domenica 31 agosto 2014

Mamma li russi?

Attenzione, arrivano i russi?
Allargamento della NATO, 1990-2009.
Chi arriva per davvero?

sabato 30 agosto 2014

The Stag - Se sopravvivo mi sposo

"The Stag - Se sopravvivo mi sposo" (The Stag)  di John Butler. Con Andrews Scott, Hugh O'Conor, Peter McDonald, Brian Gleeson, Andrew Bennet, Michael Legge, Amy Huberman, Amy De Bhrün. Irlanda 2013 ★★★½
Campione d'incassi nell'Isola di Smeraldo, è una divertente, briosa, facile ma allo stesso tempo intelligente commedia molto irlandese, così come gli attori e il regista, all'esordio, che l'ha scritta assieme a Peter MacDonald, che interpreta il più squinternato di un gruppo di amici che festeggiano un addio al celibato. L'idea viene a Ruth, la futura sposa, che convince Davin, docente d lettura al Trinity College di Dublino e amico fraterno nonché  testimone di nozze di Fionnan, il subendo  un nevrotico e pignolissimo sceneggiatore teatrale, a organizzare per l'occasione un'escursione in montagna del gruppo di amici più stretti per distrarre Fionnan dai preparativi di matrimonio e toglierselo momentaneamente dai piedi. Cosa che Davin accetta benché controvoglia, soprattutto perché è ancora segretamente innamorato di lei. Radunato il gruppo dei cinque partecipanti, tutti appartenenti alle classe media urbana "europeizzata", che tutto sono fuorché dei trekker, le disavventure cominciano già con l'acquisto delle attrezzature necessarie, ma quelle vere si scatenano quando a loro si aggiunge The Machine, il fratello di Ruth, un autentico flagello umano, che erano riusciti in un primo tempo a tenere lontano, interpretato da Peter MacDonald, noto in patria come il Depardieu irlandese ma che ha una straordinaria somiglianza con George Bush junior da giovane: buzzurro uguale, scatenatore di eventi catastrofici, ma dotato di un istinto animale e di un animo buono. Sarà lui a "curare" la depressione di uno dei cinque, un imprenditore "dot.com" angosciato da debiti che sono niente rispetto a quelli che affliggono The Machine; a fare in modo che Davin e Fionnan si chiariscano quanto non detto a proposito di Ruth e consentire che al matrimonio partecipi anche il compagno del fratello di Davin, cerimonia da cui era stato escluso per il timore che i genitori non accettassero l'omosessualità della coppia. Dopo una serie di spassose peripezie innescate più o meno volontariamente da The Machine, che nel suo candore è in fondo la coscienza e la cartina di tornasole del gruppo, inevitabile lo happy end, ma non in salsa hollywoodiana, perché nel sottofondo c'è proprio una satira dei problemi dell'Irlanda attuale, dal suo adeguamento forzato ai "dogmi" della europeizzazione globalizzante alla perdita della propria identità. Divertimento sano e intelligente, insomma, e degna chiusura con l'unica canzone degli U2 che mi smuova qualcosa dentro, One, interpretata, benissimo, da The Machine durante il pranzo di matrimonio.

