venerdì 30 ottobre 2015

Tutto può accadere a Broadway

"Tutto può accadere a Broadway" (She's Funny That Way) di Peter Bogdanovich. Con Owen Wilson, Imogen Poots, Cathrin Haan, Will Forte, Rhys Ifans, Jennifer Aniston, Lucy Punch, Jennifer Esposito, Deby Mazar, Quentin Tarantino, Cybill Shepard. USA 2014 ★★★★★
Può anche darsi che in questo periodo sia piuttosto generoso nei giudizi, ma non posso esimermi dall'assegnare il massimo dei "miei" voti a questo film che, per quanto mi riguarda, compendia tutto quel che ci si può aspettare dal cinema inteso come divertimento al massimo della sua espressione, e in tutte i suoi aspetti: soggetto, interpreti, ritmo, tempi. Tutto in 90' che, per un maestro come Peter Bogdanovich, bastano e avanzano per farci stare tutto: una storia brillante, una trama che, per quanto convulsa, si snoda senza intoppi con precisione cronometrica, una conclusione perfetta. La vicenda viene evocata in forma di intervista da Izzy detta "Glo" Patterson (Imogen Poots), semplice ragazza di Brooklyn che racconta, nel corso di un'intervista con un'acida reporter di un periodico, di come, per una serie di combinazioni, sia diventata una star di Broadway. Convocata come escort dal famoso regista cinematografico e teatrale Arnold Albertson (Owen Wilson) appena sbarcato dalla California a New York per mettere in scena una commedia che avrà come protagonista la moglie Delta Simmons (Cathrin Haan) e il suo storico partner sulla scena, nonché spasimante, Seth Gilbert (Rhys Ifans), viene gratificata per le sue prestazioni da 30 mila dollari che Arnold le regala a patto che cambi vita per dedicarsi esclusivamente al suo sogno di dedicarsi alla recitazione. Guarda caso il giorno dopo, durante i provini per l'ultima parte da assegnare, quella di una prostituta, gli ricompare davanti proprio Izzy, che farà di tutto per scartare ma che susciterà l'entusiasmo incondizionato di tutto il resto del cast, a cominciare da Delta, per finire con il timido commediografo, il quale la reputa perfetta per il ruolo, che lo obbligano a scritturarla. E' solo l'inizio di una esilarante serie di disvelamenti ed equivoci che si susseguiranno a tambur battente e coinvolgeranno, in uno schema dall'andamento circolare, un'altra serie di personaggi legati ai primi: la psicoterapeuta alcolizzata che si rifugia in una tenuta vinicola in Toscana per una poco convincente cura disintossicante lasciando lo studio e i pazienti, tra i quali un vecchio giudice arrapato e l'oggetto stesso dei suoi desideri, Izzy "Glo", nelle mani improvvide della sostituta, la sua figlia nevrotica nonché fidanzata del commediografo, una Jennifer Aniston convincente come non mai la cui prova merita una sottolineatura; un detective ebreo che si nasconde dietro ai baffi, e altri personaggi di contorno, tra i quali fa la sua comparsa in un cameo finale anche Quentin Tarantino, che chiarisce quanto il film si ispiri a "Fra le tue braccia"di Ernst Lubitch, cui si deve la battuta "Squirrels to the Nuts", che ne è il leit-motiv. La commedia, appartenente al genere screwball (svitata) in massima voga negli anni Trenta e Quaranta, non a caso è stata prodotta grazie all'intervento di Wes Anderson e Noah Baumbach tramite il comune amico Owen Wilson: oltre a rifarsi ai classici dell'epoca e al miglior Woody Allen, ricorda, oltre alla propria produzione precedente, proprio Anderson ma anche e soprattutto il recente e bellissimo Birdman di González Iñarritu, uno dei migliori film della scorsa stagione: questo è allo stesso livello. Vero cinema, un toccasana se volete lasciare alle spalle una giornata storta: perfetto per i giorni dedicati ai defunti! 

martedì 27 ottobre 2015

Dheepan - Una nuova vita

"Dheepan - Una nuova vita" (Dheepan) di Jacquae Audiard. Con Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan, Claudine Vinasithambi, Vincent Rottiers, Marc Zinga. Francia 2015 ★★★★
Ci vuole coraggio a parlare di migrazione, oggi, senza cadere nel buonismo peloso e sospetto; di una guerra dimenticata; dell'indifferenza delle cosiddette "istituzioni" al crearsi di un "mondo a parte", con le proprie logiche e regole (che sono poi sempre quelle di un conflitto) che forse sono un effetto voluto: Audiard ce l'ha, come aveva dimostrato anche ne "Il profeta", l'unico suo altro film che mi è capitato di vedere. Dheepan è un ex combattente delle Tigri Tamil che, vista distrutta la famiglia e persa ogni speranza ragionevole di vittoria, depone le armi e decide di lasciare lo Sri Lanka: per poterlo fare riceve i documenti di una famiglia scomparsa e così, in un campo profughi, cerca e trova una giovane donna e una ragazzina senza genitori con cui sostituirsi a essa e tentare l'avventura in Europa. Finisce così nella banlieue parigina, dove la falsa famiglia si adatta, con grossa difficoltà linguistiche, a una situazione degradata in una serie di palazzoni fatiscenti controllati da bande di spacciatori maghrebini. L'uomo, Deephan, peraltro interpretato da una ex soldato-bambino delle "Tigri", si adatta a fare il custode e tuttofare (possiede un'ottima capacità manuale maturata in anni di guerriglia) e la donna la badante dello zio del capobanda degli spacciatori boeurs, agli arresti domiciliari, mentre la ragazzina, che è quella che più in fretta comincia a parlare in francese, va a scuola e a fatica si ambienta tra i coetanei. I tre man mano cercano di creare una sorta di normalità famigliare, pur consci della finzione che sta alla base della loro condizione, ma ci riusciranno appieno soltanto dopo una sorta di "bagno purificatore", naturalmente di sangue, ovvero una battaglia per la propria dignità e sopravvivenza che Dheepan sarà costretto a combattere, vestendo di nuovo i panni del comandante militare: solo dopo essersi nuovamente immerso nella violenza da cui pure era fuggito, e superata la prova, Dheepan, e con lui le sue compagne di viaggio, riusciranno davvero a cominciare una nuova vita e lo faranno insieme. E altrove.Tutta qui, in fondo, la vicenda, ma raccontata attraverso i corpi e le espressioni più che con le parole, in modo coinvolgente e a tratti forse un po' melodrammatico anche se non mancano tinte del noir tipicamente francese, però estremamente efficace e partecipe. Il film è teso ed emozionante fino alla fine e lascia il segno: mi sento di consigliarlo e di condividere l'assegnazione della Palma d'Oro 2015.

