mercoledì 30 dicembre 2015

Irrational Man

"Irrational Man" di Woody Allen. Con Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley, Meredith Hagner, Ethan Phillips, Ben Rosenfeld, Julie Ann Dowson e altri. USA 2015 ★★★★½
Non ho mai lesinato critiche a Woody Allen quando confezionava film (specie alcuni di quelli "europei" che parevano commissionati dagli uffici turistici delle rispettive location)  che non mi convincevano, proprio per la grande stima che ho sempre nutrito per la sua intelligenza e il suo modo di pensare, ma qui siamo, a mio parere, al cospetto di un gioiello che, in quanto a meccanismo narrativo, dialoghi, ritmo, recitazione, colonna sonora (magica), rasenta la perfezione: questo è fare spettacolo affrontando temi seri, minando alla base il conformismo del politicamente corretto e del luogo comune ma con leggerezza, ironia beffarda e quella punta di cinismo che è il sale dell'intelligenza. Abe Lucas (Joaquin Phoenix perfetto, alla sua migliore interpretazione) è un apprezzato, anticonformista e fascinoso professore di filosofia con tendenze autodistruttive e derive alcoliche che accetta un incarico estivo al Braylin College nel Rhode Island (in realtà si tratta del Salve Regina di Newport) e non manca di sedurre studenti e colleghi proprio grazie alla sua personalità sofferta, tenebrosa e introversa, in particolare Rita Richards, una professoressa di chimica tipo pantera che sarebbe ben lieta di sfuggire tramite lui a un matrimonio piatto e infelice, magari in direzione Europa, e Jill Pollard, la studentessa più brillante del suo corso, oltre che promettente pianista, attratta da lui benché felicemente fidanzata, che diventa la sua migliore amica e perfino, nonostante le resistenze di lui, qualcosa di più. Nonostante ciò le tendenze nichiliste e il suo disinteresse alla vita (e persino al sesso) sembrano avere il sopravvento fino a quando, per puro caso, mentre sono a pranzo in un diner, ascolta di nascosto insieme a Jill la conversazione che avviene al tavolo vicino e che riguarda la triste vicenda di una donna a cui verranno sottratti i figli per colpa dei maneggi di un arrogante giudice di famiglia amico dell'ex marito, tale Spangler. Abe ha l'illuminazione: intravede la possibilità, attraverso l'azione, di mettere in pratica gli insegnamenti sulla morale filtrati dai suoi filosofi preferiti, da Kant a Kirkegaard, a Heidegger ad Hannah Arendt, e attraverso essa ridare un senso alla sua esistenza, cercato invano attraverso anni di impegno politico e umanitario, oltre che nell'insegnamento teorico. Per evitare che il post diventi uno spoiler, mi limito a dire che da lì in poi il film prende la piega di una dark comedy con un finale nettamente noir e a sorpresa che fa gridare al genio. Perché questo è, senza alcun dubbio, Woody Allen, ottantenne in splendida forma, che non è vero che ripeta invariabilmente sé stesso (in questa occasione ho contato perfino tre persone di colore tra le comparse!), semplicemente si pone da una vita, in forme e contesti diversi, le poche, fondamentali domande che qualsiasi mente dotata di coscienza e del lume dell'intelligenza si pone da quando esiste l'umanità. E lo fa con la dovuta ironia e disincanto, ben sapendo quanto della nostra esistenza sia affidato al caso, anche e soprattutto quando siamo noi stessi a innescarlo.

giovedì 24 dicembre 2015

Il ponte delle spie

"Il ponte delle spie" (Bridge of Spies) di Steven Spielgerg. Con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Sebastian Koch, Alan Alda, Peter McRobbie, Austin Stowell, Billy Magnussen e altri USA 2015 ★★★
Il film è fatto bene, forse un po' troppo lungo e a tratti lento (la mano dei fratelli Coen nella sceneggiatura si nota anche da questo), la storia (vera) avvincente, le capacità di Spielberg non si discutono però rimane pur sempre un'americanata. Il solito vecchio western in chiave Guerra Fredda, dove ci sono il buono e il cattivo, anzi: malvagio, col marcio che qualche volta fa capolino anche dalla parte dei "giusti", così come l'umano, a piccole dosi, nel regno del male, ma soprattutto c'è l'eroe puro sí come un giglio, portatore di tutte le Virtù Americane, compresa quella di poter denunciare (con il dovuto garbo, va da sé, e correttezza politica) anche le piccole pecche che affliggono perfino il Migliore dei Sistemi Possibili. In questa parte Tom Hanks è perfetto, con il suo volto infantile a dispetto dell'età ormai del dattero, e il nasino a patata all'insù da vero Americano d'Origine Irlandese, che già impersona da sé il riscatto dalla miseria del self-made-man e tutta la menata del Paese delle Infinite Possibilità che spunta lungo tutto l'arco della maratona da 140 minuti di pellicola; bravo, ma ancora più bravo di lui Mark Rylance, nella parte di Rudolf Abel, una spia sovietica scoperta e arrestata a Brooklyn nel 1957, in piena Guerra Fredda, assistito dall'Eroe Americano nei panni dell'avvocato Donovan (Hanks), un esperto di assicurazioni che viene nominato difensore d'ufficio, che intravede in lui il lato umano oltre alla possibilità di poterlo scambiare in un futuro con un'eventuale spia americana che dovesse finire nelle mani dei sovietici, e così riesce a convincere il giudice a evitargli la condanna a morte. Preveggente, perché l'occasione si presenta qualche anno dopo, quando i russi abbattono un aereo-spia statunitense (una scena da manuale, e per me bellissima ma mai come quella dell'attacco giapponese in Pearl Harbor, che mi procura orgasmi ogni volta che lo rivedo) catturandone il pilota e il governo, nelle pesti, si ricorda di lui, e così Donovan viene convocato dalla CIA e incaricato di procedere al negoziato per lo scambio ma senza copertura. Da New York la scena si sposta a Berlino, ricostruita in maniera esemplare, proprio nel momento in cui viene alzato il famigerato muro, che dal 1961 per 28 anni isolerà la parte Ovest della città dal resto della DDR (perché è questo il modo corretto di descrivere la vicenda, non il luogo comune della "città divisa in due", come per pigrizia mentale si suole dire) e Donovan riuscirà nel miracolo di inserire nel "pacchetto" anche un altro cittadino americano, uno studente americano tanto stupido quanto sprovveduto da farsi arrestare pretestuosamente dalla Stasi, che non vede l'ora di inserirsi nella trattativa per veder riconosciuto, assieme al suo ruolo, anche il Paese, almeno di fatto, dalla potenza avversaria. Naturalmente tutto è bene quel che finisce bene, e lo scambio si fece come voleva Donovan, pago uno e prendo due, e avvenne anche nella realtà il 10 di febbraio del 1962 sul Ponte di Glienicke (da cui il titolo del film), e nello stesso luogo ne seguirono altri. Va da sé che a Est ci sono solo fanatici, nazistoidi, psicolatici, subumani, idioti, facce lombrosiane: un repertorio caricaturale già visto e rivisto, talmente manicheo da far perdere credibilità anche a una storia tratta dalla realtà: questo se uno ha un minimo di onestà intellettuale (cosa che a Spielberg fa notoriamente difetto), mentre va detto che il punto di forza del film sono l'ambientazione, fedele e realistica fin nei minimi dettagli, e la fotografia. Insomma, come americanata, e film per le feste, non è niente male e a prescindere dall'intento propagandistico, nemmeno così subliminale, considerati il periodo, la situazione  "sul campo" e l'avversario, che alla fine dei conti rimane sempre lo stesso. 

lunedì 21 dicembre 2015

Simply The Beast


"Intervento" (notare la plasticità) di Felipe Melo, centrocampista brasiliano, 32 anni e professionista da 15, "Atleta di Cristo", su Lucas Biglia, appena 3' dopo aver causato il rigore del definitivo vantaggio della Lazio su un'Inter in forcing che aveva rimontato lo 0-1 iniziale, per uno stupido quanto inutile fallo in area. Complimenti vivissimi a lui e a Roberto Mancini che l'ha voluto e schierato stasera assieme a un altro inetto, Martín Montoya, escludendo dalla formazione iniziale i due titolari più in forma, Adem Ljajić e Marcelo Brozović. Un "gesto atletico" e un colpo di genio che secondo me costeranno alla Beneamata il 50% delle possibilità che aveva di conquistare lo scudetto. Spero di essere smentito da qui a maggio...