mercoledì 27 agosto 2014

Oh Boy, un caffè a Berlino

"Oh Boy, un caffè a Berlino" (Oh boy) di Jan Ole Gerster. Con Tom Schilling, Friederike Kempter, Marc Hosemann, Katharina Schütler, Justus von Dohnanyl, Ulrich Nothen, Michael Gwisdek e altri. Germania 2012 ★★★½
L'aspetto positivo di questo periodo di sospensione tra una stagione cinematografica e l'altra è che si riesce a recuperare qualcuna delle pellicole perse in quella precedente e così, fortunatamente, sono riuscito a intercettare quest'opera prima di Jan Ole Gerster, all'esordio nella regia ma già assistente di Wolfgang Becker in "Goodbye, Lenin" (2003). Insomma uno che di cinema ne ha sempre masticato tanto, cosa che traspare dalle tante piccole citazioni di "Oh Boy", film che si rifà alla Nouvelle Vague nel suo bianco e nero efficacemente atemporale raccontando, in modo ironico e leggero, una "giornata particolare" nella vita del giovane Niko Fischer, che inizia con il risveglio e il desiderio di lasciare alla chetichella la casa della sua ragazza alla ricerca di un caffè: beccato in flagrante, non sa e non vuole rispondere alla domanda se si rivedranno la sera, e sarà il motivo della rottura del loro rapporto. Da quel momento una serie di vicissitudini, segnate da una costante che l'accompagnerà per tutta la giornata: l'impossibilità, per un motivo per l'altro, di bere quell'agognato caffè. La telecamera lo segue lungo le 24 ore: dal rientro nell'appartamento in cui si è trasferito da poco, dove viene perseguitato dal locatore perché in arretrato con l'affitto, all'incontro con un coinquilino "problematico"; allo sportello bancomat che gli nega il prelievo di  contante; alla visita da uno psicologo paranoico che gli nega il nulla osta per riavere la patente ritiratagli per aver superato di poco il tasso alcolemico legale; all'appuntamento con Matz, un attore disoccupato e all'incontro con un'ex compagna di scuola, attrice anche lei in un teatro "off", innamoratissima di lui ai tempi della scuola media ma allora presa in giro ferocemente perché obesa; al set di un mediocre film sull'ultima guerra mondiale; all'incontro su un campo da golf col padre che gli ha tagliato i viveri, bloccandogli il bancomat, perché ha scoperto che da due anni ha abbandonato la facoltà di giurisprudenza a cui era iscritto: "Sei come tua madre", lo accusa: ossia una sognatrice, un'artista, da cui si è separato da tempo. E questo è, Niko: troppo sensibile per accettare la grettezza di un mondo senza poesia, dominato non solo dal denaro ma dal dover rivestire per forza di cose un ruolo. La giornata volge al termine e Niko e Matz vanno a vedere lo spettacolo in cui l'ex compagna di scuola è protagonista: nel dopo-spettacolo c'è una sorta di "resa dei conti" tra i due, quindi un alterco con tre giovani balordi che importunano la ragazza ma vengono sistemati a dovere verbalmente da lei: sarà Niko a subirne le conseguenze; infine la serata finisce solitariamente in una kneipe, davanti a una birra accompagnata da grappa, a parlare con un anziano signore rientrato a Berlino dopo 60 anni di assenza, che gli racconta della sua infanzia in quella stessa strada e di come avesse imparato a condurre la bicicletta proprio durante la "Notte dei cristalli" del novembre del 1938, davanti allo stesso bar. All'uscita crollerà sul marciapiede e Niko andrà con lui all'ospedale e lì si risveglierà all'alba del giorno successivo. L'anziano non è sopravvissuto e di lui da un'infermiera gentile saprà solo il nome di battesimo, eccezionalmente, per via della legislazione sulla "privacy", benché il morto non risultasse avere parenti. In compenso riuscirà finalmente a bere un caffè: del resto è un nuovo giorno, l'indomani di giornata di rese dei conti, col presente, il passato ma anche col futuro, perché il dolce Niko non si adatterà, ne siamo certi, allo squallore generale  Bravi gli attori, particolarmente credibile il protagonista, Tom Schilling; puntuali ed efficaci i dialoghi, gradevole e azzeccata la colonna sonora. Approvato: alla prossima!