domenica 25 ottobre 2015

Dottore del buco del cul


Sono consapevole che mi attirerò gli strali dei sostenitori del "dottor" Valentino Rossi, ma ho goduto come un riccio quando ho sentito al GR di stamattina che il pilota italiano della Yamaha, protagonista di una gigantesca figura di merda sulla pista di Sepang, in Malesia, dove ha fatto cadere il collega (ed ex allievo e pupillo) Marc Márquez, secondo alcuni addirittura "scalciandolo", giocandosi così probabilmente ogni possibilità di aggiudicarsi il decimo titolo mondiale della sua carriera perché, per punizione, al prossimo e decisivo Gran Premio di Valencia sarà costretto a partire dall'ultima fila. Confermando, come ho sempre pensato, di essere una carognetta e non un vero sportivo, ha già detto che non sa ancora se vi prenderà parte. E gli è andata ancora bene, perché si sarebbe meritato una penalizzazione in punti se non l'esclusione dalla classifica. Ora: non mi interessano le "tecnicalie"né stabilire se sia o meno caduto in una provocazione da parte di un connazionale di Jorge Lorenzo, che dopo la reazione isterica di Rossi, finora in testa al Mondiale, ha ora un distacco di soli quattro punti e una gara casalinga a disposizione, perché sono affari suoi, così come lo erano di Zidane nella finale dei Mondiali di calcio di Germania nel 2006 quando si fece buttare fuori per una plateale testata a Materazzi: nello sport esistono delle regole e vanno rispettate, e questo vale a maggior ragione per i campioni o supposti tali. Nel caso di Rossi, l'aggravante è che, trattandosi di gare che si corrono a 300 km/h, ha messo in pericolo la vita di un avversario. Ma ho goduto ancora di più perché non l'ho mai sopportato, e ancor meno la stampa faziosa e leccaculo che l'ha incensato sempre e comunque erigendolo a idolo nazionale, assecondandolo in quel giocare al ruolo dell'eterno ragazzino sbarazzino, furbetto e gran simpatico, e questo a prescindere dalle sue acrobazie fiscali che già me lo rendono odioso: peccato che sia interista. Passi quando era un ragazzino, ma uno che si comporta e si esprime come lui a 36 anni suonati o "ci fa", o "ci è", e in tal caso rientra, come ho sempre sospettato, nella cerchia dei cretini di talento. Ché questo di sicuro non gli manca, e non mi sogno di negarlo perché i risultati parlano da soli. E' in buona compagnia: anche Giovanni Allevi, il pianista, ha un modo di fare che me lo ricorda e appartiene a questa tipologia. Sempre in ambito sportivo, Mario Balotelli, talento a corrente alternata, come Valentino Rossi è pure discretamente stronzo: niente comunque rispetto a un sommo precursore come Alberto Tomba. Poi ci sono i cretini senza talento, e sono legioni: il caso esemplare è Lorenzo Cherubini detto Jovanotti; e gli stronzi, cretini e pure ladri di cui pullulano il Parlamento nazionale e i consigli degli enti locali, per non parlare di quelli che governano il Paese, che sono fuori concorso e fanno categoria a sé, e di quelli che li votano, il che spiega a sufficienza lo stato delle cose. 

venerdì 23 ottobre 2015

Non essere cattivo

"Non essere cattivo" di Claudio Caligari. Con Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D'Amico, Roberta Mattei, Elisabetta Di Vito e altri. Italia 2015 ★★★★
Fa rabbia e tristezza pensare che questo film postumo, presentato fuori concorso al Festival di Venezia a nemmeno tre mesi dalla scomparsa di Claudio Caligari, sia soltanto il terzo di una carriera nel lungometraggio iniziata nel 1983 con Amore tossico e intervallata da L'odore della notte, uscito 15 anni dopo: è stato Valerio Mastandrea, il protagonista di quest'ultimo, nonché amico intimo del regista, a produrre "Non essere cattivo" ad altri 17 anni di distanza, visto l'ostracismo del mondo cinematografico nostrano nei confronti di Caligari. Anche in questo film, ambientato lungo il degradato Litorale di Ostia nel 1995, il regista descrive il mondo marginale delle periferie romane, e lo fa raccontando l'amicizia, "tossica" ma non solo, tra Vittorio e Cesare, due coetanei pressoché fratelli che, dopo un'esistenza passata tra piccolo spaccio, traffici vari, nottate adrenaliniche tra scorribande in discoteca e corse in auto, si trovano a fare scelte diverse: Vittorio (Alessandro Borghi, il "Numero Otto" del recente Suburra, ambientato anch'esso negli stessi luoghi ma ai nostri giorni) conosce Linda, una ragazza madre con un figlio dodicenne, e vi trova la famiglia che non ha mai avuto riuscendo, non senza ricadute, a impostare un'esistenza "regolare" mentre Cesare (uno strepitoso Luca Marinelli), nonostante venga coinvolto e incoraggiato dall'amico a cambiar vita, e pur provandoci, non ce la fa a uscire dal gorgo e dalla dimensione di coatto,  sbandato e senza speranza cui sembra condannato da un destino ineluttabile: lui una famiglia ce l'avrebbe, ma disastrata, composta da una madre distrutta dalla morte per AIDS della figlia, contagiata da un tossicomane, e della nipotina, malata in modo irrimediabile anch'essa. Con le due donne della sua vita, Cesare è di un'attenzione, tenerezza e premura infinita, e lo è anche nei confronti di Viviana, altra emarginata come lui con cui va a vivere e che nutre progetti per un futuro: Cesare non sarebbe cattivo, ma è l'ambiente che lo circonda e da cui non riesce a intravvedere una via d'uscita a costringerlo a tirare fuori il lato peggiore di sé stesso per sopravvivere in quella giungla putrescente, e per lui finisce inevitabilmente male. Ma una speranza rimane ed è incarnata dal figlio che avrà, a futura memoria, da Viviana e dall'amicizia e dall'affetto dell'amico fraterno, che non verrà mai meno. Una regia sicura, mai manierista, forte, senza timori e che regge un ritmo incessante sottolineato da un perfetto sottofondo sonoro,  e che si avvale di una fotografia esemplare: un bellissimo film, intenso e a tratti commovente per quanto sgradevole, soprattutto per chi non vuol vedere e non vuol sapere. Come coloro che non hanno consentito a Claudio Caligari di esprimersi come e quanto sarebbe senz'altro stato in grado di fare: ora non c'è più e il rimpianto è ancora più grande.

