mercoledì 30 dicembre 2015

Irrational Man

"Irrational Man" di Woody Allen. Con Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley, Meredith Hagner, Ethan Phillips, Ben Rosenfeld, Julie Ann Dowson e altri. USA 2015 ★★★★½
Non ho mai lesinato critiche a Woody Allen quando confezionava film (specie alcuni di quelli "europei" che parevano commissionati dagli uffici turistici delle rispettive location)  che non mi convincevano, proprio per la grande stima che ho sempre nutrito per la sua intelligenza e il suo modo di pensare, ma qui siamo, a mio parere, al cospetto di un gioiello che, in quanto a meccanismo narrativo, dialoghi, ritmo, recitazione, colonna sonora (magica), rasenta la perfezione: questo è fare spettacolo affrontando temi seri, minando alla base il conformismo del politicamente corretto e del luogo comune ma con leggerezza, ironia beffarda e quella punta di cinismo che è il sale dell'intelligenza. Abe Lucas (Joaquin Phoenix perfetto, alla sua migliore interpretazione) è un apprezzato, anticonformista e fascinoso professore di filosofia con tendenze autodistruttive e derive alcoliche che accetta un incarico estivo al Braylin College nel Rhode Island (in realtà si tratta del Salve Regina di Newport) e non manca di sedurre studenti e colleghi proprio grazie alla sua personalità sofferta, tenebrosa e introversa, in particolare Rita Richards, una professoressa di chimica tipo pantera che sarebbe ben lieta di sfuggire tramite lui a un matrimonio piatto e infelice, magari in direzione Europa, e Jill Pollard, la studentessa più brillante del suo corso, oltre che promettente pianista, attratta da lui benché felicemente fidanzata, che diventa la sua migliore amica e perfino, nonostante le resistenze di lui, qualcosa di più. Nonostante ciò le tendenze nichiliste e il suo disinteresse alla vita (e persino al sesso) sembrano avere il sopravvento fino a quando, per puro caso, mentre sono a pranzo in un diner, ascolta di nascosto insieme a Jill la conversazione che avviene al tavolo vicino e che riguarda la triste vicenda di una donna a cui verranno sottratti i figli per colpa dei maneggi di un arrogante giudice di famiglia amico dell'ex marito, tale Spangler. Abe ha l'illuminazione: intravede la possibilità, attraverso l'azione, di mettere in pratica gli insegnamenti sulla morale filtrati dai suoi filosofi preferiti, da Kant a Kirkegaard, a Heidegger ad Hannah Arendt, e attraverso essa ridare un senso alla sua esistenza, cercato invano attraverso anni di impegno politico e umanitario, oltre che nell'insegnamento teorico. Per evitare che il post diventi uno spoiler, mi limito a dire che da lì in poi il film prende la piega di una dark comedy con un finale nettamente noir e a sorpresa che fa gridare al genio. Perché questo è, senza alcun dubbio, Woody Allen, ottantenne in splendida forma, che non è vero che ripeta invariabilmente sé stesso (in questa occasione ho contato perfino tre persone di colore tra le comparse!), semplicemente si pone da una vita, in forme e contesti diversi, le poche, fondamentali domande che qualsiasi mente dotata di coscienza e del lume dell'intelligenza si pone da quando esiste l'umanità. E lo fa con la dovuta ironia e disincanto, ben sapendo quanto della nostra esistenza sia affidato al caso, anche e soprattutto quando siamo noi stessi a innescarlo.

