mercoledì 30 settembre 2015

TTIP: With a Little Help of Our Friends...





"Il giornale è la preghiera del mattino dell'uomo moderno", come diceva Hegel, e come da inveterata abitudine non mi vi sono sottratto nemmeno oggi, nonostante il ribrezzo che mi suscita la stampa italiana nel suo complesso: ma qualcosa si salva. Ad esempio, il "Fatto Quotidiano", dove trovo la chicca di cui sopra, a firma di Marco Palombi, e leggendola ho subito percepito una strana sensazione di déjà lu o entendu. Escluso che la notizia sia stata pubblicata o diffusa sui media mainstream, non mi sono nemmeno curato di verificare la sua esistenza sulle pagine on line dei quotidiani di regime, ma mi sono rivolto direttamente alla fonte: il quotidiano greco Ekathimerini, peraltro di orientamento conservatore, che ha anche un'edizione in inglese. Certamente non l'ho trovata lì. Ma allora dove ho letto o sentito qualcosa del genere in tempi non sospetti? Orpo, ma l'ho scritto io, e non tre giorni dopo il famigerato accordo, in luglio, tra Grecia e Troika, ma due giorni prima. Ora: ho sempre pensato che la modestia sia la virtù degli imbecilli e di conseguenza ho una stima di me stesso che rasenta il narcisismo, però non mi sono mai ritenuto un esperto di cose economiche né la politica è il mio mestiere, tantomeno sono un veggente e neppure tendo al complottismo, ma mi limito ad avere una decente cultura storico-geografica, spesso corroborata dalla conoscenza diretta dei luoghi di cui parlo per averli perlomeno visitati, e a tenermi mediamente informato. Quindi mi chiedo: ci voleva tanto ad arrivarci o almeno a nutrire qualche sospetto in proposito? Come per esempio sul "Caso Volkswagen", scoppiato, guarda caso, negli USA? No: basta un minimo di buon senso e spirito di osservazione. Che non ha bisogno di lauree, cariche istituzionali e meno che mai tessere di ordini professionali ed è completamente gratuita. Certo: il cervello, se lo si ha, tocca anche usarlo. 

martedì 29 settembre 2015

Per amor vostro

"Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino. Con Valeria Golino, Massimiliano Gallo, Adriano Giannini, Elisabetta Mirra, Edoardo Creò, Daria D'Isanto, Salvatore Cantalupo, Rosaria Di Cicco. Italia 2015 ★+
Ottime le intenzioni del regista (che torna al cinema con un lungometraggio a quasi vent'anni di distanza dalla sua opera prima, Giro di lune tra terra e mare, del 1997, ambientata a Pozzuoli, suo luogo di nascita) che, mettendo in scena in una maniera che deve molto al teatro (sperimentale) le contraddizioni di una donna "che è cosa da niente", racconta simbolicamente quelle della città in cui si svolge la vicenda (Napoli). Originale il modo in cui lo fa e l'impasto con la narrazione a voce (e musica) fuori campo che talvolta l'accompagna e la fusione con elementi della classica "sceneggiata"; suggestivo il bianco e nero delle immagini che conferisce un tocco "neorealista", interrotto da squarci di colore in alcuni momenti "topici": si, va beh, però che palle, se l'effetto è guardare l'orologio dopo solo una mezz'ora dall'inizio della proiezione. Tanta buona volontà e un dispiego di energie e di mezzi imponente per un risultato contraddittorio quanto Anna (il personaggio principale) e la realtà partenopea. Tutto il film è impostato su Valeria Golino, la cui interpretazione le è valsa la Coppa Volpi come migliore attrice al recente Festival di Venezia, il che la dice lunga sui criteri utilizzati dalla giuria di quest'ultima edizione, che tutto è tranne che un'attrice, perché non è mai lei ad adattarsi al personaggio che interpreta, ma è quest'ultimo a diventare, invariabilmente, Valeria Golino, con i suoi tic, le sue movenze nevrotiche ed esagerate, la sua voce urticante (a nulla temo le servirebbe, dopo 20 e passa anni di carriera, un corso di dizione, nemmeno in napoletano): il confronto con la sua più illustre concittadina, Sofia Loren, peraltro infinitamente più fascinosa di lei ancora a 80 e rotti anni, è impietoso in tutti i sensi, e in effetti Anna, nella sua irresolutezza, nel non voler vedere, è irritante quanto la Golino che le presta il volto e il corpo. Finita in un carcere minorile per espiare una colpa del fratello mezzo scemo, Anna Ruotolo perde le sfrontatezza e risolutezza che aveva da ragazzina in nome di un "tirare a campare" assieme ai tre figli, di cui uno sordomuto, che la porta a diventare cieca sul come il marito (stronzo e violento di suo) faccia a procurarsi il danaro senza lavorare: è un usuraio e contribuisce a mandare in rovina gente affetta dal vizio del gioco. Lei sa, perché tutto il circondario glielo fa sapere e la tratta con disprezzo, ma fa finta di non saperlo. Il suo "riscatto" (apparente) comincia quando viene assunta come "suggeritrice" in una televisione, dove viene apprezzata dai colleghi e anche dagli attori di una telenovela che viene girata in città, tipo "Un posto al sole", e prende corpo, assieme alla sicurezza in sé stessa, quando l'attore protagonista, un bietolone con lo sguardo spermatico (il bravo Adriano Giannini, figlio di cotanto padre), fa mostra di invaghirsi di lei: peccato che sia in combutta, o semplicemente in debito, non si capisce bene, col marito di Anna, che lei ha appena denunciato alla polizia. Mi fermo qui, perché la sceneggiata finisce con un tentativo di suicidio che si risolve felicemente in un fallimento, con tanto di esplosione di colore e soprattutto coi titoli di coda che scorrono per altri cinque interminabili minuti (ho fatto in tempo ad andare in bagno e uscirne che fluivano ancora): è finita, anche questa è andata. Quanto spreco di talento, anche da parte del regista, che sicuramente conosce il fatto suo, ma finisce per diventare masturbatorio allo sfinimento e menarla ossessivamente con le sue fantasie e fissazioni. Ultima notazione, tutti gli altri interpreti indistintamente, a cominciare dal marito di Anna, interpretato da Massimilano Gallo, al figlio sordomuto, sono più bravi ed empatici della Golino. Per amor vostro, evitatelo: io vi ho avvertito.