mercoledì 21 ottobre 2015

The Lobster

"The Lobster" di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Ariane Labed, Jessica Barden, Olivia Colman, Ashleu jensen, Angeliki Papoulia, John C. Reillly, Michael Smiley, Ben Winshaw, Roger Ashton-Griffiths, Rosanna Hoult. GR, IR, GB, NL, FR 2015 ★★★★
Un film spiazzante: intanto perché ambientato in un mondo distopico, a cavallo di un passato recente (l'albergo di tipo "termale" nella brughiera, forse scozzese, i vestiti anni Sessanta dei personaggi lì alloggiati) e il presente (le automobili della "città") con alcuni tocchi avveniristici (la forma di alcuni palazzi e il loro colore candido da sanitari) e poi per la vicenda paradossale ma non troppo, raccontata da una voce terza, la protagonista della seconda parte della storia, che lascia inizialmente piuttosto disorientati ma rivela, dopo essere stato decantare qualche tempo, un suo perché. In una società pervasa da regole minuziose quanto surreali e invasive, raggiunta la quarantina è vietato essere single: chi, per scelta o per destino, si trova a vivere da solo, viene inviato in un albergo dove ha 45 giorni di tempo per trovare un partner (si ottengono dei giorni extra come bonus qualora si abbattano, con un fucile narcotizzante, dei single che sono riusciti a fuggire dall'insano luogo e vivono nei boschi circostanti, durante delle battute di caccia che vengono organizzate quotidianamente all'uopo); se non vi si riesce, si viene trasformati in un animale a propria scelta (l'unica libertà rimasta): da qui l'aragosta del titolo a prima vista misterioso. Ma non è sufficiente trovare il partner giusto, ché ci si potrebbe anche mettere d'accordo truccando le carte, ma occorre dimostrare di essere veramente compatibili, ed essere fatti l'uno per l'altra anche per quanto riguarda i difetti, di carattere e fisici (lo zoppo con lo zoppo e così via) il tutto superando una serie di prove sempre più ardue: e qui casca l'asino, ossia il protagonista che, giunto al termine del suo soggiorno e sul punto di essere tramutato in aragosta, fugge e va a vivere nel bosco dei single, dove vigono regole opposte ed altrettanto demenziali, ed è vietato non solo accoppiarsi sessualmente ma anche solo flirtare. Naturalmente il protagonista, un bravissimo Colin Farrell, si innamora per davvero, corrisposto, di un'altra ribelle, interpretata da Rachel Weisz (la voce fuori campo), altrettanto convincente, che diventa cieca: riusciranno però a coronare il loro sogno d'amore nonostante tutto, in modo decisamente tranchant, e qui sta la sorpresa finale, che non svelo, e che lascia senza parole, tranne "azz...". Le intenzioni metaforiche di questa fiaba dagli aspetti grotteschi quanto macabri sono in parte evidenti e in parte sotto traccia, da individuare, ma è evidente il riferimento alle catene e all'oppressività delle leggi e convenzioni che regolano qualsiasi "normalità", e quanto questa sia apparente.  E non lo sono di meno quelle che reggono la moderna società "permissiva" e progredita, che ha aspetti totalitari quanto quella illustrata nel film. Il cast, internazionale con prevalenza inglese, è di prestigio e all'altezza; il regista, greco, di cui è questo il primo lavoro che mi è capitato di vedere, anche; il risultato, valido e inquietante. 

lunedì 19 ottobre 2015

La vita è facile ad occhi chiusi

"La vita è facile ad occhi chiusi" (Vivir es fácil con los ojos cerraados) di David Trueba. Con Javier Cámara, Natalia de Molina, Francesc Colomer, Ramón Fontseré, Rogelio Fernández. Spagna 2014 ★★★★+
Un film esemplare per semplicità, dolcezza (senza essere melenso, bigotto o buonista), discreto, educato, sincero. Racconta, rifacendosi a una vicenda vera, di Antonio, un insegnante di inglese e latino in un istituto di preti che usa i testi delle canzoni dei Beatles per invogliare da un lato, e risvegliare dall'altro, mandando loro "messaggi", i suoi allievi: siamo nella Spagna della primavera 1967, e manca ancora un decennio alla scomparsa di Francisco Franco e alla fine della dittatura; figurarsi se l'emittente radiofonica nazionale trasmetteva i loro pezzi (del resto lo faceva con estrema parsimonia pure la RAI nella "democratica" Italia): li ascolta e li registra dalla mitica Radio Luxembourg, che operava su una nave al largo dell'Olanda, trascrivendone le liriche. Venuto a sapere che John Lennon si trova ad Almería per girare, sotto la direzione di Richard Lester, Come ho vinto la guerra, durante un fine settimana decide di raggiungere il set da Albacete, nella Mancia (non esistevano autostrade, ai tempi, e non era una passeggiata), e gli capita di dare un passaggio ad altri due personaggi solitari, "diversi" come lui: Belen, una ragazza fuggita da un istituto di suore per future madri di figli di N.N., come si chiamavano allora, cui le famiglie affidavano le "reprobe" per evitare maldicenze e cattive figure nella propria comunità, e Juanjo, un sedicenne coi capelli appena più lunghi del "normale", allontanatosi da casa a causa della severità esagerata del padre poliziotto che gli impone di tagliarseli. Antonio capisce subito che i due hanno bisogno di contatto umano e di comprensione, e senza forzarli li coinvolge nella sua avventura. Arrivati in Andalusia, in riva al mare, Juanjo trova ospitalità e un lavoro temporaneo come cameriere in un "baracchino" presso la spiaggia gestito da un burbero catalano (già per questo un antifranchista per definizione e di conseguenza emarginato), a sua volta ritiratosi lì assieme al figlio handicappato perché abbandonato dalla moglie italiana che non ce la fa a reggere la situazione, mentre Belen aiuta Antonio a realizzare il suo sogno: effettivamente riuscirà a incontrare John Lennon nella sua roulotte e a parlarci a lungo durante le pause delle riprese, cui chiederà chiarimenti sui testi e che gli confesserà che pure lui è stato un figlio "non voluto" e gli racconterà di sua madre, e infine registrerà per Antonio una prima versione di "Strawberry Fields Forever", dalla cui prima strofa è tratto il titolo del film:

Living is easy with eyes closed,

Misunderstanding all you see.
It's getting hard to be someone but it works out,
it doesn't matter much for me