giovedì 24 dicembre 2015

Il ponte delle spie

"Il ponte delle spie" (Bridge of Spies) di Steven Spielgerg. Con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Sebastian Koch, Alan Alda, Peter McRobbie, Austin Stowell, Billy Magnussen e altri USA 2015 ★★★
Il film è fatto bene, forse un po' troppo lungo e a tratti lento (la mano dei fratelli Coen nella sceneggiatura si nota anche da questo), la storia (vera) avvincente, le capacità di Spielberg non si discutono però rimane pur sempre un'americanata. Il solito vecchio western in chiave Guerra Fredda, dove ci sono il buono e il cattivo, anzi: malvagio, col marcio che qualche volta fa capolino anche dalla parte dei "giusti", così come l'umano, a piccole dosi, nel regno del male, ma soprattutto c'è l'eroe puro sí come un giglio, portatore di tutte le Virtù Americane, compresa quella di poter denunciare (con il dovuto garbo, va da sé, e correttezza politica) anche le piccole pecche che affliggono perfino il Migliore dei Sistemi Possibili. In questa parte Tom Hanks è perfetto, con il suo volto infantile a dispetto dell'età ormai del dattero, e il nasino a patata all'insù da vero Americano d'Origine Irlandese, che già impersona da sé il riscatto dalla miseria del self-made-man e tutta la menata del Paese delle Infinite Possibilità che spunta lungo tutto l'arco della maratona da 140 minuti di pellicola; bravo, ma ancora più bravo di lui Mark Rylance, nella parte di Rudolf Abel, una spia sovietica scoperta e arrestata a Brooklyn nel 1957, in piena Guerra Fredda, assistito dall'Eroe Americano nei panni dell'avvocato Donovan (Hanks), un esperto di assicurazioni che viene nominato difensore d'ufficio, che intravede in lui il lato umano oltre alla possibilità di poterlo scambiare in un futuro con un'eventuale spia americana che dovesse finire nelle mani dei sovietici, e così riesce a convincere il giudice a evitargli la condanna a morte. Preveggente, perché l'occasione si presenta qualche anno dopo, quando i russi abbattono un aereo-spia statunitense (una scena da manuale, e per me bellissima ma mai come quella dell'attacco giapponese in Pearl Harbor, che mi procura orgasmi ogni volta che lo rivedo) catturandone il pilota e il governo, nelle pesti, si ricorda di lui, e così Donovan viene convocato dalla CIA e incaricato di procedere al negoziato per lo scambio ma senza copertura. Da New York la scena si sposta a Berlino, ricostruita in maniera esemplare, proprio nel momento in cui viene alzato il famigerato muro, che dal 1961 per 28 anni isolerà la parte Ovest della città dal resto della DDR (perché è questo il modo corretto di descrivere la vicenda, non il luogo comune della "città divisa in due", come per pigrizia mentale si suole dire) e Donovan riuscirà nel miracolo di inserire nel "pacchetto" anche un altro cittadino americano, uno studente americano tanto stupido quanto sprovveduto da farsi arrestare pretestuosamente dalla Stasi, che non vede l'ora di inserirsi nella trattativa per veder riconosciuto, assieme al suo ruolo, anche il Paese, almeno di fatto, dalla potenza avversaria. Naturalmente tutto è bene quel che finisce bene, e lo scambio si fece come voleva Donovan, pago uno e prendo due, e avvenne anche nella realtà il 10 di febbraio del 1962 sul Ponte di Glienicke (da cui il titolo del film), e nello stesso luogo ne seguirono altri. Va da sé che a Est ci sono solo fanatici, nazistoidi, psicolatici, subumani, idioti, facce lombrosiane: un repertorio caricaturale già visto e rivisto, talmente manicheo da far perdere credibilità anche a una storia tratta dalla realtà: questo se uno ha un minimo di onestà intellettuale (cosa che a Spielberg fa notoriamente difetto), mentre va detto che il punto di forza del film sono l'ambientazione, fedele e realistica fin nei minimi dettagli, e la fotografia. Insomma, come americanata, e film per le feste, non è niente male e a prescindere dall'intento propagandistico, nemmeno così subliminale, considerati il periodo, la situazione  "sul campo" e l'avversario, che alla fine dei conti rimane sempre lo stesso. 

lunedì 21 dicembre 2015

Simply The Beast


"Intervento" (notare la plasticità) di Felipe Melo, centrocampista brasiliano, 32 anni e professionista da 15, "Atleta di Cristo", su Lucas Biglia, appena 3' dopo aver causato il rigore del definitivo vantaggio della Lazio su un'Inter in forcing che aveva rimontato lo 0-1 iniziale, per uno stupido quanto inutile fallo in area. Complimenti vivissimi a lui e a Roberto Mancini che l'ha voluto e schierato stasera assieme a un altro inetto, Martín Montoya, escludendo dalla formazione iniziale i due titolari più in forma, Adem Ljajić e Marcelo Brozović. Un "gesto atletico" e un colpo di genio che secondo me costeranno alla Beneamata il 50% delle possibilità che aveva di conquistare lo scudetto. Spero di essere smentito da qui a maggio...

