1830. Oltre a questo museo, vi è quello della città, che si affaccia sulla Piazza principale, chiamata Parque Maldonado, ma davvero imperdibili sono i due mercati alimentari de la Concepción, che ha un'estensione tessile, con tanto di presenza di una batteria di sarti che labora al momento, fornita di meravigliose macchine Singer d'epoca, nella vicina Plaza Roja, e quello de la Merced, dove celebra il suo trionfo lo hornado, ossia maestosi tranci di freschissimo, tenero e saporito maiale al forno con tanto di croccante cotenna dorata, celebrato da un'agguerrita e rumorosa squadra di sacerdotesse del rito porcino, e che viene solitamente accompagnato da mote, ossia un tipo di mais bianco dai chicchi grossi che viene sgranato e bollito: un'intera sezione del mercato è dedicata al culto del hornado, a cui non ho potuto sottrarmi non mancando di concedermi un bis quest'oggi.



Come bevande, vengono ammanniti batidos di frutta (banana, mora, fragola, guanabana, banana, naranjita e, soprattutto, il prelibato cocco) preparati co autentico ghiaccio del Cimborazo, che è tradizione portare in città e conservato in balle di fieno (fino agli anni sessanta in Italia le fabbriche di ghiaccio lo fornivano ai frigoriferi avvolto in tela di juta, e ne conservo dei visivi ricordi milanesi) e che viene chiamato dai locali "colpo alla nuca", per l'effetto all'inghiottirlo per la sua temperatura persistentemente bassa. Bando ai colpi di sfiga, dunque, Que viva Riobamba! e Que viva il purcìt!, nella forma del hornado!

P.S. per i pochi ma buoni aficionados: i post che seguiranno, sempre che non mi rubino anche l'iPad, avranno un formato diverso dal solito e potrebbero scarseggiare di immagini. Mi impegno a omogeneizzarli allo standard consueto non appena tornerò in possesso di uno strumento adeguato.