domenica 27 settembre 2015

Sicario

"Sicario" di Denis Villeneuve. Con Emily Blunt, Benico Del Toro, Josh Brolin, John Bernthal, Jeffrey Donovan e altri. USA 2015 ★★★★-
Una conferma di questo regista franco-canadese che, dopo La donna che canta e soprattutto Prisoners (mentre non è ancora uscito in Italia Enemy), non è più da considerarsi una promessa: sicuro dietro la macchina da presa e abile nel raccontare una storia tenendo costante la tensione e l'attenzione dello spettatore oltre che bravo a scegliersi interpreti adatti al ruolo, ha la particolarità di avvalersi di volta in volta di un genere cinematografico, rimanendo fedele ai relativi canoni, per raccontare anche e soprattutto i lati nascosti e non confessati di una società o frammento di essa, e di riuscirci sempre in maniera convincente senza essere mai pedante e didascalico. In questo caso utilizza il film d'azione, e in particolare il filone "lotta al narcotraffico" (e viene in mente innanzitutto il classico Traffic; ma anche il recente La regola del gioco, che non vale Sicario), per fare affiorare la zona d'ombra e il "non detto" e lo fa attraverso il disagio e i conflitti di quei suoi personaggi, a loro volta complessi e contraddittori, che vi vengono in contatto. Qui è il caso di Kate, giovane e idealista agente del FBI, che dopo un'azione in cui per caso vengono scoperti una trentina di cadaveri vittime della guerra tra cartelli della droga (siamo al confine fra USA e Messico), interpretata dalla brava Emily Blunt, viene arruolata dalla CIA e usata come esca in una serie di azioni "coperte" oltre frontiera, che fanno parte di una strategia inconfessabile, ossia di usare mezzi profondamente illegali non tanto per combattere il narcotraffico (cosa che dalle stesse alte sfere di un Paese che ha il maggior numero di consumatori e tossicodipendenti al mondo è ritenuta inutile e impossibile), ma almeno per controllarlo riducendo quanto più possibile il danno, anche avvalendosi, come nel caso del film, di un sicario, un agente esterno: nella fattispecie un ex pubblico ministero colombiano a cui i "cartelli" hanno sterminato la famiglia e la cui motivazione, più che il denaro, è la vendetta: personaggio interpretato da un tenebroso quanto efficace Benicio Del Toro, perfetto nel ruolo quasi quanto Josh Brolin, capo delle operazioni e cinico agente della CIA che gira in infradito, a mio giudizio il migliore di un cast comunque all'altezza. Rimangono a lungo impresse le riprese dei paesaggi desertici ai confini tra Arizona e Sonora nonché Texas e Chihuaha, e decisamente inquietanti quelle delle aree urbane di Nogales e Ciudad Juarez, che rendono perfettamente l'idea di quel che da anni succede quotidianamente da quelle parti: quindi a una vicenda raccontata in modo fluido e comprensibile nonostante la sua complessità, si aggiungono un'ottima fotografia e un'adeguata la colonna sonora, senza bisogno di strafare. 

