sabato 30 aprile 2016

Le confessioni

"Le confessioni" di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Connie Nielsen, Daniel Autetuil, Pierfrancesco Favino, Marie Josée Croze, Moritz Bleibtreu, Richard Sammel, Johan Heldenbergh, Togo Igava, Lambert Wilson, Giulia Andò e altri. Italia, Francia 2016 ★★★★½
Roberto Andò non è un regista prolifico, occupandosi anche di altro al di fuori del cinema, ma dopo il sorprendente successo dell'originale Viva la libertà, in cui aveva rappresentato "dall'interno" il mondo della politica "politicante", qui prosegue la sua indagine, con un'attenzione da entomologo, su quel particolare segmento costituto dai responsabili economici, in questo caso i ministri del G8, riuniti in un lussuoso albergo tedesco (per la cronaca quello di Heiligendamm, sul Mar Baltico, dove nel 2007 si tenne, per l'appunto, un vertice del G8 assediato dalla contestazione anticapitalista) per adottare ufficialmente e rendere operative delle decisioni già prese dai pupari del sistema finanziario che stanno loro alle spalle e a cui rispondono nella realtà, invece che agli elettori. Decisioni che, in questo frangente, sono esiziali per i Paesi più poveri e per i lavoratori in generale, ed è probablmente per dar loro una patina di legittimità morale che sono stati invitati a questo sancta sanctorum tre "laici": una rock star dedita al "sociale" che può ricordare Bono, una famosa scrittrice di favole per bambini (e non solo) che inevitabilmente fa pensare a J. Rawling (molto brava l'attrice danese Connie Nielsen), e un frate cappuccino (un Toni Servillo maestoso nella misura della sua interpretazione). Idea, questa, del primus inter pares dell'altolocato consesso, il presidente del FMI magnificamente impersonato da un altro grande, Daniel Auteuil, che coglie l'occasione per farsi confessare, durante un'intera notte, da questo strano religioso, amante del canto degli uccelli e dotato di una particolare empatia col mondo animale, appartenente a un ordine votato al silenzio, con un passato di matematico e autore di libri illuminanti. Peccato che il mattino successivo venga trovato cadavere, soffocato da un sacchetto di plastica, lasciando nello sconcerto gli otto ministri, i loro tirapiedi nonché gli addetti alla sicurezza, alle prese con la versione dei fatti da far filtrare al volgo tramite i media, ma soprattutto rimasti senza la loro autorevole  guida. Da un lato i dubbi sono tra il suicidio e l'omicidio, e viene messo sotto pressione proprio il frate, non tanto perche si sia alla ricerca della verità, ma perché si vuole estorcergli gli argomenti del lungo colloquio con il deceduto, e dall'altro altri dubbi sorgono tra i vari ministri, una volta che sono rimasti senza il loro referente, a proposito della decisione da prendere nel corso del summit. Al di là del finale, che non svelo anche se non è poi così essenziale nell'economia del film, l'interesse della pellicola consiste nell'accuratezza della descrizione delle dinamiche interne di questo mondo completamente alieno rispetto alla realtà, dove pure vengono assunte risoluzioni che incidono brutalmente sulla vita di centinaia di milioni  di uomini in carne e ossa, come del resto sono loro stessi con le loro contraddizioni, vizi e debolezze, e in base a logiche avulse e incomprensibili perfino a loro, che sembrano vivere in un universo parallelo. Una pellicola dai tratti metafisici, in cui l'aspetto estetico è in perfetto equilibrio con quello dei contenuti, un noir anomalo, in cui l'azione non è fondamentale, i silenzi sono significativi quanto le parole, e la colonna sonora, affidata al maestro Nicola Piovani, gioca un ruolo nient'affatto secondario. Il pensiero va al Sorrentino di Youth ma anche de Il Divo (dove Toni Servillo superò sé stesso andreottizzandosi) e La grande bellezza,  ma anche indietro nel tempo, al Todo modo di Elio Petri tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sascia. Si parla, insomma, di livelli molto alti, di un'eccellenza capace di farsi vedere e capire anche fuori dai nostri confini, di cui Roberto Andò, con i suoi ultimi film, è entrato a far parte di diritto. A riprova che il cinema italiano è tornato a esistere e a esprimere qualcosa di importante.

mercoledì 27 aprile 2016

L'opera da tre soldi

"L'opera da tre soldi" di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Traduzione di Roberto Menin, traduzione delle canzoni e regia di Damiano Michieletto; direttore d'orchestra Giuseppe Grazioli; scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti. Con Martin Ilunga Chishimba, Luca Criscuoli, Jacopo Crovella, Giandomenico Cupaiuolo, Lorenzo De Maria, Rossy De Palma, Pasquale Di Filippo, Margherita Di Rauso, Marco Foschi, Sergio Leone, Lucia Marinsalta, Daniele Molino, Sandhya Nagaraja, Matthieu Pastore, Stella Piccioni, Maria Roveran, Peppe Servillo, Claudio Sportelli, Giulia Vecchio, Sara Zoia e l'Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano. Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa. Al Teatro Strehler di Milano fino alll'11 giugno.
Una toccata e fuga a Milano, con andata e ritorno in giornata domenica scorsa, che è decisamente valsa la pena per vedere la più celebre opera di Brecht e Weill rivisitata da Damiano Michieletto, nel teatro che fu fondato da Giorgio Strehler e di cui  porta il nome, in una versione che nulla ha da invidiare al quella del 1972/73, di cui conservo il ricordo, curata dal maestro triestino (che fu il primo a proporla in Italia, nel 1956, presente l'autore, a pochi mesi dalla scomparsa). Una allestimento innovativo, focalizzato sul processo a Mackie Messer, dove l'aspetto tribunalizio è sempre fisicamente presente sulla scena, e rigoroso al contempo, ambientato com'è a Londra, così come l'originale tradotto da Elisabeth Hauptmann, storica collaboratrice di Brecht: la Beggar's Opera, l'Opera dei mendicanti, scritta dall'inglese John Gay nel 1728. Tutti i personaggi, nel corso dei tre atti, sono chiamati a testimoniare sull'imputato Macheath di fronte a una corte composta dal pubblico, mentre il giudice cambia palesemente interprete, per cui, nelle intenzioni del regista, il processo "diviene il filtro attraverso cui leggere la storia e al tempo stesso comprenderla". La vicenda, quindi, non segue un ordine cronologico ma viene rappresentata, e attualizzata, in una serie di flash-back, in cui ciascun personaggio racconta la propria azione in un unico spazio le cui pareti sono composte dalle sbarre di una gabbia. In estrema sintesi, il malavitoso Macheath, protetto dal capo della polizia che era suo compagno di scuola e amico dall'infanzia, può compiere le sue malefatte impunemente fino a quando, sposando segretamente Polly Peachum, la figlia del Re dei mendicanti, che controlla tutti gli accattoni della città (che qui prendono le vesti degli attuali migranti con tanto di giubbotti arancioni) ed è un vero e proprio imprenditore che lucra sulla carità, entra in collisione con quest'ultimo e il suo senso del "decoro", mentre la sua attività e ben più sordida e criminale di quella di Mackie. Che viene catturato e messo sotto processo perché "venduto" dalle "sue" puttane, e infine condannato, ma poi graziato perché, giunti al dunque, pecunia non olet e  la corruzione domina oggi come e più di ieri. Paragonare la versione di Michieletto a quella di Strehler mi pare fuori luogo e ingiusto, anche se a mio parere è alla sua altezza e io preferisco questa. Ognuna è figlia del suo tempo: più ideologica e didascalica quella di Strehler, dove aveva maggior risalto la parte cantata (Domenico Modugno era Mackie Messer mentre Milva interpretava Jenny delle Spelonche), decisamente meno statica e più attuale, con maggior rilevo alla performance attoriale quella di Michieletto, e qui si difendono molto bene il Mackie di Marco Foschi, la perfetta Polly di Maria Roveran a mio parere non fa rimpiangere quella della Giulia Lazzarini dell'epoca, così come Sergio Leone il Tiger Brown di Gianni Agus e Giandomenico Cupaiuolo il Cantastorie di Giancarlo Dettori, mentre Peppe Servillo, cantante di professione, rende la perfidia di Peachum almeno quanto l'ironia del Gianrico Tedeschi di quarant'anni fa; infine, la presenza scenica di Rossy De Palma nel ruolo di Jenny delle Spelonche compensa ampiamente le qualità vocali di Milva. Teatro stracolmo, pubblico rapito e partecipe, applausi a scena aperta e uno spettacolo da non perdere.

