venerdì 27 febbraio 2015

Far finta di esser Bersani


..le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani: al solito tutto fumo e niente arrosto. Campeggia sulle prime pagine di tutti i quotidiani odierni il volto bonario dello spazzolatore di bambole, l'ex segretario pidiota Gianluigi Bersani, assieme alle sue rampogne contro le varie controriforme e i metodi fascistoidi (ma non chiamandoli tali) del logorroico e pericoloso pagliaccio fiorentino. Come se non fossero stati lui e i suoi sostenitori, i vari Civati, Fassina, Cuperlo, Casson e tutta la banda di scuola PCI-DS-DS a consegnare l'ex Grande Partito nelle mani dei democristiani, ma soprattutto a consentire la formazione di questo governo indecente col loro voto e a ingoiare qualsiasi cosa, a cominciare dal famoso jobs act contro cui tuonano, a parole, oggi, dopo averlo votato solo qualche giorno fa. La solita, ridicola pantomima, che ripetono instancabilmente, come dominati da un riflesso pavloviano, perché trovano pur sempre un nutrito seguito di gonzi che si bevono tutto. Solo un gioco delle parti, in cui le parole servono solo a manipolare i fatti, a definire il tipo di vaselina da usare per la sodomia collettiva in atto. E a questo giochino non è estraneo nemmeno Maurizio Landini, un altro che sembra caduto dal pero. Noia, nient'altro che infinita noia. Riesce perfino a essere più eccitante il campionato calcio.

giovedì 26 febbraio 2015

Il segreto del suo volto

"Il segreto del suo volto" (Phoenix) di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf, Michael Maertens, Imogen Kogge e altri. Germania 2014 ★★★½
Un bel film, girato con rigore e ben interpretato soprattutto da parte di Nina Hoss, già bravissima protagonista de "La scelta di Barbara", dello stesso regista che, in forma di un interessante connubio tra noir e meló dai molteplici risvolti psicologici, affronta in maniera metaforica e coraggiosa da un lato il tema della memoria storica dell'olocausto in Germania, dall'altro il punto di vista non stereotipato di una vittima. Si tratta di Nelly, già valente cantante, reduce dal Lager di Auschwitz-Birkenau, che torna nella natìa Berlino stremata e sfigurata nel volto a causa di un'ustione: a prendersi cura di lei è Lena, una sua amica anche lei ebrea, sopravvissuta perché rifugiatasi in Svizzera, che cerca di convincerla di trasferirsi a Tel Aviv per cominciare un'altra esistenza esistenza, magari sotto nuove sembianze e a investire parte del suo patrimonio nell'edificazione dello Stato d'Israele. Nelly non ne vuole sapere: non solo si rifiuta di lasciare Berlino, ma quando è costretta a subire un intervento di ricostruzione del viso vuole riottenere i suoi lineamenti così come riprendere la sua esistenza abituale, a cominciare dalla ricerca dell'amato Johnny, il marito pianista che forse l'aveva tradita denunciandola ai nazisti e aveva chiesto il divorzio prima del suo arresto seguito dalla deportazione. E finirà per trovarlo in un cabaret, il "Phoenix" che dà il titolo originale al film, che si arrabatta con lavori d fortuna, ma l'uomo non la riconosce, intravedendo solo qualche somiglianza con la moglie della cui morte è certo, e anzi la convince a interpretare... sé stessa, per recuperarne a sua volta il patrimonio. Nelly accetta, e sotto la guida di Johnny si esercita, non senza fatica, a rientrare nei propri panni, in vista della messa in scena del suo ritorno dal campo di sterminio. E' per lei l'unica maniera di riprendersi la propria esistenza, mentre non ci riuscirà Lene, che nel frattempo si è tolta la vita non riuscendo né a riannodare i fili col passato né ad autoconvincersi della giustezza della causa sionista e intravedere un futuro. Così Nelly apparirà senza un graffio, fascinosa, elegante nel suo sgargiante vestito rosso, quando scenderà da un treno proveniente da Est, ai suoi amici e colleghi convocati alla stazione per accoglierla, perché è così che la vogliono vedere e riconosceranno, non come una disperata che potrebbe far risvegliare brutti ricordi e rinfocolare qualche cattiva coscienza, e il film si chiude con lei che intona davanti al suo pubblico di intimi un suo struggente pezzo forte accompagnata al piano dallo smemorato Johnny. Non è la verosimiglianza che cerca questa pellicola, o la credibilità della vicenda (e comunque sono estremamente curate le ricostruzioni d'interni dell'epoca), quanto una riflessione sulla potenza dei meccanismi di rimozione e della memoria selettiva o di comodo, che non riguardano soltanto la società tedesca ma anche, per esempio, la nostra, che di questa attitudine mentale è ancora più vittima. E in questo coglie il segno. 