sabato 19 dicembre 2015

Perfect Day

Perfect Day (A Perfect Day) di Fernando León Aranoa. Con Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Melanie Thierry, Fedia Štukan, Eldar Residović, Sergi López. Spagna 2015 ★★★★½
Film pressoché perfetto, quello dello spagnolo Fernando León Aranoa, a differenza della giornata di un gruppo di quattro cooperanti in Bosnia nel 1995, alla vigilia dell'Accordo di Dayton che pose fine alle guerre jugoslave (ma non alle loro conseguenze), capeggiato dal veterano Mambru (Del Toro) e che comprende B, un anarchico refrattario a qualsiasi regola (Tim Robbins), una ingenua ragazza francese al suo primo incarico operativo, l'interprete Damir e la bella ed energica Katja, ispettore dell'organizzazione umanitaria, la cui presenza è particolarmente imbarazzante perché ha avuto in passato una storia con Mambru, attualmente fidanzato ufficialmente, ma anche perché è venuta a valutare la missione e, probabilmente, a "tagliarla" dal suo programma. Film pacifista che ha tra i suoi predecessori pellicole illustri come "M.A.S.H." e "Underground", si colloca alla loro altezza pur non avendone, volutamente, la carica satirica e dissacrante, ma affrontando con un'ironia più leggera le assurdità e le tragiche conseguenze della guerra attraverso la quotidianità più ordinaria di un'umanità che resiste al di là di ogni sconvolgimento. La missione di cui è incaricato l'eterogeneo gruppo nell'arco delle 24 ore raccontate dal film è il recupero da un pozzo del cadavere di un uomo incredibilmente grasso, probabilmente gettatovi dai nemici per avvelenarne le acque, ma la corda che serviva per estrarlo si rompe e la ricerca di un'altra è impresa tutt'altro che facile in quella zona disastrata dal conflitto, e dà il via a una serie di vicende che nella loro banalità assumono connotati che vanno dal grottesco al tragico, all'assurdo, e che vengono affrontate dai protagonisti con un sorriso sulle labbra che non ha nulla di superficiale e supponente ma è funzionale a risolvere le difficoltà con realismo e buon senso, oltre a essere l'unico modo per farsi forza e riuscire a intervenire e interagire nella loro attività di "idraulici delle catastrofi", e delle guerre in particolare. Tutto funziona in "Perfect Day": dalla sceneggiatura, tratta dal romanzo Dejarse llover di Paula Farías, ispirato alle sue personali esperienze in Medici Senza Frontiere, alla fotografia, agli interpreti (compreso il piccolo Eldar Residović), alla potente colonna sonora. Un film poetico e antiretorico che racconta la faccia autentica dell'aiuto umanitario, dei cooperanti in carne e ossa, al di là delle beghe delle loro stesse organizzazioni per non parlare di quella più inutile, soprattutto nel caso specifico: l'ONU, in tutta la sua impotenza e nell'idiozia nefasta del suo apparato militare. Da non perdere. 

giovedì 17 dicembre 2015

La ramificazione del pidocchio

Stefano Ricci e Gianni Forte
"La ramificazione del pidocchio" di Ricci/Forte per "Viva Pasolini!". Regia di Stefano Ricci; con Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Liliana Laera, Ramona Genna, Simon Waldvolgel, Alessia Siniscalchi; assistenti alla regia Liliana Laera e Ramona Genna; trainer ensemble Marta. Produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG in coproduzione con Ricci/Forte.
Al debutto martedì scorso al Teatro San Giorgio di Udine, la serie di performance di ieri sera (30' per ogni sessione, 20 spettatori alla volta) è stata preceduta da un istruttivo e fruttuoso incontro con i due autori e con i componenti dell'ensemble "a fisarmonica" che ne porta il nome, sei in questa occasione, curato dal critico teatrale del "Piccolo" Roberto Canziani (questo l'interessante suo blog sul quotidiano on line), due persone estremamente disponibili e alla mano che senza fronzoli e tirate intellettualoidi hanno illustrato il loro modo di intendere il teatro (o meglio: la comunicazione per mezzo dell'espressione in forma artisitca) rispondendo a ogni tipo di domanda. Agli spettacoli di Ricci/Forte si partecipa, non vi si assiste solamente, e mai come in questo caso l'emozione per chi vi prende parte è intensa e lascia il segno, come hanno testimoniato numerosi interventi di spettatori che erano stati presenti in occasione della serata precedente, e come è successo anche a me, dopo essere entrato in una sorta di spazio-palestra dove si viene accolti dal gruppo dei performer, quattro donne e due uomini, vestiti da tenniste e che impugnano un pettine anziché una racchetta. Si immagina di trovarsi nel vagone di un treno: non di quelli a scompartimenti di un tempo, che lasciavano la possibilità di interagire con gli altri compagni di viaggio, ma di quelli scomodi, squallidi, asettici e raggelanti delle attuali "Frecce", in cui è impossibile perfino aprire un finestrino, l'ennesimo non luogo di cui si fruisce per essere trasportati da un non luogo a un altro pressoché identico. Immersi come in una specie di acquario, circondati da una umanità istupidita e frastornata, che non interagisce ma al massimo trasmette tramite mezzo elettronico la testimonianza della propria passiva esistenza, magari scattando un selfie della propria faccia-patata, si colgono qua e la frammenti di discorso, echi di esistenze ed eventi passati, che per qualcuno dei partecipanti fanno parte della propria esperienza diretta, mentre per i più giovani possono ritrovarsi, ad esempio, nell'opera di Pasolini (il titolo, geniale, è preso tratto da un frammento di "Petrolio", il suo romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1992), l'intellettuale italiano più attivo nel dopoguerra e più consapevole, già mezzo secolo fa, della mutazione antropologica che aveva colpito come un'infestazione inarrestabile, con l'avvento della società dei consumi, anche un popolo così ricco di tradizioni e storia come quello italiano, e di cui il modello televisivo era l'espressione più evidente nonché il mezzo di omologazione più devastante. L'interazione, inizialmente soltanto attraverso gli sguardi, in questo spazio reso così fluidamente "ormonale" dalla presenza fisica degli altri e dalle movenze degli attori, e contrassegnato da quattro pezzi musicali di stile completamente diverso (il mixer è azionato personalmente da Stefano Ricci), diventa ad un certo punto contatto fisico a cui inevitabilmente ci si lascia andare quando "scoppia qualcosa dentro il cuore" (cfr Mina). Dopodiché, resisi conto dell'incubo in cui stiamo vivendo, non rimane che la necessità di "tornare a casa", per ritrovare in sé stessi, o negli ultimi brandelli di memoria e testimonianza sopravvissute, capacità, forza e motivazioni non tanto e non solo per "resistere" a una realtà di plastica, diventata più virtuale che umana, ma per superarla tornando a comunicare e a diventarne attori. 
Al "Teatro San Giorgio" di Udine stasera alle 19.30, 20.30, 22.30; domani e sabato alle 19.30, 20.30 e 21.30. 
Prossimo appuntamento con Ricci/Forte dal 28 al 31 gennaio 2016 al "Palamostre" di Udine con "PPP Ultimo inventario prima di liquidazione"

martedì 15 dicembre 2015

Hanno la faccia come il culo


Oggi sul Messaggero Veneto (Gruppo Editoriale L'Espresso). Ora: io non conosco le tariffe di un'inserzione a colori a piena pagina sul quotidiano friulano, e quantunque non sussistano gli estremi di un ricorso al garante per pubblicità mendace oppure offensiva, sono ampiamente superati quelli di insulto alla decenza. Complimenti vivissimi all'editore e alla direzione del giornale.

