venerdì 28 novembre 2014

Let's Go

"Let's Go" di Antonietta De Lillo. Con Luca Musella. Italia 2014 Con Luca Musella, Elizabeth Christina Almeida, Vincenzo Avranno, Brahim Ati Baha, Miriam Ati Baha, Paolo Circhi, Sirlei De Fatima, Simone gennaro, Dian Sluti, Cheri Mohammed Wajdi, Abdul Mecit Erbi, Elena Teresa Rossi, Roberto De Francesco. ★★★★
Enumero di proposito tutti coloro che hanno partecipato a questo piccolo, breve ma prezioso film, esemplare anche formalmente, nelle riprese come nell'accompagnamento musicale, presentato anch'esso al Torino Film Festival ancora in corso della brava fotoreporter e regista napoletana Antonietta De Lillo, che fa raccontare allo stesso protagonista la parabola del collega Luca Musella (che ha scritto i testi oltre a collaborare alla sceneggiatura), fotoreporter di una certa notorietà negli anni Ottanta e precipitato per varie vicissitudini, professionali (la crisi profonda dell'editoria, divorata dalla televisione) e personali (generosi investimenti in attività culturali divorati da crollo di domanda, scelte sbagliate dettate da ottuso ottimismo e conseguente separazione dalla moglie) da "uomo del Mulino Bianco" a sottoproletario a tutti gli effetti, nuovamente "on the road", da Napoli via Viterbo verso Milano, dove torna dopo trent'anni trovando una città che non è più quella "da bere" e un ambiente umano nonché professionale profondamente mutato. Ma lo è anche lui, che non si riconosce più nella maschera che lo ingabbiava un tempo, forse perfino più libero e a suo agio coi suoi nuovi compagni di strada, che vivono come lui ai margini e senza sostanziali diritti e alcuna certezza sul domani, extracomunitario (come lo è la maggioranza di loro, senza permesso di soggiorno) nel suo stesso Paese perché privo di residenza. Un riflessione senza pietismi, autocommiserazione, talvolta ironica e a tratti poetica, su realtà tanto diffuse quanto volutamente ignorate che inghiottono con incredibile facilità, di questi tempi, anche chi sembrerebbe più attrezzato, anche culturalmente, e resistere. Ma non è disposto a vendersi e perdere la stima e il rispetto per sé stesso.

mercoledì 26 novembre 2014

I ponti di Sarajevo

"I ponti di Sarajevo" (Les ponts de Sarajevo) di Ursula Meier, Aida Begić, Leonardo Di Costanzo, Jean-Luc Godard, Kamen Kalev, Islid le Besco, Sergei Loznitsa, Vincenzo Marra, Vladimir Perisić, Cristi Puiu, Marc Recha, Angela Schanelec, Teresa Villaverde. Francia, Italia, Svizzera, Bosnia-Herzegovina, Bulgaria, Germania, Portogallo 2014 ★★★★
Film collettivo già presente alle proiezioni speciali dell'ultimo Festival di Cannes, era stato proiettato in contemporanea a Sarajevo e Pesaro il 27 giugno scorso, in occasione del centenario della vigilia dell'attentato nel corso del quale Gavrilo Princip uccise l'erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e la moglie Sofia e che fu il pretesto per scatenare la Prima Guerra Mondiale e segnò l'inizio della fine di un ordine che, fino ad allora, aveva visto al centro il Vecchio Continente: la Seconda, che ne fu la mera conseguenza, ne completò l'opera così come la cosiddetta Guerra Fredda che ne seguì e che prosegue tuttora in varie forme, non ultima la più recente delle guerre balcaniche: quella che disintegrò la Jugoslavia, di cui l'assedio di Sarajevo dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 fu lo snodo cruciale. Collage di 13 "corti" di 9' al massimo ciascuno e ispirati alla città bosniaca ma a svolgimento libero, girati da alcuni dei registi europei più rinomati, nonché di diversa età e provenienza sotto la direzione artistica di Jean-Michel Frodon, è stato presentato nei giorni scorsi al Torino Film Festival che si conclude domenica 29. Ogni episodio esprime la diversa sensibilità e l'approccio personale degli autori, e qualcuno è più riuscito degli altri: in alcuni casi poetico, spiazzante, commovente; qualcuno in forma più documentaristica, altri sperimentale, altri ancora di racconto immaginario, realistico o di rievocazione, tutti insieme centrano l'obiettivo di ripercorrere gli ultimi cent'anni di storia di questa città simbolo di tutte le traversie e contraddizioni europee, da sempre, nelle sue vicende plurimillenarie, crogiolo di culture, etnie e religioni diverse, epicentro di scontri così come di incontri, di guerre come di traffici ininterrotti che si svolgono sopra e sotto i suoi ponti, distrutti e ricostruiti a più riprese, sulla Miljačka, e di indurre a riflessioni più ampie su ciò che unisce, i ponti per l'appunto, più che su ciò che divide. Segnalo che l'unico episodio non legato direttamente a Sarajevo è quello, molto bello, diretto da Leonardo Di Costanzo, "L'avamposto", liberamente tratto da un racconto di Federico De Roberto, lo stesso che ha ispirato Ermanno Olmi per il recente e bellissimo "torneranno i prati" e che racconta la fabbrica di orrore e di morte che furono le trincee sul Carso durante la Grande Guerra e la conseguente insubordinazione di massa, specie tra le truppe italiane, aspetto sempre sottaciuto dalla nostrana retorica patriottarda e imbecille. Proposito, quello di ricordare e far riflettere, pienamente raggiunto da questo omaggio a una delle città più belle ed emblematiche del nostro continente.