Perché è facile vivere facendo finta di niente, e questo riguarda anche Lennon: come se non esistesse la violenza di una polizia che picchia i fan dei Beatles mentre suonano a Madrid; i preti che menano gli allievi visti da Antonio; le suore sadiche che maltrattano le ragazze "empie". La morale è che non bisogna vergognarsi di gridare Help, e provare a cambiare le cose nel proprio piccolo, magari With a Little Help of my Friends. Oltre a questo messaggio "civile" di solidarietà umana, che non è mai inutile ribadire, meno che mai al giorno d'oggi, l'altro pregio del film è di ricostruire con assoluta fedeltà ambienti e modi di quegli anni: ho riconosciuto posti e situazioni che avrei vissuto di persona qualche anno più tardi, a metà dei Settanta, e per certi aspetti anche l'Italia degli anni Sessanta non era molto diversa anche se al posto dei fascisti c'era la DC, che era un'altra cosa, e che comunque ora mi sento di rimpiangere. Inevitabile dunque una botta di nostalgia per chi ha un ricordo ancora vivido di quegli anni: certo, le cose cambiano, indubbiamente alcune anche in meglio, però allora i rapporti umani erano tutt'altra cosa rispetto agli attuali e anche i sogni spesso si riusciva a tradurli in realtà, perfino conoscere di persona personaggi "mitici" che in realtà erano molto più a portata di mano di quel che si possa immaginare, e questo senza i mezzi di oggi, e chiunque abbia vissuto quegli anni e abbia girato l'Europa e, non solo, in autostop, in treno con l'"Interrail" o in bus, è in grado di testimoniarlo. Quindi complimenti a David Trueba, di cui è il primo film da regista che mi capita di vedere, mentre ho letto, e segnalo, i tre romanzi che sono stati pubblicati da Feltrinelli, anche in edizione economica: "Quattro amici", "Saper perdere" e"Aperto tutta la notte", e un bravo a tutti gli interpreti, perfetti nelle rispettive parti. P.S.: davvero, in seguito all'incontro di Lennon con l'insegnante spagnolo, i testi delle canzoni furono allegati ai dischi, o almeno ai Long Playing: cominciarono i Beatles e seguirono gli altri.

sabato 17 ottobre 2015

Suburra

"Suburra" di Stefano Sollima. Perfrancesco Favino, Claudio Amenodola, Greta Scarano, Elio Germano, Alessandro Borghi, Giulia Elettra Gorietti, Adamo Dionisi, Antonello Fassari, Jean Hugues Anglade. ★★★★¾
Se avevo assegnato il punteggio massimo a un film come "La grande bellezza", che descriveva in maniera "alta" e metaforica l'insostenibile pesantezza di Roma e in maniera mirabile il démi monde "terrazzato" degli ascari del potere, qui siamo un gradino appena sotto, ma soltanto perché Stefano Sollima ha scelto di esprimersi con un film di genere, il noir che gli è più congeniale, oltre a essere il mio prediletto, e con un taglio che ha aspetti televisivi (e sviluppi in questo senso non sono esclusi, anzi: e me li auguro) e che lo rendono meno "artistico", visionario e metafisico ma non per questo meno valido e soprattutto veritiero nel dipingere l'altro démi monde, quello propriamente "di mezzo", ossia quello di "Mafia Capitale", dove potere politico, intrallazzatori, imprenditori, finanzieri, criminali, terroristi, clero si incontrano e intrecciano i loro destini, così come avveniva duemila anni fa nella Suburra, quartiere della Roma imperiale dove viveva lo stesso Giulio Cesare, e come lo fa avvenire il profetico romanzo omonimo scritto da De Cataldo e Carlo Bonini e uscito due anni fa, oltre un anno prima delle inchieste che hanno travolto Roma. Anche le riprese del film stavano terminando quando, nel dicembre scorso, scoppiò lo scandalo (e non a caso è stato negato il permesso di effettuare riprese all'interno di Montecitorio, dove siedono tuttora corrotti tutt'altro che onorevoli in folta schiera e gli "scheletri nell'armadio" abbondano ugualmente). Del resto basterebbe usare gli occhi per vedere quel che succede nella capitale, e non a caso a parlare sono persone che amano la città: questo vale per il libro come per il film, alla cui sceneggiatura il magistrato e il giornalista autori del romanzo hanno collaborato, con piccoli adattamenti della trama. E non a caso anche Sollima e tutto il cast sono romani (e non romaneschi), ed è giusto che sia così (un unico appunto: ogni tanto la parlata è così stretta e gergale da riuscire incomprensibile, per cui sarebbe opportuno l'uso dei sottotitoli). A differenza de "La grande bellezza" qui la trama c'è eccome: la vicenda si svolge nell'arco dei sette giorni che precedono la caduta del governo Berlusconi nel novembre del 2011 e ci si immagina che furono quelli in cui Joseph Ratzinger cominciasse a maturare la decisione di dimettersi, fatto che avvenne nel marzo di due anni dopo; e in quel breve lasso di tempo di giorni febbrili si incrociano i destini dei personaggi che ne sono protagonisti, con sullo sfondo una gigantesca speculazione edilizia che sta prendendo corpo nella periferia Sud-Est di Roma, al fine di trasformare Ostia in una nuova Las Vegas. Passaggio obbligato è l'approvazione di un emendamento alla legge di stabilità, a cui provvede un politico della maggioranza, Filippo Malgradi (Perfrancesco Favino), dissipato quanto corrotto, che si trova coinvolto nella morte di una prostituta minorenne che viene opportunamente fatta sparire da un "contatto" nella malavita, e più precisamente nella famiglia Anacleti, un clan di zingari che si dedica prevalentemente allo strozzinaggio. "Spadino," il rampollo della famiglia che si occupa di "fare pulizia" del corpo della fanciulla, ricatta il deputato, ma viene eliminato a sua volta da "Numero Otto" (Alessandro Borghi), uno psicopatico a capo della mafia ostiense coinvolta nell'affare, ma questo mette sul chi va là il capofamiglia (Adamo Dionisi), che capisce che in ballo c'è qualcosa di davvero grosso e utilizza Sebastiano (Elio Germano), un "Pi-Erre" smidollato che "organizza eventi" (tra cui l'incontro di una sua "protetta" con Malgradi) e in realtà è un pappone, figlio si un imprenditore che si è tolto la vita perché vittima dei gitani cravattai. Punto di incrocio e a tirare le fila, l'unico a conoscere tutti i lati della faccenda e tutti o quasi i retroscena, "Il Samurai", ex componente della Banda della Magliana con un passato da terrorista nero, che ha contatti anche con lo IOR e quindi col Vaticano (il colmo per Claudio Amendola: non me ne avrà male, ma in questo ruolo è più credibile che come ex rivoluzionario sessantottino: semplicemente perfetto), ma nonostante la sua intelligenza, determinazione e freddezza, soccomberà anche lui. Per mano di chi non lo rivelo. In questo universo quasi esclusivamente maschile formato da personaggi sordidi, spiccano le due presenze femminili che per quanto negative posseggono un qualche spessore morale: Sabrina (Giulia Elettra Goretti), la prostituta che ha portato la minorenne al festino con Malgradi, e soprattutto Viola, la tossica innamorata compagna di "Numero Otto", una Greta Scarano degna di encomio. Ritmo incalzante, trama senza cedimenti, un'atmosfera lugubre e tesa allo spasimo resa alla perfezione dalla fotografia magistrale di una Roma notturna e sommersa da una pioggia torrenziale oltre che dal marciume umano, che erutta dallo schermo come l'acqua dai tombini intasati della capitale. Grande film, grazie davvero a tutti!