sabato 12 dicembre 2015

Un posto sicuro

"Un posto sicuro" di Francesco Ghiaccio. Con Marco D'Amore, Giorgio Colangeli, Madtilde Gioli. Italia 2015 ★★★+
Il "posto sicuro" è quello che Eduardo, aspirante attore della provincia di Napoli, ha accettato in cambio di un lavoro al Nord, come operaio alla Eternit di Casale Monferrato, che assicurasse a lui e alla sua famiglia un livello di vita dignitoso. Dopo una vita in fabbrica, vedovo in pensione, da anni ha interrotto i rapporti col figlio Luca, a sua volta attore in crisi che si arrangia facendo il pagliaccio alle feste, quando quest'ultimo viene a sapere che il padre ha contratto il mesotelioma, un tumore alla pleura causato dalla polvere d'amianto presente non solo nello stabilimento ma nel resto del territorio, che ha provocato una strage nel Casalese, oggetto di un processo-simbolo di questi anni, e che gli rimangono pochi mesi di vita. Ha appena conosciuto Raffaella, una ragazza con cui ha avuto un vero e proprio colpo di fulmine, ma la allontana senza spiegazioni decidendo di dedicarsi all'assistenza del padre, con cui il rapporto, aspro e conflittuale, si ammorbidisce man mano che l'uomo, che aveva trascurato moglie e figlio dedicandosi ossessivamente al lavoro, si apre e gli racconta delle vicende della fabbrica, delle polveri che erano ovunque e della cui pericolosità nessuno era al corrente, tranne i massimi dirigenti dell'azienda, e nemmeno quelli locali, che vivevano nei pressi dello stabilimento. E così ne prende coscienza anche Luca, che inizia studiare l'ampia documentazione su tutta la vicenda e, con l'aiuto del padre, rimette in sesto un teatrino della città con l'intento di allestire uno spettacolo sull'argomento coinvolgendo anche i famigliari delle vittime (che partecipano anche al film oltre ai tre bravi protagonisti), gli stessi che abbiamo visto in azione al processo di Torino. Fra alti e bassi, tra cui crisi depressive con eccessi alcolici, riuscirà nell'intento, grazie anche a Raffaella, che riesce a riallacciare il rapporto con lui e a dargli fiducia. Film di denuncia e di riflessione che intreccia le vicende personali di due solitudini, un uomo vecchio stampo e per bene e un precario di oggi privato dei suoi sogni, con un'altra più grande e orribile, con processi che durano all'infinito (quanto i danni dei manufatti cancerogeni prodotti dall'Eternit, guarda caso così difficili da smaltire) e una presa di consapevolezza collettiva dopo anni di silenzi e di inganni da parte di chi sapeva e non ha fatto nulla, soffre di qualche lungaggine e di spunti melodrammatici che possono apparire eccessivi ma è rigoroso, efficace, con una fotografia e un'ambientazione accurate. Francesco Ghiaccio, alla sua prima regìa, essendo casalese sa di cosa parla e l'esordio alla scenografia di D'Amore è altrettanto incoraggiante, così come la sua interpretazione e quella della brava, bella e intensa Matilde Gioli, già protagonista ne Il capitale Umano di Virzì in un ruolo simile, ma su tutti spicca Giorgio Colangeli, attore che finalmente comincia a trovare lo spazio che si merita ampiamente da anni.

giovedì 10 dicembre 2015

Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente"

"Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente" di Daniele Luchetti. Con Rodrigo de la Serna, Sergio Hernández, Muriel santa Ana, José Angel Egido, Alex Brandemühl, Pomeyo Audivert, Paula Baldini. Italia 2015 ★★★-
E' già sorprendente che io vada a vedere un film su un pontefice (Habemus Papam era un'altra faccenda), ancora di più che non mi sia dispiaciuto, benché Luchetti per me rappresenti comunque una seria garanzia. In questo caso che, checché ne dicano alcuni critici, non cadesse nell'agiografia, che pure era in agguato trattandosi di una produzione Medusa prevista anche in versione di Serie TV: quattro puntate da 50' che andranno in onda l'anno prossimo sulle reti Mediaset. E questo spiega uno dei lati negativi del film, frutto  evidente di un fitto lavoro di taglia-e-cuci che non giova al suo equilibrio e a un ritmo narrativo interno fluido. A parte le scene iniziali, che vedono Bergoglio giunto a Roma per il conclave che lo eleggerà Papa domandarsi, alla vigilia del medesimo, che cosa ci stia a fare lì, riflettendo sulle tappe della sua esistenza che ve lo hanno portato, e quelle finali, dove alla risata liberatoria dell'attore che lo interpreta al giorno d'oggi, il cileno Sergio Hernández, segue il Bergoglio in carne e ossa in filmati d'archivio durante il suo primo discorso dal Balcone su Piazza San Pietro, il film è in tutto e per tutto argentino, e non soltanto perché è stato girato a Buenos Aires e con attori prevalentemente argentini, raccontando le fasi salienti della vita e della carriera di Jorge Mario Bergoglio, figlio, come una gran parte della popolazione, di immigrati italiani (piemontesi e liguri nel suo caso), ma anche per lo stile e, soprattutto, per i contenuti. Questo è il suo pregio ma racchiude in sé un difetto: il film può piacere, per la sua onestà, veridicità, per i riferimenti più o meno impliciti, a chi conosce bene quel Paese e la sua storia recente, almeno dal 1955 (anno del golpe che cacciò Perón, nonché della mia nascita) in poi, e in particolare abbia respirato quelle atmosfere, e a chi ne abbia seguito con ansia le sorti negli anni più duri, perché vi era nato, vissuto o aveva parenti o amici che stavano lì, col rischio di rimanere inghiottiti nel gorgo della repressione e sparire nel nulla, quelli dell'ultima dittatura militare, dal 1976 al 1983, su cui si sofferma gran parte della pellicola, dopo aver raccontato quelli giovanili che precedettero la vocazione, quando Bergoglio era un normalissimo studente di chimica, con amici peronisti e "sovversivi" e tanto di fidanzata. Erano anche gli anni, dal 1973 al 1979, in cui fu, nonostante la giovane età, provinciale (ossia responsabile) per l'Argentina dell'ordine dei gesuiti, e che furono al centro delle critiche a lui rivolte per non aver "coperto", con la sua autorità, alcuni sacerdoti esponenti della Teologia della Liberazione, attivi nelle vilas miseria e invisi al regime di Videla. In realtà Bergoglio era dichiaratamente ostile alla "Teologia" e si era limitato, per ordini superiori, ad "avvertire" del pericolo questi preti, tra cui un suo stesso docente; al contempo ne salvò altre decine, oltre a seminaristi e perseguitati per motivi politici, secondo concordi testimonianze, nascondendoli nel collegio da lui diretto e a proprio rischio e pericolo; in particolare il film racconta la sua amicizia profonda con una giudice che si occupava di diritti civili, che salvò dalla desaparición, e quella di lunga data con Esther Ballestrino, professoressa di biochimica marxista e femminista, che fu una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo (sua figlia fu sequestrata incinta di tre mesi e liberata grazie all'intercessione di Bergoglio) e "scomparsa" nel dicembre del 1977, probabilmente vittima di un "volo notturno" e gettata, come altre migliaia, nel Rio de la Plata. E' questa personalità combattuta, tra fedeltà agli ordini superiori e pulsioni solidaristiche; tra spiritualità e umanità (il cibo, il vino, il calcio, l'amicizia, le donne, il tango: quello dei clubes sociales e delle milongas de barrio), tra capacità organizzativa e predisposizione naturale al comando (non è stato eletto superiore dei Gesuiti per caso) e capacità di mediazione (vedi il suo lavoro coi villeros del centralissimo "Barrio 31", quando fu richiamato a Buenos Aires come vescovo ausiliario dall'arcivescovo Antonio Quarracino, suo predecessore in quella carica, dopo l'esilio cordobese) che viene raccontata efficacemente nel film e che ne emerge, grazie anche alla potente interpretazione di Rodrigo de la Serna che lo impersona negli anni giovanili, che già aveva dato il volto ad Alberto Granado, compagno di Che Guevara ne I viaggi della motocicletta e al calciatore Claudio Tamburrini in Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977. Insomma, manca qualcosa, ma rimane un film più che accettabile e utile a capire il personaggio, e anche un po' il Paese da cui proviene. Così lontano ma così vicino, per mentalità, pregi e difetti. E motivi genetici. 