lunedì 24 novembre 2014

Non tutto è perduto


Se perfino in Emilia, dove sopravvivono gli ultimi trinariciuti e dove ancora oggi sui comodini in fianco all'immaginetta della Madonna campeggia quella di Togliatti assieme a Nilde Jotti, orgoglio locale, l'elettorato attivo è ridotto al 37,6% e il candidato centrosinistrato alla presidenza della Regione per la prima volta rimane sotto la soglia del 50%, forse qualche speranza c'è ancora. E se lo Stronzie esulta, questa volta sono ancora più soddisfatto di lui.

sabato 22 novembre 2014

Redemption Street

"Redemption Street" (Ustanička Ulica) di Miroslav Terzić. Con Gordan Kičić, Rade Šerbedžija, Uliks Fehmiu, Jelena Djokić, Milica Mihailović, Petar Božović, Predrag Ejdus, Bojan Zirović, Aleksandar Djurica. Serbia, 2012 ★★★★
Film d'esordio di Miroslav Terzić, che s'era occupato in precedenza di video commerciali, aveva avuto un buon successo al Sarajevo Film Festival di due anni fa ed è stato presentato martedì scorso a Firenze all'ultima edizione del "Balkan Florence Express" alla presenza del regista: Redemption Street non ha nulla da invidiare a produzioni ben più ricche, e ha dimostrato, come già "Il segreto dei suoi occhi", film argentino che vinse meritatamente l'Oscar come miglior film straniero nel 2010 e che mi ha ricordato, che è possibile confezionare un avvincente legal thriller che sia al contempo un film d'azione affrontando il passato oscuro del proprio Paese, sforzo che la Serbia sta compiendo seriamente e da qualche anno nei confronti delle guerre jugoslave degli anni Novanta, a differenza di altri tragici protagonisti di quelle tragiche e tristi vicende, balcanici e no, meno o per nulla dotati di spirito autocritico. Un altro film che mi è tornato in mente è "Il giudice ragazzino" di Alessandro Di Robilant di vent'anni fa, che prendeva il titolo dalla definizione sprezzante che l'ex Presidente della Repubblica diede del giovane vice procuratore Rosario Livatino, assassinato dalla mafia nel 1990, perché lo ricorda la figura del protagonista Dušan, che ricopre lo stesso ruolo e viene incaricato dal procuratore capo per i crimini di guerra, interpretato dal bravissimo e iconico Rade Šerbedžija, di un'indagine ultrasegreta su un gruppo paramilitare attivo in Croazia, in Bosna e nel Kosovo e successivamente sparito nel nulla, perché man mano i suoi membri sono stati fatti eliminare dal "Grande Vecchio" che dava gli ordini, un "insospettabile" che, opportunamente protetto da vari complici interni anche allo Stato, vive comodamente nel pieno centro di una Belgrado livida e in parte inconsueta dove si svolge l'azione. Dušan riesce a individuare l'unico superstite del gruppo, Micun, anche lui preso di mira dal vortice che elimina uno dopo l'altro i possibili testimoni, e che sta tentando di ricostruirsi una vita tranquilla come muratore e futuro padre insieme alla moglie nel tentativo di rimuovere i fantasmi di un passato che riappare inesorabile. E si riaffaccia anche a Dušan e intromettendosi nella sua esistenza: pure lui attende un figlio dalla giovane moglie, al contempo è deciso di andare fino in fondo nella sua inchiesta a costo di mettere in pericolo la propria vita anche per dimostrare all'anziano padre, un ex professore di diritto in odore di eresia durante il regime di Milosević, di essere degno del proprio ruolo di magistrato. Un film solido, ben fatto, incisivo, ben girato e con un cast all'altezza. Per me, la soddisfazione di aver capito all'incirca il 35% di quel che veniva detto e il senso in generale: il film è in lingua originale, sottotitolato in italiano. Mi auguro vivamente che qualcuno si prenda la briga di distribuirlo quanto merita.

giovedì 20 novembre 2014

Da qui all'Eternit: c'è chi dice NO!


In questo giorno triste, ci mancano più che mai le parole intelligenti di un uomo che aveva capito alla perfezione vizi e difetti di questo Paese: Ennio Flaiano, a 42 anni dalla sua scomparsa, più attuale che mai.