giovedì 15 ottobre 2015

Black Mass

"Black Mass - L'ultimo gangster" (Black Mass) di Scott Cooper. Con Johnny Depp, Joel Edgerton, Kevin Bacon, Rory Cochran,  Benedict Cumberbatch, David Harbour, Dakota Johnson, Juliane Nicholson, Jesse Plemons, James Russo, Peter Sarsgaard, Adam Scott, Corey Stoll, Juno Temple, W. Earl. USA 2015 ★★★½
Bentornato a Johnny Depp, che sembrava ormai essersi identificato nello Sparrow caricaturale della serie piratesca, finalmente recuperato nel ruolo di un gangster di origine irlandese di South Boston che negli anni Settanta dominava su tutta la capitale del Massachusetts, Jimmy "Whitey" Bulger, a cui riesce a dare uno spessore tale da rimanere impresso per quanto è inquietante. Questo è dovuto principalmente al suo aspetto e al suo modo di esprimersi e agire: freddo, spietato, paranoico, intelligente, ambiguo, intuitivo, ossessivo, sfuggente, tormentato. Un delinquente fatto e finito ma con principi tradizionali e solidi come i legami famigliari e affettivi, i valori dell'amicizia e della fedeltà sopra a tutti. Gli stessi che ha suo fratello Bill, diventato senatore dello Stato e in seguito rettore dell'Università, e John Connolly, agente del FBI, cresciuto con i Bulger nelle medesime strade. E' proprio la collaborazione offertagli da quest'ultimo, protezione in cambio di aiuto nella guerra alla mafia italiana che era ai tempi il primo obiettivo nel mirino dello FBI, a consentire a "Whitey" e alla sua banda di fare il salto di qualità e assumere il completo controllo di Boston, in particolare l'esclusiva del gioco d'azzardo e lo spaccio di stupefacenti, per allargarsi anche in Florida e consentirsi sortite perfino nel campo del traffico d'armi a favore dell'IRA, e sarà proprio questo slancio idealistico e patriottico a fregare "Whietey", perché un altro compagno di infanzia, ma meno "retto", parlerà con un nuovo procuratore deciso a farla finita con la banda e con i metodi sporchi di Connolly. E' il classico gangster movie con aspetti "legal", e inevitabilmente vengono in mente Mean Streets Quei bravi ragazzi di Scorsese, o Carlitos Way di De Palma, così come Mystic River di Eastwood, quest'ultimo non solo per l'ambientazione a South Boston ma anche per la presenza del sempre ottimo Kevin Bacon, ma lo è sui generis: molti lo trovano irrisolto, privo di vere e proprie scene madri, però a me ha convinto per la sua verosimiglianza. Non stento a credere ai metodi per così dire ambigui usati nella cosiddetta "lotta al crimine" non solo dalla polizia statunitense, ma da quella di tutto il mondo: molte sono le zone oscure e la verità è che il fenomeno criminale lo si ritiene, realisticamente, inevitabile (cfr anche la storia raccontata nel recente Sicario), preferendo trovare il sistema di tenerlo sotto controllo, trovando un modus vivendi, piuttosto che combatterlo fino in fondo, e Black Mass illustra molto bene questa situazione, che peraltro è veritiera, perché i personaggi esistono realmente e mentre John Connolly sta scontando 40 anni di galera, Jimmy è stato arrestato soltanto nel 2011, a Santa Monica in California, dopo ben 17 anni di latitanza. Il racconto è affidato a una serie di lunghi flash back basati sui "contributi collaborativi" resi da parte degli ex membri della banda in cambio di diminuzioni di pena per testimoniare il "patto scellerato" tra Whitey e Connolly, ossia una parte del FBI: la tensione non viene meno un attimo, l'ambientazione è assolutamente fedele, per quanto le situazioni possano apparire paradossali e forzate sono così credibili da dare una sensazione di vero, per quanto si respiri aria di epoche passate. Che però riconosco. Insomma, a me è piaciuto, sia per la regia, sia per gli interpreti, nessuno escluso.

