lunedì 30 novembre 2015

La felicità è un sistema complesso

"La felicità è un sistema complesso" di Gianni Zanasi. Con Valerio Mastandrea, Hadas Yaron, Giuseppe Battiston, Filippo De Carli, Camilla Martini, Maurizio Donadoni, Teco Celio, Daniele De Angelis, Maurizio Lastrico, Paolo Briguglia, Francesco Diele. Italia 2015 ★★★½
Un film inconsueto, che conferma le qualità di Zanasi, qui regista e co-sceneggiatore, autore non prolifico ma originale: l'ultimo suo lungometraggio, Non pensarci, è del 2007. Come allora, il protagonista è Valerio Mastandrea, nei panni di Enrico Giusti, un "tagliatore di teste" di tipo particolare: individua gli eredi di grandi aziende, i rampolli di seconda generazione generalmente incapaci di gestirle, convincendoli a cedere le loro quote prima di provocare disastri e la riduzione al lastrico di dipendenti e azionisti, alla società per cui lavora, che a sua volta le piazzerà a investitori ritenuti all'altezza, e di godersi la vita facendo come meglio credono occupandosi di quel che sono in grado di fare ma evitando di causare danni irreparabili. Si è inventato insomma un mestiere: non tanto e non solo per vocazione, ma per una sorta di dovere morale, per espiare in qualche modo la colpa del padre, un piccolo imprenditore che, di fronte a un fallimento, ha preferito fuggire in Canada abbandonando lui e il fratello minore Nicola. Un altro "fuggitivo" davanti alle responsabilità, questa volta di un rapporto sentimentale, tantoché Enrico si ritrova tra capo e collo la sua fidanzata, Achrinoam, già studentessa "Erasmus", tornata in Italia a cercarlo. Mentre si trova a gestire la sua imprevista ospite, che nel frattempo ha anche tentato il suicidio, le cose cambiamo repentinamente anche dal punto di vista lavorativo quando Enrico si trova ad avere a che fare con i fratelli Filippo e Camilla, lui ventenne e lei tredicenne, rimasti improvvisamente orfani di due imprenditori trentini vittime di un incidente stradale: nell'interazione con loro, anche a causa dell'inopinata presenza di Achrinoam, che gli tocca far passare come sua assistente, comincia ad apprezzarne le qualità e a vedere le cose in un'ottica differente da quella a cui era professionalmente abituato, quasi paterna nei confronti dei due ragazzi, il che lo porterà da un lato a fare una scelta radicale e dall'altro ad affrancarsi dal conflitto col proprio padre, quello che invece evita il suo socio in affari Carlo, sottraendosi per mezzo dell'eroina al confronto col proprio e con delle domande scomode e più profonde. Buona parte della riuscita del film è affidata alle spalle del protagonista, Mastandrea, che si conferma perfetto nell'interpretare personaggi complessi, dubbiosi, malinconici, capaci di ironia e autoironia senza cadere mai nel ridicolo e nel macchiettismo, così come leggero è il tocco di Zanasi nel raccontare la vicenda, concedendosi qualche tocco fiabesco ad alleggerire le situazioni e avvalendosi di una colonna sonora estremamente puntuale e azzeccata, quasi "sorrentiniana", che finisce per essere uno dei punti di forza di questo film. L'auspicio è quello di rivedere all'opera Zanasi prima che passino altri otto anni.

sabato 28 novembre 2015

Il sole e gli sguardi


"Il sole e gli sguardi" (La poesia di Pierpaolo Pasolini in forma di autoritratto) di Luigi Lo Cascio. Con Luigi Lo Cascio e i disegni di Nicola Console. Scene e costumi di Alice Mangano e Nicola Console; luci di Andrea Bevilacqua; suono Mauro Forte; musiche originali di Andrea Rocca; assistente alla regìa Marco Serafino Cecchi. Una coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Al Teatro san Giorgio di Udine fino al 5 dicembre.
L'assenza di retorica e di intenzione celebrativa è ciò che rende ancora più meritorio il progetto "Viva Pasolini", promosso dal CSS nel quarantennale della sua morte, e di cui fa parte questo intenso e suggestivo lavoro di Luigi Lo Cascio che come e più dello spettacolo di Giuseppe Battiston fa emergere la dimensione lirica che pervade tutta l'opera di Pasolini, anche quella non strettamente in versi; là ci si concentrava su quella in friulano facendosi condurre dal filo della memoria degli anni a Casarsa e rievocando un passato che non può tornare, qui un'analisi appassionata ripercorre tutta la sua produzione, alla ricerca di quei versi e di quelle suggestioni spesso premonitrici che possano aiutare a comporre una sorta di "autoritratto" dell'uomo in carne e ossa con tutte le sue proficue contraddizioni ancor prima che di quell'intellettuale che, alla luce del giorno d'oggi, appare sempre più profetico. Come Battiston, Lo Cascio non si identifica con Pasolini ma ne propone una rivisitazione in chiave poetica, che del resto era quella che meglio lo identificava e comprendeva, come ribadito con forza e disperazione dal suo amico Alberto Moravia il giorno dei suoi funerali; lo fa ricercando spunti tra tutta la sua sterminata produzione lirica e ricorrendo a una capacità di edizione eccellente e mai sopra le righe, che esalta la naturalezza con cui sa porsi, e quindi lo rende un lettore e interprete di testi ideale; così come non è mai pervasiva la sua presenza scenica, che fa della levità e discrezione la sua forza e si avvale efficacemente dell'interazione con l'apparato audio-visuale, e in particolare con gli schizzi magistrali cerati dal vivo su pannelli luminosi da Nicola Console. Folto e attentissimo pubblico, prevalentemente di adolescenti nella serata di ieri: non volava una mosca e la tensione partecipativa era palpabile. Ottimo segno!