martedì 8 dicembre 2015

Commenti Lepenosi


Pur condividendo con Marco Travaglio soltanto il nome, e non certo la visione politico-economica, più di una volta sono rimasto stupito di quanto i suoi  editoriali esprimessero esattamente il mio modo di vedere, ma mai come stamattina davanti al fondo del Fatto Quotidiano, che attacca con queste parole: Che palle questa storia del “populismo”. Ogni volta che qualcuno sgradito all’establishment vince le elezioni, i giornaloni innestano il pilota automatico e gli danno del “populista”: esattamente le stesse che avevo usato anch'io ieri mattina quando, poco prima delle 8, mi ero sintonizzato su Radio Capital (Gruppo Repubblica-L'Espresso) e, nel corso della rubrica mattutina "All News", ho ascoltato il solito banale, cloroformizzante Stefano Folli commentare pappagallescamente i risultati delle elezioni amministrative francesi che hanno visto il Front National di Marine e Marion Le Pen sfiorare, a livello nazionale, il 30% dei voti affermandosi come il primo partito, superando il cosiddetto centrodestra di Sarkozy e sotterrando i socialisti al governo e altri scampoli della "sinistra". Considerando che il FN ha ottenuto i maggiori successi laddove la crisi economica ha morso di più, e non nella regione dell'Île de France in cui si trova Parigi, si può dedurre che l'effetto "traino" della risposta al terrorismo in seguito ai recenti attacchi dell'Isis nella capitale abbiano pesato poco o nulla, mentre è stato decisivo, eccome, il tasso di disoccupazione. Folli è solo uno dei tanti tromboni, e neppure il capofila, di tutta una genìa di notisti politici che comprende i vari Ostellino, Cazzullo, Battista, Franco, Sorgi, Polito, e chi più ne ha più ne metta, che passano per esperti e "indipendenti" ma hanno trascorso tutta la loro esistenza da saprofiti a ridosso delle stanze del potere e che sistematicamente si schierano, a prescindere, dalla parte del governo in carica di qualunque colore esso sia, giustificandone ogni mossa in nome del "pragmatismo", della "concretezza", a fronte della velleitarietà di chi è bravo solo a fare opposizione "perché è facile quando non ci si assume la responsabilità del fare" anche quando, come nel caso del fanfarone fiorentino e prima di lui dell'imbonitore brianzolo, tutto l'attivismo si riduce all'annuncio e alla chiacchiera. Folli (nomen omen) vaneggia di vittoria populista equivocando sul termine corretto che sarebbe semplicemente "popolare" perché il Front National, piacendo o no, dà quelle risposte che, specie davanti a una crisi economica e sociale che covava da decenni ed è scoppiata globalmente nel 2008, nessuno dei governi europei, di destra, centro, sinistra o di ampia coalizione che fossero, in quanto a sovranità limitata e succubi dell'élite finanziaria e oligopolista che li manovrano, è stato in grado di fornire. Anzi: le loro politiche sono andate in senso opposto, facendone pagare gli effetti a chi già era stato vittima di diseguaglianze sempre più abissali. Medesima reazione pavloviana, con l'evocazione del "pericolo autoritario", ce l'hanno anche coloro che, su una sponda diversa, hanno visto nella sconfitta della Kirchner e di Maduro in Venezuela un "pericolo per le conquiste democratiche (?) dell'America Latina", come se peronismo e chavismo non fossero populismo fascistoide allo stato puro: mi viene in mente Maurizio Chierici che, massacrando sistematicamente la grammatica e la sintassi della lingua italiana, ci ammannisce da trent'anni la saga dei trionfi di ogni sedicente revolución sull'orbe terracqueo. Facendo equazioni a capocchia tra Front National e la Lega nostrana, si tralasciano le origini "federaliste" (si fa per dire) del movimento creato da Bossi nonché il fatto che questa sia stata al fianco di Berlusconi in tutti i suoi governi dal 1994 al 2011 nonché tuttora alla guida delle regioni italiane economicamente più "pesanti", e la sua versione salviniana, peraltro accreditata dai media nazionali in cerca di un finto avversario a fare da contraltare all'altro Matteo, non fa che confermarne la beceraggine. Credo che abbia ragione Marine le Pen a considerare il proprio partito il solo vero "Fronte Repubblicano", nella più schietta tradizione gollista, con cui l'ex UMP di Sarkozy, ribattezzato per l'occasione "Republicains", non ha nulla a che vedere, e a dire che i socialisti si sono suicidati da soli: la politica economico-sociale proposta del FN è sicuramente più progressista di quella messa in atto dal governo attuale e capace di convincere i lavoratori salariati che votavano la gauche. Così come non è del tutto sballata l'analisi che fa Gianfranco Fini (e ci si domanda perché, dato che l'uomo è tutt'altro che stupido, oltre a predicare - talvolta - bene abbia costantemente razzolato male) e meno ancora quella di Marcello Foa sul Giornale. Quanto ai "commenti" di Folli su Radio Capital e al fatto che potrei fare a meno di ascoltarne i notiziari, a favore dell'emittente diretta dal buon Vittorio Zucconi (con cui non sono quasi mai d'accordo) e della sua ecumenicità c'è che sono controbilanciati dalle lucide analisi di Massimo Rocca, di cui vi propongo l'ultimo "Contropelo", prodotto nella giornata di ieri: La costoletta della sinistra.
Ve lo ricordate quando il lider Massimo diceva che la Lega era una costola della sinistra? Lui, paternalisticamente, pensava di aver trovato la risposta al problema politico mangiando sardine con Bossi. E invece il problema era quello sociale, che si sarebbe divorato lui, e tutta la sinistra, come fosse un’acciughina. Perchè la costola non era Bossi, così come oggi in Francia non lo è Marine-Marion-Marianne. La costola sono gli spiazzati e gli spezzati dal fenomeno della globalizzazione a tutti i livelli. Sono quelli che vorrebbero mettere in mutande i vertici di Air France e non trovare il presidente socialista della repubblica schierato con i licenziatori e non con i licenziandi, così come vorremmo trovare presidenti del consiglio e sindaci di Roma con i lavoratori del Colosseo senza stipendio, e non con chi quello stipendio non ha pagato. Del resto se la Confindustria francese lancia l’allarme democratico contro Marine, voi credete che voglia difendere la democrazia o i profitti? Io qualche dubbio ce l’ho. Se tu butti il lavoro e i lavoratori come fossero una costoletta mal cotta, non puoi certo prendertela con il cane che la raccatta e se la porta via.

venerdì 4 dicembre 2015

Mr Pùntila e il suo servo Matti


"Mr Pùntila e il suo servo Matti" di Bertolt Brecht, traduzione di Ferdinando Bruni. Con Ferdinando Bruni, Elena Russo Arman, Luciano Scarpa, Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Luca Torraca, Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Umberto Petranca, Matteo De Mojana, Francesca Turrini, Carolina Cametti, Francesco Baldi. Regia e scene di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; costumi di Gianluca Falaschi; musiche originali di Paul Dessau, arrangiamenti di Matteo De Mojana; luci di Nando Frigerio; suono di Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 31 dicembre.
In una stagione che vede la riproposizione di molte opere di Bertolt Brecht, in occasione del sessantenario della morte (14 agosto 1965), un merito particolare spetta al Teatro dell'Eflo che si cimenta per la prima volta in una produzione in proprio di un'opera del grande drammaturgo tedesco (il memorabile "Anima buona di Sezuan" con Mariangela Melato del 2009 a firma Bruni-De Capitani era stato realizzato per il Teatro Stabile di Genova) affrontando "Mr Pùntila", una commedia popolare particolarmente felice, scritta nel 1940 ma messa in scena per la prima volta nel 1948 a Zurigo al ritorno in Europa dell'autore dall'esilio negli USA e raramente in Italia. Con la collaborazione di Francesco Frongia, Ferdinando Bruni lo fa adattandola alle caratteristiche proprie e a quelle tipiche della compagnia milanese, particolarmente a proprio agio quando si può esprimere in una forma di spettacolo totale dove, nella migliore tradizione degli "elfi", la musica ha una parte fondamentale, e qui curata da Matteo De Mojana con suoi frequenti interventi anche dal vivo e intermezzi canori affidati al "coro" formato dai quattro personaggi femminili secondari. La vicenda ruota attorno alla schizofrenia del personaggio principale, interpretato a meraviglia dal proteiforme Ferdinando Bruni, Mr Pùntila, un ricco possidente tanto amabile da ubriaco, quando tratta da pari a pari i propri dipendenti fino al punto da voler far sposare la figlia Eva (una Elena Russo Arman in grande forma) al proprio autista Matti (l'ottimo Luciano Scarpa), quanto odioso e dispotico nelle (rare) fasi da sobrio, quando infierisce di vessazioni i propri dipendenti e vuol far maritare Eva a un giovane diplomatico cacciatore di dote vacuo e vanesio. Per la fortuna di Pùntila e dei suoi sottoposti, il saggio Matti, che lo conosce come le proprie tasche, riesce a tenere a bada gli sbalzi caratteriali del suo datore di lavoro limitando che abbiano effetti letali per lui e per il prossimo. Come tutti i testi di Brecht l'intento di parabola è evidente quanto attuale, e senza bisogno di particolari riferimenti alla realtà odierna, denunciando la doppia faccia del capitalismo e rendendo evidente la coesistenza tra bene e male, tra buone intenzioni e pessime concretizzazioni. Ispirato esplicitamente a "Luci della città" di Chaplin secondo le dichiarazioni dello stesso Brecht, Mr Pùntila si rifà altresì sia a "Dottor Jackyll e Mr Hide" sia, nel rapporto tra "padrone e servo", a precedenti come Don Chisciotte e Sancho Panza e Don Giovanni e Leporello e, come hanno icasticamente sottolineato Bruni e Frongia, Karl Marx vi incontra il proprio fratello (ed alter ego) Groucho. Una divertente commedia popolare in cui il chiaro 'intento didascalico non diventa mai pedante grazie alla sua scorrevolezza e facilità di lettura, esaltata dal brio e dall'efficacia della rappresentazione degli Elfi, che ha avuto riscontro dall'accoglienza caldissima di un pubblico particolarmente folto e divertito. 

