mercoledì 29 aprile 2015

The Fighters - Addestramento alla vita

"The Fighters - Addestramento alla vita" (Les Combattants) di Thomas Cailley. Con Adèle Haenel, Kevin Azaïs, Antoine Laurent, William Lebghil e altri. Francia 2014 ½
Ogni tanto rimango perplesso di fronte al successo che certi film francesi (che di solito subodoro a naso) riscuotono in patria, di cui mi sfuggono completamente i motivi a meno che non siano strettamente legati a insondabili peculiarità dei nostri cugini transalpini, a sottigliezze o condizioni particolari che mi sfuggono, oppure, com'è anche possibile, che vengano tradotti col culo in italiano, come succede anche questa volta col titolo che, chissà perché, diventa The Fighters anziché I Combattenti. Misteri. L'esordio alla regìa di Thomas Cailley, pluripremiato in patria, mi sembra tutto sommato banale e assai debole, anche se lo spunto ha una sua qualche originalità: alla fine si tratta del classico innamoramento adolescenziale (chiamarlo racconto di formazione, come pure suggerisce il sottotitolo italiano, mi pare francamente eccessivo) tra due opposti: la volitiva quanto paranoica Madeleine, rampolla di una famiglia benestante, studentessa di macroeconomia, fissata coi corsi di sopravvivenza perché convinta che il mondo sia vicino alla catastrofe e all'implosione finale (per cui non si capisce cosa si addestra a fare) e l'indeciso, malleabile Arnaud, che pur collaborando col fratello nell'impresa famigliare di carpenteria ereditata dal padre morto prematuramente, non ha alcun progetto e vive alla giornata, in balia delle suggestioni del momento. Tra cui quella, ispirata da Madeleine che, inizialmente respingendolo lo attrae irresistibilmente, di frequentare un corso di sopravvivenza organizzato dall'esercito, che gira per le località balneari, si presume della costa atlantica, tra cui quella dove vivono i due, cercando di invogliare i giovani ad arruolarsi per "avere un futuro certo". L'amore, tra scontri e battibecchi, inevitabilmente sboccia proprio quando i promessi fidanzati si troveranno soli, perduti in una foresta, a tentare di sopravvivere davvero (fintamente). Finiscono, va da sé, per fare sesso in questa suggestiva quanto improbabile camporella, che peraltro si trova a due passi da una statale e da una stazione di servizio. Per non farsi mancare niente, i due piccioncini vengono sovrastati e avvelenati da una nuvola tossica, che evoca scenari post-atomici ma in realtà nasce da un "banale" incendio boschivo, con l'inetto Artaud che porta in salvo la mascolina Madeleine. Sì, d'accordo: è una metafora dei giovani d'oggi senza prospettive, che non hanno alcuna visione di un futuro plausibile; c'è qualche battuta abbastanza divertente e qualche situazione simpaticamente paradossale, ma leggerci chissà quanti "livelli" mi pare eccessivo e comunque la sensazione di improbabilità e al contempo di prevedibilità è scoraggiante, così come improbabili sembrano gli interpreti, principali e secondari. Ma c'è a chi piace così, anche a Cannes: i gusti sono gusti...