domenica 22 febbraio 2015

Whiplash

"Whiplash" di Damien Chazelle. Con Miles Teller, J.K. Simmons, Melissa Benoist, Paul Reiser, Austin Stowell e altri. USA 2014 ★★
Premiato al Sundance Festival dell'anno scorso come miglior pellicola drammatica, è stato giudicato come il miglior film musicale dell'ultimo decennio, pur non essendo strettamente di genere e anzi fondendo due filoni tipici del cinema USA, quello del "saranno famosi" e quello dell'interazione quasi sadomasochistica fra istruttore inflessibile e allievo promettente, con relativo pippone (però senza esagerare e farne il tema conduttore) su rapporti di forza e di potere e ambizione, un déjà vu, insomma, che però qui si stempera per l'attenzione rivolta al lato tecnico e a uno strumento come la batteria tanto fondamentale quanto negletto, e non solo nell'ambito jazzistico, che è quello magistralmente illustrato qui. Andrew è un diciannovenne che frequenta il primo anno del prestigioso Shaffer Conservatory nel centro di New York, ben determinato a diventare non solo un buon batterista, ma il migliore della sua generazione, un novello Max Roach, il cui talento viene puntualmente individuato dall'inflessibile e temuto Terence Fletcher, interpretato sontuosamente dal grande caratterista J.K. Simmons, che a sorpresa lo arruola nell'orchestra della scuola, con cui partecipa a diversi concorsi facendo sistematica incetta di premi, prima come batterista di riserva e presto come titolare. Stimolandolo a migliorarsi attraverso un esercizio maniacale che sfocia nel dolore fisico, col sapiente uso del bastone e della carota, insultandolo e provocandolo all'occorrenza, fra diverse traversie (alcune credibili, altre meno) ne fa un mostro di bravura. Tutto ciò ha un costo: Terence viene licenziato dalla scuola perché accusato di violentare psicologicamente gli allievi, e lui sapeva benissimo che la lettera che lo denunciava era stata scritta da Andrew, e quest'ultimo preferisce interrompere la relazione con la propria fidanzata perché sarebbe stata un impedimento sulla strada verso il suo obiettivo di diventare The Best. I due si ritroveranno fuori dalla scuola e il finale sarà un assolo strepitoso di Andrew, ancora una volta sfidato dal maestro, in un crescendo irresistibile, che mi ha ricordato, per certi versi, quello rivelò di Michael Shrieve, allora ventenne, a Woodstock nel 1969, che rese famoso il marchio Santana almeno quanto quelli del titolare, e finalmente, a talento svelato, si scambieranno uno sguardo di intesa, ma in verità si erano già capiti da prima perché il loro linguaggio, quello della musica di altissimo livello, era lo stesso. Più ancora che la storia in sé, a rendere più che meritevole "Whiplash" è una fotografia eccezionale e una cura dei dettagli che solo un regista che capisce davvero di musica e ne conosce l'ambiente può avere, oltre a degli interpreti tutti eccellenti. 

venerdì 20 febbraio 2015

Intelligence ad alta performance


Fatemi capire: non riescono a individuare (o non vogliono) 500 teste di cazzo organizzate e perfettamente riconoscibili che si muovono in branco in giro per l'Europa schengenizzata su mezzi pubblici di trasporto e magari con tanto di biglietto nominativo per lo stadio, figurarsi prevedere le loro mosse e meno che mai neutralizzarle, e vorrebbero individuare eventuali attentatori jihadisti confusi tra i disgraziati che sbarcano sulle nostre coste su natanti di fortuna? Figurarsi combatterli sul loro terreno! Sia mai che dia completamente ragione a Marino o suoni come una scusante per questa banda di lercioni batavi ma Roma, e non è certo l'unica meta turistica italiana in queste condizioni, rimane una città dove non si sa dove gettare la spazzatura o andare in bagno in caso di bisogno, e non ditemi che si può entrare in qualsiasi bar per usufruirne. Ed è sporca, insicura, trascurata e disorganizzata anche senza il contributo di questi imbecilli. Davvero un bel biglietto da visita: anzi: VeryBello.