sabato 19 dicembre 2015

Perfect Day

Perfect Day (A Perfect Day) di Fernando León Aranoa. Con Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Melanie Thierry, Fedia Štukan, Eldar Residović, Sergi López. Spagna 2015 ★★★★½
Film pressoché perfetto, quello dello spagnolo Fernando León Aranoa, a differenza della giornata di un gruppo di quattro cooperanti in Bosnia nel 1995, alla vigilia dell'Accordo di Dayton che pose fine alle guerre jugoslave (ma non alle loro conseguenze), capeggiato dal veterano Mambru (Del Toro) e che comprende B, un anarchico refrattario a qualsiasi regola (Tim Robbins), una ingenua ragazza francese al suo primo incarico operativo, l'interprete Damir e la bella ed energica Katja, ispettore dell'organizzazione umanitaria, la cui presenza è particolarmente imbarazzante perché ha avuto in passato una storia con Mambru, attualmente fidanzato ufficialmente, ma anche perché è venuta a valutare la missione e, probabilmente, a "tagliarla" dal suo programma. Film pacifista che ha tra i suoi predecessori pellicole illustri come "M.A.S.H." e "Underground", si colloca alla loro altezza pur non avendone, volutamente, la carica satirica e dissacrante, ma affrontando con un'ironia più leggera le assurdità e le tragiche conseguenze della guerra attraverso la quotidianità più ordinaria di un'umanità che resiste al di là di ogni sconvolgimento. La missione di cui è incaricato l'eterogeneo gruppo nell'arco delle 24 ore raccontate dal film è il recupero da un pozzo del cadavere di un uomo incredibilmente grasso, probabilmente gettatovi dai nemici per avvelenarne le acque, ma la corda che serviva per estrarlo si rompe e la ricerca di un'altra è impresa tutt'altro che facile in quella zona disastrata dal conflitto, e dà il via a una serie di vicende che nella loro banalità assumono connotati che vanno dal grottesco al tragico, all'assurdo, e che vengono affrontate dai protagonisti con un sorriso sulle labbra che non ha nulla di superficiale e supponente ma è funzionale a risolvere le difficoltà con realismo e buon senso, oltre a essere l'unico modo per farsi forza e riuscire a intervenire e interagire nella loro attività di "idraulici delle catastrofi", e delle guerre in particolare. Tutto funziona in "Perfect Day": dalla sceneggiatura, tratta dal romanzo Dejarse llover di Paula Farías, ispirato alle sue personali esperienze in Medici Senza Frontiere, alla fotografia, agli interpreti (compreso il piccolo Eldar Residović), alla potente colonna sonora. Un film poetico e antiretorico che racconta la faccia autentica dell'aiuto umanitario, dei cooperanti in carne e ossa, al di là delle beghe delle loro stesse organizzazioni per non parlare di quella più inutile, soprattutto nel caso specifico: l'ONU, in tutta la sua impotenza e nell'idiozia nefasta del suo apparato militare. Da non perdere. 

giovedì 17 dicembre 2015

La ramificazione del pidocchio

Stefano Ricci e Gianni Forte
"La ramificazione del pidocchio" di Ricci/Forte per "Viva Pasolini!". Regia di Stefano Ricci; con Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Liliana Laera, Ramona Genna, Simon Waldvolgel, Alessia Siniscalchi; assistenti alla regia Liliana Laera e Ramona Genna; trainer ensemble Marta. Produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG in coproduzione con Ricci/Forte.
Al debutto martedì scorso al Teatro San Giorgio di Udine, la serie di performance di ieri sera (30' per ogni sessione, 20 spettatori alla volta) è stata preceduta da un istruttivo e fruttuoso incontro con i due autori e con i componenti dell'ensemble "a fisarmonica" che ne porta il nome, sei in questa occasione, curato dal critico teatrale del "Piccolo" Roberto Canziani (questo l'interessante suo blog sul quotidiano on line), due persone estremamente disponibili e alla mano che senza fronzoli e tirate intellettualoidi hanno illustrato il loro modo di intendere il teatro (o meglio: la comunicazione per mezzo dell'espressione in forma artisitca) rispondendo a ogni tipo di domanda. Agli spettacoli di Ricci/Forte si partecipa, non vi si assiste solamente, e mai come in questo caso l'emozione per chi vi prende parte è intensa e lascia il segno, come hanno testimoniato numerosi interventi di spettatori che erano stati presenti in occasione della serata precedente, e come è successo anche a me, dopo essere entrato in una sorta di spazio-palestra dove si viene accolti dal gruppo dei performer, quattro donne e due uomini, vestiti da tenniste e che impugnano un pettine anziché una racchetta. Si immagina di trovarsi nel vagone di un treno: non di quelli a scompartimenti di un tempo, che lasciavano la possibilità di interagire con gli altri compagni di viaggio, ma di quelli scomodi, squallidi, asettici e raggelanti delle attuali "Frecce", in cui è impossibile perfino aprire un finestrino, l'ennesimo non luogo di cui si fruisce per essere trasportati da un non luogo a un altro pressoché identico. Immersi come in una specie di acquario, circondati da una umanità istupidita e frastornata, che non interagisce ma al massimo trasmette tramite mezzo elettronico la testimonianza della propria passiva esistenza, magari scattando un selfie della propria faccia-patata, si colgono qua e la frammenti di discorso, echi di esistenze ed eventi passati, che per qualcuno dei partecipanti fanno parte della propria esperienza diretta, mentre per i più giovani possono ritrovarsi, ad esempio, nell'opera di Pasolini (il titolo, geniale, è preso tratto da un frammento di "Petrolio", il suo romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1992), l'intellettuale italiano più attivo nel dopoguerra e più consapevole, già mezzo secolo fa, della mutazione antropologica che aveva colpito come un'infestazione inarrestabile, con l'avvento della società dei consumi, anche un popolo così ricco di tradizioni e storia come quello italiano, e di cui il modello televisivo era l'espressione più evidente nonché il mezzo di omologazione più devastante. L'interazione, inizialmente soltanto attraverso gli sguardi, in questo spazio reso così fluidamente "ormonale" dalla presenza fisica degli altri e dalle movenze degli attori, e contrassegnato da quattro pezzi musicali di stile completamente diverso (il mixer è azionato personalmente da Stefano Ricci), diventa ad un certo punto contatto fisico a cui inevitabilmente ci si lascia andare quando "scoppia qualcosa dentro il cuore" (cfr Mina). Dopodiché, resisi conto dell'incubo in cui stiamo vivendo, non rimane che la necessità di "tornare a casa", per ritrovare in sé stessi, o negli ultimi brandelli di memoria e testimonianza sopravvissute, capacità, forza e motivazioni non tanto e non solo per "resistere" a una realtà di plastica, diventata più virtuale che umana, ma per superarla tornando a comunicare e a diventarne attori. 
Al "Teatro San Giorgio" di Udine stasera alle 19.30, 20.30, 22.30; domani e sabato alle 19.30, 20.30 e 21.30. 
Prossimo appuntamento con Ricci/Forte dal 28 al 31 gennaio 2016 al "Palamostre" di Udine con "PPP Ultimo inventario prima di liquidazione"

