sabato 4 luglio 2015

Eisenstein in Messico

"Eisenstein in Messico" (Eisenstein in Guanajuato) di Peter Greenaway. Con Elmer Bäck, Luís Alberti, Maya Zapata, Rasmus Slätis, Jakob Öhman, Lisa Holden, Stelio Savante. Messico, Finlandia, Belgio, Francia, Paesi Bassi 2014 ★★½
Film colorato, visionario, scoppiettante, montato a tratti alla maniera sincopata dello stesso Eisenstein, racconta il periodo "messicano" del celebre regista sovietico dopo il fallimento dell'esperienza hollywoodiana a seguito di un contratto da centomila dollari con la Paramount per la realizzazione di "Una tragedia americana", poi terminato di girare da Von Sternberg. Nel Paese di Zapata e Pancho Villa nel 1931 si era ripromesso di celebrare la il ventennale della rivoluzione messicana del 1911, che sentiva molto affine a quella bolscevica di 14 anni prima, girando decine di chilometri di pellicola per un film dal titolo "Que viva Mexico!" che non riuscì mai a montare (lo scrittore statunitense Upton Sinclair, che l'aveva finanziato, ne fece proiettare una versione dal titolo "Lampi sul Messico" due anni dopo a New York, ma questa non venne mai riconosciuta da Eisenstein. Greenaway racconta in modo paradossale il periodo messicano del regista, mettendo in scena, parafrasando il suo "Ottobre", "I dieci giorni che sconvolsero Eisenstein", quelli trascorsi a Guanajuato in un delirio innescato da abbondanti dosi di mezcal, nel quale l'autore russo, tanto abile nel raccontare in maniera emotiva ed espressionista storie che coinvolgono le masse, si trova a scoprire un sé stesso che non conosceva, compresa la propria identità omosessuale, attraverso il contatto con una cultura come quella messicana in cui la morte fa parte integrante della vita ed eros quantomai interagisce con thanatos. La pellicola parte a ritmo indiavolato ed estremamente godibile, piena di trovate sorprendenti e citazioni mai leziose, e convincenti sono i due interpreti principali, i due pressoché sconosciuti Elmer Bäck nella parte di un esagitato Eisenstein che si lascia andare sempre di più (dove ricorda in maniera sorprendente l'Amadeus di Milos Forman) e il suo "pigmalione" e assistente personale durante il soggiorno a Guanajuato Palomino Cañedo, raffinato professore di Religioni Comparate, sposato e con due figli, che lo introduce alla cultura messicana e maya nonché all'arte della siesta e alle gioie di una sodomia condivisa, e dunque a una visione sia della realtà sia del proprio io sotto un'angolazione diversa. Tutto bene però c'è un però, perché dopo un'ora a furia di trovate e di gag sempre più ripetitive ma soprattutto a sequenze interminabili quanto masturbatorie ed estetizzanti lo spettatore comincia inevitabilmente a guardare l'orologio chiedendosi quanto manca, il che significa che per quanto uno sia ben disposto il meccanismo del racconto si è inesorabilmente inceppato, tantopiù che la durata del film supera di poco i 100'. E' il difetto di Greenaway: regista fantasioso ed efficace, capace di magie ma al contempo un onanista ossessivo, e inevitabilmente il troppo stroppia. Peccato, altrimenti sarebbe un genio.

1 commento:

  1. Bisognerà che lo veda, perché Greenaway è uno fra i registi che più mi piacciono e raramente le sue "lunghezze" mi hanno disturbato (prova ne sia che il suo I racconti del cuscino, durata 2h 6', lo trovo così poetico, disturbante e quindi stimolante e ispirato, che non mi stuferei mai di rivederlo...)

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