mercoledì 18 febbraio 2015

Il mondo non mi deve niente


"Il mondo non mi deve niente" di Massimo Carlotto. Con Claudio Casadio e Pamela Villoresi. Regia di Francesco Zecca; scene di Gianluca Amodio; costumi di Luisa Mariani; musiche di Paolo Daniele; luci di Alberto Biondi e disegni di Laura Riccioli. Produzione Teatro e società, Accademia Perduta/Romagna Teatri e CSS Teatro stabile di innovazione del FVG. Al teatro Pasolini d Cervignano del Friuli il 17 febbraio
Dopo il successo ottenuto durante la passata stagione con "Oscura immensità", Massimo Carlotto torna a teatro con l'adattamento di un altro suo romanzo, che vede protagonisti due personaggi che "non sono quello che sembrano" in una Rimini in cui il tempo scorre rilassato in attesa dell'arrivo delle orde di turisti estivi: Adelmo è un ladro suo malgrado, Lise una ex croupier austriaca che si incontrano grazie a una finestra che il primo vede aperta in una palazzina residenziale, quasi un invito a penetrare nell'abitazione che crede deserta e svaligiarla, e dove invece giace, nell'oscurità e stesa su un divano che è al centro della scena e attorno a cui si svolge tutta la vicenda. Lei non grida e non dà l'allarme, e ha invece inizio un dialogo tra i due, con punte surreali, che si evolverà nelle giornate successive perché lei gli farà una proposta... a cui Adelmo resisterà, anche se sistemerebbe lui e la sua donna, Carlina (che non appare mai), e a cui aderirà quest'ultima, perdendo però il compagno, che se ne andrà da Rimini, in giro per il mondo, come faceva Lise sulla navi da crociera, portandola sempre nel cuore. Perché i sue, che più diversi non potrebbero essere, sono però accomunati dall'essere vittime della crisi: lui espulso dalla fabbrica a 45 anni, mentre era immerso in un tran tran senza scosse, avviato verso un futuro da pensionato; lei che, dopo una vita avventurosa e mille incontri, si era stabilita a Rimini con la segreta speranza di incontrarvi nuovamente una sua vecchia passione, a godersi la rendita guadagnata in anni di (duro) lavoro a spennare grulli al tavolo da gioco, svanita anch'essa a causa di un investimento avventato in "derivati" fatto dalla sua banca di fiducia. Non solo sono due vittime, ma riescono pure a capirsi e si crea tra loro anche un legame di comprensione reciproca che va oltre le differenze. Il tono è ironico, anche se l'inconfondibile cifra noir di Carlotto rimane ben presente, ma l'argomento, e le relative riflessioni, serie; la recitazione, specie della Villoresi, brillante e che ha spunti degni del miglior varietà, e la commedia, molto gradevole, scorre via veloce, con sullo sfondo i gradevolissimi pannelli opera di Laura Riccioli che, per alcuni tratti, ricordano alcune celebri storie a fumetti di Altan. Teatro colmo, un successo, bella serata.  