martedì 13 ottobre 2015

The Program

"The Program" di Stephen Frears. Con Ben Foster, Chris O'Doud, Dustin Hoffman, Denis Ménochet, Lee Pace, Jesse Plemons, Elaine Cassidy, Guillaume Canet, Laura Donnelly. GB 2015 ★★★½
Bel film, appassionante benché se ne conoscano gli esiti fin dall'inizio, quello di Stephen Frears sulla "Grande Truffa" di Lance Armstrong, l'unico ciclista a conquistare, sette volte di seguito, il Tour de France, vittorie che gli vennero revocate, assieme a tutte le altre in carriera dopo il 1998, per uso di doping. Che non si limita alla biografia del corridore statunitense, ma descrive con estrema verosimiglianza non solo l'ambiente del ciclismo, ma anche e soprattutto quello che vi ruota attorno: il caravanserraglio dei media, gli sponsor, la medicina e la farmacologia, la finanza, le assicurazioni, tutto un mondo che non poteva non sapere e la cui omertà ha consentito che l'imbroglio rimanesse sotto silenzio, il tutto al fine di contribuire alla creazione della "Leggenda", quasi un Supereroe. Da questo punto di vista la pellicola, più che una biografia, può essere letta come una crime story, che ha al centro un personaggio ossessivo nella sua megalomania di vittoria a tutti i costi: lui, Lance Armstrong, dotato di un fisico non adatto alle corse in salita che caratterizzano le grandi gare a tappe come il Tour, il Giro e la Vuelta, prima sconfigge un cancro ai testicoli e sopravvive a una cura micidiale a base di chemio pesantissime; poi aderisce al "programma di allenamento personalizzato" di Michele Ferrari, un medico sportivo italiano in seguito radiato per l'uso di farmaci vietati oltre che di sangue riciclato e sistemi per evitare che venga scoperta l'assunzione di sostanze dopanti riuscendo a battere tutti gli avversari. Lo fa grazie a una squadra creata apposta per portarlo alla vittoria nella corsa più prestigiosa, la Grande Boucle, la statunitense United Postal guidata del direttore sportivo Johan Bruyneel, interpretato dall'efficacissimo Denis Ménochet. Convincenti come lui sono Ben Foster nei panni di Armstrong, maniacale al punto di arrivare a convincersi delle menzogne che raccontava, non soltanto disposto a tutto pur di vincere ma anche di minacciare gli altri corridori oltre a sfruttare i propri compagni di squadra e costringere ad aderire allo stesso "programma" dopante, e Chris O'Doud in quelli del giornalista irlandese del Sunday Times David Walsh, il primo a subodorare il marcio e a cui venne tentato di impedire di fare il proprio lavoro. Frears si conferma bravissimo a raccontare storie, ed è a suo agio quando per farlo deve descrivere i personaggi.In questo caso si sbaglierebbe però chi pensasse che intenda mettere sotto accusa il mondo del ciclismo in quanto tale, perché gli serve per parlare d'altro: nel suo mirino sono in generale l'inganno al servizio di ambizioni smisurate, la mancanza d etica e di senso del limite, il trionfo dell'apparenza e dell'effimero. Consigliato caldamente a chi ama il ciclismo (si basa anche su filmati d'archivio e su un documentario sulla carriera di Armstrong) e per chi apprezza il lavoro Frears.

domenica 11 ottobre 2015

Much Loved

"Much Loved" (Zin li fik) di Nabil Ayouch. Con Loubna Abidar, Asmaa Lazrak, Halima Karaouane, Sara Elmhandi Elallaoui, Abdullah Didane, Carlo Brandt, Danny Boushebel. Marocco 2015 ★★★★
Il clamore suscitato alla presentazione di questo film marocchino alla Quinzaine dell'ultimo Festival di Cannes, dovuto al divieto di uscita nelle sale in patria e a una serie di minacce e denunce al regista Nabil Ayouch e alla protagonista principale, Loubna Abidar, è stato accompagnato da critiche contrastanti, a cominciare da accuse di voyeurismo. Però la scelta di non lesinare le scene scabrose e i dialoghi non esattamente da educande non è fine a sé stessa, risultando funzionale alla rappresentazione realistica della vita quotidiana di un gruppo di tre prostitute di Marrakech che condividono sia l'abitazione sia la vita professionale e rendendola assai credibile. Il tutto si svolge a Marrakech, tra l'abitazione delle tre ragazze, Noah, Soukaina, Randa, a cui se ne aggiungerà una quarta, Hilma, proveniente da un paesello di campagna, sperduta e fuori luogo nella grande città, che viene aggregata alla compagnia delle ragazze, che frequentano alberghi di lusso intrattenendo sauditi ricchi sfondati quanto indecenti e violenti, oppure discoteche in tutto uguali a quelle nostrane, frequentate da europei maturi e bavosi, dove gira cocaina in quantità industriali e scorre alcol a fiumi, in serate deliranti che possono sconfinare in aggressioni o finire al commissariato di polizia, dove le aspettano il pizzo da pagare oppure altre umiliazioni. Di contro, nonostante le inevitabili tensioni di una convivenza tra persone tanto diverse (c'è quella con figli e che mantiene la famiglia, quella che sogna di raggiungere il padre in Spagna e ha tendenze lesbiche, quell'altra che ha un fidanzato e tende al sentimentalismo), c'è un mondo solidale al femminile, che fraternizza con i colleghi travestiti e transessuali, in cui non manca, alla fine, la speranza di un futuro migliore e diverso e un ottimismo di fondo, e questo nonostante la doppia vita che le tre ragazze conducono, fatta di lustrini e lusso ma anche di vergogna, a cominciare dal disprezzo delle proprie famiglie d'origine che pure vivono alle loro spalle, perché quando si tratta di danaro, non stanno certo a sindacarne la provenienza. Unica presenza maschile positiva, Said, il tassista tuttofare che funge anche da guardaspalle all'occorrenza, servizievole, paziente, rassicurante e che ha una certa somiglianza con Bettino Craxi. Forse  alcune scene risultano un po' insistite e compiaciute, ma a mio parere fa parte del gusto maghrebino, come la musica locale che può suonare tediosa alle nostre orecchie; il film comunque è valido, mostra Marrakech per quello che è se senza darcene un'immagine stereotipata, racconta di un ambiente che c'è eccome, da noi come in un Paese musulmano, ma che si fa di tutto per rimuovere, e alla sua riuscita hanno contribuito più di tutto le interpretazioni delle quattro attrici, una più brava e convincente dell'altra. 

giovedì 8 ottobre 2015

Io e lei (e il paladino del porno-gay)

"Io e lei" di Maria Sole Tognazzi. Con Margherita Buy, Sabrina Ferilli, Fausto Maria Sciarappa, Domenico Diele,  Ennio Fantastichini, Alessia Barela, Massimiliano Gallo e altri. ★★★+
Da cotanto padre, il grande, immenso Ugo, della cui intelligenza e ironia si sente sempre più la mancanza, Maria Sole Tognazzi ha ereditato non soltanto una straordinaria somiglianza fisica (in bello), ma anche un innegabile talento per la commedia intelligente e non banale, pur parlando di situazione assolutamente normali, come in questo caso il rapporto d'amore fra due donne di mezza età sfociato in una convivenza che dura ormai da cinque anni, con i suoi alti e bassi e i relativi problemi. Lo fa attraverso due interpreti perfette nei rispettivi ruoli: Margherita Buy sempre impeccabile a impersonare sé stessa, una libera professista molto borghese e nevrotica, perbenista, insicura, già sposata e con un figlio, e dunque lesbica sì ma con riserva e molta discrezione, e una Sabrina Ferilli sempre più rodata nel ruolo  della cougar un po' burina, anche in questo film, come ne "La grande bellezza" ex attrice, ritiratasi dalle scene e che attualmente si occupa con successo di un'azienda di catering, donna volitiva e con verve popolaresca, che pur non esibendola sfacciatamente va fiera della sua omosessualità senza nasconderla, col risultato di descrivere le dinamiche del loro rapporto che sono, in tutto e per tutto, simili se non uguali a quelle si qualsiasi coppia, etero, omosessuale, bisessuale e transgender che sia. Lo fa con misura, buon gusto, senza scadere mai nel morboso, e in questo sono perfettamente d'accordo con la recensione del film che ha fatto qualche giorno il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio nelle inconsuete vesti di critico cinematografico. Non con Claudio Rossi Marcelli, il Donno Letizio in forza a Internazionale, tutore redazionale del politically e genderly correct, che lamenta la carenza di sesso nella pellicola, come se una storia d'amore dovesse necessariamente essere raccontata attraverso immagini e atteggiamenti erotici: ognuno è naturalmente libero di pensarla come vuole e i gusti non si discutono, ma per soddisfare le proprie pruriginosità esistono decine di siti come youporn che offrono sesso gratuito in quantità industriali e di ogni genere senza bisogno di andare al cinema. Ora manca solo il parere del teologo, che non mancherà di comparire al più presto in tutti i talk show italioti, e siamo a posto.