giovedì 26 novembre 2015

Dobbiamo parlare

"Dobbiamo parlare" di Sergio Rubini. Con Sergio Rubini, Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone. Italia 2015 ★★★½
Che sollievo vedere a distanza di pochi giorni dalla cocente delusione di Gli ultimi saranno ultimi un bravo attore come Fabrizio Bentivoglio tornare sé stesso, in un film non facile, che si svolge in un unico ambiente, l'appartamento preso in affitto, nel centro storico di Roma, con tanto di terrazza infestata da un gatto invadente, dalla coppia "progressista" composta da Vanni e Linda: lui uno scrittore post sessantottardo in crisi d'ispirazione; lei, trentenne, la sua ghost writer o, come si dice in gergo "negra" che, la sera del loro anniversario (il nono? il decimo?) vengono letteralmente sequestrati da una coppia di amici medici che stanno, ideologicamente e come modo di interagire, al loro opposto. Si tratta di Alfredo, cardiochirurgo di fama, vanesio e nevrotico, di rara e gioiosa volgarità, e Costanza, una collega dermatologa, entrambi al secondo matrimonio, che si tradiscono a vicenda e che vanno a sfogare le loro magagne, a turno e poi in coppia, a casa dei due piccioncini finendo, nell'arco di una lunga nottata in cui viene fuori di tutto, col coinvolgerli al punto che saranno loro a pagare le conseguenze di tutto il subbuglio che hanno creato. Siamo dalle parti del geniale Carnage di Roman Polanski, cui si sono ispirati anche Cena tra amici e il suo ignobile omologo italiano Il nome del figlio della famigerata Archibugi, ma vengono alla mente anche lo splendido La cena dei cretini fino, indietro nel tempo, La terrazza di Ettore Scola. Film di questo tipo, basati sul parlato, possono riuscire soltanto se i dialoghi sono serrati, precisi, cronometrici, scritti da qualcuno in grado di usare le parole con precisione e ironia, e di attori che sanno il fatto loro: è il caso sia di Rubini, che ha curato i testi, sia degli interpreti, in questo caso lui stesso in coppia con Isabella Ragonese nei panni della coppia buonista e de sinistra, e la loro interfaccia "pariolina", avida, politicamente scorretta e senza scrupoli, resa grandiosamente da Maria Pia Calzone e dal bentornato Fabrizio Bentivoglio. Il divertimento è assicurato e si finisce col ridere di sé stessi, perché c'è qualcosa di noi in ognuno dei quattro personaggi all'opera e, soprattutto, le parole sono importanti...

martedì 24 novembre 2015

Batracomiomachia 2015

Mentre nell'aria sfrecciano pericolosamente velivoli di varia natura, e ad altezza d'uomo uccelli paduli di ogni provenienza, neanche la terra è più un luogo sicuro. Son tempi duri...