«Preferire sempre di no. Non rispondere a inchieste, rifiutare interviste, non firmare manifesti, perché tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell'individuo e favorisce il malgoverno, la malavita, la mafia, la camorra, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionali scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti, dai reduci, dai mutilati, dagli elettrici, dagli studenti bocciati, dai pornografi, poligrafi, truffatori, mistificatori, autori ed editori. Rifiutarsi, ma senza specificare la ragione del tuo rifiuto, perché anche questa verrebbe distorta, annessa, utilizzata. Rispondere: no.
Non cedere alle lusinghe della televisione.
Non far crescere i capelli, perché questo segno estremo ti classifica e la tua azione può essere neutralizzata in base a questo segno.
Non cantare, perché le tue canzoni piacciono e vengono annesse.
Non preferire l'amore alla guerra, perché anche l'amore è un invito alla lotta.
Non preferire niente.
Non adunarti con quelli che la pensano come te, migliaia di no isolati sono più efficaci di milioni di no in gruppo. Ogni gruppo può essere colpito, annesso, utilizzato, strumentalizzato.
Alle urne metti la tua scheda bianca sulla quale avrai scritto: No. Sarà il modo segreto di contarci.
Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì. I quali si chiederanno cosa non viene apprezzato del loro ottimismo».
(Ennio Flaiano)

domenica 16 novembre 2014

Interstellar

"Interstellar" di Christopher Nolan. Con Matthew Mc Conaughey, Anne Hathaway, Jessica Castain, Michael Caine, Matt Damon, Ellen Burstyn, Casey Affleck e altri. USA 2014 ★★
"The Harder They Come, The Harder They Fall", oltre a essere il titolo di un memorabile film giamaicano del 1972 che ha contribuito non poco a far conoscere il reggae al di fuori dell'isola caraibica, è un proverbio che sembra fatto apposta per l'"Interstellar" del fantasioso quanto confuso Christopher Nolan che, per carità, non appartiene alla categoria dei cani della regia ma il cui film risulta tanto più deludente quanto più sono alte le aspettative e arzigogolata una sceneggiatura che avrebbe dovuto essere il suo punto di forza. Ancor più quando il termine di paragone è esplicitamente "2001 Odissea nello spazio".  Tutt'altro che convinto, una volta uscito dopo tre ore di proiezione mi è tornata in mente una battuta che circolava ai tempi dell'uscita del capolavoro di Stanley Kubrick, nel 1968: "Icaro credeva di essere un uccello, invece era un pirla". Siamo in un imprecisato futuro che sembra un ritorno al passato della "Dust Bowl" che aveva flagellato le grandi pianure degli Stati centrali degli USA negli anni Trenta, in piena Depressione, e un'umanità rassegnata sta facendo i conti con una crescente carenza di cibo: il frumento è ormai scomparso e per il momento è rimasto da coltivare soltanto il mais, anch'esso destinato a scarseggiare e sparire. Lo sviluppo tecnologico forsennato ha fatto ammalare la Terra e la scienza è guardata con sospetto da parte di uomini tornati rudi coltivatori: perfino Cooper, un ingegnere e astronauta, che però, attraverso la figlia adolescente Murph, una specie di "scienziata sensitiva" cui è particolarmente legato, viene "riagganciato" dalla NASA che, in incognito, in una vecchia base dismessa nascosta nel deserto, ha continuato in segreto le proprie ricerche e le proprie missioni allo scopo di trovare un luogo nell'universo adatto alla vita della specie. Compito di Cooper sarà scoprire, attraversando un "wormhole" apparso su una delle lune di Saturno e che consente un viaggio nella quinta dimensione, oltre lo spazio-temporale, gli esiti di tre missioni precedenti e salvare, in sostanza, l'intera umanità. Cooper accetterà, sapendo che non tornerà, al fine di salvare i propri figli. Da un'altra dimensione, comunicherà con la figlia, che nel frattempo è diventata lei stessa una scienziata (che, va da sé, salverà il mondo per conto del padre), ma in tre tempi diversi: al passato, al presente e pure al futuro. Questa la "ciccia" del film, infarcito di dotte dissertazioni scientifiche incomprensibili ai più sulla teoria della relatività, sulla quantistica e su quant'altro; il racconto a più tracce dilata all'inverosimile una trama che avrebbe retto per non più di 100 minuti, il tutto avvolto in un'atmosfera che tende a somigliare a quella di un videogame leggermente dépassé, con una fotografia dai colori spesso lividi ed efficaci: l'aspetto migliore della pellicola. Non altrettanto si può dire della prestazione degli attori, a parte McConaughey che è una conferma e interpreta il personaggio principale, per non parlare degli "effetti speciali": molto più efficaci e impattanti quelli usati da Kubrick per il viaggio oltre la dimensione spazio-temporale di David Bowman coi mezzi di 45 anni fa di quelli messi a disposizione oggi a Nolan nell'era della computer-grafica. Perfino la colonna sonora, che pure è uno dei lati positivi del film, è poca cosa rispetto a quella sontuosa di "2001". Che resta lontano anni luce. Insomma: troppa carne al fuoco, prolissità eccessiva, immancabile l'ammòre che è la chiave di tutto. Decisamente al di sotto delle attese e delle potenzialità.