venerdì 25 settembre 2015

VW: il finto scandalo e i finti tonti


E' indecente e al tempo stesso esilarante lo spettacolo offerto dall'infinita gamma di reazioni e commenti sul presunto "Caso Volkswagen", a cominciare dai mannagger, per proseguire coi politici, gli economisti, i tuttologi, i media in generale ma anche gli esperti da bar: chi fa le mosse di scandalizzarsi; chi si frega le mani perché anche i tedeschi (sai che novità) si sono sputtanati dimostrando di essere uguali e non migliori degli altri (per la serie siamo tutti ladri e teniamo famiglia); chi vede solo complotti (e sicuramente la faccenda influirà sui mercanteggiamenti sottobanco in vista della conclusione del TTIP) e chi insiste con l'invocare una inesistente "moralità" dei mercati che tutto sistemerebbe, come se per definizione un imprenditore capitalista non ne fosse privo. Quasi tutti, invariabilmente, cadono dal pero, facendo finta che alla base di questa, come di ogni altra vicenda che abbia a che fare coi dané, non vi siano, semplicemente, l'avidità e l'egoismo umani, per cui qualsiasi cosa è finalizzata al profitto qui e ora, senza volersi rendere conto che il capitalismo, come sistema economico, è semplicemente lo strumento più efficace per incentivare al massimo quell'avidità, e che il liberismo e il mercatismo senza limiti, e la loro elevazione a dogma globalizzato, ne sono il supporto ideologico: tutto qui, e fine dei discorsi. Detta in altri termini, il capitalismo funziona come una droga, ma di quelle pesanti. Una volta innescato il meccanismo, basato sulla liberazione progressiva dai vincoli che gravano sul "mercato", e in base al presupposto di uno "sviluppo" in linea di principio inarrestabile e infinito, cosa che non è, a meno di non ipotizzare il passaggio a una dimensione diversa da quella che conosciamo come esseri terrestri e mortali, bisogna assumerne in dosi sempre maggiori, fino ad arrivare all'eliminazione completa di qualsiasi vincolo, il che porta prima o poi all'overdose fatale, anche nel caso in cui ci si possa permettere la sostanza di qualità migliore; se poi viene "tagliata", come nel caso dell'innesto della finanziarizzazione nel normale ciclo produttivo, non si fa che accelerare l'arrivo del momento finale. Semplicemente, stiamo avvicinandoci a quel punto, e i segnali ci sono tutti; il cosiddetto "scandalo VW" è uno, e non dei maggiori; la cosiddetta "emergenza profughi" e la relativa bomba migratoria ne è un altro. Quanto manchi, non ne ho la minima idea: molto probabilmente non lo vedremo io e i miei coetanei, una parte dei quali ha sempre auspicato il suo arrivo, però per mano nostra; che arrivi è scontato, ma se il sistema così com'è vi giunge sulle sue gambe, benché sempre più traballanti, si porterà inevitabilmente via tutto, secondo la sua logica perversa, che è cieca e non prevede altro che la propria riproduzione, come un virus: perché tale è. C'è di buono che noi non ci saremo...

giovedì 24 settembre 2015

Sangue del mio sangue

"Sangue del mio sangue" di Marco Bellocchio. Con Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Herlitzka, Lidiya Liberman, Fausto Russo Alesi, Alberto Cracco, Toni Bertorelli, Bruno Cariello, Elena e Alberto Bellocchio, Alba Rohrwacher, Federica Fracassi, Ivan Franek, Patrizia Bettini, Sebastiano Filocamo, Filippo Timi. Italia 2015 ★★★★½
Da "bellocchiano" storico, ammetto di non essere obiettivo nel giudicare un film del regista con cui sento di condividere più che con altri non solo pressoché in toto il modo di pensare, ma anche sensibilità, gusti e alcuni vezzi, che me lo rendono famigliare nel senso più proprio del termine. Per quanto "Sangue del mio sangue" non sia un capolavoro cinematografico, né aspiri ad esserlo, è un film suggestivo, girato da un maestro, a tratti potente, a tratti lieve ed esilarante, che si inserisce nel filone più strettamente "bobbiese", dal luogo di nascita di Marco Bellocchio, la bella cittadina del Piacentino dove ogni estate tiene il laboratorio per giovani "Fare cinema" e cura il Bobbio Film Festival, a cui appartengono Vacanze in Val Trebbia, Sorelle e Sorelle Mai nonché lo stesso I pugni in tasca, a mio avviso una pietra miliare, girato in parte, come i precedenti, nella casa della madre dell'autore. Due vicende si intrecciano a distanza di 400 anni nello stesso luogo, le ex carceri di Bobbio, già convento di clausura, che appartenevano al monastero di San Colombano, e lo stesso fiume, il Trebbia: quelle di suor Benedetta, murata viva perché la si voleva far passare per posseduta dal demonio per compiacere la famiglia di un soldato di ventura, appartenente alla potente famiglia Mai, il cui fratello prete era stato sedotto dalla ragazza e fu poi sepolto in terra sconsacrata, e quella attuale di un maggiorente del paese, un conte chiamato "il Vampiro" (un grandissimo Roberto Herlitzka), che ha reso lo stesso luogo (l'ex convento di clausura) la sua dimora abusiva dove vive in incognito in una sorta di autoreclusione volontaria, la cui quieta esistenza, come quella degli altri paesani di cui conosce ogni vizio e che consiste in un andazzo di piccoli traffici e imbrogli, viene turbato dall'arrivo di un altro Mai, un sedicente ispettore della Regione, che vorrebbe vendere l'immobile a un ricco musicista russo a scopo speculativo. E' la globalizzazione (bellezza!) che giunge anche a Bobbio (ma Bobbio pur nel suo piccolo è il mondo) e minaccia il quieto vivere, fatto di traffici e favori ma tutto sommato più umano della logica mercatista a oltranza che tutto appiattisce: un mondo che ormai è stato travolto. Il conte-vampiro smaschera l'impostore, ma nulla può contro il "progresso", così come l'ex soldato di ventura, diventato cardinale, nulla può contro la donna, una Benedetta giovane e luminosa, uscita più bella di prima da una "muratura" durata decenni. Le due vicende sono intrecciate per più di un motivo, a cominciare dagli attori, fra cui due figli del regista, Pier Giorgio ed Elena e il fratello Alberto (pure gli altri sono, sostanzialmente, di famiglia), ma anche per altri temi che ricorrono nei film di Bellocchio: la famiglia, il potere, la religione, il ruolo della donna, la colpa, la corruzione, benché vengano raccontate in maniera pressoché opposta, passando dalla tensione e da una cupezza quasi caravaggesca della storia secentesca alle scherzosa ironia sulla grottesca e scoraggiante dimensione odierna. Tratto comune, e perdurante nella produzione di Bellocchio, la vena di una certa follia tipicamente bobbiese. E ben venga la follia e perfino la truffa, ma soprattutto la fantasia e la libertà d'espressione, piuttosto che il rimbecillimento e l'annichilimento globalizzati. 