domenica 24 aprile 2016

Truman - Un vero amico è per sempre

"Truman - Un vero amico è per sempre" (Truman) di Cesc Gay. Con Ricardo Darín, Jávier Cámara, Dolores Fonzi, Eduard Fernández, Alex Brendmühl e altri. Spagna, Argentina 2015 ★★★★
Non sempre, vedi il post precedente, fidarsi di un cast di attori apprezzabili è un'idea valida, ma nel caso di Ricardo Darín, un'istituzione in Argentina (un film per tutti: Il segreto dei suoi occhi) e di Jávier Cámara, suo "equivalente" in Spagna dai trascorsi anche almodovariani, visto ed apprezzato l'ultima volta in La vita è facile ad occhi chiusiandavo sul sicuro, e le loro interpretazioni misurate quanto incisive hanno contribuito, assieme a una regia attenta ed estremamente ben calibrata, a fare di questo film un piccolo gioiello. Era difficile mantenere un perfetto equilibrio di toni, tra la commedia e il drammatico, senza mai cadere nel patetico e nel melodrammatico, pur affrontando un tema come la morte (imminente) e l'amicizia: e in questo il film è molto più argentino che spagnolo (in realtà Cesc Gay è catalano). Tomás, madrileno trasferitosi in Canada, anche su insistenza della moglie torna nella sua città per rendere visita al suo amico di sempre Julián, un attore argentino da tempo trapiantato nella capitale spagnola, sapendo che sarà l'ultima occasione perché questi, dopo un anno di chemioterapia per un cancro ai polmoni, ha deciso di rinunciare a ulteriori cure dopo che gli è stato comunicato lo sviluppo di metastasi nel resto del corpo. Quello di Tomás sarà un soggiorno breve ma intenso, in cui i due amici si ritroveranno senza bisogno di ulteriori discussioni dopo che Julián avrà rintuzzato un primo tentativo di convincerlo a rivedere la sua decisione, e lo accompagnerà a risolvere alcune questioni imprescindibili prima di perdere completamente le forze e arrendersi definitivamente alla malattia, tra cui quella più angosciante è trovare una sistemazione soddisfacente per Truman, il bellissimo cagnone che da anni è l'altro figlio dell'attore: quello a due zampe studia ad Amsterdam, e i due amici non mancheranno di fargli una sorpresa, prendendo un volo andata e ritorno in giornata, per festeggiare il suo compleanno. Ci si muove su un terreno ambiguo, estremamente delicato e straniante come quello della morte annunciata e inevitabile, delle cose dette ma solo in parte, di quelle sottintese, della tristezza e dell'ironia nonostante tutto, dell'imbarazzo ad affrontare l'argomento da parte di amici e conoscenti, di inaspettate solidarietà. La morte aleggia ma non è opprimente anche se per alcuni è disperante, come per Paula (Dolores Fonzi), altra espatriata argentina nonché cugina di Julián e vecchia fiamma di Tomás, il cui "sangue italiano" va in ebollizione alla notizia della resa del cugino e all'accondiscendenza del suo amico, che nella sua scelta vede invece il coraggio che ha sempre ammirato in lui, mentre Julián, viceversa, in Tomás ha trovato chi non ha mai chiesto nulla in cambio. In questa relazione affettiva profonda entra anche Truman, anche lui amico per sempre. Credo non vi sia altro da aggiungere se non consigliare vivamente la visione di questa pellicola di rara delicatezza, che non gioca coi sentimenti dello spettatore e che mostra uomini e donne (c'è anche l'incontro con la ex moglie di Julián) per quello che sono nella realtà, con slanci e miserie, coraggio e meschinità, in ogni caso con grande umanità (che comprende anche gli animali). 