mercoledì 2 dicembre 2015

Dio esiste e vive a Bruxelles

"Dio esiste e vive a Bruxelles" (Le Tout Nouveau Testament) di Jaco Van Dormael. Con Pili Groyne, Benoït Poelvoorde, Catherine Deneuve, François Damiens, Yolande Moreau, Laura Verlinden, Serge Larivière, Didier de Neck, Marco Lorenzini, Romain Gelin, Anna Tenta, Johan Heldenbergh. Lussemburgo, Francia, Belgio 2015★★★★
Non sapevo nemmeno che esistesse una comicità belga, e invece esiste eccome, così come esiste dio, nella versione di Van Dormael, e ha la faccia stralunata di Benoït Poelvoorde: un dio carogna, dispettoso, stronzo, misogino, che vive chiuso in un appartamento blindato passando il tempo a guardare partite di hockey su ghiaccio in TV e aggirandosi in per casa in ciabatte e canotta e vestaglia, che "dirige le operazioni" tramite computer da una stanza off limits elaborando le "leggi universali della sfiga" e mettendole implacabilmente in atto a spese degli umani mentre si gonfia di birra. Con lui vivono una moglie succube, che si limita a fare pulizie, servirlo e a essere taciturno oggetto del suo disprezzo, e la figlioletta ribelle Ea, che si fa paladina dell'umanità oppressa seguendo le orme del fratello JC, un Gesù Cristo uguale a quello parlante della sagra Don Camillo e Peppone, a sua volta sfuggito alle grinfie del padre per finire crocifisso, che le rivela la maniera di scappare dall'incubo claustrofobico di quell'appartamento: l'oblò di una lavatrice. Così Ea prima entra di soppiatto nella stanza "sala comandi" dopo avergli sottratto le chiavi del sancta sanctorum approfittando di una dormita post sbronza del genitore, manomette il PC, svela il sadismo del padre spedendo a ogni individuo un SMS in cui rivela la data di morte la lui programmata e esce nel vasto mondo (la piovosa capitale belga), dove nel frattempo ognuno si è messo a pensare a come occupare i giorni che gli restano da vivere seguendo le proprie più intime inclinazioni e senza più condizionamenti, con l'intento di reclutare 6 apostoli che scrivano il Nuovo Nuovo Testamento raccontando, questa volta, la propria vita invece che quella del figlio di dio e che, sommandosi ai 12 di JC (immortalati in una copia dell'Ultima Cena di Leonardo attorno al Maestro), raggiungeranno il numero 18, fatale per attivare le potenzialità della moglie del capriccioso e tirannico capo supremo. Incazzato come una belva, anche dio si catapulta nel mondo reale alla ricerca della figlia sperando di convincerla a ripristinare la precedente configurazione del computer, ma oltre a non essere creduto da nessuno, meno che mai dai ministri del proprio culto, è talmente arrogante e insopportabile da diventare inviso perfino a un prete di strada che si occupa di sans papier finendo per essere deportato in Uzbekistan a lavorare in una catena di montaggio mentre a dirigere le cose del mondo lo sostituisce la moglie, svampita ma di buon cuore. Suddiviso in capitoli dal titolo di quelli della Bibbia, il film scorre veloce, beffardo, mai volgare, in forma di fiaba moderna ispirata sia a Chaplin sia ai Monty Python: il divertimento è assicurato e la "morale", ammesso che l'intenzione sia di averne una, è condivisibile da chiunque sia così assennato da non credere a una divinità, almeno per come è dipinta dalle tre grandi religioni monoteiste, un mostro a tre teste che si equivalgono, producendo i medesimi effetti perversi sulla mente degli uomini. E già questo è un merito che va riconosciuto a Van Doemael e rende il film meritevole del prezzo del biglietto di per sé.

lunedì 30 novembre 2015

La felicità è un sistema complesso

"La felicità è un sistema complesso" di Gianni Zanasi. Con Valerio Mastandrea, Hadas Yaron, Giuseppe Battiston, Filippo De Carli, Camilla Martini, Maurizio Donadoni, Teco Celio, Daniele De Angelis, Maurizio Lastrico, Paolo Briguglia, Francesco Diele. Italia 2015 ★★★½
Un film inconsueto, che conferma le qualità di Zanasi, qui regista e co-sceneggiatore, autore non prolifico ma originale: l'ultimo suo lungometraggio, Non pensarci, è del 2007. Come allora, il protagonista è Valerio Mastandrea, nei panni di Enrico Giusti, un "tagliatore di teste" di tipo particolare: individua gli eredi di grandi aziende, i rampolli di seconda generazione generalmente incapaci di gestirle, convincendoli a cedere le loro quote prima di provocare disastri e la riduzione al lastrico di dipendenti e azionisti, alla società per cui lavora, che a sua volta le piazzerà a investitori ritenuti all'altezza, e di godersi la vita facendo come meglio credono occupandosi di quel che sono in grado di fare ma evitando di causare danni irreparabili. Si è inventato insomma un mestiere: non tanto e non solo per vocazione, ma per una sorta di dovere morale, per espiare in qualche modo la colpa del padre, un piccolo imprenditore che, di fronte a un fallimento, ha preferito fuggire in Canada abbandonando lui e il fratello minore Nicola. Un altro "fuggitivo" davanti alle responsabilità, questa volta di un rapporto sentimentale, tantoché Enrico si ritrova tra capo e collo la sua fidanzata, Achrinoam, già studentessa "Erasmus", tornata in Italia a cercarlo. Mentre si trova a gestire la sua imprevista ospite, che nel frattempo ha anche tentato il suicidio, le cose cambiamo repentinamente anche dal punto di vista lavorativo quando Enrico si trova ad avere a che fare con i fratelli Filippo e Camilla, lui ventenne e lei tredicenne, rimasti improvvisamente orfani di due imprenditori trentini vittime di un incidente stradale: nell'interazione con loro, anche a causa dell'inopinata presenza di Achrinoam, che gli tocca far passare come sua assistente, comincia ad apprezzarne le qualità e a vedere le cose in un'ottica differente da quella a cui era professionalmente abituato, quasi paterna nei confronti dei due ragazzi, il che lo porterà da un lato a fare una scelta radicale e dall'altro ad affrancarsi dal conflitto col proprio padre, quello che invece evita il suo socio in affari Carlo, sottraendosi per mezzo dell'eroina al confronto col proprio e con delle domande scomode e più profonde. Buona parte della riuscita del film è affidata alle spalle del protagonista, Mastandrea, che si conferma perfetto nell'interpretare personaggi complessi, dubbiosi, malinconici, capaci di ironia e autoironia senza cadere mai nel ridicolo e nel macchiettismo, così come leggero è il tocco di Zanasi nel raccontare la vicenda, concedendosi qualche tocco fiabesco ad alleggerire le situazioni e avvalendosi di una colonna sonora estremamente puntuale e azzeccata, quasi "sorrentiniana", che finisce per essere uno dei punti di forza di questo film. L'auspicio è quello di rivedere all'opera Zanasi prima che passino altri otto anni.