giovedì 13 novembre 2014

Le Vie d'Acqua

Milan l'è un Gran Milan

torneranno i prati

"torneranno i prati" di Ermanno Olmi. Con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Domenico Benetti, Andrea Benetti, Carlo Stefani, Niccolò Tredese, Franz Stefani, Andrea Frigo, Igor Pistollato. Italia 2014 ★★★★★
Un film magnifico, emozionante e poetico, un piccolo, grande capolavoro: sono bastati 80 minuti a Ermanno Olmi per condensare tutto quel che c'è da dire sulla follia della guerra e sulla sua essenza, ossia che l'umanità si divide tra chi tira i fili, organizza questo tragico gioco al massacro per dirimere questioni che non è in grado o non vuole risolvere altrimenti, e chi la fa o la subisce, combattenti e popolazione civile. In posizione intermedia, ma complice dei primi, l'apparato, per definizione idiota e volutamente cieco, che si presta, ossia i militari professionisti. Lo fa attraverso una trama pressoché inesistente: siamo alla vigilia di Caporetto, nell'ottobre del 1917, sull'Altopiano di Asiago, in un avamposto d'alta quota dove giungono un maggiore e un giovane tenente per portare al reparto che vi è sepolto, attanagliato dal gelo e sommerso da metri di neve, conducendovi una vita miserabile e piena d'angoscia a ridosso della linea austriaca, l'ordine demenziale per un'operazione escogitata a tavolino dai felloni dello stato maggiore, tanto suicida quanto vana, da portare a termine pur essendo al corrente dell' imminente ordine di ritirata - una situazione simile l'aveva vissuta mio padre in riva al Don, in Russia, nell'inverno del 1942, sfuggendo per un pelo alla "sacca di Stalingrado" -. Il racconto è quello degli avvenimenti della notte trascorsa a tentare l'azione fino al cannoneggiamento della postazione e alla ritirata alle prime luci dell'alba, lasciando alle spalle una scia di morti inutili, attraverso una fotografia strepitosa, curata dal figlio del regista, Fabio, giocata su un chiaroscuro che sfuma talvolta in un accenno di colore livido, dove Olmi si muove a suo agio nella descrizione meticolosa degli interni, miserevoli, del capanno dove si svolge da mesi la vita di stenti e di paura di questi uomini disperati, distrutti, delusi, ingannati, usati, ma sempre dignitosi e soprattutto veri, che parlano i loro dialetti riuscendo a capirsi comunque perché uguali di fronte alla tragedia, il tutto i contrasto con degli esterni fiabeschi, con i boschi che sono una cosa viva, in quel regno di morte, popolati da animali, coi loro rumori che sembrano respiri. Emilio Lussu e Mario Rigoni Stern, il cantore dell'Altipiano, seppur non citati espressamente sono lì, nell'aria. I volti scavati di quegli uomini (bravissimi tutti gli interpreti, professionisti e no) dicono tutto, più ancora delle loro scarne ma precise parole, che individuano con precisione i responsabili di quella bestialità: il nemico non è quello che subisce la stessa sorte malvagia e soffre nella trincea nemica, ma chi ha mandato il proprio popolo al massacro, illudendolo, ingannandolo, riempiendolo di retorica tronfia e ipocrita, e minacciando con la ritorsione violenta chi trasgredisse gli "ordini superiori", ossia i veri traditori, quelli che hanno in mano le leve del potere. Questa l'unica, eterna verità della guerra, qualsiasi guerra. Ma ancor di più per quella Guerra, non a caso definita Grande, la più bestiale e inutile di tutte quelle conosciute finora. La memoria è necessaria, tantopiù in un Paese come il nostro che ne fa volentieri a meno: Olmi ha tramandato quella di suo padre, basandosi sui suoi racconti (la vicenda è assolutamente vera) e l'ha trasformata in immagini evocative e scarne, essenziali parole unite a suoni evocativi, quelli della natura e quelli della tromba malinconica e a tratti lancinante di Paolo Fresu. Un gioiello che, come la memoria che trasmette, andrebbe preservato, valorizzato e mostrato al grande pubblico, magari in televisione, visto che è RAI-Cinema a comprodurre la pellicola, l'anno prossimo, al posto di scellerate e odiose celebrazioni del centenario dell'entrata nel conflitto da parte dell'Italia e di una vittoria che si è dimostrata una tragedia per tutti.

martedì 11 novembre 2014

"Il manifesto": 45 anni col cappello in mano

Cara/o Marco Scaini

ti scriviamo perché abbiamo due notizie importanti. Una buona e una cattiva.

Quella buona è che il manifesto è in salute. Nonostante una crisi drammatica e le gravi difficoltà del giornalismo su carta, il nostro bilancio, le vendite e gli abbonamenti tengono e piano piano, giorno dopo giorno, stiamo migliorando la qualità del giornale e di tutti i suoi allegati, sia cartacei che digitali.

La notizia cattiva è che la testata “il manifesto” è ancora di proprietà dei commissari liquidatori della vecchia cooperativa ed entro Natale la metteranno in vendita al miglior offerente.

C'è il rischio che il manifesto finisca in mani “sporche”. Perciò ti chiediamo di aiutarci a trasformare la cattiva in una splendida notizia.

Infatti, la cooperativa è pronta a fare un'offerta di acquisto della testata.

Aiutaci a comprare “il manifesto” dalla liquidazione.
Entro Natale dobbiamo raccogliere 1 milione di euro.
Se ciascuno di voi donerà 20 euro la campagna di acquisto può finire in due giorni.