martedì 22 settembre 2015

L'attesa

"L'attesa" di Piero Messina. Con Juliette Binoche, Lou de Laâge, Giorgio Colangeli, Domenico Diele, Antonio Folletto, Corinna Lo Mastro, Giovanni Anzaldo. Italia 2015 ★★★★½
Convincente e promettente l'opera prima di Piero Messina, finora conosciuto come aiuto-regista di Paolo Sorrentino, in concorso alla 72ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e completamente ignorata in sede di premiazione: sono curioso di verificare cos'ha trovato di meglio la prestigiosa giuria... Col suo "maestro" Messina ha sicuramente in comune il senso estetico e il gusto del particolare, un'ottima fotografia, una particolare sensibilità nell'abbinare l'immagine al suono, che riveste un ruolo importante, e l'apprezzabile tendenza a riempire di significato i pochi, essenziali dialoghi che avvengono durante il film: non per questo si tratta di un lavoro manierista, e la capacità di raccontare attraverso una storia l'invincibilità del dolore più profondo, come quello della perdita del figlio da parte di madre, è tutta merito dell'autore. In una magnifica e vecchia villa sulle pendici dell'Etna, dove vivono Anna e l'inserviente Pietro, si è appena compiuto un lutto quando, inaspettatamente, da Parigi arriva Jeanne, la giovane fidanzata del figlio di Anna, Giuseppe, per le vacanze di Pasqua, in un tentativo di rimettere in piedi il loro rapporto dopo un periodo di crisi. Gli lascia messaggi sulla segreteria del cellulare, a cui non ottiene risposta, e quando chiede ad Anna cosa ne è di lui la donna rimane nel vago dicendo che è morto suo fratello e che il figlio è molto preso e tornerà tra qualche giorno, in tempo per festeggiare insieme la Pasqua, e in questa situazione sospesa, l'attesa per l'appunto, nasce e si sviluppa il rapporto tra le due donne, che imparano a conoscersi e la cui comprensione reciproca è avvantaggiata dal fatto d'essere entrambe di origine francese, e intelligentemente è in questa lingua che avvengono i dialoghi, sottotitolati, tra Anna e Jeanne, dove da un lato c'è l'intenzione da parte della madre di Giuseppe di evitare di dare un dolore che è molto più grande di un ipotetico abbandono alla ragazza, ma soprattutto è un modo per far continuare a vivere, in una dimensione che è proprio l'attesa delle due donne, il figlio, fino al disvelamento simboleggiato in una potente scena di una delle processioni della Settimana Santa a Caltagirone (la città della ceramica, non a caso luogo nascita del regista). Un film molto suggestivo, dalle immagini potenti, come lo sono i panorami dell'isola, molto siciliano (richiamare alla memoria Pirandello, ma anche Verga, è perfino banale) ma per nulla folcloristico, che si avvale delle interpretazioni intense ma al contempo controllate e sensibili sia della Binoche sia della giovane e dolce Lou de Laâge, senza dimenticare quella essenziale, di rara efficacia, del bravissimo Giorgio Colangeli. Visto che non l'ha fatto la giuria veneziana, mi auguro che ci pensi il pubblico a premiare questo gran bel film.

mercoledì 16 settembre 2015

Sai tenere un segreto? Mljet!