domenica 22 novembre 2015

Spectre - 007

"Spectre - 007" (Spectre) di Sam Mendes. Con Daniel Craig, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Ben Whishaw, Christoph Waltz, Naomi Harris, Dave Bautista, Monica Bellucci, Andrew Scott e altri. USA 2015 ★★★-
Il voto è di stima, per Sam Mendes come per la maggior parte degli interpreti (Bellucci a parte, ché del resto è un soprammobile, e il paragone con Léa Seydoux in quanto a sensualità e capacità seduttiva è impietoso e imbarazzante, e non certo per la differenza d'età): il film parte a razzo, con ritmo indiavolato, con Bond che agisce senza la copertura del "doppio zero" su istruzioni postume ricevute dalla vecchia M (morta alla fine di Skyfall, l'episodio precedente, che è stato il miglior Bond Movie dopo l'era Connery) al fine di sgominare definitivamente la sempiterna Spectre, che nel frattempo si è specializzata nel crimine informatico, arrivando coi suoi tentacoli perfino ai vertici degli stessi servizi segreti inglesi, sul punto di venire prima unificati sotto il controllo di un nuovo, ambiguo responsabile sul punto di sbalzare il nuovo M, interpretato da Ralph Fiennes, e infine globalizzati e inseriti in un'unica rete mondiale infiltrata, guarda caso, dalla Spectre. L'azione si snoda, freneticamente come sempre, tra Città di Messico, Roma, le alpi austriache e infine un'area desertica del Nord del Marocco: che sia zeppa di incongruenze e poco credibile può stupire soltanto chi non ha ancora capito dopo oltre mezzo secolo, che si tratta pur sempre di una fiaba per bambini più o meno cresciuti, e quindi sulla linea degli "007" storici, e qualcosa dell'atmosfera d'antan la conserva, non a caso, ancora oggi. E del resto tutto il film, come il precedente, si gioca sul conflitto tra un presente proiettato nel futuro e un passato che non può tornare ma con cui bisogna fare i conti, e la cui conoscenza, comprese virtù e vaolori, sono indispensabili anche al giorno d'oggi. Questo riguarda sia lo MI6, il servizio segreto, sia James Bond, di nuovo in fase auotoanalitica, che dopo aver in qualche modo risolto in Skyfall il rapporto con la madre (simboleggiata dalla M interpretata da Judy Dench), ora si ritrova con il lascito del padre, anzi di due padri: il suo, perso in un incidente in montagna quando era un bambino di otto anni, e quello della vera Bond Girl di questo "Spectre", Madeleine (una citazione proustiana?), figlia di un "pentito" della Spectre al quale, prima della sua scomparsa per avvelenamento da tallio, promette di proteggerla e che sarà l'unica persona a poterlo portare sulle tracce dell'eterno nemico Stavro Blofeld, un Christoph Waltz sotto tono, probabilmente non sfruttato al massimo, del cui odio implacabile nei confronto di Bond verrà data una spiegazione in chiave psicologico-edipico che non mancherà di sconcertare e far scuotere la testa ai vecchi appassionati del Bond "storico": sbruffone, maschilista, egocentrico, un po' cialtrone. A dare manforte a questo Bond serio e introspettivo un "Q", l'inventore pazzo, in versione giovanile e, sotto traccia, M, oltre all'immancabile Moneypenny, a sua volta diventata una ragazza di colore. Come sempre trionferanno i buoni, ma dopo una cavalcata che si fa sempre più faticosa e stiracchiata col passare dei minuti: Skyfall era un'altra cosa, e anche Eva Green, per quanto Léa Seydoux dimostri di avere un suo perché anche in questa occasione. 