venerdì 22 aprile 2016

Un'estate in Provenza

"Un'estate in Provenza" (Avis de Mistral) di Rose Bosch, Con Jean Reno, Anna Galiena, Chloé Jouannet, Hugo Dessioux, Aure Atika, Lukas Pellissier, Raphaëlle Agogué e altri. Francia 2015 ★-
Un film francamente penoso, il cui livello si colloca su quello di "Benvenuto al Sud" e "Mamma mia", cui peraltro si ispira per i contenuti, che sono quelli di uno spot pubblicitario per l'azienda turistica locale cui non viene in mente nient'altro che finanziare questa robaccia per promuovere la Provenza: in confronto Mariglod Hotel e il suo sequel, con la loro rimpatriata di allegri pensionati e reduci da case di riposo, era un autentico capolavoro. A causa della separazione in corso tra i propri genitori, un trio di fratelli parigini, Adrien e Léa, adolescenti, e il più piccolo, Theo, sordomuto (lo è nella realtà anche l'interprete, Lukas Pellissier: l'unico credibile e anche l'unica nota simpatica e gradevole dell'intera pellicola) sono costretti a trascorrere i due mesi delle vacanze estive nella casolare dei nonni, sperso tra gli uliveti del Midi, coltivati dal burbero nonno materno Paul, che non hanno mai conosciuto, perché da 17 anni ha rotto i rapporti con la figlia. Tenuti invece in piedi dalla nonna Irène, a cui viene la brillante idea di ospitarli. Tutto il film è giocato sul contrapposizione generazionale e tra cittadini iperconnessi e campagnoli orgogliosi del loro modo di vivere (sulla falsariga di Ino e Topo Gigio) , e sul progressivo ravvicinamento tra il vecchio caprone e i due giovani virgulti, entrambi peraltro alle prese con le fregole da sovraccarico ormonale, principalmente per merito del piccolo e tenero Théo: vista la banallità e lo squallore delle battute, a maggior ragione se ne apprezza il mutismo. Non altrettanto si può dire riguardo alla colonna sonora, che più scontata non si può. Una per tutte: The Sound of Silence, ma il peggio arriva quando altri classici anni Sessanta/Settanta, quelli della gioventù dei due nonni, vengono oscenamente storpiati da un gruppuscolo di mal tra insema con chitarra annessa che giungono in visita perché Adrien li ha proditoriamente convocati tramite Facebook per una rimpatriata tra biker, ché tali si scoprono essere stati  anche Paul e Irène, dedicandosi in gioventù ai viaggi e alle canne, oltre a praticare l'amore libero e il sesso di gruppo. Eh sì, perché ogni generazione ha avuto il tempo per fare le proprie minchiate e credersi padrona del mondo: davvero una pensata originale. Ovviamente tutto finisce per il meglio: Paul non solo si addolcisce ma d'incanto si svezza dalla dipendenza da alcol, e nel giro di un paio di giorni è perfino in grado di scalare cime come il Ventoux, lasciando con la lingua in fuori il baldo Adrien. Non solo: difende per una giusta causa (si era invaghita a sua insaputa di un pusher) la virtù di Léa e vince perfino il premio come miglior produttore di olio della regione per il 2014 oltre ad altre amenità e incongruenze, ultima la puntuale apparizione, alla fine delle vacanze, della figliola prodiga, con cui naturalmente si riappacifica per la gioia dei nipoti e della famiglia tutta, interpretata da un'attrice che ha palesemente la stessa età dei propri "figli" o poco più. Purtroppo sono rimasto ingannato dalla presenza di Jean Reno e Anna Galiena (messi male almeno quanto l'Ente del Turismo Provenzale) e quindi fregato. Colpa mia, che avrei dovuto informarmi prima sui precedenti dell'autrice di questa solenne cagata: un'autentica poveretta che si era già sputtanata da sola con alcune sue deliranti dichiarazioni. 

mercoledì 20 aprile 2016

Mister Chocolat

"Mister Chocolat" (Chocolat) di Roschdy Zem. Con Omar Sy, James Thierree, Clotilde Hesme, Olivier Gourmet, Frédéric Pierrot, Noémie Lvovsky e altri. Francia 2015 ★★★+ 
Buona idea quella del talentuoso attore e regista Roshchdy Zem, francese di origine marocchina, di raccontare la storia del primo artista nero che ebbe successo in Francia, a cavallo tra Ottocento e Novecento: si trattava di Rafael Padilla, sfuggito a un destino di schiavitù a Cuba, che in Francia aveva trovato lavoro come "cannibale", in coppia con una scimpanzé, nel Circo Delvaux, dove incontra il clown inglese George Foottit che ne intravede le qualità e lo convince a fare dei numeri in coppia, con cui avranno un crescente successo. Dal circo itinerante, dove vengono notati dall'impresario catalano-parigino Joseph Oller, fondatore tra l'altro del Moulin Rouge, alle luci della ribalta del Nouveau Cirque, capace di oltre 1500 spettatori, dove tennero banco per una quindicina d'anni coi loro numeri acrobatici e pieni di trovate innovative basati sulla contrapposizione tra clown bianco e Auguste nero, quest'ultimo divenuto una vera e propria stella col nome di Chocolat. Tale la loro fama, che divennero testimonial pubblicitari e di alcune loro esibizioni  rimangono perfino delle riprese fatte dai fratelli Lumière. Diversissimi di carattere, quanto era esuberante, allegro, donnaiolo Padilla, buon bevitore nonché giocatore d'azzardo, tanto era morigerato, malinconico, introverso l'inglese, che era un professionista vero del circo e non improvvisato, e che nonostante soffrisse della maggiore notorietà del compagno gli fu amico sincero per tutta la vita, anche quando Chocolat abbandonò il duo per tentare la carriera d'attore. Infatti, durante una permanenza in carcere dopo che fu arrestato col pretesto della mancanza di documenti, aveva conosciuto un prigioniero politico e intellettuale di colore, haitiano, che gli aveva messo in testa l'idea di riscattarsi dal ruolo di quello che prende eternamente pedate, assecondando lo stereotipo che si aveva dell'uomo di colore, per dedicarsi all'arte vera, e così Padilla, attraverso l'interessamento della nuova compagna, un'infermiera vedova di un medico bene introdotta nell'ambiente teatrale, riuscì a realizzare il sogno di essere il primo ner oa interpretare, in Francia, il ruolo di Otello. disgraziatamente i tempi, benché si fosse in piena Belle Époque, non erano ancora maturi e a nemmeno 50 anni Padilla morì, consunto dalla tisi, facendo l'inserviente di nuovo in un circo itinerante, ma anche in quell'occasione Foottit non lo lasciò solo. Storia bella ma triste, è ben raccontata in un film girato con competenza e bene interpretato, in cui sono da sottolineare le prestazioni "atletiche" dei due protagonisti (o delle loro controfigure). Non a caso, anche per la notorietà di Omar Sy, il film è stato campione di incassi in Francia, ma il suo compagno James Thierree è alla sua altezza. 

lunedì 18 aprile 2016

Me ne frego!