sabato 28 novembre 2015

Il sole e gli sguardi


"Il sole e gli sguardi" (La poesia di Pierpaolo Pasolini in forma di autoritratto) di Luigi Lo Cascio. Con Luigi Lo Cascio e i disegni di Nicola Console. Scene e costumi di Alice Mangano e Nicola Console; luci di Andrea Bevilacqua; suono Mauro Forte; musiche originali di Andrea Rocca; assistente alla regìa Marco Serafino Cecchi. Una coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Al Teatro san Giorgio di Udine fino al 5 dicembre.
L'assenza di retorica e di intenzione celebrativa è ciò che rende ancora più meritorio il progetto "Viva Pasolini", promosso dal CSS nel quarantennale della sua morte, e di cui fa parte questo intenso e suggestivo lavoro di Luigi Lo Cascio che come e più dello spettacolo di Giuseppe Battiston fa emergere la dimensione lirica che pervade tutta l'opera di Pasolini, anche quella non strettamente in versi; là ci si concentrava su quella in friulano facendosi condurre dal filo della memoria degli anni a Casarsa e rievocando un passato che non può tornare, qui un'analisi appassionata ripercorre tutta la sua produzione, alla ricerca di quei versi e di quelle suggestioni spesso premonitrici che possano aiutare a comporre una sorta di "autoritratto" dell'uomo in carne e ossa con tutte le sue proficue contraddizioni ancor prima che di quell'intellettuale che, alla luce del giorno d'oggi, appare sempre più profetico. Come Battiston, Lo Cascio non si identifica con Pasolini ma ne propone una rivisitazione in chiave poetica, che del resto era quella che meglio lo identificava e comprendeva, come ribadito con forza e disperazione dal suo amico Alberto Moravia il giorno dei suoi funerali; lo fa ricercando spunti tra tutta la sua sterminata produzione lirica e ricorrendo a una capacità di edizione eccellente e mai sopra le righe, che esalta la naturalezza con cui sa porsi, e quindi lo rende un lettore e interprete di testi ideale; così come non è mai pervasiva la sua presenza scenica, che fa della levità e discrezione la sua forza e si avvale efficacemente dell'interazione con l'apparato audio-visuale, e in particolare con gli schizzi magistrali cerati dal vivo su pannelli luminosi da Nicola Console. Folto e attentissimo pubblico, prevalentemente di adolescenti nella serata di ieri: non volava una mosca e la tensione partecipativa era palpabile. Ottimo segno!

giovedì 26 novembre 2015

Dobbiamo parlare

"Dobbiamo parlare" di Sergio Rubini. Con Sergio Rubini, Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio, Maria Pia Calzone. Italia 2015 ★★★½
Che sollievo vedere a distanza di pochi giorni dalla cocente delusione di Gli ultimi saranno ultimi un bravo attore come Fabrizio Bentivoglio tornare sé stesso, in un film non facile, che si svolge in un unico ambiente, l'appartamento preso in affitto, nel centro storico di Roma, con tanto di terrazza infestata da un gatto invadente, dalla coppia "progressista" composta da Vanni e Linda: lui uno scrittore post sessantottardo in crisi d'ispirazione; lei, trentenne, la sua ghost writer o, come si dice in gergo "negra" che, la sera del loro anniversario (il nono? il decimo?) vengono letteralmente sequestrati da una coppia di amici medici che stanno, ideologicamente e come modo di interagire, al loro opposto. Si tratta di Alfredo, cardiochirurgo di fama, vanesio e nevrotico, di rara e gioiosa volgarità, e Costanza, una collega dermatologa, entrambi al secondo matrimonio, che si tradiscono a vicenda e che vanno a sfogare le loro magagne, a turno e poi in coppia, a casa dei due piccioncini finendo, nell'arco di una lunga nottata in cui viene fuori di tutto, col coinvolgerli al punto che saranno loro a pagare le conseguenze di tutto il subbuglio che hanno creato. Siamo dalle parti del geniale Carnage di Roman Polanski, cui si sono ispirati anche Cena tra amici e il suo ignobile omologo italiano Il nome del figlio della famigerata Archibugi, ma vengono alla mente anche lo splendido La cena dei cretini fino, indietro nel tempo, La terrazza di Ettore Scola. Film di questo tipo, basati sul parlato, possono riuscire soltanto se i dialoghi sono serrati, precisi, cronometrici, scritti da qualcuno in grado di usare le parole con precisione e ironia, e di attori che sanno il fatto loro: è il caso sia di Rubini, che ha curato i testi, sia degli interpreti, in questo caso lui stesso in coppia con Isabella Ragonese nei panni della coppia buonista e de sinistra, e la loro interfaccia "pariolina", avida, politicamente scorretta e senza scrupoli, resa grandiosamente da Maria Pia Calzone e dal bentornato Fabrizio Bentivoglio. Il divertimento è assicurato e si finisce col ridere di sé stessi, perché c'è qualcosa di noi in ognuno dei quattro personaggi all'opera e, soprattutto, le parole sono importanti...

martedì 24 novembre 2015

Batracomiomachia 2015

Mentre nell'aria sfrecciano pericolosamente velivoli di varia natura, e ad altezza d'uomo uccelli paduli di ogni provenienza, neanche la terra è più un luogo sicuro. Son tempi duri...

domenica 22 novembre 2015

Spectre - 007

"Spectre - 007" (Spectre) di Sam Mendes. Con Daniel Craig, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Ben Whishaw, Christoph Waltz, Naomi Harris, Dave Bautista, Monica Bellucci, Andrew Scott e altri. USA 2015 ★★★-
Il voto è di stima, per Sam Mendes come per la maggior parte degli interpreti (Bellucci a parte, ché del resto è un soprammobile, e il paragone con Léa Seydoux in quanto a sensualità e capacità seduttiva è impietoso e imbarazzante, e non certo per la differenza d'età): il film parte a razzo, con ritmo indiavolato, con Bond che agisce senza la copertura del "doppio zero" su istruzioni postume ricevute dalla vecchia M (morta alla fine di Skyfall, l'episodio precedente, che è stato il miglior Bond Movie dopo l'era Connery) al fine di sgominare definitivamente la sempiterna Spectre, che nel frattempo si è specializzata nel crimine informatico, arrivando coi suoi tentacoli perfino ai vertici degli stessi servizi segreti inglesi, sul punto di venire prima unificati sotto il controllo di un nuovo, ambiguo responsabile sul punto di sbalzare il nuovo M, interpretato da Ralph Fiennes, e infine globalizzati e inseriti in un'unica rete mondiale infiltrata, guarda caso, dalla Spectre. L'azione si snoda, freneticamente come sempre, tra Città di Messico, Roma, le alpi austriache e infine un'area desertica del Nord del Marocco: che sia zeppa di incongruenze e poco credibile può stupire soltanto chi non ha ancora capito dopo oltre mezzo secolo, che si tratta pur sempre di una fiaba per bambini più o meno cresciuti, e quindi sulla linea degli "007" storici, e qualcosa dell'atmosfera d'antan la conserva, non a caso, ancora oggi. E del resto tutto il film, come il precedente, si gioca sul conflitto tra un presente proiettato nel futuro e un passato che non può tornare ma con cui bisogna fare i conti, e la cui conoscenza, comprese virtù e vaolori, sono indispensabili anche al giorno d'oggi. Questo riguarda sia lo MI6, il servizio segreto, sia James Bond, di nuovo in fase auotoanalitica, che dopo aver in qualche modo risolto in Skyfall il rapporto con la madre (simboleggiata dalla M interpretata da Judy Dench), ora si ritrova con il lascito del padre, anzi di due padri: il suo, perso in un incidente in montagna quando era un bambino di otto anni, e quello della vera Bond Girl di questo "Spectre", Madeleine (una citazione proustiana?), figlia di un "pentito" della Spectre al quale, prima della sua scomparsa per avvelenamento da tallio, promette di proteggerla e che sarà l'unica persona a poterlo portare sulle tracce dell'eterno nemico Stavro Blofeld, un Christoph Waltz sotto tono, probabilmente non sfruttato al massimo, del cui odio implacabile nei confronto di Bond verrà data una spiegazione in chiave psicologico-edipico che non mancherà di sconcertare e far scuotere la testa ai vecchi appassionati del Bond "storico": sbruffone, maschilista, egocentrico, un po' cialtrone. A dare manforte a questo Bond serio e introspettivo un "Q", l'inventore pazzo, in versione giovanile e, sotto traccia, M, oltre all'immancabile Moneypenny, a sua volta diventata una ragazza di colore. Come sempre trionferanno i buoni, ma dopo una cavalcata che si fa sempre più faticosa e stiracchiata col passare dei minuti: Skyfall era un'altra cosa, e anche Eva Green, per quanto Léa Seydoux dimostri di avere un suo perché anche in questa occasione. 