Ignoro seguendo quali percorsi questo appello sia stato recapitato anche a me che comunista non sono mai stato e che tra tutti i partiti, gruppuscoli, conventicole sorti nell'area della cosiddetta sinistra italiana dal 1968 in poi, quelli del "Manifesto" sono coloro che ho detestato di più: per la loro suprema arroganza, spocchia, puzza sotto il naso, ipocrisia, presunzione, opportunismo, doppiezza. Tutti i peggiori difetti del PCI da cui erano stati radiati nel 1969 elevati all'ennesima potenza. Il cui gruppo fondatore, composto da gente dell'età media di 85 anni, e dunque coetanea e congrua, tanto per fare un esempio, a Napolitano, non è stata tuttora in grado di recidere seriamente il cordone ombelicale con la (fu) casa madre e di ammettere di avere sbagliato, nelle proprie supponenti e dottissime analisi, assolutamente tutto ma sempre col ditino alzato e la pretesa di essere la voce critica del sedicente progressismo nazionale, europeo anzi: mondiale. Onanisti compulsivi, patrocinatori seriali di cause perse, piangina impenitenti, molestatori professionali, sono 45 anni che fanno la questua, in nome della libertà di stampa, di espressione, del pluralismo e via elencando coi ricatti morali ai gonzi che continuano a cascarci, come se senza di loro si spegnesse la fiaccola dell'intelligenza e al popolo bue venisse meno la guida illuminata e la capacità di comprendere la realtà che esso, a differenza di coloro che siedono nella redazione del "quotidiano comunista" con la pretesa di avere il culo parato, sperimenta ogni giorno sulla propria pelle. Mi si obietterà: ma questi della nuova cooperativa non hanno più nulla a che fare coi vecchi marpioni, che se ne sono sdegnosamente andati un paio d'anni fa, ma allora mi chiedo: perché ricomprarsi una testata legata a un'esperienza, la loro, fallimentare? Per continuarne l'opera nefasta? Allora tanto vale chiedere un lauto contributo ai vari Castellina, Parlato, Rossanda, cha campano di lauti emolumenti da ex parlamentari nonché della pensione non proprio magra da giornalisti (che quelli oggi in attività non possono nemmeno sognarsi) invece di chiedere ancora una volta l'elemosina come erano abituati a fare costoro. Altrimenti, meglio cambiare  ragione sociale e inventarsi qualcosa di nuovo. Per quanto mi riguarda preferisco investire 20 €, e anche qualcosa di più, in una bottiglia di champagne di marca per brindare alla scomparsa de "il manifesto" ragionando, ça va sans dire in francese, con Althusser.

domenica 9 novembre 2014

Il sale della terra

"Il sale della terra" (The Salt of the Earth) di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. Brasile, Italia, Francia 2014 ★★★★★
E' uno splendido, emozionante reportage per immagini e discrete, sussurrate, mai invadenti parole quello che Wim Wenders ci regala per raccontare la vita e l'opera del grande fotografo ma soprattutto umanista brasiliano Sebastião Salgado, molto più che un semplice documentario. Lo fa, con la collaborazione dei primogenito di quest'ultimo, Juliano, lasciando la parola al protagonista, oggi settantenne, che ripercorre la sua esperienza da rampollo, unico figlio maschio, di una dinastia di fazenderos nel Minas Gerais, avviato agli studi economici che fece a San Paolo, trasferitosi prima a Londra e poi a Parigi durante l'epoca del regime militare (1964-85) e che aveva scoperto la fotografia quasi per caso. Lavorava inizialmente nel settore del caffè, e risalgono ai suoi rilevamenti da esperto economico i primi viaggi in Africa, Continente che sarebbe stato tante volte cruciale nella sua successiva attività di "fotografo della condizione umana". Salgado racconta con pacatezza i numerosi viaggi che lo hanno portato in tutti gli angoli del pianeta a partire da precisi progetti, per lo più elaborati assieme alla amata moglie Lélia. E' così che nascono, dopo i primi lavori sulla Rivoluzione dei Garofani in Portogallo e sulle sue ex colonie come l'Angola e il Mozambico, opere come Altre AmericheSahel e Uomini in cammino (in collaborazione con Medici Senza Frontiere), Workers, dedicato ai lavoratori manuali di tutto il mondo, Serra PeladaMigrations, Esodi, Africa, fino a Genesi (esposta fino a dieci giorno fa al Palazzo della Ragione di Milano), una reazione alla depressione e alla perdita della fede in seguito al genocidio avvenuto in Ruanda, che non aveva mancato di documentare. Da ultimo, la decisione di rimboscare, piantando ben due milioni di alberi,  la tenuta di famiglia, andata desertificandosi in seguito alla siccitàche ha colpito anche il Brasile, e la fondazione dell'Instituto Terra per la riforestazione della Mata Atlantica, di cui si occupa personalmente assieme alla moglie. Solo un artista e fotografo come Wenders poteva avere l'idea di fare un film su delle opere fotografiche e rendere al massimo le immagini in bianco e nero, veri e propri dipinti con la luce, di Salgado e il risultato è poesia pura, che va ben oltre a un semplice film: un viaggio nell'emozione e nell'umanità, ben più di un omaggio al grande fotografo, di cui è doveroso ringraziare il regista tedesco.

venerdì 7 novembre 2014

Sissi a Miramar

Marzia Postogna e Alessandro Fullin in una scena di "Sissi a Miramar"