venerdì 13 maggio 2016

Su e giù per Quito

Vista di Quito dal Volcán Pichincha
Il primo incontro col Mariscal Antonio José de Sucre è avvenuto lunedì sera all’aeroporto internazionale di Quito, a 37 chilometri dal centro, intitolato a suo nome: era uno dei migliori ufficiali di Simón Bolívar quando, il 24 maggio del 1822, al comando delle truppe insurrezionali sconfisse definitivamente sulle pendici del Pichincha, il vulcano che sovrasta la città, le truppe realiste spagnole che avevano cercato di rintuzzare l’indipendenza che era stata proclamata a Guayaquil il 9 ottobre di due anni prima, diventando così il padre della patria un po’ come il Generale José de San Martín quello dell’Argentina. Il secondo, arrivato nel centro storico della capitale, che subito mi è apparsa come una specie di multicolore presepe illuminato, dato che l’albergo che avevo scelto si trova, manco a farlo apposta, all’incrocio tra le calles Sucre e Flores. Il terzo nella cattedrale, dove si trova il mausoleo a lui dedicato. A questo punto non poteva mancare una scappata alla Casa de Sucre, la sua dimora trasformata in un piccolo e prezioso museo mentre non ho più reperito i sucre che, fino al settembre del 2000, erano la valuta ecuadoriana, sostituiti da allora dal dollaro USA contro la volontà popolare. Basti dire che la gente fu costretta a convertire i propri risparmi a un cambio di 25.000 a uno mentre solo l’anno prima era di 6000 a uno (vi ricorda qualcosa?): una rapina legalizzata, fatta apposta per “sistemare” contabilmente le finanze in modo tale da potere indebitare ancor più massicciamente il Paese con l’FMI per i consueti piani di sviluppo realizzati da compagnie prevalentemente nordamericane in cambio, va da sé, delle immancabili “riforme strutturali” telecomandate dagli USA che, al di là delle apparenze, non hanno mai smesso, anche con Obama, di considerare l’America Latina il cortile di casa quando non la loro discarica. Risultato della criminosa trovata, tre presidenti sostituiti nell’arco di otto anni per avere fatto, metodicamente, il contrario di ciò per cui erano stati eletti, ossia asservire ulteriormente il Paese agli USA: per fortuna dell’Ecuador, alla fine di una giostra che può ricordare quella che avvenne in grande stile nel convulso 2001 in Argentina, il presidente Palacio, entrato in carica nel 2005, ha impresso una svolta sociale all’economia affidandone le cure al giovane ministro delle Finanze Rafael Correa, che ha preso drastici provvedimenti per socializzare i profitti derivanti dall’estrazione del petrolio nel NordEst Paese (tra cui i 18 miliardi di dollari di danni che la Chevron è stata condannata a pagare nel 2011 per i danni ambientali causati dall’attività della Texaco, mettendosi ancor di più in conflitto con l’Amico Americano) e che è divenuto a sua volta presidente nel 2006, tuttora in carica: a mio parere un uomo di stoffa completamente diversa dal Maduro del vicino Venezuela, dalla sciagurata argentina Cristina de Fernández Kirchner e dalla stessa brasiliana Dilma Rousseff, per quanto i todopoderosos della finanza internazionale tentino di associarlo ai cosiddetti leader populisti sudamericani sfuggiti al loro controllo e invariabilmente sputtanati perché coinvolti in reti di corruzione. Correa ha già detto che quando le condizioni dell’economia lo consentiranno, intende tornare alla moneta nazionale a meno di non introdurre perfino una moneta digitale nuova di zecca (si fa per dire). Oltre ai sucre, paiono scomparsi dalla circolazione i gatti, e dev’essere una circostanza comune da queste parti, di cui non avevo memoria quando ci ero venuto in precedenza: come già avevo notato a Bogotá, che pare invasa da cani e ciclisti, mentre qui di biciclettari e cinofili ne circolano molti di meno anche in considerazione degli incessanti e ripidi saliscendi e del traffico furibondo delle ore di punta, mancano completamente all’appello i miei amati felini: una tassista a cui ieri ho  chiesto il motivo del fenomeno, ha negato e  ribattuto di averne tre in casa, ma potrebbe trattarsi della classica eccezione che conferma la regola. A prescindere da queste considerazioni, Quito è una città  notevole e il suo centro storico coloniale, uno tra i più estesi e integri di quelle latinoamericane, è stato inserito nel suo complesso a ragion veduta nella lista dei patrimoni dell’umanità protetti dall’UNESCO. Con la differenza, rispetto ad altri, di essere vivo e abitato dagli indigeni e non una reliquia ad uso turistico. A dimostrarlo, il fatto che a partire dalle 18 si svuota e dopo le 20, a parte Calle de la Ronda, da sempre epicentro della bohème quiteña, è rarissimo trovare dei locali aperti, per il semplice fatto che gli andini sono mattinieri e tendono ad andare a dormire col calar delle tenebre e alzarsi all’alba (essendo per l’appunto sulla linea dell’Equatore rispettivamente attorno alle 18 e alle 6), a differenza di quanto avviene nei quartieri della Città Nuova come La Mariscal o Floresta, abitati dalle classi più abbienti (e man mano più chiare di carnagione, guarda caso) e americaneggianti, regni di grattacieli in vetrocemento e dei consueti non luoghi globalizzati. 

Catedral Primata e, a sinistra, il Palacio Presidencial

Cuore di Quito, che conta oltre due milioni e duecentomila abitanti (mentre la città più popolosa nonché progressista del Paese rimane Guayaquil, sulla costa), al centro del reticolato di calles che l’attraversano da Nord a Sud e da Est a Ovest, ma pressoché mai in piano, Plaza Independencia, dove si fronteggiano il palazzo presidenziale e l’alcaldía (municipio) e a loro volta la Catedral Primata e il palazzo arcivescovile, i due poteri nazionali e cittadini di maggior rilievo. A dispetto di cotanta e preoccupante concentrazione di autorità nello spazio di una piazza peraltro di dimensioni contenute, dato che a farle da lato sono soltanto i palazzi suelencati, quest’ultima, piena di verde, è frequentata dalle persone più comuni senza alcuna particolare riverenza nei confronti delle autorità. Quito, fondata il 6 dicembre del 1534 dal luogotenente spagnolo Sebastián de Benalcázar sulle ceneri di una preesistente città inca, fatta radere al suolo da uno dei generali di Atahualpa per evitare che finisse in mano agli invasori, fu presto popolata da coloni e ordini religiosi di ogni tipo invasati dalla fregola di convertire i nativi, sfruttandone biecamente la manodopera per erigere una quantità di chiese e conventi ricchissimi di opere di gran pregio che possiamo ammirare tutt’oggi, in particolare quelle frutto del barocco quiteño indirizzato, con le sue drammatizzazioni, proprio a colpire l’immaginario dei nativi per carpirne l’adesione al cattolicesimo controriformista. 