venerdì 20 novembre 2015

Gli ultimi saranno ultimi

"Gli ultimi saranno ultimi" di Massimiliano Bruno.  Con Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi, Ilaria Strada e altri. Italia 2015 
Trascorsi due giorni da quando ho visto questo filmetto, non lo lascio sedimentare oltre perché man mano che passa il tempo cresce l'irritazione e finirei per infierire più di quanto meriti  coinvolgendo nel giudizio anche attori che apprezzo, come i tre interpreti principali e pure quelli di contorno, che hanno fatto del loro meglio. Purtroppo per loro, si sono messi nelle mani di un regista che sarà anche bravo dietro alla telecamera a sfornare prodotti di gusto televisivo, ma che trasposti sul grande schermo, per di più con sbandierati e ambiziosi intenti "sociali" e di denuncia, producono un risultato penoso. Peggio, controproducente: argomenti seri come il lavoro precario e, nel suo ambito e non solo, la condizione di persistente inferiorità femminile; la fragilità (e anche il vittimismo: diciamolo, una buona volta!) di una generazione che finisce per ingoiare tutto; l'inquinamento elettromagnetico e la persistente invadenza della chiesa cattolica nella vita italiana, sono miscelati in maniera così pretestuosa e incongrua in un calderone di luoghi comuni, al cui confronto anche un film non particolarmente riuscito come Noi e la Giulia brilla per originalità e Smetto quando voglio assurge a capolavoro assoluto. Mettiamoci anche la parlata immancabilmente romanesca anche se risciacquata nelle acque innocenti dell'incantevole lago di Bracciano; il fastidiosissimo product-placing (la sponsorizzazione di una operaia precaria a cui non viene rinnovato il contratto a termine perché ha avuto la dabbenaggine di farsi scoprire incinta da parte della Cera di Cupra dice tutto) per non parlare delle riprese da cartolina turistica di Anguillara Sabazia, culminate con quelle della festa del Santo Patrono che è ormai un must della "nuova commedia all'italiana"  e l'onnipresenza della Banca della Tuscia e dell'ACOTRAL, e abbiamo fatto il pieno. Ma non è ancora tutto: perché a furia di buonismo molesto e l'opportunistico "politicamente corretto" (e cagasotto, cinematograficamente parlando ), la protagonista, Luciana (Paola Cortellesi), passa per una perfetta deficiente: non paga di aver sposato e di mantenere Stefano, un giovinastro immaturo, orgogliosamente ignorante, inetto, stupido e irresponsabile (Alessandro Gassman: ma chi te cha fatto fare?) che prima la mette incinta e, proprio nel momento in cui lei va in crisi, la cornifica pure; si affida, implorandolo, a un sindacalista cialtrone per rinnovare il contratto (precario); chiede sempre scusa, implora raccomandazioni, accetta di tutto pur di riavere la propria vita di merda (e una paga altrettanto di merda) fino al punto di "scoppiare" e sottrarre l'arma a una guardia della fabbrica che l'ha silurata, e avere i suoi "cinque minuti di gloria" (e di follia) che almeno si risolvessero in una sacrosanta e liberatoria vendetta, e invece no: nell'implorare in lacrime il viscido quanto arrogante padrone delle ferriere, seppur con la pistola in pugno, di poter tornare a essere una sua schiava. Il suo destino si incontra a quel punto con quello di un altro sfigato, Antonio, un poliziotto veneto catapultato per punizione nell'Alto Lazio (da quando la PS e non i Carabinieri in una cittadina di 20 mila abitanti? Mah!), altrettanto casualmente come il buon Fabrizio Bentivolglio nel suo ruolo, che avrà la sua rivalsa sui colleghi che lo tormentano per un fatto ritenuto "increscioso" dalla mentalità sbirresca. Naturalmente tutto finisce in gloria: Mario, il padre di Luciana, già morto di cancro per radiazioni elettromagnetiche da ripetitori (che sono sempre lì) rivive nel figlio che porta il suo nome; Stefano, quello che andava avanti a cazzeggiare tra "mezzi affari" e scommesse  perché "non voleva stare sotto padrone", si è ravveduto, è diventato imprenditore di sé stesso aprendo la partita IVA e dunque un'officina; Luciana è radiosa nella sua mammitudine e se la passa bene anche il travestito Manuel, ingrediente imprescindibile in onore al LGBT friendly anche se non centrava una mazza con tutta la storia, e magari Walter Veltroni nel frattempo è diventato sindaco di Anguilla Sabazia. Amen.

mercoledì 18 novembre 2015

Diario di una casalinga serba


"Diario di una casalinga serba" (Dnenvnik srpske domaćice), monologo liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Mirjana Bobić Mojsilović, interpretato da Ksenija Martinović. Regia di Fiona Sansone. Produzione CSS-Teatro stabile di innovazione del FVG/Progetto StartART. Al Teatro San Giorgio di Udine fino al 22 novembre.
Una donna allo specchio, che si confronta coi propri ricordi, è quella che interpreta, con grande energia, versatilità espressiva e convinzione la ventiseienne attrice belgradese, ma ormai da molti anni in Italia, che con questo suo adattamento di un romanzo di successo di Mirjana Bobić Martinović, sua concittadina molto famosa in patria, ha vinto il Premio Nazionale Giovani Realtà del 2014 per il settore monologo: dopo averla vista in azione, penso si possa dire che è molto più di una promessa e che molto bene ha fatto il CSS a sostenerne la produzione. Ksenija Martinović/Andjelka si muove in uno spazio a ridosso del pubblico, che lo condivide, tra casse vuote, pacchi di giornali, vestiti e vecchie scarpe e armeggiando con un registratore in cui a tratti riascolta la propria voce o musiche e radiotelegiornali dei tempi passati, ripercorrendo sul filo della memoria la propria crescita e quella della propria generazione, quella nata sul finire degli anni Sessanta, che ha fatto in tempo a far parte orgogliosamente dei "pionieri" quando "tutto era Tito e Tito era tutto", la SFRJ, un Paese in cui si poteva progettare ottimisticamente un futuro, proiettato all'esterno, a metà strada tra Est e Ovest, non appartenente ad alcun blocco e anzi leader di quelli "non allineati" e l'unico tra quelli comunisti a "essere in blue jeans" (comprati a Trieste); adolescente nel 1980, alla morte del Maresciallo, che ha poi vissuto il progressivo passaggio dall'amore per il padre della patria, la Jugoslavia interetnica multiculturale e multireligiosa quando non serenamente agnostica (spesso all'interno della medesima famiglia) a quello verso la Serbia e i suoi demagoghi, Milošević e Drašković, fino alla dolorosa maturità al tempo della guerra fratricida degli anni Novanta che ha disgregato definitivamente il Paese (con enormi responsabilità esterne, ma su questo ha avuto la pietà di non insistere) e ai criminali bombardamenti della NATO su Belgrado, dove nel frattempo l'atmosfera di armoniosa convivenza era andata a pezzi. La sua esistenza va di pari passo con la storia degli ultimi anni della Jugoslavia e la bravissima interprete si trasforma dalla bambina col volto da bambola alla ragazza entusiasta; dalla elegante donna fatta, che ha già alle spalle un matrimonio fallito ma diventa nazionalista convinta solo per il bisogno di credere a qualcosa a una casalinga disillusa, che avrebbe voluto fare l'attrice e si ritrova a fare i conti con un passato che né lei né la sua generazione ha mai potuto decidere, i più cari amici morti o emigrati, il fratello in un ospedale psichiatrico, forse per sfuggire alle proprie responsabilità che lo porterebbero in galera. Un'ora di recital, intenso, coinvolgente, a tratti commovente, almeno per chi ha amato e rispettato quel Paese e la sua varietà e vivacità culturale. Che per fortuna è rimasta nei suoi talentuosi eredi, a qualunque delle ex repubbliche appartengano.