domenica 15 febbraio 2015

La strategia occulta


Se i conflitti che si scatenano sulle scenario internazionale non fossero altro che espressioni di una lotta per l'egemonia tra imperialismi all'interno dello stesso sistema economico e al contempo condizione stessa per la loro sopravvivenza, in quanto mettono la sordina sulle crescenti disparità e discriminazioni che generano al loro interno, e se non fossimo vittime di un gioco di specchi e di manipolazioni sistematiche, avrebbe ragione Giancarlo Marcotti, sul sito Finanza in chiaro, a chiedere una nuova "Norimberga" per Sarkozy, Cameron e Obama che furono i paladini dell'intervento NATO in Libia nel marzo di quattro anni fa (con l'Italia, nel consueto ruolo di servo e di voltagabbana, al seguito). Perfino Romano Prodi, già presidente del Consiglio italiano nonché della Commissione UE, ha parlato di crisi frutto di una guerra sciagurata voluta dalla Francia: se il risultato finale dell'abbattimento del regime di Gheddafi, concluso con l'eliminazione fisica del "despota", è stata la disgregazione del Paese fino all'installazione, sulla "Quarta Sponda", a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane (e quindi comunitarie, e pertanto sotto il controllo NATO) dell'ISIS, ossia tutto tranne che una formazione tribale, i responsabili politici e militari di una simile "strategia", nonché i loro epigoni, come Hollande e Merkel,  andrebbero messi come minimo in condizione di non nuocere oltre, e non di giocare col fuoco trattando con Putin la soluzione della "crisi ucraina" di cui sono causa la loro parte per via delle ingerenze nelle faccende di Kiev. E se invece l'instaurazione del Califfato a Tripoli, con la conseguente instaurazione della legge islamica in quello che fu uno dei Paesi arabi più laici, insieme all'Irak di Saddam Hussein e alla Siria degli Assad, fosse esattamente ciò che gli strateghi di cui sopra volevano? Non sono una novità i dubbi su chi sia realmente alle spalle di Al Baghdadi, oltre a sauditi e ai qatarioti (fedeli alleati degli USA), che investono, tanto per cambiare, soprattutto la CIA, dubbi moltiplicati dalla velocità di propagazione di questo fenomeno apparso all'improvviso nel contesto siriano l'estate scorsa, come entità perfettamente organizzata ma di cui non si sapeva nulla, e dal suo perentorio successo, grazie anche al raffinato uso delle tecniche di comunicazione mutuate dall'odiato Occidente, e che ha testè compiuto un altro mirabile balzo spazio- temporale assestandosi, a Sirte, a 2500 chilometri dalle sue basi nell'arco di poche settimane. Com'è, come non è, l'Uomo Nero (il babau) appare puntualmente laddove la NATO o chi per essa è andato a esportare i "valori democratici" o quant'altro, ossia a difendere gli interessi vitali dell'Occidente "civilizzato": ora che si è attestato sulla coste libiche, sia mai che fermi i flussi migratori rendendo vane le discussioni su Mare Nostrum e Triton, e gli sia affidato il compito di Cerbero di un mondo non plus ultra, da tenere sotto controllo con la rigida applicazione della sharia, e al contempo di spauracchio nei confronti degli europei riluttanti, da ricompattare sotto l'ombrello dell'Alleanza Atlantica e dunque Occidentale. Chi può dirlo...

venerdì 13 febbraio 2015

Il ritorno a casa


"Il ritorno a casa" di Harold Pinter. Traduzione di Alessandra Serra, regia di Peter Stein. Con Paolo Graziosi, Arianna Scommegna, Alessandro Averone, Andrea Nicolini, Elia Schilton, Antonio Tintis. Scene di Ferdinand Woegerbauer; costumi di Anna Maria Heinrich; luci di Roberto Innocenti; assistente alla regia Carlo Bellamio. Produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana/Spoleto 56 festival dei Due Mondi. Al Teatro Palamostre di Udine.
Presentato al "Festival dei Due Mondi" di Spoleto di due anni fa e dopo una lunga tournée lungo tutta la Penisola, sono riuscito finalmente a intercettare questa versione di uno dei primi lavori di Pinter, rappresentato per la prima volta a Londra nel 1964: un testo crudo, che dipinge un microcosmo tutto al maschile, gretto, volgare, misogino, dotato di una carica di sopraffazione sempre sul punto di esplodere, e che si scatena con l'arrivo dell'unico elemento femminile, Ruth, interpretata da Arianna Scommegna, fresca vincitrice del Premio Ubu come migliore attrice italiana del 2014. La donna accompagna il marito Teddy in un viaggio dagli USA, dove è attivo come professore di filosofia all'Università, all'Inghilterra, in visita a ciò che resta della sua famiglia di origine: il vecchio e dispotico padre Max, già erede di una dinastia di macellai, i fratelli Lenny, che si rivela pappone che si atteggia a dandy, e Joey, un ritardato con l'ossessione di diventare un pugile professionista, infine lo zio Sam, l'unico maschio della tribù dotato di sensibilità e buone maniere. In una scena essenziale, costituita da un salotto piccolo borghese dell'Inghilterra di metà anni Sessanta, dove troneggia la poltrona in pelle del capofamiglia, sovrastata da un soppalco che funge da corridoio che porta alle camere da letto, si susseguono dialoghi rancorosi e provocatori quanto surreali che hanno come unico scopo quello di ribadire i rispettivi ruoli in questo strano ménage dove la deceduta Jessie, la rispettiva moglie, madre e cognata viene evocata al contempo come dolce immagine femminile e come puttana e rompiscatole. Il tutto con toni di voce spesso caricaturali, che sottolineano l'assurdità delle situazioni, mentre l'unica che rimane algida e quasi monotona è quella di Ruth che, pur presa di mira come corpo estraneo ma allo stesso tempo desiderato, a differenza del marito, che non a caso si è rifugiato nella filosofia rinunciando a contrastare le sopraffazioni del padre e dei due fratelli, non si lascia intimidire e proprio quando capisce che i tre vogliono tenerla in loro potere, facendola prostituire e usandola a loro volta, accettando questo ruolo prende in mano la situazione ribaltandola e finendo per essere l'artefice di un raggiunto equilibrio all'interno delle dinamiche solo all'apparenza assurde di questa famiglia alla fine per nulla fuori dal comune. Il ritorno a casa del titolo sarà non tanto quello di Teddy, da solo, negli USA quanto quello di Ruth, pure lei di origine inglese, a Londra. Un po' di lentezza nella seconda parte, che poi sarebbe anche quella più dinamica, ma le tre ore di spettacolo scorrono con buon ritmo e la giusta tensione, grazie anche all'impeccabile prestazione di tutti gli interpreti. Pubblico folto, attento e appagato. 