Convento e chiesa di San Francisco

Fra questi, gli splendidi complessi architettonici dei conventi di San Francisco, San Agustín, Carmen Alto, Santa Clara, San Domingo, San Diego, oggi in parte musei e  con annesse chiese, fra cui emerge, tanto per cambiare, quella “De la Compañia”. Intendendosi ovviamente quella di Gesù, dove in un delirio di stucchi dorati, statue di Cristi sanguinanti, colonne e putti  che ne ricoprono completamente l’interno (ma anche l’esterno non si distingue per sobrietà) trionfa il barocco più forsennato, che trova eguali forse soltanto a Salvador da Bahía, in Brasile. Immancabile la visita alla Basilica del Voto Nacional, in cima a una delle colline più alte su cui sorge la città (i sette colli di Roma fanno ridere al confronto: la media di altura della città si assesta sui 2860 metri) dalla cui torre dell’orologio, raggiungibile dal tetto della chiesa attraverso strette, ripidissime e inquietanti scale di ferro, fortunatamente dotate di corrimano (ammetto di essere salito soltanto al primo dei tre papabili livelli), si gode di una vista a 360 gradi sulla città vecchia e parte di quella nuova, con una prospettiva ovviamente diversa da quella che si ha raggiungendo col Teleferico i miradores situati a 4100 metri sulle pendici del Pichincha, la cui sommità, a sua volta, si trova a circa 4800 metri. Altra vista spettacolare sul centro storico si ha dal Panechillo, la collina a forma di pagnotta sulle cui pendici si trova il complesso del convento di San Diego e in cima una gigantesca incombente Madonna alata, unica nel suo genere, visibile da ogni angolo della città vecchia. Tra i musei, alcuni dei quali come detto si trovano nei conventi mentre altri sono “laici”, segnalo la Casa del Alabado, dotato di un’imponente collezione di manufatti precolombiani esposti con un allestimento originale, per aree tematiche invece che in base al tradizionale criterio cronologico. Oltre alla piacevolezza di andare a zonzo per le strade di Quito, scoprendo mercatini, negozi curiosi, intere vie dedicate a una particolare attività, cibarsi nei comedores tradizionali (tipica la colazione del mattino con seco de chivo, uno stufato di capra accompagnato dall’immancabile riso, da una patata e da mezzo avocado: sono pressoché assenti, almeno nel centro storico, le grandi catene internazionali a parte un KFC, opportunamente mimetizzato da renderlo anonimo: perfino le insegne sono nere e di dimensioni ridottissime invece del tradizionale rosso sgargiante) e combattere la disidratazione con meravigliosi succhi di frutta preparati al momento in bugigattoli e baracchini ambulanti, dopo tanto lisergico barocco non rimane che spostarsi in cima a Floresta, attraversando la città da una parte all'altra, su una collina di fronte al Pichincha che tanto lo ha ispirato, a visitare la casa e le opere espressioniste di Oswaldo Guyasamín, uno dei maggiori pittori latinoamericani (il suo nome in lingua indigena significa “uccello bianco che vola”), scomparso nel 2009, tra cui spicca la Capilla del Hombre, che non ebbe la sorte di vedere completata in vita: l’intero complesso fa parte di una Fondazione aperta al pubblico a cui le ha conferite assieme alle sue ricche collezioni, sia di opere precolombiane sia di amici e colleghi pittori. Amico personale di personaggi come Pablo Neruda, Fidel Castro, Salvador Allende nonché di musicisti come Mercedes Sosa e Paco de Lucía, di cui ha eseguito due ritratti straordinari conservati nella sua abitazione, a sua volta disegnata e concepita da lui stesso, quando gli chiesero come mai l’avesse battezzata così rispose che se siamo capaci di erigere sontuose chiese dedicate a un dio che non sappiamo se esista o meno, perché non dedicare una più modesta cappella all'uomo, che non finiremo mai di conoscere?