domenica 15 novembre 2015

Non c'è acqua più fresca


"Non c'è acqua più fresca", uno spettacolo di Giuseppe Battiston per "Viva Pasolini!". Volti, visioni e parole dal Friuli di Pier Paolo Pasolini. Con Giuseppe Battiston e Piero Sidoti. Drammaturgia di Renata M. Molinari; regia e spazio scenico di Alfonso Santagata; luci di Andrea Violato; canzoni e musiche originali dal vivo di Piero Sidoti; produzione CSS-Teatro stabile di innovazione del FVG.
Spettacolo d'apertura della 34ª stagione di Teatro Contatto del CSS di Udine, "Non c'è acqua più fresca" è il primo della rassegna "Viva Pasolini!", iniziata il 1° novembre scorso nel quarantesimo anniversario della scomparsa del poeta, scrittore e registra che al Friuli, cui era legato visceralmente, ha dedicato una parte notevole della sua produzione artistica, specie quella poetica, nella lingua materna, quella parlata a Casarsa, il paese in cui ha vissuto e tornava anche durante gli anni romani, appena "di là de l'aghe", quelle del Tagliamento, nell'attuale provincia di Pordenone. "Terra di temporali e primule", nelle parole del poeta, rievocata da Battiston e Sidoti, nei panni di due attori dilettanti che allestiscono uno spetacolut di piazza riandando agli anni della giovinezza di Pasolini nel paese di nascita di sua madre  Susanna e dei suoi affetti più profondi e cari: una ricostruzione degli anni felici, popolati dalla "meglio gioventù", in forma di versi, recitati da Giuseppe Battiston, tratti da diverse raccolte, ma anche di nomi, di situazioni, di paesaggi; e in forma di canzoni, composte e suonate alla chitarra da Sidoti e cantate da lui stesso e, in parte, dall'attore che, nella sua città di nascita e nella sua lingua, gioca in casa (opportunamente, specie per le repliche che si terranno fuori dalla regione, la traduzione in italiano scorre su un pannello in alto, ma già a Trieste o nelle stesse Pordenone e Sacile pochi spettatori sarebbero in grado di comprenderla appieno ). Non una celebrazione,  fortunatamente, e nulla che assomigliasse nemmeno vagamente alle commemorazioni di rito quanto per lo più insincere di tanta gente che, nell'anniversario della sua morte, ha citato fino alla nausea Pasolini estrapolandone le frasi e manipolandone il pensiero a piacere per adattarlo alle proprie esigenze, per lo più senza averlo letto e, meno ancora, capito. Non è il caso dei due autori e attori né di Renata Molinari che ha curato la drammaturgia, che non si limitano a un omaggio melenso al poeta e a un Friuli che sopravvive solo nella memoria e che la musicalità di un dialetto che, secondo Pasolini, si faceva lingua, riesce a rendere vivo, reale e anche aspro, e non soltanto reso elegiaco dal ricordo.