venerdì 20 novembre 2015

Gli ultimi saranno ultimi

"Gli ultimi saranno ultimi" di Massimiliano Bruno.  Con Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi, Ilaria Strada e altri. Italia 2015 
Trascorsi due giorni da quando ho visto questo filmetto, non lo lascio sedimentare oltre perché man mano che passa il tempo cresce l'irritazione e finirei per infierire più di quanto meriti  coinvolgendo nel giudizio anche attori che apprezzo, come i tre interpreti principali e pure quelli di contorno, che hanno fatto del loro meglio. Purtroppo per loro, si sono messi nelle mani di un regista che sarà anche bravo dietro alla telecamera a sfornare prodotti di gusto televisivo, ma che trasposti sul grande schermo, per di più con sbandierati e ambiziosi intenti "sociali" e di denuncia, producono un risultato penoso. Peggio, controproducente: argomenti seri come il lavoro precario e, nel suo ambito e non solo, la condizione di persistente inferiorità femminile; la fragilità (e anche il vittimismo: diciamolo, una buona volta!) di una generazione che finisce per ingoiare tutto; l'inquinamento elettromagnetico e la persistente invadenza della chiesa cattolica nella vita italiana, sono miscelati in maniera così pretestuosa e incongrua in un calderone di luoghi comuni, al cui confronto anche un film non particolarmente riuscito come Noi e la Giulia brilla per originalità e Smetto quando voglio assurge a capolavoro assoluto. Mettiamoci anche la parlata immancabilmente romanesca anche se risciacquata nelle acque innocenti dell'incantevole lago di Bracciano; il fastidiosissimo product-placing (la sponsorizzazione di una operaia precaria a cui non viene rinnovato il contratto a termine perché ha avuto la dabbenaggine di farsi scoprire incinta da parte della Cera di Cupra dice tutto) per non parlare delle riprese da cartolina turistica di Anguillara Sabazia, culminate con quelle della festa del Santo Patrono che è ormai un must della "nuova commedia all'italiana"  e l'onnipresenza della Banca della Tuscia e dell'ACOTRAL, e abbiamo fatto il pieno. Ma non è ancora tutto: perché a furia di buonismo molesto e l'opportunistico "politicamente corretto" (e cagasotto, cinematograficamente parlando ), la protagonista, Luciana (Paola Cortellesi), passa per una perfetta deficiente: non paga di aver sposato e di mantenere Stefano, un giovinastro immaturo, orgogliosamente ignorante, inetto, stupido e irresponsabile (Alessandro Gassman: ma chi te cha fatto fare?) che prima la mette incinta e, proprio nel momento in cui lei va in crisi, la cornifica pure; si affida, implorandolo, a un sindacalista cialtrone per rinnovare il contratto (precario); chiede sempre scusa, implora raccomandazioni, accetta di tutto pur di riavere la propria vita di merda (e una paga altrettanto di merda) fino al punto di "scoppiare" e sottrarre l'arma a una guardia della fabbrica che l'ha silurata, e avere i suoi "cinque minuti di gloria" (e di follia) che almeno si risolvessero in una sacrosanta e liberatoria vendetta, e invece no: nell'implorare in lacrime il viscido quanto arrogante padrone delle ferriere, seppur con la pistola in pugno, di poter tornare a essere una sua schiava. Il suo destino si incontra a quel punto con quello di un altro sfigato, Antonio, un poliziotto veneto catapultato per punizione nell'Alto Lazio (da quando la PS e non i Carabinieri in una cittadina di 20 mila abitanti? Mah!), altrettanto casualmente come il buon Fabrizio Bentivolglio nel suo ruolo, che avrà la sua rivalsa sui colleghi che lo tormentano per un fatto ritenuto "increscioso" dalla mentalità sbirresca. Naturalmente tutto finisce in gloria: Mario, il padre di Luciana, già morto di cancro per radiazioni elettromagnetiche da ripetitori (che sono sempre lì) rivive nel figlio che porta il suo nome; Stefano, quello che andava avanti a cazzeggiare tra "mezzi affari" e scommesse  perché "non voleva stare sotto padrone", si è ravveduto, è diventato imprenditore di sé stesso aprendo la partita IVA e dunque un'officina; Luciana è radiosa nella sua mammitudine e se la passa bene anche il travestito Manuel, ingrediente imprescindibile in onore al LGBT friendly anche se non centrava una mazza con tutta la storia, e magari Walter Veltroni nel frattempo è diventato sindaco di Anguilla Sabazia. Amen.

mercoledì 18 novembre 2015

Diario di una casalinga serba


"Diario di una casalinga serba" (Dnenvnik srpske domaćice), monologo liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Mirjana Bobić Mojsilović, interpretato da Ksenija Martinović. Regia di Fiona Sansone. Produzione CSS-Teatro stabile di innovazione del FVG/Progetto StartART. Al Teatro San Giorgio di Udine fino al 22 novembre.
Una donna allo specchio, che si confronta coi propri ricordi, è quella che interpreta, con grande energia, versatilità espressiva e convinzione la ventiseienne attrice belgradese, ma ormai da molti anni in Italia, che con questo suo adattamento di un romanzo di successo di Mirjana Bobić Martinović, sua concittadina molto famosa in patria, ha vinto il Premio Nazionale Giovani Realtà del 2014 per il settore monologo: dopo averla vista in azione, penso si possa dire che è molto più di una promessa e che molto bene ha fatto il CSS a sostenerne la produzione. Ksenija Martinović/Andjelka si muove in uno spazio a ridosso del pubblico, che lo condivide, tra casse vuote, pacchi di giornali, vestiti e vecchie scarpe e armeggiando con un registratore in cui a tratti riascolta la propria voce o musiche e radiotelegiornali dei tempi passati, ripercorrendo sul filo della memoria la propria crescita e quella della propria generazione, quella nata sul finire degli anni Sessanta, che ha fatto in tempo a far parte orgogliosamente dei "pionieri" quando "tutto era Tito e Tito era tutto", la SFRJ, un Paese in cui si poteva progettare ottimisticamente un futuro, proiettato all'esterno, a metà strada tra Est e Ovest, non appartenente ad alcun blocco e anzi leader di quelli "non allineati" e l'unico tra quelli comunisti a "essere in blue jeans" (comprati a Trieste); adolescente nel 1980, alla morte del Maresciallo, che ha poi vissuto il progressivo passaggio dall'amore per il padre della patria, la Jugoslavia interetnica multiculturale e multireligiosa quando non serenamente agnostica (spesso all'interno della medesima famiglia) a quello verso la Serbia e i suoi demagoghi, Milošević e Drašković, fino alla dolorosa maturità al tempo della guerra fratricida degli anni Novanta che ha disgregato definitivamente il Paese (con enormi responsabilità esterne, ma su questo ha avuto la pietà di non insistere) e ai criminali bombardamenti della NATO su Belgrado, dove nel frattempo l'atmosfera di armoniosa convivenza era andata a pezzi. La sua esistenza va di pari passo con la storia degli ultimi anni della Jugoslavia e la bravissima interprete si trasforma dalla bambina col volto da bambola alla ragazza entusiasta; dalla elegante donna fatta, che ha già alle spalle un matrimonio fallito ma diventa nazionalista convinta solo per il bisogno di credere a qualcosa a una casalinga disillusa, che avrebbe voluto fare l'attrice e si ritrova a fare i conti con un passato che né lei né la sua generazione ha mai potuto decidere, i più cari amici morti o emigrati, il fratello in un ospedale psichiatrico, forse per sfuggire alle proprie responsabilità che lo porterebbero in galera. Un'ora di recital, intenso, coinvolgente, a tratti commovente, almeno per chi ha amato e rispettato quel Paese e la sua varietà e vivacità culturale. Che per fortuna è rimasta nei suoi talentuosi eredi, a qualunque delle ex repubbliche appartengano.