mercoledì 11 febbraio 2015

Still Alice

"Still Alice" di Richard Glatzer, Wash Westmoreland. Con Julianne Moore, Alec Baldwin, Kristen Stewart, Kate Bosworth, Hunter Parrish. USA 2014 ★★★-
In un inizio di 2015 cinematografico che pare centrato sul "casi umani", non poteva mancare un'autorità nel campo della linguistica e dei processi conoscitivi come la brillante e fascinosa Alice Howland, docente della Columbia University di New York all'apice della carriera, cinquantenne moglie e madre felice di tre figli, che scopre, come in una spietata legge del contrappasso, di essere preda di una forma ereditaria e particolarmente degenerativa di Alzheimer precoce. Interpretata da una misurata, introspettiva Julianne Moore, di cui non si scopre in questa pellicola la bravura nell'esprimere tutte le sfumature di un personaggio che, vedendo svanire sé stessa proprio nei tratti che ne hanno contraddistinto la personalità e che sono stati pilastri della propria esistenza, i processi linguistici e mnemonici, ed essendone cosciente, nonostante alcuni momenti di disperazione e sconforto riesce a non smettere di combattere, anche grazie a un ambiente sociale favorevole: non solo colto e benestante, ma amorevole e comprensivo. Questo è reso plastico dal rapporto con il marito, impersonato da un Alec Baldwin all'altezza della situazione, sia come interprete sia come personaggio, mentre non lo sono, da un punto di vista recitativo, i tre figli della coppia, schematicamente abbozzati e lasciati in mano a interpreti mediocri che probabilmente non sono stati in grado di dare spessore ai loro caratteri invero asfittici. Aspetto positivo del film è di non essersi fatto prendere la mano dal pietismo, ipotizzando anche, senza minimamente condannarla, una auto-eutanasia predisposta in maniera astuta quanto credibile dall'ammalata, quando la malattia era ancora allo stadio iniziale, andata però in fumo per una pura casualità (e che avrebbe risparmiato tante amarezze e sofferenze alla donna come ai suoi famigliari), nonché aver preso per le corna un toro, quello dell'Alzheimer e delle sue conseguenze, che si tende a rimuovere: La sceneggiatura regge, i dialoghi in parte; ciò che non funziona sono le figure di contorno della coppia di coniugi, nemmeno la figlia scapestrata e "prodiga", interpretata dalla scarsamente credibile Kirsten Stewart, per non parlare di Kate Bosworth, che sembra botulinizzata già a trent'anni. Insomma, un cast più equilibrato avrebbe reso un servizio migliore a una buona storia. 