martedì 15 dicembre 2015

Hanno la faccia come il culo


Oggi sul Messaggero Veneto (Gruppo Editoriale L'Espresso). Ora: io non conosco le tariffe di un'inserzione a colori a piena pagina sul quotidiano friulano, e quantunque non sussistano gli estremi di un ricorso al garante per pubblicità mendace oppure offensiva, sono ampiamente superati quelli di insulto alla decenza. Complimenti vivissimi all'editore e alla direzione del giornale.

sabato 12 dicembre 2015

Un posto sicuro

"Un posto sicuro" di Francesco Ghiaccio. Con Marco D'Amore, Giorgio Colangeli, Madtilde Gioli. Italia 2015 ★★★+
Il "posto sicuro" è quello che Eduardo, aspirante attore della provincia di Napoli, ha accettato in cambio di un lavoro al Nord, come operaio alla Eternit di Casale Monferrato, che assicurasse a lui e alla sua famiglia un livello di vita dignitoso. Dopo una vita in fabbrica, vedovo in pensione, da anni ha interrotto i rapporti col figlio Luca, a sua volta attore in crisi che si arrangia facendo il pagliaccio alle feste, quando quest'ultimo viene a sapere che il padre ha contratto il mesotelioma, un tumore alla pleura causato dalla polvere d'amianto presente non solo nello stabilimento ma nel resto del territorio, che ha provocato una strage nel Casalese, oggetto di un processo-simbolo di questi anni, e che gli rimangono pochi mesi di vita. Ha appena conosciuto Raffaella, una ragazza con cui ha avuto un vero e proprio colpo di fulmine, ma la allontana senza spiegazioni decidendo di dedicarsi all'assistenza del padre, con cui il rapporto, aspro e conflittuale, si ammorbidisce man mano che l'uomo, che aveva trascurato moglie e figlio dedicandosi ossessivamente al lavoro, si apre e gli racconta delle vicende della fabbrica, delle polveri che erano ovunque e della cui pericolosità nessuno era al corrente, tranne i massimi dirigenti dell'azienda, e nemmeno quelli locali, che vivevano nei pressi dello stabilimento. E così ne prende coscienza anche Luca, che inizia studiare l'ampia documentazione su tutta la vicenda e, con l'aiuto del padre, rimette in sesto un teatrino della città con l'intento di allestire uno spettacolo sull'argomento coinvolgendo anche i famigliari delle vittime (che partecipano anche al film oltre ai tre bravi protagonisti), gli stessi che abbiamo visto in azione al processo di Torino. Fra alti e bassi, tra cui crisi depressive con eccessi alcolici, riuscirà nell'intento, grazie anche a Raffaella, che riesce a riallacciare il rapporto con lui e a dargli fiducia. Film di denuncia e di riflessione che intreccia le vicende personali di due solitudini, un uomo vecchio stampo e per bene e un precario di oggi privato dei suoi sogni, con un'altra più grande e orribile, con processi che durano all'infinito (quanto i danni dei manufatti cancerogeni prodotti dall'Eternit, guarda caso così difficili da smaltire) e una presa di consapevolezza collettiva dopo anni di silenzi e di inganni da parte di chi sapeva e non ha fatto nulla, soffre di qualche lungaggine e di spunti melodrammatici che possono apparire eccessivi ma è rigoroso, efficace, con una fotografia e un'ambientazione accurate. Francesco Ghiaccio, alla sua prima regìa, essendo casalese sa di cosa parla e l'esordio alla scenografia di D'Amore è altrettanto incoraggiante, così come la sua interpretazione e quella della brava, bella e intensa Matilde Gioli, già protagonista ne Il capitale Umano di Virzì in un ruolo simile, ma su tutti spicca Giorgio Colangeli, attore che finalmente comincia a trovare lo spazio che si merita ampiamente da anni.