lunedì 27 aprile 2015

Se Dio vuole

"Se Dio Vuole" di Edoardo Falcone. Con Marco Giallini, Alessandro Gassman, Laura Morante, Ilaria Spada, Edoardo Pesce e altri. Italia, 2015 ★★★
Positivo esordio alla regia per Edoardo Falcone, fin qui scenografo di discreto successo e buon mestiere, con una commedia spiritosa, intelligente, leggera, che non cade mai nella farsa e nella volgarità e che si adatta alla perfezione ai suoi interpreti (e viceversa), su tutti Marco Giallini. Che giganteggia nelle parte di Tommaso, un chirurgo di fama, ateo e progressista convinto, uomo di incrollabili certezze razionali, il quale entra in crisi quando il figlio Andrea, anche lui avviato a una brillante carriera medica, dopo aver riunito la famiglia, convinta di un suo coming out come gay, comunica di aver preso la decisione di interrompere gli studi e di entrare in seminario per farsi prete. Sconvolto e non disposto ad accettare una scelta del genere, rispetto alla quale un'eventuale omosessualità del figlio sarebbe stata una benedizione, Tommaso si convince che il ragazzo abbia subito una sorta di lavaggio del cervello e individua il responsabile in Don Pietro (Gassman), un incrocio tra un prete, un guru e una rock star, che ha un cospicuo seguito, soprattutto tra i giovani e i disadattati, come le sue prediche-spettacolo alla portata di tutti. Mentre decide di camuffarsi per conoscere d vicino lo strano sacerdote e svelare così i suoi eventuali trucchi e maneggi, anche i suoi rapporti di famiglia e coi sottoposti in ospedale entrano in subbuglio, a cominciare dalla moglie Carla (Laura Morante) che scopre che la sua vita di casalinga di lusso non ha un senso e viene preso da un rigurgito "sessantottardo", alla figlia Bianca, giudicata un'oca televisionata dal padre, che si ribella (rivendicando la sua fatuità e attribuendone la responsabilità al genitore), mentre Tommaso è costretto a ricorrere all'aiuto del genero, Gianni, fin lì ritenuto un imbecille incapace. Seguono una serie di gustosi colpi di scena, che non sto qui a svelare, che portano a una forzata frequentazione e conoscenza tra il prete e il medico, cui segue la presa di coscienza, da parte del medico, che non tutto è come sembra e che il bisogno di spiritualità e comprensione insito nell'uomo ha poco a che vedere con un dio prefabbricato e che perfino una religione, come quella cattolica, istituzionalizzata e sclerotica, non si riduce a essere una implacabile fabbrica di oscurantismo. Il film non giudica e non mette in ridicolo nemmeno quest'ultima, che pure sarebbe facile: si limita a raccontare una storia ben congegnata, plausibile, originale e contemporanea. Una parola in più su Marco Giallini, bravissimo attore molto sottovalutato finora, e che deve la sua notorietà, dopo anni di gavetta, principalmente a un ruolo secondario ma memorabile nella serie-tv "Romanzo Criminale", il quale merita finalmente la parte del protagonista e sa adattare a meraviglia in modo sempre estremamente credibile il personaggio di Tommaso nelle varie fasi della sua metamorfosi, che non si chiude con una conversione ma con una maggiore disponibilità a capire il prossimo e interagire con esso, sempre coerente con la propria profonda laicità.