domenica 8 febbraio 2015

La notte di Helver

Mirjana Karanović ed Ermin Bravo

"La notte di Helver" (Helverova noć) di Jaroslaw Swierszc alias Ingmar Vilkvist. Traduzione di Farah Tahirbegović; regia di Dino Mustafić; con Ermin Bravo, Mirjana Karanović. Drammaturgia di Ljubica Ostolić; scene di Kemal Hrustanović; luci di Elvedin Bajraktarević e Nino Brutus; suoni di Edin Haidarević; produzione Kamerni Teatar '55/Sarajevo. Al Teatro Palamostre di Udine per Teatro Contatto.
Occasione rara di vedere in azione una produzione del prestigioso Kamerni Teatar '55 di Sarajevo, rimasto attivo incessantemente anche quando durante l'assedio di quella sciagurata città durato quasi quattro anni, e due attori straordinari: il talentuoso bosgnacco Ermin Bravo e la gloria serba Mirjana Karanović, già premiata con l'Orso d'Oro alla Berlinale e conosciuta anche dalle nostre parti per essere stata più volte interprete femminile dei film di Emir Kusturica, intensi e bravissimi protagonisti di un dramma in un atto unico del polacco Swierszc, che si svolge per intero nell'unica stanza, una modesta cucina, che funge da abitazione dove si rifugiano una donna matura, Carla, e un giovane affetto da disturbi mentali, lo Helver del titolo, mentre fuori infuria una tempesta politica che sta per sfociare in una guerra civile. Siamo in un Paese che ricorda la Germania degli anni Trenta ma potrebbe essere qualunque altro, a iniziare dalla Jugoslavia degli anni Novanta del secolo scorso, e il giovane Helver è infervorato dal clima marziale che regna all'esterno: tornato a casa da un'adunata paramilitare con tanto di uniforme, stivali, berretto da SA e bandiera nazista e ammaliato dal capopopolo Gilbert, vive lo stato di estrema tensione prossimo a sfociare un guerra come un gioco, e al gioco sta, assecondandolo, in un primo momento Carla, che si presta a eseguirne i comandi, in una pantomima di addestramento domestico che ha degli effetti grotteschi, fino a trasformare la cucina in una sorta di accampamento, finché dalle farneticazioni di Helver non capta che stanno per avere inizio delle persecuzioni che li coinvolgeranno quanto prima. Emerge a questo punto man mano il rapporto vero che lega i due, che non è quello di madre e figlio, ma quello di una donna, che aveva perso già perso una figlia inferma di mente abbandonandola in un istituto psichiatrico e poi sparita e, a causa di ciò, anche l'amatissimo uomo da cui l'aveva avuta e che, pervasa da senso di colpa, aveva riversato il suo istinto materno e di protezione su Helver, prelevandolo a sua volta da quello stesso istituto e ricevendolo in custodia a patto che dimostrasse di poterlo tenere sotto controllo: nel momento in cui si rende conto del pericolo che corre il giovane a causa della menomazione, che lo rende vittima predestinata delle persecuzioni di massa che stanno per coinvolgere i "diversi" di ogni genere, preferisce proteggerlo convincendolo a ingerire, come in un gioco, tutte le pillole che gli sono state prescritte per sedarlo, addormentandolo dolcemente e, alla fine, proteggendolo a suo modo in maniera definitiva da ogni possibile violenza. Una rappresentazione di rara intensità., seguita da un pubblico folto e interessato, che ha tributato alla coppia di interpreti e a tutto la compagnia sarajevese una decina di minuti di applausi calorosissimi. Un grazie per essere venuti in Italia e un grazie a Teatro Contatto che ha organizzato lo spettacolo.