"Non c'è più acqua fresca" sarà in tournée dal 19 al 23 aprile 2016 al Teatro Franco Parenti di Milano e il 26 aprile al Teatro Reconditi di Bassano del Grappa

giovedì 12 novembre 2015

Alaska

"Alaska" di Claudio Cupellini. Con Elio Germano, Astrid Berges-Frisbey, Valerio Binasco, Elena Radoncich, Antoine Oppenheim, Paolo Pierobon, Pino Colizzi, Marco D'Amore, Roschdy Zem. Italia, Francia 2015 ★★★½
Non intensa ma sempre interessante la produzione di Cupellini (mi aveva convinto in Una vita tranquilla del 2010) soprattutto perché anomala rispetto alla produzione corrente, almeno nel genere mélo-noir in cui si può inquadrare il film senza riuscire a definirlo del tutto, benché rimanga alla fine una storia d'amore intenso, contrastato, tra due persone profondamente sole che sembrano aver sciolto qualsiasi legame precedente e stanno disperatamente cercando un qualche futuro contando soltanto sulle proprie forze e, nei corsi e ricorsi della loro vicenda, sull'altro. In alcuni momenti le rispettive fragilità diventano una forza che li unisce, in altri li portano a schiantarsi in scelte repentine e autodistruttive. Fausto e Nadine si incontrano sul tetto di un grande albergo di Parigi durante una pausa-sigaretta: lui cameriere italiano che sogna di diventare maître, lei una ragazza che sta svogliatamente facendo un provino come modella: contrariamente a quel che sarebbero le premesse, lei viene scelta e si trasferisce a Milano, mentre lui finisce in galera prendendosi due anni per lesioni personali per averla difesa atterrando un facoltoso cliente che li aveva sorpresi nella sua camera. Nadine si reca a visitarlo solo all'inizio della detenzione, e Fausto trascorre il resto della carcerazione macerandosi in un amore che finisce di credere impossibile e tutto si aspetterebbe tranne che trovarla ad aspettarlo all'uscita. Colpo di scena, non senza dramma da chiarimenti, ma a buon fine e trasferimento a Milano, dove la coppia vive per conto proprio, non mischiandosi troppo al mondo modaiolo ma venendone alla fine coinvolto. Soprattutto Fausto, che vede aprirsi la possibilità di riprendere, almeno in parte, la strada già tentata a Parigi, diventando socio di Sandro, altro personaggio squinternato e vittima delle situazioni oltre che degli usurai, l'anima di un locale, l'Alaska del titolo, un club-discoteca situato in una chiesa sconsacrata. Peccato che lo faccia investendo, senza chiederglielo, il danaro risparmiato da Nadine e che costituiva il fondo cassa della coppia. Questa volta gira male a Nadine, che durante una discussione con Fausto rimane vittima di un incidente in auto e ha la peggio finendo con le gambe rotte, la carriera rovinata e un lungo periodo di riabilitazione, durante il quale Fausto le sta in buona parte a fianco finché qualcosa si rompe, e questa volta per responsabilità di lei. Fausto è sempre più proiettato in alto, finendo per fidanzarsi con l'erede di una lussuosa catena alberghiera e, assieme al matrimonio, vede avverarsi il suo sogno, ma quando sarà il momento di stare davvero vicino a Nadine non esiterà a farlo, perché alla fine sia lui sia lei riusciranno a dare il meglio ed essere sé stessi, e a essere realmente umani, solo occupandosi uno dell'altra, mentre col prossimo, forse per autodifesa, finiscono per essere cinici e senza riguardi. Le vicende attraverso cui passano i due personaggi sono improbabili, forzate, anche se verosimili in una realtà schizzata come quella modaiola milanese dove gente come Nadine, Fausto e Sandro sono degli outsider, comunque dei perdenti in partenza, nonostante momenti di gloria, ma alla fine è il rapporto tra questi due disperati che risulta credibile, vero grazie anche alla distanza che la regia prende dai personaggi, non facendo nulla per renderli gradevoli e nessun tentativo di giustificarli. Nonostante questo, ci sarà un happy end, forse: questa volta non all'uscita della prigione della Santé ma nella sala colloqui di un carcere milanese (non mi è chiaro se Opera o Bollate). Germano "è" Fausto (il regista ha detto di aver scritto la sceneggiatura pensando all'attore), Astrid Berges-Frisbey è credibile nel suo ruolo e così Valerio Binasco nel suo di gestore di locali milanesi, la regia sulla falsariga di Gomorra (la serie, a cui ha collaborato Capellini) e di Sollima, però con uno stile personale e "tocco francese". Può valere la pena, apprezzando il genere.

martedì 10 novembre 2015

Auf eine letzte Zigarette

Inscì aveghen!