Il Piccolo Lago del Parco Nazionale di Mljet

Mi è tornata in mente la testata di un blog di grande successo negli anni "Zero" che fece della sua autrice, mia conterranea, una blogstar dell'epoca, prima che si trasferisse nella capitale e si dedicasse ad altro, ed era anche il titolo di uno dei best seller di una scrittrice britannica di chick lit, Sophie Kinsella. Il motivo? La regola aurea di non svelare per nessun motivo, se non a una cerchia ristrettissima e scelta, l'ubicazione di osterie "giuste", così come ricette particolari e, a maggior ragione e per estensione, luoghi particolarmente belli e meritevoli, per il sacrosanto principio che la pubblicità è in sé nociva e porta inevitabilmente, più prima che poi, alla corruzione di quanto svelato. Ma voglio correre questo rischio, intanto perché non sono mai diventato una blogstar nonostante una decina di anni di attività e una discreta quanto varia produzione, e poi perché la mia ristretta e affezionata platea merita tanta paziente dedizione alle mie alzate d'ingegno. La perla che segnalo ai miei pochi ma selezionati lettori è l'isola di Mljet, in italiano Meleda (l'isola del miele), nel Sud della Dalmazia, secondo la tradizione locale identificata con l'isola di Ogigia citata da Omero nell'Odissea, dove Ulisse venne trattenuto per sette anni da Calypso che, innamoratasi dl lui, l'avrebbe rilasciato soltanto dietro espresso ordine di Ermes (Mercurio), il dio protettore del commercio, dei ladri e dell'eloquenza (ossia dei futuri giornalisti) e, nell'astrologia, dominus dei segni dei gemelli e della vergine. Vi sono quindi delle ragioni di influssi astrali che mi tengono inchiodato qui ormai da una settimana senza che senta alcuno stimolo a levare l'ancora, meno che mai per fare ritorno nella Terra dei Cachi. 


Sullo sfondo, il ponticello sul canale che collega il Piccolo Lago (in primo piano) con il Grande Lago nel Parco Nazionale di Mljet

Mljet è verdissima, ricoperta per intero da boschi, lunga 37 chilometri e larga una media di tre, percorsa da una panoramica strada asfaltata, a tratti spettacolare, lungo una direttrice SudEst-NordOvest, la stessa della disposizione dell'isola; dal 1960 la sua parte occidentale, per un'estensione di 5400 ettari, è Parco Nazionale e al suo cuore, che comprende due laghi salati collegati tra loro da uno stretto canale artificiale che si supera con un minuscolo ponte e da un'altro naturale con il mare, si accede soltanto a piedi o in bicicletta, ma vi è consentito prendere il sole, nuotare e percorrerli in kayak. Nel Lago Grande si trova l'isoletta in cui sorge il monastero benedettino di Santa Maria, del XII secolo, fondato da monaci provenienti dal Gargano, e a cui si può accedere tramite battelli che la collegano con due punti strategici della costa: anche qui, in alcuni punti  è consentita la balneazione. 


Il convento benedettino di Santa Maria del Lago, sull'omonima isoletta nel Parco Nazionale di Mljet

A Mljet si giunge solitamente con gite organizzate da Dubrovnik o da Curzola, con traghetti veloci che attraccano a Polače o Pomena, mentre se vi si vuole accedere in automobile l'unica alternativa è il traghetto che raggiunge Sobra da Prapratno, sulla penisola di Pelješac (Sabbioncello), celebre per i suoi gustosi frutti di mare: vi si giunge lungo l'autostrada A1 che da Spalato porta a Dubrovnik e al momento è costruita fino a Ploče, capoluogo della fertilissima Piana della Neretva (il fiume che scende dalla Mostar del famoso ponte) da cui proviene la frutta e la verdura che non dovesse essere prodotta in maniera sufficiente sull'isola (dove l'agricoltura, assieme alla pesca e al turismo estivo è l'attività pressoché esclusiva). Vi si spende leggermente di più, per vitto e alloggio, che nel resto della Croazia, in compenso si mangia mediamente meglio e nel giro di pochi giorni si ha l'impressione di essere a casa perché gli abitanti ti fanno sentire come uno di famiglia: senza smancerie e non svendendosi ai turisti, come a farti capire che fai parte di una élite che ha scelto l'isola non a caso, e quindi non c'è bisogno di prostrarsi ed essere servili: basta essere sé stessi, gentili, disponibili e schietti come der resto è nel carattere dei dalmati. E infatti i visitatori stanziali sono fortunatamente scarsi, così come gli indigeni (poco più di mille all'ultimo censimento): d'altronde c'è soltanto un albergo a Pomena, mentre per il resto si è ospitati in camere o appartamentini presso le famiglie locali, e difficilmente non vi si trova alloggio, anche in alta stagione. C'è un discreto movimento di yacht, ma anche in questo caso si tratta di intenditori, gente appassionata di vela e che non la pratica per esibizionismo, non chiassosa, invadente e "sborona". Insomma un paradiso. Allora, lo sapete tenere un segreto?