giovedì 10 dicembre 2015

Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente"

"Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente" di Daniele Luchetti. Con Rodrigo de la Serna, Sergio Hernández, Muriel santa Ana, José Angel Egido, Alex Brandemühl, Pomeyo Audivert, Paula Baldini. Italia 2015 ★★★-
E' già sorprendente che io vada a vedere un film su un pontefice (Habemus Papam era un'altra faccenda), ancora di più che non mi sia dispiaciuto, benché Luchetti per me rappresenti comunque una seria garanzia. In questo caso che, checché ne dicano alcuni critici, non cadesse nell'agiografia, che pure era in agguato trattandosi di una produzione Medusa prevista anche in versione di Serie TV: quattro puntate da 50' che andranno in onda l'anno prossimo sulle reti Mediaset. E questo spiega uno dei lati negativi del film, frutto  evidente di un fitto lavoro di taglia-e-cuci che non giova al suo equilibrio e a un ritmo narrativo interno fluido. A parte le scene iniziali, che vedono Bergoglio giunto a Roma per il conclave che lo eleggerà Papa domandarsi, alla vigilia del medesimo, che cosa ci stia a fare lì, riflettendo sulle tappe della sua esistenza che ve lo hanno portato, e quelle finali, dove alla risata liberatoria dell'attore che lo interpreta al giorno d'oggi, il cileno Sergio Hernández, segue il Bergoglio in carne e ossa in filmati d'archivio durante il suo primo discorso dal Balcone su Piazza San Pietro, il film è in tutto e per tutto argentino, e non soltanto perché è stato girato a Buenos Aires e con attori prevalentemente argentini, raccontando le fasi salienti della vita e della carriera di Jorge Mario Bergoglio, figlio, come una gran parte della popolazione, di immigrati italiani (piemontesi e liguri nel suo caso), ma anche per lo stile e, soprattutto, per i contenuti. Questo è il suo pregio ma racchiude in sé un difetto: il film può piacere, per la sua onestà, veridicità, per i riferimenti più o meno impliciti, a chi conosce bene quel Paese e la sua storia recente, almeno dal 1955 (anno del golpe che cacciò Perón, nonché della mia nascita) in poi, e in particolare abbia respirato quelle atmosfere, e a chi ne abbia seguito con ansia le sorti negli anni più duri, perché vi era nato, vissuto o aveva parenti o amici che stavano lì, col rischio di rimanere inghiottiti nel gorgo della repressione e sparire nel nulla, quelli dell'ultima dittatura militare, dal 1976 al 1983, su cui si sofferma gran parte della pellicola, dopo aver raccontato quelli giovanili che precedettero la vocazione, quando Bergoglio era un normalissimo studente di chimica, con amici peronisti e "sovversivi" e tanto di fidanzata. Erano anche gli anni, dal 1973 al 1979, in cui fu, nonostante la giovane età, provinciale (ossia responsabile) per l'Argentina dell'ordine dei gesuiti, e che furono al centro delle critiche a lui rivolte per non aver "coperto", con la sua autorità, alcuni sacerdoti esponenti della Teologia della Liberazione, attivi nelle vilas miseria e invisi al regime di Videla. In realtà Bergoglio era dichiaratamente ostile alla "Teologia" e si era limitato, per ordini superiori, ad "avvertire" del pericolo questi preti, tra cui un suo stesso docente; al contempo ne salvò altre decine, oltre a seminaristi e perseguitati per motivi politici, secondo concordi testimonianze, nascondendoli nel collegio da lui diretto e a proprio rischio e pericolo; in particolare il film racconta la sua amicizia profonda con una giudice che si occupava di diritti civili, che salvò dalla desaparición, e quella di lunga data con Esther Ballestrino, professoressa di biochimica marxista e femminista, che fu una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo (sua figlia fu sequestrata incinta di tre mesi e liberata grazie all'intercessione di Bergoglio) e "scomparsa" nel dicembre del 1977, probabilmente vittima di un "volo notturno" e gettata, come altre migliaia, nel Rio de la Plata. E' questa personalità combattuta, tra fedeltà agli ordini superiori e pulsioni solidaristiche; tra spiritualità e umanità (il cibo, il vino, il calcio, l'amicizia, le donne, il tango: quello dei clubes sociales e delle milongas de barrio), tra capacità organizzativa e predisposizione naturale al comando (non è stato eletto superiore dei Gesuiti per caso) e capacità di mediazione (vedi il suo lavoro coi villeros del centralissimo "Barrio 31", quando fu richiamato a Buenos Aires come vescovo ausiliario dall'arcivescovo Antonio Quarracino, suo predecessore in quella carica, dopo l'esilio cordobese) che viene raccontata efficacemente nel film e che ne emerge, grazie anche alla potente interpretazione di Rodrigo de la Serna che lo impersona negli anni giovanili, che già aveva dato il volto ad Alberto Granado, compagno di Che Guevara ne I viaggi della motocicletta e al calciatore Claudio Tamburrini in Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977. Insomma, manca qualcosa, ma rimane un film più che accettabile e utile a capire il personaggio, e anche un po' il Paese da cui proviene. Così lontano ma così vicino, per mentalità, pregi e difetti. E motivi genetici. 