martedì 6 ottobre 2015

Sopravvissuto - The Martian

"Sopravvissuto" - The Martian" (The Martian) di Ridley Scott. Con Matt Damon, Jessica Chastain, Christen Wiig, Jeff Daniels, Mackenzie Davis, Kate Mara, Sean Bean, Sebastian Stan, Chiwetel Ejiofor, Donald Glover Michael Peña, Askel Hennie, Naomi Scott, Jonathan Aris, Lili Bordán. USA 2015 ★★½
Ritorna Ridley Scott, un maestro dietro la cinepresa, sempre bravo a fare spettacolo anche se con trovate un po' scontate: il déjà vu è in agguato a ogni inquadratura, dalla trama (il recupero dell'eroe buono da parte dei "nostri") alle suggestive riprese di faticose traversate di lande desolate (un tempo erano i deserti nordamericani che facevano da sfondo ai western, adesso è la superficie pietrosa del "pianeta rosso", le cui riprese sono state effettuate, peraltro, in Giordania): perfino la colonna sonora è piena di riferimenti piuttosto  scontati (il David Bowie dell'epoca di Ziggy Stardust). La vicenda è lineare e dopo 5 minuti è già chiaro dove va a parare e come finirà: l'equipaggio della Missione Ares 3 (al comando una donna militare, Lewis: il politically e gender correct è d'obbligo) sfugge a una tempesta improvvisa che si scatena mentre sta raccogliendo reperti e comincia la manovra di rientro sulla Terra lasciandosi dietro il botanico Mark Witney, colpito da un oggetto e creduto morto. Ma è è in errore, perché il nostro eroe, il classico bravo ragazzo americano con  l'animo dell'eterno boy scout è vivo (e lotta insieme a noi, che pendiamo dalle sue labbra) Rimasto solo sul pianeta, il suo scopo è sopravvivere fino all'arrivo della missione Ares 4, previsto qualche anno dopo. Usando le sue conoscenze (o più probabilmente il Manuale delle Giovani Marmotte), riesce a coltivare delle patate marziane in serra, concimarle con i propri escrementi liofilizzati e a irrigarle con acqua di sintesi; a rimettere in funzione dei pannelli solari, e in moto un rover con cui farà i viaggio verso il punto di atterraggio di Ares 4. Grande agitazione a Houston, naturalmente, dove hanno più di un problema (soprattutto di finanziamenti da parte del Congresso) quando scoprono che Witney è vivo e riescono a mettersi in contatto col "Major Tom" naufragato sull'inospitale pianeta: che cazzo fare? In un primo tempo, mentre i cervelli della NASA elaborano un piano per mandargli rifornimenti, tengono all'oscuroi componenti della missione "Ares 3", ancora vicini a Marte, ma quando il razzo esplode (con grande godimento del sottoscritto) sono costretti a dire la verità ai colleghi di Mark che, a costo di rischiare di passare per degli ammutinati, se lo vanno a riprendere seguendo i calcoli di un programmatore pazzo furioso (naturalmente è il nero svitato tipo "rasta" ma geniale della situazione). Nel frattempo le comunicazioni tra Terra e Marte sono a livello di gag: l'ottimismo e il buon umore di Mark, pare di capire, sono una delle chiavi della sua sopravvivenza e della riuscita dell'intera operazione di recupero: e del resto non sono anche le basi del sogno americano realizzato? Non manca la collaborazione dell'ente spaziale dell'ex nemico: non quello russo, sia mai, ma quello cinese, con cui l'amministrazione Obama intrattiene rapporti più rilassati. C'è bisogno che vi sveli che tutto finisce bene? Naturalmente no. Alla fine, per quanto non si possa dire che il film sia brutto, si ha la netta sensazione di aver assistito, e questo per due ore e mezzo, a uno spottone commissionato dalla NASA (che ha contribuito a finanziare il film e, guarda caso, ha intenzione di intensificare i suoi programmi con obiettivo Marte), spettacolare e furbesco, dalle cui spese è rientrata a stretto giro di posta grazie al pubblico inclito quanto babbeo, tra cui io, che mi sono fatto incantare dal nome Grande Regista e da alcuni suoi film precedenti particolarmente riusciti. Guadagnandomi in  più un discreto mal di testa a causa dei particolari occhiali necessari per la visione in 3D (senza, il film perde due terzi dei suoi pregi). Io vi ho detto cosa vi aspetta, poi ognuno faccia come crede.