"Sissi a Miramar" di Alessandro Fullin. Con Ariella Reggio, Alessandro Fullin, Marzia Postogna, Francesco Godina e Paolo Fagiolo. Regia, drammaturgia e revisione linguistica di Alessandro Marinuzzi con la collaborazione di Corrado Premuda ai testi. Scene e costumi di Andrea Stanisci, musiche di Carlo Moser. Produzione La Contrada - Teatro Stabile di Trieste
Esordio ieri sera in Furlanìa, al Teatro Verdi di Maniago (e a seguire in altre sale del circuito ERT), per la prima volta fuori dai confini della Venezia Giulia, di questa gustosa e divertente "operetta senza musica", dove quest'ultima è sostituita dalle ciàcole in triestino delle due babe aristocratiche, Sissi di Baviera e Carlotta del Belgio, che affrontano un periodo di immaginaria convivenza in quel del Castello di Miramare, sul finire del XIX Secolo. Castello in cui si aggira Carlotta (Ariella Reggio), rimasta vedova di Massimiliano, imperatore del Messico che oltre oceano trovò la morte, il quale lo aveva fatto erigere sulla Costiera dei Barbari con vista su Trieste, la "Perla dell'Adriatico" tanto cara agli Asburgo anche perché era il primo porto imperial-regio per importanza. La nobildonna è alle prese con le ristrettezze economiche dovute agli esorbitanti costi di manutenzione al giorno d'oggi, non compensati dalle entrate delle visite turistiche, coi disagi causati dalla Barcolana, la carenza di personale, e affronta tutto ciò insieme all'ultima serva rimasta, la sagace Ottilia, di sangue istriano (Alessandro Fullin): cerca di farsi bastare la pensione di invalidità che ottiene facendosi passare per matta, vagando di notte a lume di candela per i corridoi invocando il nome del marito. In un tran tran tutto sommato tranquillo e rassicurante una variazione sono le regolari visite del dottor Mayer, che la rifornisce di abbondanti dosi di magiche pillole arancioni dal potere lisergico che le allietano il riposo, ma la pace viene interrotta dall'arrivo, in incognito, della cognata, l'imperatrice d'Austria che risultava morta dopo l'attentato subito da un anarchico italiano a Ginevra. In realtà Sissi, in una delle sue ricorrenti fughe, si era fatta sostituire da una dama di compagnia che era morta al suo posto, e lei ne aveva approfittato per prendere definitivamente il largo e rifugiarsi nell'amata Trieste. Carlotta, che pure aveva pianto la "carissima amica", in realtà non è per nulla felice di dover ospitare "quella crodiga", come la definisce, di cui non sopporta l'invadenza, lo svuotamento delle cantine a forza di spritz, ma soprattutto il fatto che regolarmente le completa la Settimana Enigmistica, rebus compresi, ancor prima che possa prenderla in mano, ragion per cui la convivenza tra le due marantighe coronate è costellata di frecciate a cui fanno da contrappunto le puntuali e pungenti osservazioni di Ottilia. Il tutto ovviamente in triestino, che Sissi rivendica di avere appreso dalla balia e che dichiara essere la lingua franca a Corte e in particolare col marito Cecco Beppe, anche nell'intimità. A levare le castagne dal fuoco, e l'intrusa Sissi da Miramar, ci penserà Guglielmo Oberdan che, dismessi i panni irredenti perché con l'imperatrice è stato amore a prima vista, fuggirà con lei a Istanbul, dove i due si rifaranno, forse, una vita. In attesa di ulteriori sviluppi, di cui tratterà Alessandro Fullin nel romanzo che seguirà "Sissi a Miramar", da cui è tratta la pièce, a sua volta nato da un testo radiofonico scritto per la RAI di Trieste. Teatro stracolmo, un mare di applausi, pubblico soddisfatto. 
Prossime repliche: stasera all'Auditorium Biagio Marin di Grado; domani al Teatro Italia di Pontebba e domenica al Nuovo Teatro Monsignor Lavaroni di Artegna (sempre alle ore 20.45)