sabato 25 aprile 2015

Ora e sempre... Renitenza


E' da quando ho l'età della ragione, almeno mezzo secolo, che il 25 aprile, giorno a me particolarmente caro perché ricorre, non del tutto a caso considerate le tradizioni di famiglia, anche il mio onomastico, che ascolto, in occasione delle varie celebrazioni dell'anniversario della Liberazione, profluvi di retorica sempre più fastidiosa, manipolatoria e insincera, raramente compensata da una riflessione storica onesta e puntuale. Tanto più insopportabile quando i solenni "pipponi" vengono propinati da personaggi che a tempo debito dalla Resistenza si tennero a distanza di sicurezza: due nomi per tutti: l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il suo mentore e laudatore magno Eugenio Scalfari, due imboscati nonché ex fascisti comprovati. Ma tant'è: basta ignorarli. Quello che non riesco però più a digerire è la falsità di due luoghi comuni così abusati da essere diventati degli assiomi: il preteso antifascismo di una sola parte e il concetto di Repubblica nata dai valori della Resistenza, traditi solo venti giorni dopo la vittoria (pur molto sospetta) del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e dieci dopo la sua proclamazione attraverso l'amnistia varata dall'allora guardasigilli Palmiro Togliatti, segretario del partito che della Resistenza avrebbe requisito i simboli, più che i valori, con la pretesa di farne un proprio esclusivo marchio di fabbrica nei decenni a venire (lo stesso figuro, peraltro, che rientrato nell'Italia occupata dagli anglo-americani nel 1944, dopo oltre due decenni trascorsi col culo al caldo alla corte di Stalin, per conto del quale aveva affossato la resistenza spagnola, aveva imposto al suo stesso partito la "Svolta di Salerno", assai maldigerita dagli stessi militanti comunisti impegnati nella lotta di Liberazione). E siccome è vero che a forza di ripetere la stessa menzogna questa finisce per assomigliare alla verità, io stesso mi ero ritrovato, negli anni Settanta, a ripetere come un mantra in piazza, ogni 25 aprile, che "la resistenza è rossa, non è democristiana". Una fandonia: basta ricordare Giorgio Bocca, Beppe Fenoglio, Leo Valiani, Enrico Mattei, il capitano Francesco De Gregori detto "Bolla" (ucciso a Malga Porzûs: evento che gli ex comunisti ricordano malvolentieri), tutta gente che "rossa", per l'appunto, non era. Non sto con questo negando né il ruolo dell'allora PCI, né i valori della Resistenza, né il fatto che, almeno nella parte dell'Italia in cui vi fu, quella centro-settentrionale, sia stata una guerra di popolo, anche però con aspetti di guerra civile, e trovo giusto che venga reso onore a chi vi partecipò e omaggio a coloro che vi persero la vita; ciò che trovo indecente è straparlare di lotta al fascismo oggi senza essere capaci di vedere quanto ce n'è in giro ovunque si volga lo sguardo, a cominciare da noi stessi: esercizio che si sta accuratamente attenti di evitare. E' il consueto vizio di non guardare la luna, ma il dito che la indica, e dunque è facile riempirsi la bocca di parole roboanti e prendersela coi simboli, come la presidente della Camera Laura Boldrini qualche giorno fa con la scritta "Mussolini Dux" che campeggia sull'obelisco del Foro Italico, e non fare un plissé davanti al fascismo sostanziale che sta dentro alla cosiddetta "riforma" della legge elettorale (per non parlare dello stravolgimento in generale della Costituzione) facendo di tutto per consentire l'approvazione di quell'Italicum renziano rispetto al quale la Legge Acerbo del 1924, che consentì la definitiva presa del potere da parte di Mussolini per via parlamentare, era un esempio di equilibrio. Ma, quel che è peggio, l'Italia, a differenza della Germania, non ha mai fatto i conti col fascismo e con la conseguente partecipazione alla guerra, né è stata (vedi amnistia di cui parlavo sopra) efficacemente defascistizzata (ricordo, per fare un solo esempio di cui ho memoria, il disgusto di Sandro Pertini al solo sentir nominare Marcello Guida, questore di Milano, città Medaglia d'Oro della Resistenza, in quell'autunno 1969 in cui scoppiò la bomba - fascista - di Piazza Fontana, e che era il direttore della colonia penale di Ventotene quando vi fu ospitato, tra gli altri, il futuro Presidente della Repubblica. Era lo stesso alto funzionario di Stato che addossò la responsabilità della bomba a Valpreda e agli anarchici, e Giuseppe Pinelli morì "suicidato" a pochi passi dal suo ufficio). Immagino che non sia gradevole, per molti italiani, guardarsi allo specchio e ricordare che non solo il fascismo è stato inventato da noi, ma che i suoi geni erano presenti fin dagli albori dello Stato unitario. Perché il liberale Cavour uscì di scena già nel 1861, e protagonisti della vita politica, fino all'avvento di Giolitti più di trent'anni dopo che, assieme ai socialisti turatiani, il fascismo se lo covò in seno senza riconoscerlo, furono due esponenti della "Sinistra Storica", Depretis (quello del "trasformismo", antico vizio nostrano) e soprattutto Crispi, un protofascista, classico esempio di incendiario in gioventù e pompiere, e reazionario assai, da vecchio, un "uomo solo al comando" ante litteram rispetto ad altri che ciclicamente, e per periodi mediamente di un ventennio, ossia una generazione, si sarebbero avvicendati alla guida di questo Paese. Invariabilmente, fino a oggi. Beninteso: democrazia non è sinonimo di parlamentarismo, ma ha che vedere con la possibilità per i cittadini di poter incidere direttamente e concretamente nelle scelte che lo riguardano, smentita, per esempio, con la vanificazione dei referendum sui Beni Comuni di quattro anni fa, e di non essere vessati da un sistema normativo volutamente macchinoso, insondabile, demenziale e incorreggibile, fatto apposta per preservare chi detiene il potere e annichilire chi ne è privo; d'altro canto il fascismo non si esprime soltanto attraverso una dittatura conclamata, e sono sempre più convinto che 70 anni fa ci siamo liberati della sua forma, ma non della sua sostanza e che, da quel 25 aprile e nonostante esso, l'italiano non è ancora diventato cittadino a tutti gli effetti del suo stesso Stato, che però è chiamato a tenere in piedi per venirne ingabbiato. Mandarlo per aria e farne a meno: questa sì sarebbe una Liberazione!