L'arabo felice

Matteo Renzi con il principe ereditario saudita Mohammad Byn Nayef
Nel cinema, nella musica, nella letteratura, nell'arte in generale è raro che la copia sia più convincente dell'originale, ma accade, specie quando sia l'allievo a superare il maestro (cfr Mozart e Salieri). In quel Circo Barnum che è la politica italiana, è il caso di Matteo Renzi nei confronti di Berlusconi, a sua volta erede di una scuola che risale a Craxi e, "su per li rami", a Mussolini. Come per il suo ispiratore e modello brianzolo, le smargiassate del rignanese sono particolarmente ispirate quando vengono pronunciate in formato esportazione. Ché è questo, sostenere la vendita di prodotti nazionali all'estero, il motivo per cui il capo del governo si trova più spesso a bordo dell'aereo blu di Stato che alla scrivania del suo ufficio a Palazzo Chigi: dedicarsi insomma a promuovere l'Azienda Italia (già sentita, questa). L'ultima sparata viene da Riyadh, dove il nostro piazzista, tra un incontro e l'altro coi vertici della teocrazia saudita, ha visitato il cantiere di una delle linee della metropolitana della capitale, aggiudicatosi da aziende italiane e facendosene vanto (a Roma stanno ancora aspettando che finiscano i lavori della linea C), cogliendo l'occasione per bacchettare ancora una volta i "gufi" e i detrattori di Happy Days che lo attaccano in quanto "lontani dalla felicità" (e dàgliela): "L'Italia vuole ripartire, non è fatta solo da chi sa urlare e insultare per la strada. Basta con chi vuole bloccare il Paese", ha esordito il nostro Fregoli ipercinetico, "il tentativo da destra e da sinistra di dare una spallata al governo è fallito. Salvini lo aveva proposto come blocco del Paese, parte della sinistra come bocciatura delle riforme. Ma il Paese è ripartito: la doppia spallata non ha funzionato. Andiamo avanti, nell'orizzonte del 2018: lavoriamo per l'Italia". A noi! "Ora è il momento di rendere l'Italia sempre più solida nel mondo - ha aggiunto - e lo scopo del governo è proprio quello di rimettere il Paese al suo posto". Un posto al sole, immagino, considerato l'orizzonte culturale di Renzie, che non va oltre a Peppa Pig, a meno che non si riferisse al settimo posto come produttori di armi al mondo e al nono come esportatori. Armi di cui i sauditi sono tra i migliori acquirenti come ricorda, tra gli altri, Famiglia Cristiana in relazione alla vicenda del carico di diverse tonnellate di ordigni "made in Sardinia" immortalato sulla pista dell'aeroporto di Cagliari/Elmas a fianco di aerei civili (vedi foto in basso: divenuta "virale" in rete e passata pressoché inosservata dai maggiori media), imbarcato su un Boeing 747 della compagnia azerbaigiana Silk Way con destinazione Taif, base militare della Royal Saudi Armed Force. A maggior gloria dell'Italia che, ribadisce il premier, in preda a un attacco di solipsismo sempre più forsennato, "è il Paese che sta crescendo meglio e più in fretta degli altri". Contenti lui e coloro che lo votano e sostengono, anzi, felici; rimaniamo fiduciosi in attesa della prossima parola d'ordine, che avrà in sé qualcosa di nuovo, anzi, antico: l'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio (avete per caso già sentito anche questa?)



sabato 7 novembre 2015

Salomè


"L'ultima recita di Salomè" da Oscar Wilde. Uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni, Enzo Curcurù e Mauro Bernardi. Luci di Nando Frigerio, suono di Luca De Marinis. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 22 novembre.
Intenso, emozionante, farsesco spettacolo en travesti, tra la tragedia e il burlesque, tra il serio e il faceto, tratto dalla Salomè di Oscar Wilde, rivisitata dagli autori inserendovi brani tratti da altre opere del grande scrittore britannico, come Il De Profundis e, soprattutto, Ballata dal carcere di Reading. L'atto unico è ambientato in una sorta di Luna Park di periferia e vede in azione Enzo Curcurù e Ferdinando Bruni che si triplicano per interpretare rispettivamente il primo Mavor Parker, una sorta di domatore e "buttadentro" che con fare da imbonitore presenta il "prodigioso spettacolo", personaggio di fantasia che richiama due amanti di Wilde che lo tradirono accusandolo di sodomia e, di seguito, il Giovane siriano sorvegliante del prigionieri Iokanaan ed Erodiade; il secondo lo stesso Wilde, incarcerato, Iokanaan, anch'esso in catene, ed Erode, innamorato di Salomè, a cui dà corpo (e la locuzione è quanto mai appropriata) Mauro Bernardi, in un ruolo così impegnativo da bastargli da solo: senza nulla togliere alla bravura e all'espressività degli altri due, sono le sue movenze sinuose e conturbanti che nulla hanno di forzato, "checchesco" e innaturale, ma che esprimono sensualità e femminilità senza bisogno di aggettivi, a restare impresse a lungo. Come sempre in uno spettacolo dell'Elfo luci e suoni hanno una parte essenziale, e la scelta di rappresentarlo in uno spazio relativamente raccolto come la Sala Fassbinder del teatro, coi suoi 200 posti, contribuisce a rendere ancora più "satura" di erotismo e coinvolgente l'atmosfera. Wilde, Iokanaan ed Erodiade, tre personaggi tutti a loro modo prigionieri: il primo nella realtà, il secondo della sua inflessibilità, il terzo della propria passione, uniti nell'esigenza di esprimere con le parole il proprio amore e reclamare la sua dignità, pur coscienti del fatto, ed è questa la "morale", che ognuno finisce per uccidere ciò che ama: cambia solo la modalità. Poco rappresentata in Italia questa Salomè (anche se rimane memorabile quella del 1972 du Carmelo Bene) è caldamente raccomandata.