Alla vigilia dell'anniversario della Liberazione col suo consueto profluvio di ributtante e ipocrita retorica sui valori della Costituzione della Repubblica fondata sulla Resistenza da parte di coloro che hanno fatto di tutto per tradirla prima e sfasciarla poi, i risultati del referendum di ieri confermano che in 71 anni in fondo non è cambiato un cazzo e che l'unica parola d'ordine che accomuna l'italiano medio è il "Me ne frego!" di mussoliniana memoria, a dimostrazione che il fascismo in questo Paese è congenito e non muore mai. Pertanto condivido le considerazioni in proposito pubblicate su Facebook da Gianfranco Manfredi, cantante, musicista, scrittore, sceneggiatore e fumettista.
Chi se ne frega della Basilicata, chi se ne frega di Taranto, chi se ne frega dell'Adriatico. Questo il verdetto. Non è una novità. Già l'italiano medio aveva decretato: chi se ne frega delle valli alpine, chi se ne frega della Sardegna, chi se ne frega della Terra dei Fuochi, chi se ne frega del sacco di Roma. Il cemento ideologico dell'italiano medio è il Me ne frego. L'italiano medio è un piccolo borghese che più viene colpito dalla crisi, più si affida alla grande borghesia, agli speculatori, agli affaristi nella speranza che avanzi qualche briciola per lui. Ora e sempre resistenza.
Già: l'Italiano Medio. Ma chi ha detto che non c'è?

domenica 17 aprile 2016

Una notte con la regina

"Una notte con la Regina" (a Royal Night Out) di Julian Jarrold. Con Sarah Gadon, Bel Powley, Jack Reynor, Rupert Everett, Emily Watson e altri. Gran Bretagna 2015 ★★★
A lenire l'irritazione causata da Cowspiracy ha provveduto preventivamente la visione, qualche ora prima, di questo film leggero, aggraziato, che qualcuno ha definito disneyano e invece è molto inglese, una favola con un tocco di vauedeville sulla Royal Family che, oltre a essere la massima istituzione britannica, ne è anche il prodotto d'esportazione di maggior successo. Siamo a Londra nella notte tra il 7 e 8 maggio del 1945, e alla mezzanotte in punto è fissata la fine dello stato di guerra che ha visto sconfitta la Germania nazista e a quell'ora raggiungeranno il culmine i festeggiamenti da parte della cittadinanza che attende con impazienza il discorso di Giorgio VI (quello stesso del film con Colin Firth). Mentre il re, assistito dalla moglie, sta esercitandosi a pronunciarlo vincendo la propria balbuzie, le due figlie riescono a convincerlo a contraddire la severa madre e concedere loro il permesso di partecipare ai festeggiamenti ufficiali che si tengono all'Hotel Ritz, a patto che rientrino per l'una e che vengano scortate, sotto strettissima sorveglianza, da due ufficiali dell'esercito di assoluta fiducia. Il fatto è realmente accaduto, ma nella pellicola è lo spunto per dare la stura a una vicenda inventata, rocambolesca e piena di brio, ricca di battute divertenti a mai volgari, che vede protagoniste le due ragazze, Lillibet, com'era chiamata in famiglia l'attuale sovrana e Margaret, la più giovane e "scapestrata", 19 e 14 anni ai tempi nella realtà e 21 e 16 nella finzione, con la prima che, eludendo a sua volta la sorveglianza della scorta, e aiutata da un aviere degradato incontrato su un autobus che ha dovuto prendere per caso, si mette all'inseguimento, della sorella minore che si è dileguata dal noiosissimo ricevimento nell'albergo assieme a un ufficiale donnaiolo che la porta in un locale da ballo postribolare: ne succedono di tutti i colori, con una serie di equivoci a catena, resi particolarmente gustosi dalla pressoché totale sprovvedutezza delle due ragazze riguardo alla vita fuori da Buckingham Palace, e che culminano con il trionfale ingresso del proprietario e manager del bordello, l'unico che dimostra di avere perfettamente il dominio della situazione, insieme alla sua squadra di puttane, al Ritz, dove riporta sane e salve senza che sia stato loro torto un capello, le Altezze Reali, e tutto finì in gloria. Piacevole, ben sceneggiato, ironico, e allegro: niente di che ma quanto basta per rilassarsi e sorridere, ideale antidoto per la gnàgnera e prevenire l'orchite causata dalla visione di film più sgradevoli. 

venerdì 15 aprile 2016

La Cowspiracy controproducente


"Cowspiracy: The Sustainability Secret" di Kip Andersen, Keegan Kuhn. USA 2014.
"L'allevamento di animali è la principale causa di deforestazione, consumo d'acqua, inquinamento e produzione di effetto serra; nonché della distruzione della foresta pluviale con la conseguente estinzione delle specie indigene e del loro habitat; dell'erosione del manto terrestre, delle cosiddette 'zone morte' oceaniche e di ogni altra forma di malattia ambientale. Nonostante ciò, questa pratica va avanti senza che nessuno si opponga. Mano a mano che Kip Andersen si avvicina ai vertici dei movimenti ambientalisti, scopre quello che sembra un rifiuto intenzionale a mettere in discussione gli allevamenti intensivi, mentre difensori e paladini dell'industria lo mettono in guarda sui rischi alla sua libertà e persino per la vita, in caso osi proseguire". Fin qui la recensione che di questo documentario, finanziato in crowfunding e prodotto da Leonardo DiCaprio, fa My Movies, e tanto può bastare per capire di cosa tratta. Ho finalmente occasione di vederlo al sempre benemerito Visionario, proposto dall'associazione Udine per il clima e, a mio modo di vedere, il risultato è una delusione mista a una profonda irritazione e una conferma. Comincio da quest'ultima: diffido di ogni documentario o articolo di giornale, più che mai di quelli che si autodefinisscono "inchieste", che iniziano con una non richiesta presentazione di chi scrive fatta in forma colloquiale e ammiccante, con dettagli non solo biografici ma anche personali, riguardanti le proprie abitudini e preferenze, confidenziale ai limiti del pettegolezzo: tutti dettagli di cui non me ne frega un emerito cazzo nella fattispecie, perché se ti sto leggendo o guardando è per capire e documentarmi. E' un'abitudine tipicamente USA, che probabilmente viene insegnata alle loro scuole di giornalismo, o nei corsi di scrittura (o regia) creativa, in un Paese dove la loro frequentazione è generalizzata e non si capisce a che pro, dato ben pochi tra coloro che eccellono nei rispettivi campi ne è uscito diplomato: come ogni moda idiota anche questa ha preso piede qui da noi già da qualche decennio, col risultato che giornali, romanzi, perfino comunicati stampa e discorsi dei politicanti fino alle sceneggiature cinematografiche sembrano scritti con lo stampino (negli anni Ottanta nelle redazioni si parlava dello stile "panoresso", ispirato al modo di esprimersi radical chic che imperava nei due periodici già allora più diffusi tra la "classe colta", Panorama e L'Espresso). Ma il peggio deve ancora venire: segue un primo giro di dati che danno la vertigine, con tanto di grafici e, nel caso, animazioni; un'intervista negata, o reticente, a cui si giunge inevitabilmente in modo avventuroso, e di cui vengono proposti spezzoni a piacere; un primo giro di pareri ai soliti cinque-sei personaggi di riferimento, che finiscono per diventare i guru della situazione, per poi continuare circolarmente, a cerchi concentrici sempre più stretti come gli avvoltoi, ripetendo la sequenza cinque, sei volte, riproponendo ossessivamente i medesimi dati in altre salse, nonché spezzoni di interviste analoghe, fini allo show down finale della Rivelazione: la Verità Assoluta, l'unica in grado di sconfiggere il Male una volta per tutte. Uno schema che si ripropone invariabilmente purtroppo non solo nell'immaginario ma anche nella prassi della grande maggioranza di questi zotici e di chi li governa, che è poi la logica, e l'etica, di gente cresciuta col mito fondativo del Far West. Nella fattispecie, la soluzione abbracciata alla conclusione di un documentario ricco di dati, impressionanti quanto spaventosi perché tratti da fonti ufficiali (benché ignori quanto e come estrapolati) sull'impatto ambientale e climatico dell'allevamento su scala industriale e dell'agricoltura intensiva e transgenica che gli è correlata è il veganismo, neanche solo il vegetarianesimo, abbracciato da tutti indistintamente i guru interpellati con fermezza e convinzioni talibane nel corso della presunta inchiesta. Che tale si rivela non essere, perché trattasi a tutta evidenza del tentativo di dimostrare a posteriori una tesi precostituita e non un'indagine obiettiva alla ricerca di una verità e delle possibili e praticabili soluzioni per affrontarla. 80 minuti di documentario tutto sommato valido, interessante e dalle buone intenzioni, per quanto spesso puerile, rovinato dagli ultimi cinque minuti: sono del parere che un ambientalismo ideologico siffatto procuri più danni che vantaggi a qualsiasi seria battaglia per la sostenibilità che faccia i conti (e non soltanto la rima) con la realtà e la praticabilità. In definitiva, un pessimo servizio all'ecologismo, con l'unico vero pregio di sputtanare l'ambientalismo istituzionale, che segue le stesse logiche mercatiste di tutto il sistema globalizzato. 