mercoledì 22 aprile 2015

Figlio di nessuno

"Figlio di nessuno" (Ničije Dete) di Vuk Ršumović. Con Denis Murić, Miloš Timotijević, Pavle Čemerikić, Isidora Janković, Igor Borojević e altri. Serbia 2014 ★★★★
Vincitore del premio del pubblico alla "Settimana della critica" e di quello FIPRESCI (la Federazione internazionale della critica cinematografica) all'ultimo Festival del Cinema di Venezia, questo notevole film fatto con pochi mezzi ma grande rigore, tanto formale quanto morale, attenzione e una scelta estremamente attenta dii interpreti dalla straordinaria efficacia espressiva (e bravura), circola da una settimana nelle circuito d'essai, e ho avuto la fortuna di apprezzarlo in lingua originale, sottotitolato, al benemerito Cinema dei Fabbri di Trieste, specializzato in "chicche" e con un'attenzione particolare a ciò che viene dai confini orientali. La vicenda, ispirata a fatti reali, ma che si rifà anche a "Il ragazzo selvaggio" di Truffaut, racconta del ritrovamento, durante una battuta di caccia nei boschi della Bosnia nel 1988, di un ragazzo dall'età indefinita e di cui si ignorano le origini, abbandonato e cresciuto in mezzo a un branco di lupi, da cui è stato "allevato" e di cui ha assunto modi, movenze, abitudini. E perfino linguaggio. Chiamato "Haris" al momento di dargli una identità burocratica, portato in un orfanotrofio di Belgrado, si dispera di un suo recupero alla dimensione umana, ma da un lato l'amicizia con un ragazzo di poco più grande, Zika, e dall'altro l'intuito e la perseveranza di uno degli istruttori, che veramente ha a cuore il futuro dei ragazzi, man mano lo sottraggono allo stato animale portandolo, con infinita pazienza, a una condizione umana, e soprattutto alla possibilità d esprimersi seppure con molte difficoltà. E' stupefacente la bravura del protagonista, Denis Murić, che riesce a rendere con naturalezza l'evoluzione del ragazzino, dal suo ingresso nella sordida realtà dell'istituto, all'avventurosa scoperta delle strade vicine di una Belgrado degradata e sull'orlo del conflitto imminente e del "mondo reale". Il paradosso è che il processo di "umanizzazione" e formazione "identitaria" di Haris procede di pari passo con la triste, tragica disgregazione dell'identità jugoslava e con quella della Federazione, e il ragazzo si scopre bosniaco proprio dopo lo scoppio del conflitto, nel 1991, e l'arrivo di profughi serbo-bosniaci nell'istituto i quali lo apostrofano come "musulmano" (termine che nella Belgrado prima del conflitto non aveva alcun significato negativo) e viene pertanto forzatamente "evacuato" (ossia rispedito) a Travnik, dove si troverà coinvolto direttamente in un conflitto che gli è del tutto estraneo, e che in questo quadro evidenzia tutta la sua follia, inglobato in una milizia bosniaco-musulmana. Il film si chiude in un bosco simile, e forse uguale a quello dell'inquadratura iniziale, col ragazzo che si cava le scarpe (che nel suo processo di "civilizzazione" aveva fatto così tanta fatica ad accettare) sotto gli occhi attenti di un bellissimo lupo, che osserva la scena per allontanarsi, a scanso di equivoci, dalla demenza umana. Un film perfettamente lineare, chiaro, che comunica ciò che ha da dire con immagini, parole e ambientazione di un realismo che non ha bisogno di fronzoli, psicologismi, pietismi e, meno ancora, effetti speciali. A mio avviso, esemplare per chiarezza e onestà.