giovedì 5 febbraio 2015

Caduto dal pero più alto



E' incredibile come questo personaggio possa sparare una raffica infinita di luoghi comuni e di affermazioni surreali, quando non delle vere e proprie puttanate, senza che nessuno sollevi un'obiezione o ricordi le colpe della chiesa di cui è il primo rappresentante. Anche questa volta, all'appuntamento settimanale dell'udienza generale del mercoledì, gonzi manipolati che vi assistevano dal vivo e manipolatori professionisti che ne propalavano il verbo, si sono abbeverati alla Fonte del Sapere, bevendosi per l'appunto le parole che uscivano dalle labbra, atteggiate per l'occasione a culo di gallina in un'espressione di incredulo, inorridito stupore, del Sommo Pontefice: "Io penso a voi, fratelli e sorelle ucraini, ma pensate: questa è una guerra tra cristiani, voi tutti avete lo stesso battesimo, state lottando tra cristiani, pensate a questo, a questo scandalo, e preghiamo tutti, la preghiera è la nostra protesta davanti a dio in tempo di guerra". Che, detto così, suona come una rivendicazione indignada nei confronti del Supremo, anche perché altrimenti non si capisce con chi se la prenda. Nessuno che abbia fatto notare che le due guerre mondiali hanno visto su fronti contrapposti non solo cristiani in generale, ma cattolici contro cattolici e protestanti contro protestanti; e poi come la mettiamo con i "troubles" irlandesi durati decenni e, peggio ancora, con le implicazioni delle più recenti guerre balcaniche degli anni Novanta, scatenate a partire dall'improvvido quanto precipitoso riconoscimento della Croazia e della Slovenia che hanno visto il Vaticano anticipare tutti in una mossa che si è rivelata esiziale quanto criminale? Su quel che è accaduto dopo è troppo comodo stendere i pietosi veli dell'oblio, doveroso invece accendere le luci della memoria e denunciare le responsablità delle varie chiese cristiane, a cominciare da quella di Roma.

lunedì 2 febbraio 2015

Il regno d'inverno - Winter Sleep

"Il regno d'inverno - Winter Sleep" (Kis uykusu) di Nuri Bilge Ceylan. Con hula Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberg Pekcan, Serhay Mustafa, Kiliç. Turchia, Francia, Germania 2014 ★★★★
Un filmone in tutti i sensi, questo con cui il regista turco ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes, non solo per la durata, ma per la ponderosità dell'argomento, la fotografia sontuosa, l'attenzione ai dettagli, la prestazione dei tre interpreti principali, il senso di equilibrio che ne deriva; un lavoro che conferma il talento di Nuri Bilge Celan e spiega la fama di cui giustamente gode: con lui si va sul sicuro. Siamo in Cappadocia, nella zona famosa per le costruzioni rupestri, dove Aydin, già attore di successo a Istanbul e giunto alle soglie della terza età, si è ritirato per occuparsi della gestione del piccolo ma elegante albergo di famiglia assieme alla giovane moglie Nihal, e dove ospita la sorella Necla, reduce anche lei dalla grande città e da un divorzio che l'ha inacidita e resa rancorosa. In realtà delle incombenze quotidiane si occupano il suo tuttofare e sua moglie, così come dell'amministrazione di altre proprietà di famiglia, tra cui alcune case di cui talvolta gli affittuari non sono in grado di pagare la pigione: Aydin, per quanto illuminato e colto ma pur sempre un padrone, in realtà continua a fare l'intellettuale, curando una dotta rubrica per un giornale locale, mentre sta preparando una storia del teatro turco, e anche nella vita quotidiana di fatto continua e recitare: intrattiene gli ospiti in ameni conversari, è il regista delle relazioni familiari su cui opera un controllo assiduo celato da un atteggiamento di comprensione affettuosa e complice che finisce per soffocare in particolare Nihal, mentre gli scontri dialettici con la sorella avvengono a un livello paritario ma per lui meno coinvolgente. I rimandi a Shakespeare (Otello, che è anche il nome dell'albergo) e soprattutto Cechov, amatissimo da Ceylon, sono evidenti e dichiarati; ciò on toglie che il film dica molto sulla complessa situazione turca ma ha al contempo un respiro universale quando tratta delle relazioni tra famigliari (vedi anche la situazione degli affittuari morosi che si vedono sequestrare televisore e mobili), tra uomo e donna, del senso non univoco del "bene", come di quello dell'esistenza e del tempo che passa: ciò che Aydin deve ammettere a sé stesso, quando per acquietare le tensioni che si sono create si accinge a tornare a Istanbul per un po', è di non averne più l'energia, le motivazioni e la voglia, per cui rinuncia e accetta alla fine di essere arrivato alla vecchiaia, che cambia tutte le prospettive. E' questo il sonno d'inverno cui allude il titolo del film, più che l'ambiente naturale duro e raggelante che fa da sfondo.