martedì 12 aprile 2016

Veloce come il vento

"Veloce come il vento" (Italian Race) di Matteo Rovere. Con Stefano Accorsi, Matilde De Angelis, Paolo Graziosi, Giulio Pugnaghi, Roberta Mattei e altri. Italia 2016 ★★★½
Alleluja: ...e tre!  Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, e Un bacio, terzo centro del "giovane" cinema italiano, che si dimostra capace di rinnovarsi e dire qualcosa di diverso quando si dà fiducia a chi propone idee originali e delle storie che siano tali, tratte o no da vicende reali ma che raccontino di persone in carne e ossa, con le loro passioni e sofferenze, lacrime, sudore e sangue, insomma, uscendo finalmente dagli ambienti asettici e "terrazzati" (che siano romaneschi, torinesi o milanesi non importa) con relative masturbazioni sociologiche di una classe pseudointellettuale che ha fallito il proprio compito (o vi ha rinunciato) e dalle sue autocommiserazioni; dal buonismo e dalla "correttezza politica" eretti a sistema nonché gabbia mentale; o dagli schemi della commediola italiana che ammicca a quella "classica" e che per lo più consiste in spot per le aziende turistiche delle rispettive location, con buona pace di Checco Zalone (con tutto il rispetto). Non è il caso del film in questione, ambientato tra un casolare-officina perso nella campagna emiliana e i circuiti automobilistici, né degli altri due citati, a cui aggiungerei, per quanto riguarda le pellicole uscite in questo primo scorcio di anno, Perfetti sconosciuti e Fuocoammare. Aria fresca, dunque, che nel caso di quest'altro film di genere (sportivo? racing? Viene in mente Rush, ma lì si trattava della ricostruzione della rivalità tra due piloti famosi, qui di una storia liberamente ispirata alla vita di un ex pilota di rally ma in cui c'è molto altro) ha rispolverato e dato nuova vita a un attore che non si era mai espresso in maniera così convincente, Stefano Accorsi, che interpreta un personaggio che è all'opposto di quelli per cui è stato proposto finora, e promosso sul campo un'esordiente come Matilde De Angelis, nel ruolo di Giulia De Martino, la diciassettenne promessa delle gare GT cui improvvisamente viene a mancare, per un infarto in pista, il padre che la incoraggia e segue nelle gare e che su di lei ha investito tutti i suoi risparmi, compresa la casa in cui abitano. Così Giulia rimane sola, a parte il vecchio meccanico amico del padre interpretato da Paolo Graziosi, col fratello piccolo, la madre scappata in Canada, e a reclamare la sua parte di eredità il fratello Loris, ex pilota tossico sparito dalla circolazione dieci anni prima, costretta da un lato a riaccoglierlo in casa assieme alla compagna, più tossica ancora di lui, perché, essendo maggiorenne, può esercitare la tutela legale sul fratello minore, e dall'altro a vincere il campionato perché altrimenti abitazione e officina finiscono al creditore. A meno che non partecipi a una gara di Italian Race, una corsa clandestina, e la vinca. La ragazza rifiuta, e si fa allenare dal fratello Loris, che le dà sì ottimi consigli portandola da una vittoria all'altra alla soglia di quella finale, ma è dotato di una capacità più unica che rara di mandare a puttane qualsiasi situazione anche quando è munito delle migliori intenzioni, per cui Giulia si rompe una gamba a poche ore dalla gara che dovrebbe incoronarla campionessa. Viene sfrattata e il fratello minore affidato a una famiglia ma... Loris a insaputa di tutti ha partecipato a quella gara di Italian Race a cui lei aveva detto no e si riscatta a modo suo... Tutto del film funziona: la sceneggiatura, i personaggi che sembrano emanare vapori di carburante, olio, additivi, gomme ma anche adrenalina, disperazione, entusiasmo; l'accuratezza nel dipingere la psicologia del tossico, senza alcuna banalizzazione, facendone trasparire l'estrema debolezza ma anche, nel caso di Loris, l'ironia nella disperazione, e l'umanità che rimane sul fondo per quanto nascosta da pulsioni contraddittorie su cui alla fine ha la meglio la passione per il "motor", così comune in quella parte dell'Emilia-Romagna dove nelle vene sembra scorrere la benzina al posto del sangue. Bravissimi tutti e avanti così, ché con prodotti di questo genere il cinema italiano non teme rivali: questi nuovi autori sembrano aver imparato le cose migliori, per tecnica e sceneggiatura, che vengono da fuori facendole proprie per raccontare finalmente storie nostre, apparentemente piccole ma credibili, appassionanti e capaci di parlare a tutti e di farsi capire da chiunque.