venerdì 11 settembre 2015

La bella gente

"La bella gente" di Ivano De Matteo. Con Monica Guerritore, Enzo Catania, Victoria Larchenko, Iaia Forte, Elio Germano, Giorgio Gobbi, Myriam Catania. Italia 2009 ★★★★+
Viene spontaneo chiedersi come mai venga distribuito soltanto oggi, sette anni dopo che fu girato e sei che era pronto a uscire nelle sale un film che pure vanta interpreti di prim'ordine, tra cui svetta una magnifica Monica Guerritore che è abbastanza inconsueto vedere sul grande schermo, e questo nonostante il buon successo di altri due film di De Matteo, Gli equilibristi e I nostri ragazzi, entrambi successivi a "La bella gente". In tempi di buonismo imperante e in considerazione del fatto che una certa cultura "conformista de sinistra" non ha mai mollato la propria presa sul mondo cinematografaro essenzialmente romanocentrico, il motivo salta all'occhio: perché "La bella gente" descrive ferocemente, senza dover essere caricaturale e ricorrere ad artifizi vanziniani od ozptetekiani, e quindi doverosamente sputtana proprio la genia che è la perfetta espressione di quel mondo: il piddino-tipo, e lo fa con una precisione chirurgica che fa sperare di aver trovato un degno erede di un grande maestro: Mario Monicelli. A differenza di altri presunti eredi della "commedia all'italiana" dei bei tempi andati, l'occhio di De Matteo è distaccato e non complice di questo maniacale parlarsi addosso e dell'esibizione dei propri turbamenti, e molto si deve alla scelta degli interpreti, su cui giganteggia la Guerritore, che impersona una psicologa che si occupa del recupero di donne oggetto di violenza la quale, andando col marito immobiliarista ma progressista, e dunque "corretto" per (auto)definizione, a trascorrere le vacanze estive nel bel casale ristrutturato del Viterbese, incoccia in una giovanissima prostituta ucraina e si incaponisce nel volerla "salvare" inducendo il compagno a operare un vero e proprio sequestro di persona e imporre alla poveraccia la propria "bontà". Inizialmente la coppia di "bravi democratici", che freme dalla voglia di redimere Nadja, questo il nome della ragazza, la tratta come una di famiglia, imponendola perfino alla coppia di amici e vicini che, da gretti cafoni rifatti ma almeno autentici, subito percepiscono che la situazione è paradossale e non lo nascondono, ma quando arriva il figlio, studentello viziato a Londra, assieme all'odiosa fidanzata pariolina, e nasce qualcosa tra lui e Nadja, il perbenismo ipocrita della piccolo borghese "arrivata" ha il sopravvento sulla velleitaria progressista ex rivoluzionaria e la "colta" psicologa femminista militante inizia a trattarla come una serva e una possibile ladra nonché intrusa, rivelando il proprio autentico, invariabile volto autoritario e fascistoide, pronta a scaricare "il pacco" che le è servito per lavarsi la coscienza e pensando di salvarsi l'anima con una busta di contanti: alla fine è pur sempre una puttana, no? La Guerritore è sontuosa nell'accompagnare questa "evoluzione" passo dopo passo, con infinitesimali variazioni di toni, sguardi e gesti, ben supportata da tutto il resti del cast e da una regia pulita e senza fronzoli: insomma, secondo me De Matteo ha fatto definitivamente centro. Complimenti e grazie!