mercoledì 4 novembre 2015

La legge del mercato

"La legge del mercato" (La loi du marché) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lindon, Karine de Mirbek, Matthieu Schaller, Yves Ory, Xavier Mathieu, Paul Portoleau, Pierre-Jean Feld, Philippe Vesco, Christophe Rossignon, Noël Mairot, Catherine Saint-Bonnet, Roland Thomin, Hakim Makoudi, Tevi Lawson, Faiçal Addou. Francia 2015 ★★★½
Quello di Brizé (coprodotto con Lindon, l'ottimo personaggio protagonista, e da Rossignon) è un film la cui pesantezza e relativa lentezza sono dovuti tanto alla crudezza dell'argomento, doloroso e quanto mai attuale, quanto alla modalità in cui è stato girato: con attori in buona parte non professionisti, ma scelti tra persone che, nella loro vita lavorativa, svolgono le medesime mansioni dei personaggi della pellicola, e per retribuire i quali quelli professionisti, Lindon in testa, si sono autoridotti il compenso. Thierry è un uomo semplice (come da titolo alternativo del film per la distribuzione internazionale, A Simple Man) quanto integro che, a 51 anni, con una moglie e un figlio disabile, si trova a fare tutta la trafila dei corsi di formazione e reinserimento al lavoro, per lo più utile soltanto a chi li organizza, dopo aver perso il posto perché l'azienda dove ha trascorso 25 anni della sua vita lavorativa ha chiuso per "delocalizzare" la produzione all'estero lasciando i 750 addetti sulla strada: una situazione in cui nell'UE si trovano ormai centinaia di migliaia di persone. Alla fine del "percorso" trova un posto come sorvegliante anti-taccheggio in un grande magazzino, che non centra nulla con la materia dei corsi d cui sopra ma che gli garantisce comunque uno stipendio dignitoso. Quel che è meno dignitoso, è quanto gli viene richiesto: non soltanto prendere di mira ladruncoli, spesso pensionati ridotti senza un soldo in tasca metà mese, ma anche i colleghi e in particolare modo quelle cassiere che non hanno accettato un piano di prepensionamento proposto dall'azienda, perché la parola d'ordine è sempre e soltanto una: ridurre il costo del lavoro e aumentare la "produttività", ma alla fine i principi morali di Thierry avranno la meglio sulle logiche dei "responsabili delle risorse umane". Si tratta di un film di denuncia che lascia parlare i fatti e i personaggi nella loro autenticità, grigia quanto quotidiana, senza bisogno di forzature e drammatizzazioni, e risparmia allo spettatore una "dardennizzazione" che a volte risulta eccessiva: per quanto possa risultare sgradevole e lasciare la bocca amara, merita di essere visto perché racconta una verità che si preferisce rimuovere. 

lunedì 2 novembre 2015

Pier Paolo Pasolini, 1975/2015: quale ricordo

1. “Quel bastardo è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959. 
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio. 
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati. 
Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”. 
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni
L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba. 
Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava. 
2. Il giornalismo libero
“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”. 
L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”. 
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso  come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi. 
Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata. 
Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino. 
Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere: 
[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…
Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”. 
L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente. 
Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro: 
I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.
È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello. 
Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi. 
Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale. 
3. Come mai?
Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia. 
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. 
Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”. 
La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri. 
Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche
4. “Non potranno mentire in eterno”
Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette. 
La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”. 
Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie: 
Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei… 
Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”. 
Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film. 
Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani. 
5. “Distruggere il Potere”
Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia. 
Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte. 
È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”. 
Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”. 
Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”. 
Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata. 
Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp… 
6. Un infame mantra
Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”. 
Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani. 
Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio. 
Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari. 
7. “Propaganda antinazionale”
Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969. 
Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio): 
Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.
Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhile violenze della polizia”. 
Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine
Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia: 
Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.
In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”. 
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. 
L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.
Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive: 
Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.
Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive: 
L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.
Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri. 
Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata. 
Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”. 
Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”. 
Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”. 
8. “Le nostre vecchie conoscenze”
L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche. 
Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali. 
Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”. 
Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada. 
L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”. 
Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia
Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre. 
È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a. 
Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia. 
Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”. 
Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”. 
9. L’uomo che sorride
Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue. 
Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi: 
Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.