giovedì 6 novembre 2014

La spia - A Most Wanted Man

"La spia - A Most Wanted Man" di Anton Corbijn. Con Philip Seymour Hoffman, Rachel  McAdams, Grigory Dobrygin, Nina Hoss, Willem Defoe, Robin Wright, Daniel Brühl e altri. Germania, GB, USA 2014 ★★★★
Un bel film di spionaggio solido, classico, alla "vecchia maniera", molto europeo e poco "ammerigano", che predilige l'introspezione dei personaggi all'azione, che pure non manca, risparmiandoci però sparatorie da videogame e cadaveri in serie, che poco hanno a che fare con la realtà. Siamo ad Amburgo, qualche tempo dopo le ben note vicende dell'11 Settembre, nella città in cui facevano base alcuni degli "attentatori" delle Torri Gemelle, servizi segreti e polizia sono particolarmente all'erta, quando vi giunge, da clandestino, un poveraccio, Issa Karpov, profugo ceceno, e per questo già sospetto. Spetta a Günther Bachmann, splendidamente interpretato da Philip Seymour Hoffman nel suo ultimo ruolo da protagonista prima della prematura scomparsa, dirigente dei servizi segreti tedeschi in guerra sia con la stupidità della polizia locale e le intrusioni nonché i metodi della CIA, sia con sé stesso per fallimenti professionali quanto personali, scoprire se Issa è un terrorista che vuol mettere a ferro e fuoco Amburgo oppure no. L'uomo venuto dall'Est infatti nasconde un segreto: è figlio di un generale russo e criminale di guerra e di una cecena da lui stuprata ed è giunto nella città anseatica per recuperare un'ingente somma lasciatagli dal padre e custodita in una banca privata locale sospettata di riciclaggio, che desidera destinare in beneficenza a organizzazioni umanitarie musulmane perché considera "impura" l'eredità. E' seguendo le sue mosse e quelle dell'avvocatessa dei diritti umani che fa da tramite col banchiere e con un islamista di fama che raccoglie finanziamenti che Bachmann giunge quasi a incastrare quest'ultimo, su cui indagava da tempo, che ne destina una parte in armamenti per gruppi jihadisti,  e a convincersi dell'innocenza di Issa, ma qualcosa va storto all'ultimo momento grazie all'intervento "provvidenziale" dell'agente americana (la bravissima Robin Wright) e della polizia tedesca che, con un'azione in puro stile argentino, fanno "disapparire" il ceceno, sequestrandolo. E' l'unica scena, fulminea, di intensa azione, con auto che inchiodano e creano lo scenario realistico per il misfatto, non producendosi in improbabili inseguimenti e quant'altro. Ci voleva un bravo regista e rendere il complesso e sottile romanzo di John Le Carré da cui è tratta la sceneggiatura ("Issa il buono), e farlo fedelmente e aderendo alla psicologia dei personaggi: e Corbijn, nato come fotografo musicale e videomaker tra i più noti, e di cui avevo demolito il precedente "L'americano", sempre di spionaggio ma più d'azione, si è rivelato tale, probabilmente perché la materia ha più a che fare con una partita a scacchi e con il lato psicologico dei personaggi, di cui la cosa più apprezzabile, grazie anche all'ottima interpretazione di tutto il cast, è le verosimile. Un film come si deve.

martedì 4 novembre 2014

Ritorno a l'Avana

"Ritorno a l'Avana" (Rétour à Ithaque) di Laurent Cantet. Con Isabel Santos, Jorge Perugorría, Fernando Hechevarria, Néstor Jiménez, Pedro Julio Díaz Ferran. Francia 2014 ★★★½
Su una terrazza che si affaccia sul Malecón dell'Avana dalle ultime propaggini del quartiere residenziale del Vedado, si ritrovano cinque amici tra i 50 e i sessant'anni, rappresentanti della prima generazione "revolucionaria natíva", come si direbbe in tempi di 2.0, ossia nata dopo l'avvento del Castrismo a Cuba, per festeggiare il ritorno di uno di loro, Armando, dopo 16 anni di "esilio" a Madrid. Bevono, cenano, ballano, bevono, chiacchierano, ricordano il passato quando, pieni di ideali, erano convinti di stare dalla parte giusta, ingranaggi necessario di un processo che avrebbe dovuto cambiare, assieme all'uomo, il corso della storia e lo confrontano con quel che ne è stato delle loro vite e con la situazione attuale. Una generazione, la mia, che ha fatto in tempo, anche ai Tropici, a essere coinvolta, da adolescente, dall'ondata dei movimento del '68 e dintorni, e che a Cuba ha vissuto nel pieno del proprio vigore il "Periodo Speciale", mentre da noi era stata annichilita, all'altezza dei trent'anni, dagli orripilanti anni Ottanta che sarebbero stati i prodromi del merdaio attuale. Si rivanga il passato, i motivi per cui Armando rientra solo ora, mentre non lo aveva fatto quando la moglie, colpita da un cancro, stava morendo, e lo fa per restare, mentre altri se ne andrebbero se appena potessero. E' un film molto francese, e dunque molto, anzi: soltanto parlato, scritto dal regista assieme al romanziere cubano Leonardo Padura, che fa capire molto bene le dinamiche che hanno portato a decisioni individuali non scontate e segnato i destini, nonché il ruolo nella realtà cubana (e, nel caso di Armando, nel Paese dell'esilio) della parte più intellettuale di quella generazione. Se vogliamo, una specie di Grande Freddo ai Tropici che ha come protagoniste persone che hanno dieci anni di più di quelle descritte ai tempi nel film di Lawrence Kasdan, di ottimo livello grazie anche a degli interpreti estremamente credibili ed efficaci. Raccomandato a chi parla di Cuba a sproposito, in un senso o nell'altro. 

lunedì 3 novembre 2014

E' lo Stato, bellezza!

Il saluto degli imputati alla famiglia Cucchi dopo la lettura della sentenza d'assoluzione