lunedì 20 aprile 2015

Mia madre

"Mia madre" di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, Nanni Moretti, Giulia Lazzarini, John Turturro, Beatrice Mancini e altri. Italia, Francia, Germania 2015 ★★★★★
Come mi aspettavo, con "Mia madre" Nanni Moretti ha fatto centro un'altra volta, forse più di ogni altra volta. Ammetto di non essere imparziale, riguardo a un suo film, né voglio esserlo, perché sono suo coetaneo e provengo da un ambiente famigliare e culturale assai simile al suo, per cui non ho mai fatto fatica, in quasi quarant'anni in cui lo frequento cinematograficamente, da "Ecce Bombo" del 1978 a oggi, a riconoscermi e immedesimarmi in quanto ha raccontato nelle sue pellicole. Tutte ricche di senso, ironia, domande, intuizioni. Mai facili, spesso paradossali, molto particolari, che possono piacere o respingere, un po' come l'umorismo surreale tipicamente milanese dei Viola, dei Jannacci, di Cochi e Renato, ma sempre piene di intelligenza e riflessioni mai banali. In questo film, più che in altri, Moretti affronta sé stesso, o meglio il proprio senso di inadeguatezza, che ha sempre portato con sé, e lo fa attraverso un personaggio femminile che funge da suo alter ego, una regista "stronza", interpretata da una bravissima e intensa Margherita Buy, che sta girando un film "politico" che racconta la storia della crisi di una azienda italiana passata in mano statunitense e della lotta dei lavoratori per conservare il loro posto, e al contempo è alle prese con le sue vicende private, tra cui la rottura del rapporto sentimentale con un suo attore, le crisi adolescenziali della figlia nata da un precedente matrimonio la quale non vuole più frequentare il liceo classico, una tradizione di famiglia ereditata dalla nonna materna, la grandissima Giulia Lazzarini, ex professoressa di greco e latino al liceo e ora costretta in un letto d'ospedale della capitale per le complicazioni cardiache dovute a una polmonite che la condurranno pian pian alla morte (come la madre dello stesso Moretti, mentre stava girando "Habemus Papam", cinque anni fa). Tutta la parte "pubblica" del film nel film è, non a caso, apertamente posticcia e cialtronesca (l'emblema è il disastroso attore italoamericano che interpreta il nuovo padrone della fabbrica, l'istrionico e perfetto John Turturro): nessuno sembra credere, e la regista (che di nome fa Margherita) per prima, alla possibilità di raccontare attraverso di esso la realtà sociale sottostante, mentre estremamente vera, e non semplicemente "realistica", è la parte "privata", che si svolge prevalentemente nelle stanze d'ospedale in cui è ricoverata la madre, accudita con amore, disponibilità e molto buon senso dal fratello Giovanni (Moretti), un ingegnere che non si è accontentato di prendere un periodo di aspettativa per assisterla ma arriva a licenziarsi, a sessant'anni, da un posto fisso pur di poterlo fare, e non per eroismo, ma serenamente, perché ritiene che sia necessario e, nella situazione, la cosa più importante, senza tante spiegazioni. E', come tutti i film di Moretti, a più strati, pieno di umanità come di autoironia e capacità di non prendersi troppo sul serio pur parlando di cose serissime, in cui la stessa morte non è mai affrontata in maniera pietistica, lontano anni luce dal buonismo veltroniano  (prima della proiezione di "Mia madre" scorreva sullo schermo il trailer de I bambini sanno, l'ultima fatica cinematografica dell'ex segretario comunistiano, e il contrasto non poteva essere più eclatante). Auguro di cuore che a Cannes il regista e gli interpreti di "Mia madre" vengano premiati come meritano e non ho grossi dubbi che in Francia il film venga apprezzato più che da noi, specialmente dalla critica "professionista". Da parte mia, condivido la recensione che ne ha fatto un "dilettante" come me, Marco Travaglio, qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano. Ancora una volta, grazie, Nanni.