martedì 8 dicembre 2015

Commenti Lepenosi


Pur condividendo con Marco Travaglio soltanto il nome, e non certo la visione politico-economica, più di una volta sono rimasto stupito di quanto i suoi  editoriali esprimessero esattamente il mio modo di vedere, ma mai come stamattina davanti al fondo del Fatto Quotidiano, che attacca con queste parole: Che palle questa storia del “populismo”. Ogni volta che qualcuno sgradito all’establishment vince le elezioni, i giornaloni innestano il pilota automatico e gli danno del “populista”: esattamente le stesse che avevo usato anch'io ieri mattina quando, poco prima delle 8, mi ero sintonizzato su Radio Capital (Gruppo Repubblica-L'Espresso) e, nel corso della rubrica mattutina "All News", ho ascoltato il solito banale, cloroformizzante Stefano Folli commentare pappagallescamente i risultati delle elezioni amministrative francesi che hanno visto il Front National di Marine e Marion Le Pen sfiorare, a livello nazionale, il 30% dei voti affermandosi come il primo partito, superando il cosiddetto centrodestra di Sarkozy e sotterrando i socialisti al governo e altri scampoli della "sinistra". Considerando che il FN ha ottenuto i maggiori successi laddove la crisi economica ha morso di più, e non nella regione dell'Île de France in cui si trova Parigi, si può dedurre che l'effetto "traino" della risposta al terrorismo in seguito ai recenti attacchi dell'Isis nella capitale abbiano pesato poco o nulla, mentre è stato decisivo, eccome, il tasso di disoccupazione. Folli è solo uno dei tanti tromboni, e neppure il capofila, di tutta una genìa di notisti politici che comprende i vari Ostellino, Cazzullo, Battista, Franco, Sorgi, Polito, e chi più ne ha più ne metta, che passano per esperti e "indipendenti" ma hanno trascorso tutta la loro esistenza da saprofiti a ridosso delle stanze del potere e che sistematicamente si schierano, a prescindere, dalla parte del governo in carica di qualunque colore esso sia, giustificandone ogni mossa in nome del "pragmatismo", della "concretezza", a fronte della velleitarietà di chi è bravo solo a fare opposizione "perché è facile quando non ci si assume la responsabilità del fare" anche quando, come nel caso del fanfarone fiorentino e prima di lui dell'imbonitore brianzolo, tutto l'attivismo si riduce all'annuncio e alla chiacchiera. Folli (nomen omen) vaneggia di vittoria populista equivocando sul termine corretto che sarebbe semplicemente "popolare" perché il Front National, piacendo o no, dà quelle risposte che, specie davanti a una crisi economica e sociale che covava da decenni ed è scoppiata globalmente nel 2008, nessuno dei governi europei, di destra, centro, sinistra o di ampia coalizione che fossero, in quanto a sovranità limitata e succubi dell'élite finanziaria e oligopolista che li manovrano, è stato in grado di fornire. Anzi: le loro politiche sono andate in senso opposto, facendone pagare gli effetti a chi già era stato vittima di diseguaglianze sempre più abissali. Medesima reazione pavloviana, con l'evocazione del "pericolo autoritario", ce l'hanno anche coloro che, su una sponda diversa, hanno visto nella sconfitta della Kirchner e di Maduro in Venezuela un "pericolo per le conquiste democratiche (?) dell'America Latina", come se peronismo e chavismo non fossero populismo fascistoide allo stato puro: mi viene in mente Maurizio Chierici che, massacrando sistematicamente la grammatica e la sintassi della lingua italiana, ci ammannisce da trent'anni la saga dei trionfi di ogni sedicente revolución sull'orbe terracqueo. Facendo equazioni a capocchia tra Front National e la Lega nostrana, si tralasciano le origini "federaliste" (si fa per dire) del movimento creato da Bossi nonché il fatto che questa sia stata al fianco di Berlusconi in tutti i suoi governi dal 1994 al 2011 nonché tuttora alla guida delle regioni italiane economicamente più "pesanti", e la sua versione salviniana, peraltro accreditata dai media nazionali in cerca di un finto avversario a fare da contraltare all'altro Matteo, non fa che confermarne la beceraggine. Credo che abbia ragione Marine le Pen a considerare il proprio partito il solo vero "Fronte Repubblicano", nella più schietta tradizione gollista, con cui l'ex UMP di Sarkozy, ribattezzato per l'occasione "Republicains", non ha nulla a che vedere, e a dire che i socialisti si sono suicidati da soli: la politica economico-sociale proposta del FN è sicuramente più progressista di quella messa in atto dal governo attuale e capace di convincere i lavoratori salariati che votavano la gauche. Così come non è del tutto sballata l'analisi che fa Gianfranco Fini (e ci si domanda perché, dato che l'uomo è tutt'altro che stupido, oltre a predicare - talvolta - bene abbia costantemente razzolato male) e meno ancora quella di Marcello Foa sul Giornale. Quanto ai "commenti" di Folli su Radio Capital e al fatto che potrei fare a meno di ascoltarne i notiziari, a favore dell'emittente diretta dal buon Vittorio Zucconi (con cui non sono quasi mai d'accordo) e della sua ecumenicità c'è che sono controbilanciati dalle lucide analisi di Massimo Rocca, di cui vi propongo l'ultimo "Contropelo", prodotto nella giornata di ieri: La costoletta della sinistra.
Ve lo ricordate quando il lider Massimo diceva che la Lega era una costola della sinistra? Lui, paternalisticamente, pensava di aver trovato la risposta al problema politico mangiando sardine con Bossi. E invece il problema era quello sociale, che si sarebbe divorato lui, e tutta la sinistra, come fosse un’acciughina. Perchè la costola non era Bossi, così come oggi in Francia non lo è Marine-Marion-Marianne. La costola sono gli spiazzati e gli spezzati dal fenomeno della globalizzazione a tutti i livelli. Sono quelli che vorrebbero mettere in mutande i vertici di Air France e non trovare il presidente socialista della repubblica schierato con i licenziatori e non con i licenziandi, così come vorremmo trovare presidenti del consiglio e sindaci di Roma con i lavoratori del Colosseo senza stipendio, e non con chi quello stipendio non ha pagato. Del resto se la Confindustria francese lancia l’allarme democratico contro Marine, voi credete che voglia difendere la democrazia o i profitti? Io qualche dubbio ce l’ho. Se tu butti il lavoro e i lavoratori come fossero una costoletta mal cotta, non puoi certo prendertela con il cane che la raccatta e se la porta via.