domenica 10 aprile 2016

Race - Il colore della vittoria

"Race - Il colore della vittoria" (Race) di Stephen Hopkins. Con Stephan James, Jason Sudeikis, Carice van Houten, Jeremy Irons, William Hurt, Eli Goree, Tony Curran e altri. Germania, Canada, Francia 2016 ★★½
Lo spunto di questo film biografico è interessante: richiamare alla memoria la storia di Jesse Owens, il formidabile atleta nero che vinse quattro medaglie d'oro proprio in occasione delle più controverse Olimpiadi di sempre, quelle di Berlino del 1936, fortemente volute da Hitler per celebrare sia i successi della Nuova Germania, uscita sotto la sua guida dalla crisi seguita alla sconfitta nella Grande Guerra, sia la superiorità della razza ariana, e dell'etnia tedesca tra tutte, infrangendone i sogni di gloria, almeno sportiva, nonché le mire propagandistiche, proprio a domicilio. Nato povero, abbandona una figlia piccola e la madre di questa, che sposerà soltanto quando raggiungerà la tranquillità economica, nonché la propria famiglia in povertà per frequentare l'Università dell'Ohio, dove sotto la guida di coach Larry Snyder (il personaggio più simpatico del film, affidato a Jason Sudeikis, di professione comico, che riesce  a renderlo tale senza cadere troppo nel ridicolo) conquisterà la qualificazioni alla competizione, e tutto va bene finché alcuni maggiorenti della comunità nera, che la stanno guidando nella lotta per la conquista dei diritti civili, di cui nei "democraticissimi" USA dei tempi non c'era traccia nel Sud, e soltanto a parole nel resto dell'Unione, lo invitano a boicottare i Giochi, proprio in nome della battaglia contro ogni razzismo. Sorge il momento del dubbio nell'atleta, impersonato dal giovane attore di colore canadese Stephen James, troppo carino per interpretare il vero Jesse Owens, ma anche tra i massimi dirigenti del Comitato Olimpico Americano, dove alla fine la linea di partecipazione alle Olimpiadi "naziste" sostenuta da Avery Brundage (un personaggio losco che diventerà capo del CIO internazionale dal 1952 al 1972, la cui odiosità è resa con la consueta bravura, invero un po' gigiona, di Jeremy Irons) avrà la meglio, per un soffio, su quella del boicottaggio sostenuto dalla parte liberal (efficace William Hurt, la cui presenza ha sempre un suo perché). Alla fine, anche Owens si deciderà a partecipare alla competizione, coi risultati che sono entrati nella storia. Buono nella ricostruzione dell'ambiente, sia al di qua sia al di là dell'Atlantico, e funzionante per la sceneggiatura nonché per alcune riprese spettacolari, e meritorio per ricordare un episodio oscuro come la sostituzione, all'ultimo momento, degli unici due atleti ebrei americani in gara proprio nella staffetta 4x100 (alla cui vittoria contribuì in modo fondamentale Owens) per probabili intrighi di Brundage su dirette pressioni di Goebbels, con cui era in affari, il film pecca di favolismo ottimista e carico di oppurtune omissioni, e per quanto vedibile, si rivela un'americanata ad honorem, nonostante sia frutto di una coproduzione franco-tedesca con contributo canadese. 

venerdì 8 aprile 2016

Rosso


"Rosso" di John Logan. Traduzione di Matteo Colombo, regia di Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña. Luci di Nando Frigerio. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 17 aprile. 
Mi ero "mangiato le mani" per non essere riuscito a vedere questa notevole pièce quattro anni fa, quando debuttò sempre all'Elfo ottenendo un travolgente successo, tanto da venire ripresa nell'autunno dello stesso anno e successivamente portata in tournée, e fortunatamente è stata rimessa in scena con il medesimo allestimento e, soprattutto, gli stessi interpreti: uno straordinario Ferdinando Bruni e il suo giovane emulo in  costante crescita e pressoché omonimo Alejandro Bruni Ocaña (nessuna parentela ma ormai membro effettivo della famiglia degli Elfi). Il primo dà vita, è il caso di dirlo, a Mark Rothko nel periodo del suo massimo fulgore come esponente di punta del cosiddetto espressionismo astratto: siamo alla fine degli anni Cinquanta quando il grande Mies van der Rohe (quello che mio padre considerava il poeta dell'architettura) gli commissionò una serie di murali per il ristorante Four Seasons di New York per il compenso ai tempi strabiliante di 35 mila dollari; il secondo il suo assistente e, suo malgrado, allievo Ken. Dei due anni del loro rapporto tempestoso e al contempo proficuo per entrambi parla Red di John Logan, sceneggiatore soprattutto di cinema, che con questa commedia vibrante, ha dato prova di cavarsela anche nei testi teatrali e qui reso impeccabilmente dalla regia di Francesco Frongia: si tratta dell'evoluzione della relazione tra il maestro affermato, amico e rivale di Jackson Pollock, scomparso pochi anni prima, artista pieno di convinzioni assolute sul significato dell'arte ma anche di dubbi sul suo senso attuale e sulla sua mercificazione, narcisista, egolatra ma al contempo sensibile e a suo modo generoso e il discepolo prima ossequiante poi sempre più critico, e che diventa, punteggiata com'è da dai dialoghi serrati, pieni di contenuto, sagaci e talvolta esilaranti, una riflessione sull'arte compiuta in ambito e forma  teatrale, dove il gesto dell'attore si fonde con quello del pittore, e non a caso Ferdinando Bruni è l'uno e l'altro, autore com'è delle stesse tele che compaiono in scena, copie delle originali di Rothko (suoi erano anche i bellissimi "cartoni" di Alice Underground). L'allestimento riproduce, con semplicità ed efficacia, lo studio di Rothko: con la sua poltrona preferita, il tavolino, il bourbon d'ordinanza, gli schizzi, le matite, i pennelli, i grandi quadri, i telai e i cavalletti, le latte di vernice, il giradischi, uno spazio in cui si muovono i due personaggi, in vesti da lavoro imbrattate, e che sembra espandersi fino al pubblico e inglobarlo. Un'esplosione di colori, a dominare il rosso in tutte le sue varianti, che simboleggia la vita, nella visione di Rothko, sempre più cosciente e terrorizzato di quanto presto sia destinato a essere sopraffatto inghiottito dal nero, emblema della voragine della morte. Finirà per ascoltare, dopo due anni in cui ha tiranneggiato Ken, le sue parole, e sarà una liberazione per tutt'e due dalle loro reciproche "gabbie". Applausi scroscianti e grati, e un successo che si rinnova.