giovedì 16 aprile 2015

Facce di Paita

Genova, 14 aprile 2015

Ovvero: "stessa razza, stessa faccia". Ad accogliere due giorni fa il sempre garrulo selfie made man fiorentino, lo stato maggiore piddino ligure in occasione della visita dello Stronzie al capoluogo appena sei mesi dopo l'alluvione. In primo piano, col vestito a pois e l'occhiale da sole in resta, l'altrettanto garrula Raffaella Paita, assessore regionale alle Infrastrutture, fresca indagata per "mancata allerta, omicidio e disastro colposo" in occasione della stessa alluvione, candidata alla successione dell'attuale presidente della Liguria, altro immarcescibile bonzo del partito ex comunista Claudio Burlando, al suo fianco. Basta guardarli per capire l'urgenza della disintegrazione del PD, anche alla luce della viscida e impalpabile consistenza della cosiddetta "minoranza interna", di cui si spera aver assistito all'ultimo penoso spettacolo di sé in occasione dell'assemblea dei deputati del partito sul voto sull'italicum. E invece ce li terremo per altri vent'anni, ché questa è la durata media dell'uomo solo al comando in questo Paese, dai tempi di Crispi a oggi. 

martedì 14 aprile 2015

La scelta

"La scelta" di Michele Placido. Con Ambra Angiolini, Raoul Bova, Michele Placido, Valeria Solarino, Manrico Gammarota, Monica Contini, Mejdi El Euchi e altri. Italia 2015 ★★★+
Film coraggioso, che affronta in maniera esemplare un argomento quanto mai attuale e complesso come quello del desiderio, talvolta compulsivo e apparentemente irragionevole, di procreazione con tutti gli svariati aspetti che ne derivano, adattando senza grandi variazioni un testo teatrale del 1919 di Luigi Pirandello, "L'innesto", senza giudicare ma mostrando quanto poco, nell'arco di quasi un secolo, sia cambiato nella sostanza, nonostante le forzature "buoniste" e "politicamente corrette" che si vogliano fare, in nome del "diritto alla genitorialità", dell'eguaglianza dei sessi (e magari a prescindere dai sessi). Quello tra Laura, insegnante di canto al conservatorio e Giorgio, un cuoco appassionato, è un matrimonio felice, nella solare Bisceglie, la cui unica ombra è la mancanza di quel figlio che cercano da anni. Finché tutto cambia, prima in lei e poi in lui, quando Laura subisce uno stupro, che però si rifiuta di denunciare, limitandosi a raccontare al maresciallo dei carabinieri (Placido), di un'aggressione con rapina. Consciamente o no, rimuove quanto avvenuto durante le tre ore di quella "sparizione", che l'hanno cambiata dentro: è infatti rimasta incinta. Da quel punto in poi, una Ambra Angiolini che si conferma una delle migliori e più intense nonché versatili interpreti della sua generazione, mostra in maniera quanto mai credibile cosa si può agitare nella mente di una donna che tanto ha aspirato alla maternità e al contempo è profondamente innamorata del marito; Raoul Bova, nella sua espressività fissa e quasi stolida, riesce a essere perfetto nell'interpretazione del marito   attonito, comprensibilmente ossessionato dal dubbio sulla sua paternità, nonostante le rassicurazioni di lei, basate più sulla bontà delle intenzioni nonché sulla rimozione che sulla realtà. A capire la situazione, e ad affrontarla a suo modo, con buon senso, umanità e tatto, il maresciallo dei carabinieri, che ne ha viste di tutti i colori e a sua volta si trova a crescere da solo un figlio adolescente in caserma. Che non spara sentenze ma cerca di comprendere. E così faccio anch'io, che non condivido le posizioni preconfezionate e ideologiche, in un senso e nell'altro, su un tema così delicato ma altrettanto fondamentale e personale. Io vado avanti a ritenere che Beniamino Placido sia un benemerito del cinema italiano, un uomo che al di là dell'apparente rudezza ha intelligenza, cuore, e sensibilità. E soprattutto onestà. Anche questa volta non mi ha deluso.

venerdì 3 aprile 2015