domenica 4 ottobre 2015

Omofobia, omoidiozia e omoarroganza



Krzysztof Charasma col partner
Non bastava Niki Svendola a sognare di sposarsi in chiesa col suo compagno, benedetto dal prete e con tanto di confetti (nel frattempo si consola con una baby pensione da 5618 € al mese a 57 anni e con 10 di contributi, mentre io, grazie alla Fornero, dovrò aspettare di compierne 68, per vederne, se va bene, la quinta parte), ora ci si mette anche il monsignore polacco Krzysztof Charasma a fare outing, per di più alla vigilia del Sinodo sulla famiglia che prende il via oggi in Vaticano, e a esigere che la sua chiesa, quella cattolica di cui è sacerdote per sua scelta e vocazione, "apra gli occhi" e cambi atteggiamento sull'omosessualità. Passi per il prepensionato comunistiano, da cui ci si possono bene immaginare le patetiche aspirazioni da piccolo borghese qual è, ma che a pretendere che Santa Romana Chiesa smentisca sé stessa sia un teologo che ha un ruolo di rilievo nella Congregazione della Dottrina della Fede è il colmo, come se io da anarchico avessi preso la tessera dell'ex PCI con la presunzione di cambiarne l'ideologia e la pratica che sono il contrario del libertarismo, o di essere interista e juventino contemporaneamente. Insomma un altro di quelli "caduti dal pero", il quale, dopo che sono passati 18 anni da quando è stato ordinato sacerdote, scopre che la chiesa cattolica ha qualche problema con gli omosessuali. Ora: non è che nelle alte sfere del Vaticano non sia nota l'alta percentuale di pederasti fra i propri ranghi, ma saggiamente preferiscono stendervi sopra un pietoso velo di silenzio, a prescindere dal fatto che, nella sua ottica, ogni peccato può essere alla fine rimesso, se "lavato" con la macerazione nel senso di colpa e nel pentimento, quantomeno temporaneo, e non a caso i pedofili, omosessuali o etero che siano, hanno da sempre trovato nell'ambito della chiesa cattolica ampi pascoli negli incarichi che vengono loro affidati, nonché adeguata copertura e protezione alle proprie nefandezze, ma a patto di non dare spettacolo e tenere la bocca chiusa; qui si accampano diritti e libertà incongruenti con la stessa dottrina che si ha il compito di difendere e divulgare, pretendendo che un'istituzione plurimillenaria cambi rotta rinnegando i propri principi solo per veder riconosciute le proprie preferenze sessuali. Cosa che posso anche capire in ambito civile, per quanto mi lasci perplesso e ritenga grottesco ambire al riconoscimento istituzionale, da parte di una qualsivoglia autorità, Stato o Chiesa che sia, dei propri legami sentimentali, ma che lo faccia un alto funzionario della gerarchia cattolica lo trovo assurdo, e ridicolo stare a disquisirci sopra: e trovo lecito e anzi doveroso (per non dire sacrosanto) che le autorità ecclesiastiche non solo provvedano a spretarlo, ma lo caccino a calci nel culo fuori dal Vaticano. Ché poi Monsignor Charasma, come l'onorevole Niki Svendola, non rischia certo di morire di fame, con tutta la pubblicità che ha fatto a sé stesso e al libro che, guarda caso, "è pronto per la stampa, in italiano e in polacco, un libro in cui metto la mia esperienza a nudo". Parole sue, che definiscono il personaggio esattamente come la baby pensione dell'ex governatore pugliese. In altri termini: cari gay, attenti a non sbroccare. Per quanto mi riguarda, è già da un pezzo che mi hanno rotto i coglioni il vittimismo e l'esibizionismo di tanti di voi.

venerdì 2 ottobre 2015

La prima luce

"La prima luce" di Vincenzo Marra. Con Riccardo Scamarcio, Daniela Ramirez, Gianni Pezzolla, Luís Gnecco, Alejandro Goic. Italia 2015 ★★★½
Il tema del film è di quelli "tosti": il destino dei figli delle coppie separate di diversa nazionalità e le inimmaginabili traversie cui sono sottoposte le persone che vengono coinvolte nelle procedure dell'affidamento, regolate da leggi statuali che privilegiano i possessori delle rispettive cittadinanze. A prescindere da tutto e alla faccia della "globalizzazione": perché i capitali, gli investimenti, sono liberi di circolare; le persone no, e meno che mai i figli minorenni, che vengono sballottati in base al capriccio del genitore "contrattualmente più forte" (nel 95% dei casi la madre) e sottostanno a regolamentazioni che nulla hanno a che fare con le loro esigenze, meno che mai quelle affettive. Marra è riuscito a trattarlo in maniera esemplarmente obiettiva e scevra da prese di posizione aprioristiche e giudizi moralistici, nonostante traspaia un punto di vista maschile, solitamente sorvolato quando si parla di vicende di questo genere, ed era ora. Marco, un avvocato barese, e Martina, la sua compagna cilena, sono una coppia in crisi, unita dal piccolo Mateo, 7 anni, che col padre ha un rapporto affettuoso e senza problemi. Peccato che Martina cada in una depressione da disadattamento vieppiù monomaniacale, con la fissa di rientrare nel suo Paese d'origine (manco fosse il paradiso) che già, tra quelli del" Continente Desaparecido", è quello più turbato da un punto di vista psico-antropologico: sicuramente ha subito traumi spaventosi, ma la "cilenità", che conosco, ci mette del suo, e posso solo immaginare che il regista del film ne abbia fatto esperienza diretta, per descriverla così bene attraverso il personaggio di Martina: dogmatica, egocentrica, superba, saccente, morbosa, dialetticamente micidiale e una rompicoglioni da competizione. Marco, suo marito, un giovane avvocato barese che "segue l'onda" e, al di là del rapporto col figlio, non si fa alcuna domanda sul disagio che la sua compagna prova in una realtà diversa dalla sua (difficile quando hai a che fare con qualcuno che ti manda messaggi contraddittori...), sottovaluta il suo malessere finché lei non sparisce, portandosi dietro Mateo, direzione "casa", l'unica che considera tale: Santiago, Chile, "mamá". Una città di sei milioni di abitanti, dove Marco si stabilirà dopo aver venduto tutti i suoi "status symbol" per affittare un appartamento in pieno centro, e allo scopo di rintracciare il figlio si affida a un collega cileno nonché a un investigatore privato. Ci riuscirà, nonostante tutto, riuscendo a comprendere finalmente anche il disadattamento di Martina in Italia, dopo avere sperimentato il suo in Cile, e  proprio nel suo campo d'azione: lui avvocato, viene sottoposto a un giudizio di "idoneità", dopo essersi dovuto sottoporre a una serie di analisi psicologiche fatte apposta per metterlo in cattiva luce. E rinunciando a provare a rapire Mateo a sua volta, come invece aveva fatto Martina quando era fuggita  da Bari approfittando di una trasferta di lavoro del suo compagno. E' qui che si aprirà un raggio di sole: quando Martina (forse) riconoscerà a sé stessa che Mateo e Marco hanno il diritto a volersi bene e di non perdersi, nonostante le sentenze demenziali dei tribunali e, soprattutto, le loro incomprensioni di coppia. Oltre a Marra, che non è certo solo una "promessa", complimenti a Riccardo Scamarcio; a differenza della sua compagna,  Valeria Golino, di cui ha generosamente contribuito a produrre Per amor vostro, è in grado calarsi nel personaggio conferendogli tutte le sfumature, dalle più ambigue a quelle più sincere, del caso, senza per questo cannibalizzarlo. Buon film, e non solo per chi, maschio, ha qualcosa da ridire sul funzionamento dei tribunali di famiglia, in Italia come altrove.