giovedì 7 aprile 2016

Un bacio

"Un bacio" di Ivan Cotroneo. Con Valentina Romani, Rimau Grillo Ritzberger, Leonardo Pazzagli, Thomas Trabacchi, Susy Laude, Giorgio Marchesi, Simonetta Solder, Sergio Romano, Laura Mazzi, Eugenio Franceschini e altri. Italia 2016 ★★★★+
Era l'ora: pare proprio che il cinema italiano stia cominciando a dare segni di risveglio, raccontando la realtà di un Paese in cambiamento (in meglio o in peggio è un altro paio di maniche) e dei protagonisti, e vittime, di quest'ultimo invece che concentrarsi sull'ombelico e le menate di sceneggiatori, registi e, in parte, attori. Un esempio ne è questo film di Ivan Cotroneo, che affronta con coraggio e senza alcuna retorica il tema del bullismo e dell'emarginazione raccontando la storia della forte e tragica amicizia fra tre ragazzi sedicenni che frequentano la terza classe di un liceo udinese (in realtà l'IT Marinoni), nata come reazione alla loro ghettizzazione, per motivi diversi, da parte non solo dei compagni di scuola ma anche di alcuni professori particolarmente stronzi, che ognuno inevitabilmente incontra sul proprio cammino nella propria esperienza formativa, anche se personalmente non ricordo episodi di prevaricazione di questo genere e per gli stessi motivi nemmeno nei "caldissimi" anni Settanta, quando la violenza tra fazioni aveva almeno la scusante di avere motivazioni, per così dire, politiche; è un fenomeno che ha preso piede nell'ultimo decennio, e su questo varrebbe la pena di riflettere seriamente. L'ambiente provinciale da un lato, e i nuovi "social media" che hanno deformato la comunicazione interpersonale dall'altro, contribuiscono ad accentuale la "diversità" di Lorenzo, Blu e Antonio dai loro coetanei: il primo, un ragazzo orfano, adottato dopo una pessima esperienza in una casa famiglia da una coppia molto aperta è dichiaratamente omosessuale, e ciò basta per essere vissuto come una "provocazione" per cui il suo arrivo porta scompiglio nella scuola, dove fa amicizia con Blu, una ragazza considerata da tutti come "la troia", in conflitto con la madre ma anche col proprio passato sentimentale. Entrambi più intelligenti e talentuosi degli altri, non si limitano a incassare ma reagiscono, e finiscono per legare anche con Antonio, introverso, taciturno, che vive in un colloquio immaginario e doloroso col fratello scomparso in un incidente, da sempre il "preferito" dai genitori, e che viene visto come un minorato dai compagni e la cui unica abilità e sfogo è la pallacanestro, dove invece diventa insostituibile. I tre, "diversamente diversi", diventano inseparabili e si forma un triangolo che ricorda Juels e Jim, con Lorenzo che si innamora di Antonio che a sua volta si invaghisce di Blu, fino a un epilogo, che non svelo, per nulla consolatorio e che il regista suggerisce che sarebbe potuto essere diverso se solo si accettasse il prossimo per quello che è lasciandolo libero di esprimersi, senza limitarsi, quando va bene, a "tollerarlo" (soluzione tipica del "buonismo" più stupido). Oltre alla sceneggiatura, tratta da un racconto dello stesso Cotroneo, che regge e non perde colpi, a rendere più che valido il film sono una regìa senza sbavature; la bravura dei tre interpreti principali che rendono così credibili i personaggi non solo da affezionarcisi, ma da renderli destinati a rimanere impressi nella memoria, come anche quelli che impersonano le figure genitoriali, che non vengono banalizzate come troppo spesso accade nei film che hanno come tema l'adolescenza; l'ineccepibile fotografia di Luca Bigazzi (facilitata dalla bellezza di alcuni scorci del centro storico. Un appunto: la storica "Al cappello" è un'osteria, non una pizzeria!) e una colonna sonora di tutto rispetto, scelta con cura e adatta all'età dei tre ragazzi e alla loro vicenda. Complimenti a tutti.

martedì 5 aprile 2016

La comune

"La comune" (Kollektivitet) di Thomas Vinterberg. Con Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Helene Reingaard Neumann, Marta Sophie Wallstrom Hansen, Lars Ranth, Julie Agnete Vang, Fares Fares, Anne Gry Hennigsen e altri. Danimarca, Svezia, Olanda 2016 ★★★½
Se si esclude Aki Kaurisimäki (un uomo, un mito), il mio approccio al cinema nordico,  e scandinavo in particolare, è da sempre cauto e, lo ammetto, prevenuto: pavento lunghe sedute di lugubri analisi introspettive ed estenuanti onanismi mentali multipli e senza gioia, dunque sono contento che "La comune" abbia smentito i miei timori. Non perché sia divertente (in parte lo è: ma soprattutto è vitale e non funereo) e perché manchi l'aspetto psicologico, tutt'altro: non è previsto un vero happy end e tutto il film si basa sull'interazione delle psicologie dei vari personaggi che animano la comune di cui al titolo. Ossia un gruppo di amici che si trova fare un'esperienza di convivenza nella grande casa di famiglia (con cui aveva rotto anni prima) ereditata da uno di loro, Erik, un docente di architettura all'università di Copenhagen (siamo alla metà degli anni Settanta), inizialmente intenzionato a vendere l'edificio e poi convinto dalla moglie Anna, conduttrice del principale TG della televisione pubblica, a tentare l'esperienza comunitaria che era nelle corde della "meglio gioventù" dell'epoca (ricordo l'esperimento di Christiania, quartiere autogovernato nel cuore della capitale danese iniziato nel 1971, e che parzialmente resiste tuttora). Con Erik ed Anna, che hanno anche una figlia adolescente, Freja, vive un'altra coppia con un bambino con problemi cardiaci, che continua ad autopredire la propria morte a 9 anni, e altri tre singles, tutti sulla quarantina e, tra cene in comune, feste di Natale, assemblee e richiami all'ordine, perché ogni tanto qualcuno non rispetta le regole, o gli impegni presi (a cominciare dalle spese) le cose procedono bene finché l'equilibrio si rompe quando Erik si innamora di Emma, una sua allieva ventiquattrenne che, proprio su insistenza della stessa Anna, la moglie tradita, viene a far parte della cerchia, ma la coesistenza tra le due donne non potrà durare, al di là delle migliori intenzioni, a dimostrazione che la messa in pratica delle più perfette teorie non solo ha prezzi altissimi per la parte soccombente, ma non produce mai gli effetti sperati. L'occhio di Vinterberg è particolarmente acuto nel cogliere le dinamiche individuali e di gruppo e oltre alla bravura degli interpreti (su tutti la Anna di Trine Dyrholm) si avvale della propria esperienza diretta, essendo cresciuto egli stesso in una comune, per averci vissuto dai sette ai diciannove anni, e lo fa con grande obiettività. Il risultato è una pellicola che merita di essere vista, da parte di molti miei coetanei con una certa nostalgia per le utopie nutrite in gioventù, ma  per come saremo messi con le pensioni, ci rifaremo con le comuni di "pantere grigie" entro pochi anni: del resto il co-housing si sta sperimentando da tempo proprio nei Paesi scandinavi e sembra essere una via di scampo quasi inevitabile in alternativa alle case di riposo gestite dal terzo settore...