martedì 8 settembre 2015

La disfida di burletta


Quella sui migranti è una sfida che vede umani contro bestie, dice uno; un presidente del consiglio che usa la foto di un bambino per la sua campagna elettorale è un verme ribatte l'altro: mentre Angela Merkel apre le frontiere (personalmente la cosa non mi sorprende) e si dice disposta ad accogliere mezzo milione di profughi l'anno (avendo sicuramente già elaborato il sistema per selezionarli nella maniera più efficace e conveniente) candidandosi così al Nobel per la Paceprendendosi la responsabilità di decidere per tutta l'UE (avete voluto una guida credibile? Eccovela e adesso tenetevela!) i dioscuri del mondo politico italiota dimostrano ancora una volta a quale livello si collochi il dibattito nella Terra dei Cachi (e i media tutti a tener loro bordone). Poi qualcuno obietta che la Germania "si lava la coscienza" oppure "se lo può permettere di essere generosa": sta di fatto che se se lo può permettere è perché, anche rispetto ai "migranti" ci ha pensato prima e perché qualcuno, fra cui noialtri, a fare il bello e il cattivo tempo e a dettare, come si usa dire, l'agenda, glielo abbiamo colpevolmente consentito da almeno 25 anni a questa parte, ossia dalla caduta del Muro e dalla riunificazione (o riannessione?) generosamente finanziata dall'intera UE (Gran Bretagna esclusa, naturalmente, ché quelli sono soci a sé e solo quando fa loro comodo). Non che me ne freghi niente, per quel che penso dell'UE, a mio avviso nient'altro che un specchietto per le allodole per far credere ai gonzi che il Continente non sia di fatto un protettorato USA e abbia un proprio margine d'autonomia decisionale, ma tanto per chiarire le responsabilità di ciascuno. I tedeschi i conti con Hitler e il nazismo li hanno fatti, col razzismo anche, o almeno in gran parte (in entrambi i casi guarda caso più a Ovest che a Est), hanno uno Stato (anche sociale) che funziona e un'economia (capitalistica) florida rispetto a quella della concorrenza: noi no. Per incapacità, stupidità e servilismo. Loro hanno la Merkel come cancelliera, che non è certo una cima, e Siegmar Gabriel a capo della SPD, attualmente partner di coalizione della CDU/CSU; noi abbiamo Renzi, Salvini e il convitato di pietra Berlusconi, e quasi la metà degli italiani ancora va in gabina a dare loro il voto, e questo spiega tutto. Tutto il resto è noia, come cantava quello là, e in attesa di trasferirmi in Dalmazia per un po' tornerò a dedicarmi al cinema, ché mi sembra una cosa più seria di queste beghe puerili.

lunedì 7 settembre 2015

Il grande quaderno

"Il grande quaderno" (Le grand cahier) di Janos Szasz. Con Andras e Lászlo Gyémant, Piroska Molnár, Ulrich Matthes. Ulrich Thomsen, Gyöngyvér Bognár e altri. Germania, Ungheria, Australia, Francia 2013 ★★★★½
Alquanto snobbato dalla critica pennivendola, pronta a osannare qualsiasi vaccata alla moda e possibilmente hollywoodiana nonché i suoi idoli di cartapesta, ho trovato "Il grande quaderno", fedelmente tratto dall'omonimo romanzo che costituisce la prima parte della "Trilogia della città di K." di Ágota Kristóf, formidabile scrittrice ungherese rifugiatasi in Svizzera dopo l'invasione sovietica del 1956, uno dei migliori film usciti quest'anno. Non era facile riprodurre visivamente la scrittura scabra e chirurgica della Kristóf, che da sola riusciva a evocare la disillusione e la mancanza di speranza di un mondo definitivamente corrotto dalla guerra, riflesse nella storia dell'adolescenza di due gemelli abbandonati, a causa delle vicissitudini del conflitto, dai genitori nelle mani di una nonna megera, ma Szasz ci è riuscito confezionando una pellicola di grande rigore formale e scegliendo degli interpreti assolutamente perfetti nelle loro parti nonché bravissimi: Piroska Molnár, nei panni della "strega", la nonna malvagia, vale da sola il prezzo del biglietto. Mentre la guerra, che non si vede mai però si percepisce sempre incombente, sta sconvolgendo le abitudini quotidiane di una città senza nome, possibilmente Budapest, e dunque l'agiata esistenza della famiglia borghese a cui appartengono i due gemelli, la madre li conduce nella squallida fattoria della propria madre, ai confini, si suppone, con l'Austria, da cui era fuggita anni prima senza dare più segni di vita, promettendo loro di tornare a riprenderli il più presto possibile, mentre il padre, militare, si congeda affidando loro un quaderno in cui annotare ogni avvenimento relativo alla loro esperienza. Abbandonati di fatto nelle grinfie della "strega", detestata da tutto il paese, i due sono costretti a subire le angherie di quest'ultima nonché a lavorare duramente ai suoi ordini per poter sfamarsi. Per sopravvivere, fisicamente e spiritualmente, si impongono un codice di autodisciplina durissimo, che consente loro di destreggiarsi tra abusatori sessuali, ladri, sfruttatori, opportunisti, una varia umanità che la guerra rende ancora più feroce e pusillanime. I due, fortificati da un codice etico che si sono costruiti da soli, sopravvivono alle vicende del conflitto, le cui sorti stanno sempre più precipitando, fino all'arrivo del nuovo occupante, questa volta l'Armata Rossa anziché l'esercito nero, e tutta la vicenda di questa loro durissima autoformazione null'altro è che l'educazione a una inevitabile separazione che conclude la prima parte della Trilogia nonché la pellicola. L'aspetto che più mi ha colpito del film è la potenza con cui evoca un'atmosfera che io stesso ricordo di avere respirato nei primi anni Sessanta, quando sopravviveva, nelle relazioni umane e nelle abitudini, nelle zone rurali e meno colpite direttamente dagli esiti della guerra dell'ex Terzo Reich, per cui quasi ne percepivo colori, immagini, odori. A contribuire alla riuscita del film, la magistrale e luminosa fotografia affidata a Christian Berger, collaboratore di fiducia di Michael Haneke, il cui "Il nastro bianco" viene inevitabilmente alla mente vedendo questo "Il grande quaderno". 