venerdì 4 dicembre 2015

Mr Pùntila e il suo servo Matti


"Mr Pùntila e il suo servo Matti" di Bertolt Brecht, traduzione di Ferdinando Bruni. Con Ferdinando Bruni, Elena Russo Arman, Luciano Scarpa, Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Luca Torraca, Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Umberto Petranca, Matteo De Mojana, Francesca Turrini, Carolina Cametti, Francesco Baldi. Regia e scene di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; costumi di Gianluca Falaschi; musiche originali di Paul Dessau, arrangiamenti di Matteo De Mojana; luci di Nando Frigerio; suono di Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 31 dicembre.
In una stagione che vede la riproposizione di molte opere di Bertolt Brecht, in occasione del sessantenario della morte (14 agosto 1965), un merito particolare spetta al Teatro dell'Eflo che si cimenta per la prima volta in una produzione in proprio di un'opera del grande drammaturgo tedesco (il memorabile "Anima buona di Sezuan" con Mariangela Melato del 2009 a firma Bruni-De Capitani era stato realizzato per il Teatro Stabile di Genova) affrontando "Mr Pùntila", una commedia popolare particolarmente felice, scritta nel 1940 ma messa in scena per la prima volta nel 1948 a Zurigo al ritorno in Europa dell'autore dall'esilio negli USA e raramente in Italia. Con la collaborazione di Francesco Frongia, Ferdinando Bruni lo fa adattandola alle caratteristiche proprie e a quelle tipiche della compagnia milanese, particolarmente a proprio agio quando si può esprimere in una forma di spettacolo totale dove, nella migliore tradizione degli "elfi", la musica ha una parte fondamentale, e qui curata da Matteo De Mojana con suoi frequenti interventi anche dal vivo e intermezzi canori affidati al "coro" formato dai quattro personaggi femminili secondari. La vicenda ruota attorno alla schizofrenia del personaggio principale, interpretato a meraviglia dal proteiforme Ferdinando Bruni, Mr Pùntila, un ricco possidente tanto amabile da ubriaco, quando tratta da pari a pari i propri dipendenti fino al punto da voler far sposare la figlia Eva (una Elena Russo Arman in grande forma) al proprio autista Matti (l'ottimo Luciano Scarpa), quanto odioso e dispotico nelle (rare) fasi da sobrio, quando infierisce di vessazioni i propri dipendenti e vuol far maritare Eva a un giovane diplomatico cacciatore di dote vacuo e vanesio. Per la fortuna di Pùntila e dei suoi sottoposti, il saggio Matti, che lo conosce come le proprie tasche, riesce a tenere a bada gli sbalzi caratteriali del suo datore di lavoro limitando che abbiano effetti letali per lui e per il prossimo. Come tutti i testi di Brecht l'intento di parabola è evidente quanto attuale, e senza bisogno di particolari riferimenti alla realtà odierna, denunciando la doppia faccia del capitalismo e rendendo evidente la coesistenza tra bene e male, tra buone intenzioni e pessime concretizzazioni. Ispirato esplicitamente a "Luci della città" di Chaplin secondo le dichiarazioni dello stesso Brecht, Mr Pùntila si rifà altresì sia a "Dottor Jackyll e Mr Hide" sia, nel rapporto tra "padrone e servo", a precedenti come Don Chisciotte e Sancho Panza e Don Giovanni e Leporello e, come hanno icasticamente sottolineato Bruni e Frongia, Karl Marx vi incontra il proprio fratello (ed alter ego) Groucho. Una divertente commedia popolare in cui il chiaro 'intento didascalico non diventa mai pedante grazie alla sua scorrevolezza e facilità di lettura, esaltata dal brio e dall'efficacia della rappresentazione degli Elfi, che ha avuto riscontro dall'accoglienza caldissima di un pubblico particolarmente folto e divertito. 