domenica 3 aprile 2016

La macchinazione

"La macchinazione" di David Grieco. Con Massimo Ranieri, Alessandro Sardelli, Libero de Rienzo, Roberto Citran, Milena Vukotic, Matteo Taranto e altri. Italia 2016 ★★+
Nutro il massimo rispetto per le intenzioni dell'autore, che a suo tempo si era rifiutato di collaborare alla sceneggiatura di Pasolini di Abel Ferrara perché questi avrebbe puntato maggiormente sull'aspetto sessuale nella ricostruzione degli ultimi giorni di vita dell'indimenticato artista, ma non mi pare proprio che in quella da lui operata l'insistenza sulla sua omosessualità sia minore, anzi: vi ho percepito perfino qualcosa di più morboso. Il film racconta i mesi che hanno preceduto l'assassinio di Pasolini, avvenuta la notte del 2 di novembre 1975 al Lido di Ostia, che lo vedevano impegnato costantemente tra le ultime fasi del montaggio di Salò, di cui alcune "pizze" furono trafugate con richiesta di un riscatto (e il tentato recupero delle quali avrebbe comunque avuto a che fare con l'omicidio), la collaborazione al Corriere, la scrittura del suo romanzo postumo "Petrolio" e le ricerche su Eugenio Cefis, presidente prima dell'ENI e poi di Montedison nonché fondatore della loggia massonica P2, il personaggio che lo aveva ispirato, infine le frequentazione di Pino Pelosi, che venne poi ufficialmente incolpato del delitto, il "ragazzo di vita" che non fu soltanto una frequentazione casuale. Ne emerge il rimpianto per la figura di un intellettuale a tutto tondo che aveva capito tutto, pur non avendone le prove, delle trame oscure che avvolgevano il Paese, ma anche la sua perdita d'identità dietro a un'idea di sviluppo esponenziale e basato unicamente su un consumismo senza limiti che coinvolge in generale tutto il mondo occidentale, pronosticando quella globalizzazione che sarebbe diventata il nuovo mantra con l'inizio del nuovo millennio. Il tutto ricreando in modo assai credibile sia l'entoruage di Pasolini, che Grieco, essendone stato collaboratore e amico conosce bene, sia l'atmosfera dei tempi; in più Massimo Ranieri si immedesima completamente nella parte oltre a somigliargli in maniera impressionante fisicamente (ma ne traspare l'accento partenopeo); meritoria è la scena degli incontri col fantomatico Steimetz, l'autore dietro pseudonimo di Questo è Cefis, libro che fu fatto sparire dalla circolazione e di cui Pasolini era riuscito a ottenere una versione fotocopiata, ma altre sono confuse, specie quelle ambientate nel sottobosco malavitoso borgataro con contatti con la Banda della Magliana e al contempo con i servizi deviati, per giungere a un finale in cui sembrano confluire le varie versioni alternative a quella ufficiale. Mentre è senz'altro possibile concordare con Greco sul fatto che la scomparsa di Pasolini abbia fatto comodo a molti e che le indagini siano state condotte in maniera a dir poco parziale e teleguidato omettendo fatti e testimonianze che avrebbero potuto aiutare a ricostruire la verità, trovo carente e abborracciata la maniera con cui si sfilaccia la pellicola nella sua parte conclusiva e cruciale, ossia per un terzo della sua durata, con un effetto "minestrone" che mi ha lasciato più perplesso che convinto su come, secondo l'autore e regista, si sarebbero svolti i fatti. Per un film-verità non mi pare un gran esito, e questo magari è un limite mio. Però non aiutano le interpretazioni che, a parte Raineri e l'ottimo Citran, peccano di una certa grossolanità. 

venerdì 1 aprile 2016

Batman V Superman: Dawn of Justice

"Batman V Superman: Dawn of Justice" di Zack Snyder. Con Ben Affleck, Henry Cavill, Amy Adams, Jesse Eisenberg, Jeremy Irons, Diane Lane, Laurence Fishburne, Holly Hunter, Gal Gadot e altri. USA 2016 ★★-
L'unico vero motivo per cui sono andato a vedere questo film è che, scorrendo tra le recensioni, ho intuito che nel "titanico scontro" tra i due l'avrebbe spuntata il Cavaliere Oscuro, l'uomo-pipistrello ma per l'appunto umano, sul Superuomo alieno venuto da Krypton, che non ho mai sopportato nemmeno da adolescente, emblema perfetto dell'americano all'ennesima potenza: del resto ho sempre preferito di gran lunga Gotham City a Metropolis, Paperino a Topolino, Paperopoli a Topolinia, Londra a New York, Andy Capp ai Peanuts, Eureka a Linus, i Rolling Stones ai Beatles e l'Inter al Milan (tralasciando la  Juventus), però due ore e mezzo senza che la vicenda fosse tenuta in piedi da una trama più che solida e da una sceneggiatura degna di questo nome, piena di incongruenze, con degli interpreti discutibili e poco nella parte, a parte un discreto Ben Affleck come Batman che però perde il confronto con il Christian Bale de Il cavaliere oscuro - il ritorno, per quanto piene di ritmo ed effetti speciali risultano troppe perfino per un "tifoso" ben disposto allo svacco spettacolarizzato come me, specie quando vede comparire pure Wonder Woman dagli inizi del secolo scorso per non parlare dell'assistere al pentimento postumo di Batman/Bruce Wayne (tramutato in questa pellicola in un assassinio sanguinario) alle doppie esequie (ufficiali con la bara vuota e private col cadavere) di Superman/Clark Kent (ma certamente il suo cuore tornerà a battere e risorgerà sulle sue ceneri nell'immancabile sequel). Buchi nel racconto, dunque; svolte incomprensibili, un che di raffazzonato, buoni spunti, come il mutato ruolo dell'informazione e la contrapposizione tra umano e alieno, lasciati cadere, infine interpreti che lasciano a desiderare: oltre a Ben Affleck regge a malapena, e a sua insaputa, lo stolido Henry Cavill, ma soltanto perché rende alla perfezione, per dono naturale, l'inarrivabile stupidità di Superman; la pur valida Amy Adams riesce a far diventare ancora più insopportabile di quanto sia nel fumetto l'indigesta Lois, mentre il Lex Luthor di tale Jesse Eisenberg è una pessima versione caricaturale del Joker di Heath Ledger e, prima, di Jack Nicholson. Insomma, alla fine il Christopher Nolan della trilogia di Batman batte Zack Snyder con un rotondo e indiscutibile 3-0 e questa sfida tra supereroi potete anche risparmiarvela e aspettare che passi in televisione, ché probabilmente è la sua dimensione più adatta.