venerdì 4 settembre 2015

Il lungo addio


Purtroppo i giorni sono stati poco più di cento da quando aveva compiuto, il 13 maggio scorso, 18 anni, e così oggi pomeriggio alle 16 si è prima addormentata tra le mie braccia e  poi se ne è andata, con l'assistenza del veterinario curante, la mia amatissima Filli. Temevo questo momento, intuendolo ormai sempre più prossimo, e ogni volta che me lo immaginavo lo rimuovevo, anche perché fino a poche settimane fa la micia era in perfetta salute, pur con tutte le eigenschaften (stranezze) dovute all'avanzare dell'età. Una disfunzione renale, tipica del gatto anziano, l'ha colpita togliendole man mano l'appetito, a lei che ce l'aveva sempre avuto robusto, e al contempo fiaccato, fino all'anoressia nelle ultime due settimane e alla perdita, negli ultimi giorni, della lucidità. A nulla sono servite la reidratazione via flebo, avventurosamente eseguita da me lo scorso fine settimana a casa, né il ricovero in clinica veterinaria da lunedì mattina: il suo organismo rifiutava il cibo, anche quello che le veniva somministrato forzatamente, e davanti a questo quadro, e al fatto che ero sicuro che non fosse più del tutto in sé, e allo stesso tempo non sentiva ancora dolore fisico, ho deciso per l'eutanasia. Il suo ricordo, sicuramente il più dolce che conserverò, lo porterò sempre con me. Addio Filli.

Filli la mattina di sabato scorso, negli ultimi momenti in cui era ancora lucida e pienamente cosciente di sé

mercoledì 2 settembre 2015

In un posto bellissimo

"In un posto bellissimo" di Giorgia Cecere. Con Isabella Ragonese, Alessio Boni, Paolo Sassanelli, Piera Degli Esposti, Michele Griffo, Faisal Abbaoui, Tatiana Lepre, Teresa Acerbis. Italia 2015 
Tanto era stato convincente "Il primo incarico", film d'esordio, del 2011, di Giorgia Cecere, quanto non lo è questa sua seconda prova, che pure si avvale, come la prima, dell'ottima interpretazione di Isabella Ragonese, ma non basta una brava attrice, anzi due (Piera Degli Esposti in una piccola parte) e un bravo attore (Paolo Sassanelli nel ruolo del timido istruttore di scuola guida) per fare un buon film. Certamente non contribuisce l'espressività da tubero di Alessio Boni, nel ruolo di Andrea, il fedifrago (ma solo un pochino, ché si tratta di una storia passata e scoperta grazie a un'accenno della suocera) marito di Lucia, una donna timida, concentrata sul suo matrimonio, il figlio adolescente e il negozio di fiori che gestisce assieme a una socia nel centro di Asti, delegando tutto il resto al coniuge. In sostanza il film racconta la progressiva presa di coscienza, che sembra prendere piede solo dopo l'incontro di Lucia con Faysal, un maghrebino che vende paccottiglia nei pressi del suo negozio. In sostanza, in un crescendo di spigolature il cui significato viene lasciato in buona parte alla più che volonterosa immaginazione dello spettatore, vengono alla luce piccoli traumi del passato e del presente che hanno chiuso Lucia in un mondo all'apparenza perfetto, e di cui lei prende man mano coscienza liberandosi, in qualche modo, delle catene che lei stessa si è stretta addosso. Peccato che il tutto avvenga con una lentezza esasperante e con alcune svolte del tutto incongruenti: Tommaso, il figlio, onnipresente nelle prime inquadrature, in cui la madre si rivede allo specchio, sparisce dal film fino al quarto d'ora finale; non si capiscono i rapporti di Lucia né coi suoi genitori né con la madre di un'amica di gioventù che pare di capire sia scomparsa in un incidente; non mancano luoghi comuni come l'immancabile scena in discoteca onnipresente in ogni film italiota, e la Cecere non ci fa mancare nemmeno l'imbarazzante esibizione della povera Ragonese in un penoso "karaoke" nel corso di una serata "di vita" e di tentato recupero assieme al marito Andrea, che nell'occasione oltre all'espressione da tubero riesce ad assumere pure quella del carciofo. Una serie di passaggi privi di senso e di una logica fino al colpo di scena finale in cui Lucia, come fulminata sulla via di Damasco, segue una  sconosciuta fino su un autobus che si perde nella notte nebbiosa perché ha qualcosa da dirle. Successivamente, in un'altra stagione, torna ad Asti e si capisce che è andata a vivere in una città diversa, forse con la misteriosa donna del bus, magari perché si era resa conto di essere lesbica, e che ha mollato il negozio, il marito e i figli. Ma chi può dirlo? Di certo, dopo 20' di film si comincia a guardare con ansia l'orologio e i 102' di durata sembrano tre ore. A meno che non siate masochisti, un trituramento di coglioni da manuale.