mercoledì 2 dicembre 2015

Dio esiste e vive a Bruxelles

"Dio esiste e vive a Bruxelles" (Le Tout Nouveau Testament) di Jaco Van Dormael. Con Pili Groyne, Benoït Poelvoorde, Catherine Deneuve, François Damiens, Yolande Moreau, Laura Verlinden, Serge Larivière, Didier de Neck, Marco Lorenzini, Romain Gelin, Anna Tenta, Johan Heldenbergh. Lussemburgo, Francia, Belgio 2015★★★★
Non sapevo nemmeno che esistesse una comicità belga, e invece esiste eccome, così come esiste dio, nella versione di Van Dormael, e ha la faccia stralunata di Benoït Poelvoorde: un dio carogna, dispettoso, stronzo, misogino, che vive chiuso in un appartamento blindato passando il tempo a guardare partite di hockey su ghiaccio in TV e aggirandosi in per casa in ciabatte e canotta e vestaglia, che "dirige le operazioni" tramite computer da una stanza off limits elaborando le "leggi universali della sfiga" e mettendole implacabilmente in atto a spese degli umani mentre si gonfia di birra. Con lui vivono una moglie succube, che si limita a fare pulizie, servirlo e a essere taciturno oggetto del suo disprezzo, e la figlioletta ribelle Ea, che si fa paladina dell'umanità oppressa seguendo le orme del fratello JC, un Gesù Cristo uguale a quello parlante della sagra Don Camillo e Peppone, a sua volta sfuggito alle grinfie del padre per finire crocifisso, che le rivela la maniera di scappare dall'incubo claustrofobico di quell'appartamento: l'oblò di una lavatrice. Così Ea prima entra di soppiatto nella stanza "sala comandi" dopo avergli sottratto le chiavi del sancta sanctorum approfittando di una dormita post sbronza del genitore, manomette il PC, svela il sadismo del padre spedendo a ogni individuo un SMS in cui rivela la data di morte la lui programmata e esce nel vasto mondo (la piovosa capitale belga), dove nel frattempo ognuno si è messo a pensare a come occupare i giorni che gli restano da vivere seguendo le proprie più intime inclinazioni e senza più condizionamenti, con l'intento di reclutare 6 apostoli che scrivano il Nuovo Nuovo Testamento raccontando, questa volta, la propria vita invece che quella del figlio di dio e che, sommandosi ai 12 di JC (immortalati in una copia dell'Ultima Cena di Leonardo attorno al Maestro), raggiungeranno il numero 18, fatale per attivare le potenzialità della moglie del capriccioso e tirannico capo supremo. Incazzato come una belva, anche dio si catapulta nel mondo reale alla ricerca della figlia sperando di convincerla a ripristinare la precedente configurazione del computer, ma oltre a non essere creduto da nessuno, meno che mai dai ministri del proprio culto, è talmente arrogante e insopportabile da diventare inviso perfino a un prete di strada che si occupa di sans papier finendo per essere deportato in Uzbekistan a lavorare in una catena di montaggio mentre a dirigere le cose del mondo lo sostituisce la moglie, svampita ma di buon cuore. Suddiviso in capitoli dal titolo di quelli della Bibbia, il film scorre veloce, beffardo, mai volgare, in forma di fiaba moderna ispirata sia a Chaplin sia ai Monty Python: il divertimento è assicurato e la "morale", ammesso che l'intenzione sia di averne una, è condivisibile da chiunque sia così assennato da non credere a una divinità, almeno per come è dipinta dalle tre grandi religioni monoteiste, un mostro a tre teste che si equivalgono, producendo i medesimi effetti perversi sulla mente degli uomini. E già questo è un merito che va riconosciuto a Van Doemael e rende il film meritevole del prezzo del biglietto di per sé.