A me non stupisce la sentenza che ha mandato assolti in appello tutti gli imputati dell'omicidio di Stefano Cucchi, né mi interessa attenderne le motivazioni: piuttosto la dabbenaggine di chi  continua a mostrarsi sbigottito e scandalizzarsene. Posso capire chi è molto giovane, ma credo che ogni italiano che abbia raggiunto la maggiore età abbia avuto modo di ascoltare la litania Piazza Fontana-Pinelli-Italicus-Piazza della Loggia-Ustica-Bologna-Capaci-Via d'Amelio, tutti casi avvolti nel mistero e in cui la "giustizia" non ha mai fatto chiarezza e i responsabili sono stati coperti da un possente muro di gomma eretto dalle "istituzioni", per non parlare della sostanziale impunità che ha sempre tutelato i loro membri, fossero appartenenti alle cosiddette "forze dell'ordine" o al ceto politico-burocratico: cane non mangia cane. E' lo Stato, signori; in particolare QUESTO STATO, quello italiano, marcio fin dalle fondamenta. Ma quali servizi deviati, o infiltrazioni mafiose: questo Stato E' deviato per definizione: i servizi fanno il loro mestiere benissimo e questo Stato E' la mafia. Con tutta la solidarietà alla famiglia Cucchi, la cui perseveranza nel cercare la verità è ammirevole e commovente, pretendere giustizia da questo Stato è come pensare di fare un buon affare acquistando una "sòla" venduta da Wanda Marchi, o credere alle fandonie dei Renzi o dei Berlusconi di turno, cosa che peraltro una buona parte dei nostri connazionali fa puntualmente. Allo stesso modo ritengo grottesco chiedere il riconoscimento, da parte dello Stato, dell'unione con un'altra persona, di qualsiasi sesso sia: significa riconoscergli un ulteriore potere oltre a quelli che già si è arrogato. Meglio prendere atto che lo Stato persegue fermamente il suo scopo, che è quello di sopravvivere, come ogni organismo, sociale, animale o vegetale che sia, autogiustificando la propria esistenza attraverso il controllo e la manipolazione dei propri sudditi e riproducendo i propri organi per  clonazione, come un tumore invasivo. Non c'è molto da fare per difendersene, ma un primo passo è rendersene almeno conto.

sabato 1 novembre 2014

Medianeras - Innamorarsi a Buenos Aires

"Medianeras - Innamorarsi a Buenos" (Medianeras) di Gustavo Tarato. Con Pilar López de Ayala, Javier Drolas, Inés Efron, Carla Peterson, Rafael Ferro, Jorge Lanata, Romina Paula. Argentina, Spagna, Germania 2011 ★★★
Godibile e simpatica favola urbana, come l'ha definita il regista, al suo esordio nel lungometraggio ma con un passato di successo nel campo della pubblicità (e lo si nota), è al contempo una garbata commedia sentimentale e il ritratto ironico di una certa categoria di animali metropolitani 2.0, i cosiddetti "nativi digitali", diffusi a ogni latitudine, visti però dalla particolare angolazione del Barrio Norte della capitale argentina, tra Retiro e Recoleta, dove questo tipo umano è particolarmente diffuso (a un solo chilometro di distanza, a Once, Almagro o Boedo, la realtà è già diversa). Martín e Mariana sono due nevrotici, lui un web designer fobico in trattamento e forse sulla via della guarigione che vive su internet ed è ai suoi primi tentativi, dopo anni, di varcare la soglia di casa di casa e interagire col prossimo; lei, uscita da una lunga e fallimentare relazione con un uomo più maturo, è un'architetta che non esercita la professione ma campa allestendo vetrine ed esercitandosi anche in casa a vestire manichini: eternamente connessi ma isolati, vivono entrambi in appartamenti che a Buenos Aires vengono chiamati "scatole da scarpe", dirimpettai sulla medesima Avenida Santa Fé ma per il lato delle medianeras, che sono le pareti cieche che dividono gli alti palazzoni e caratterizzano una città  che da sempre ha voltato le spalle al sui fiume (o meglio un enorme estuario che sembra mare aperto) e non permettono la contemplazione del suo "disordine urbanistico", come lo definisci il regista (in realtà assai minore che in altre metropoli americane). I due si incrociano anche, senza riuscire a vedersi, e si ritrovano persino affiancati, per strada, quando da un palazzo vicino piomba sull'asfalto un cane, suicida, probabilmente depresso anche lui dalla reclusione sul balcone dell'appartamento in cui è costretto a vivere. Le voci fuori campo dei due protagonisti raccontano le loro manie, paure, disavventure, i tentativi di uscire dalla loro situazione: si assomigliano e sembrano fatti apposta l'uno per l'altra, finiscono perfino per flirtare assieme in una chat, ma proprio sul punto di scambiarsi i numeri di cellulare la città piomba in uno dei suoi ricorrenti apagones (black out elettrici) e restano scollegati. In contemporanea e all'insaputa l'uno dell'altra, però, decideranno di fare aprire una finestra, un "affaccio", nelle rispettive medianeras e forse sarà venuto il momento dell'incontro in carne ed ossa. Una storiella spiritosa, raccontata con piglio leggero e buon ritmo, con interpreti accattivanti e la partecipazione di tre icone della intellighenzia porteña: il combattivo giornalista e storico Jorge Lanata, paladino degli Anti-K (kirchneristi), passato sorprendentemente al gruppo editoriale Clarín, quello che con più decisione si oppone all'eterno peronismo tornato al potere, nelle parti del medico di Martín; l'attrice e scrittrice Romina Paula, recentemente apprezzata in El Estudiante, in quelli dell'ex fidanzata di Martín che, nel momento della crisi del 2001, parte per gli USA, gli lascia in custodia una barboncina ma non tornerà mai più a riprendersela; infine il noto scrittore Alan Pauls in quelli dell'ex fidanzato di Mariana. Uno sguardo attento alla particolarissima ed eterogenea architettonica di Buenos Aires, che la rende particolarmente attraente e interessante, e una benevola presa in giro della città con più persone in psicoterapia al mondo, con massima concentrazione proprio nel Barrio Norte: la Manhattan di Woody Allen gli fa un baffo.