domenica 15 novembre 2015

Non c'è acqua più fresca


"Non c'è acqua più fresca", uno spettacolo di Giuseppe Battiston per "Viva Pasolini!". Volti, visioni e parole dal Friuli di Pier Paolo Pasolini. Con Giuseppe Battiston e Piero Sidoti. Drammaturgia di Renata M. Molinari; regia e spazio scenico di Alfonso Santagata; luci di Andrea Violato; canzoni e musiche originali dal vivo di Piero Sidoti; produzione CSS-Teatro stabile di innovazione del FVG.
Spettacolo d'apertura della 34ª stagione di Teatro Contatto del CSS di Udine, "Non c'è acqua più fresca" è il primo della rassegna "Viva Pasolini!", iniziata il 1° novembre scorso nel quarantesimo anniversario della scomparsa del poeta, scrittore e registra che al Friuli, cui era legato visceralmente, ha dedicato una parte notevole della sua produzione artistica, specie quella poetica, nella lingua materna, quella parlata a Casarsa, il paese in cui ha vissuto e tornava anche durante gli anni romani, appena "di là de l'aghe", quelle del Tagliamento, nell'attuale provincia di Pordenone. "Terra di temporali e primule", nelle parole del poeta, rievocata da Battiston e Sidoti, nei panni di due attori dilettanti che allestiscono uno spetacolut di piazza riandando agli anni della giovinezza di Pasolini nel paese di nascita di sua madre  Susanna e dei suoi affetti più profondi e cari: una ricostruzione degli anni felici, popolati dalla "meglio gioventù", in forma di versi, recitati da Giuseppe Battiston, tratti da diverse raccolte, ma anche di nomi, di situazioni, di paesaggi; e in forma di canzoni, composte e suonate alla chitarra da Sidoti e cantate da lui stesso e, in parte, dall'attore che, nella sua città di nascita e nella sua lingua, gioca in casa (opportunamente, specie per le repliche che si terranno fuori dalla regione, la traduzione in italiano scorre su un pannello in alto, ma già a Trieste o nelle stesse Pordenone e Sacile pochi spettatori sarebbero in grado di comprenderla appieno ). Non una celebrazione,  fortunatamente, e nulla che assomigliasse nemmeno vagamente alle commemorazioni di rito quanto per lo più insincere di tanta gente che, nell'anniversario della sua morte, ha citato fino alla nausea Pasolini estrapolandone le frasi e manipolandone il pensiero a piacere per adattarlo alle proprie esigenze, per lo più senza averlo letto e, meno ancora, capito. Non è il caso dei due autori e attori né di Renata Molinari che ha curato la drammaturgia, che non si limitano a un omaggio melenso al poeta e a un Friuli che sopravvive solo nella memoria e che la musicalità di un dialetto che, secondo Pasolini, si faceva lingua, riesce a rendere vivo, reale e anche aspro, e non soltanto reso elegiaco dal ricordo.

"Non c'è più acqua fresca" sarà in tournée dal 19 al 23 aprile 2016 al Teatro Franco Parenti di Milano e il 26 aprile al Teatro Reconditi di Bassano del Grappa

giovedì 12 novembre 2015

Alaska

"Alaska" di Claudio Cupellini. Con Elio Germano, Astrid Berges-Frisbey, Valerio Binasco, Elena Radoncich, Antoine Oppenheim, Paolo Pierobon, Pino Colizzi, Marco D'Amore, Roschdy Zem. Italia, Francia 2015 ★★★½
Non intensa ma sempre interessante la produzione di Cupellini (mi aveva convinto in Una vita tranquilla del 2010) soprattutto perché anomala rispetto alla produzione corrente, almeno nel genere mélo-noir in cui si può inquadrare il film senza riuscire a definirlo del tutto, benché rimanga alla fine una storia d'amore intenso, contrastato, tra due persone profondamente sole che sembrano aver sciolto qualsiasi legame precedente e stanno disperatamente cercando un qualche futuro contando soltanto sulle proprie forze e, nei corsi e ricorsi della loro vicenda, sull'altro. In alcuni momenti le rispettive fragilità diventano una forza che li unisce, in altri li portano a schiantarsi in scelte repentine e autodistruttive. Fausto e Nadine si incontrano sul tetto di un grande albergo di Parigi durante una pausa-sigaretta: lui cameriere italiano che sogna di diventare maître, lei una ragazza che sta svogliatamente facendo un provino come modella: contrariamente a quel che sarebbero le premesse, lei viene scelta e si trasferisce a Milano, mentre lui finisce in galera prendendosi due anni per lesioni personali per averla difesa atterrando un facoltoso cliente che li aveva sorpresi nella sua camera. Nadine si reca a visitarlo solo all'inizio della detenzione, e Fausto trascorre il resto della carcerazione macerandosi in un amore che finisce di credere impossibile e tutto si aspetterebbe tranne che trovarla ad aspettarlo all'uscita. Colpo di scena, non senza dramma da chiarimenti, ma a buon fine e trasferimento a Milano, dove la coppia vive per conto proprio, non mischiandosi troppo al mondo modaiolo ma venendone alla fine coinvolto. Soprattutto Fausto, che vede aprirsi la possibilità di riprendere, almeno in parte, la strada già tentata a Parigi, diventando socio di Sandro, altro personaggio squinternato e vittima delle situazioni oltre che degli usurai, l'anima di un locale, l'Alaska del titolo, un club-discoteca situato in una chiesa sconsacrata. Peccato che lo faccia investendo, senza chiederglielo, il danaro risparmiato da Nadine e che costituiva il fondo cassa della coppia. Questa volta gira male a Nadine, che durante una discussione con Fausto rimane vittima di un incidente in auto e ha la peggio finendo con le gambe rotte, la carriera rovinata e un lungo periodo di riabilitazione, durante il quale Fausto le sta in buona parte a fianco finché qualcosa si rompe, e questa volta per responsabilità di lei. Fausto è sempre più proiettato in alto, finendo per fidanzarsi con l'erede di una lussuosa catena alberghiera e, assieme al matrimonio, vede avverarsi il suo sogno, ma quando sarà il momento di stare davvero vicino a Nadine non esiterà a farlo, perché alla fine sia lui sia lei riusciranno a dare il meglio ed essere sé stessi, e a essere realmente umani, solo occupandosi uno dell'altra, mentre col prossimo, forse per autodifesa, finiscono per essere cinici e senza riguardi. Le vicende attraverso cui passano i due personaggi sono improbabili, forzate, anche se verosimili in una realtà schizzata come quella modaiola milanese dove gente come Nadine, Fausto e Sandro sono degli outsider, comunque dei perdenti in partenza, nonostante momenti di gloria, ma alla fine è il rapporto tra questi due disperati che risulta credibile, vero grazie anche alla distanza che la regia prende dai personaggi, non facendo nulla per renderli gradevoli e nessun tentativo di giustificarli. Nonostante questo, ci sarà un happy end, forse: questa volta non all'uscita della prigione della Santé ma nella sala colloqui di un carcere milanese (non mi è chiaro se Opera o Bollate). Germano "è" Fausto (il regista ha detto di aver scritto la sceneggiatura pensando all'attore), Astrid Berges-Frisbey è credibile nel suo ruolo e così Valerio Binasco nel suo di gestore di locali milanesi, la regia sulla falsariga di Gomorra (la serie, a cui ha collaborato Capellini) e di Sollima, però con uno stile personale e "tocco francese". Può valere la pena, apprezzando il genere.