lunedì 25 agosto 2014

The Gatekeepers - I guardiani d'Israele

"The Gatekeepers - I guardiani d'Israele" (שומרי הסף) di Dror Moreh. Con Ami Ayalon, Avi Dichter, Yuval Diskin, Carmi Gillon, Yaakov Peri, Avraham Shalom. Israele 2012 ★★★★
Documentario eccezionale, non tanto per la fattura (anche se il montaggio è degno di un thriller ad alta tensione) quanto per il suo valore storico e politico, la pellicola è la risposta preventiva alle reazioni isteriche e prevenute di pennivendoli, opinionisti allo sbaraglio e politicanti senza dignità che hanno stigmatizzato in un pressoché unanime coro pappagallesco le considerazioni che il deputato del M5S Alessandro Di Battista ha recentemente fatto sul terrorismo islamico e le responsabilità occidentali nella situazione mediorientale, distorcendole, estrapolando singoli brani dal contesto, interpretandole capziosamente a proprio uso e consumo, senza prendersi magari nemmeno la briga di cercare di capirle e in molti casi nemmeno di leggerle: quanto dicono i sei dei sette ex direttori dello Shin Betil servizio segreto israeliano competente per la sicurezza interna e in particolare responsabili dell'antiterrorismo, dal 1981 a oggi (Yossef Harmelin è scomparso nel 1994) dovrebbe bastare a tappar loro la bocca per sempre sull'argomento. E invece no: in Italia si fa il tifo a prescindere, senza nemmeno ascoltare le argomentazioni di chi semplicemente prova a ragionare senza prendere posizioni aprioristiche e quindi partigiane. Il film ha un valore assoluto in sé, e dovrebbe far riflettere il fatto che si tratta dell'opera di un regista israeliano e di una coproduzione israeliana-belga-francese-tedesca, per non parlare dell'autorevolezza e del ruolo dei sei intervistati, che raccontano le vicende dello Shin Bet a partire dalla vittoria della Guerra dei Sei Giorni fino a oggi. Il film, nominato all'Oscar per il miglior documentario, era uscito in Italia nel novembre scorso ed è tornato in circolazione in questi giorni. Se non riuscite ad andare a vederlo, vi riporto alcune della frasi salienti pronunciate dai sei protagonisti, tutti ex militari oltre che alti dirigenti del servizio segreto. 
1 - "Parlare con tutti, anche se rispondono male. Compresi anche Ahmadinejad, la Jihad islamica, Hamas. comunque. Sono sempre per questa soluzione. Per lo Stato d'Israele è un lusso troppo grande quello di non parlare con i nostri nemici... Anche se le risposte sono insolenti, io sono a favore di continuare. Non c'è alternativa. E' nella natura degli uomini dei servizi parlare con tutti, E' così che si risolvono i problemi. Io scopro che lui non mangia vetro e lui vede che io non bevo petrolio" (Avraham Shalom, direttore dello Shin Bet 1980-86)
2 - "Stiamo rendendo la vita di milioni (di palestinesi) insopportabile, e questo mi uccide" (Carmi Gillon, 1994-96)
3 - "Siamo diventati crudeli. Anche verso noi stessi, ma principalmente con la popolazione occupata. Il nostro esercito è diventato una forza d'occupazione brutale, simile a quelle tedesche nella Seconda Guerra Mondiale (Avraham Shalom, che chiarisce di far riferimento alla persecuzione nazista contro le minoranze non ebree)
4 - "Non capiamo di essere di fronte a una situazione frustrante nella quale vinciamo ogni battaglia, ma perdiamo la guerra" (Ami Ayalon, 1996-2000)
5 - "Per loro io ero il terrorista... Il terrorista di qualcuno è il combattente per la libertà di qualcun altro" (Yuval Diskin, 2005-11)
6 - "Stiamo procedendo a passi sicuri e misurati verso un punto nel quale lo Stato d'Israele non sarà più una democrazia o la casa del popolo ebraico" (Amy Ayalon)

mercoledì 20 agosto 2014

Spaghetti Story

"Spaghetti Story" di Ciro De Caro. Con Valerio Di Benedetto, Cristian Di Santo, Sara Tosti, Rossella D'Andrea, Deng Xueying. Italia 2013 ★★★★
Ottimo, sorprendente film, di estrema attualità, girato in soli 11 giorni con un budget di 15 mila euro raccolti in rete, con quella che può definirsi una "colletta a progetto" che racconta, attraverso una semplice storia di quattro trentenni romani le cui vite sono intrecciate tra loro, meglio di tanti articoli, indagini sociologiche o pellicole pretenziose ma per lo più infarcite di luoghi comuni, un'intera generazione di italiani che vive forzatamente bloccata in una sorta di limbo fatto di immobilità, impotenza e frustrazione il passaggio all'età adulta, obbligata per sopravvivere a elemosinare lavoretti precari che al più producono l'equivalente di una "paghetta", sottoporsi a umilianti colloqui per sperare di realizzare le proprie aspirazioni, costretti a dover dimostrare sempre qualcosa a qualcuno sempre pronto a giudicarli però mai a capirli. Di fatto, degli invisibili. A meno di non adeguarsi all'andazzo e vendere l'anima, oppure scappare, come sempre più stanno facendo a migliaia, da un Paese che li rifiuta. Qui ci sono Valerio, aspirante attore, che tra un provino e l'altro si arrabatta con lavoretti, il suo amico d'infanzia "Scheggia", spacciatore di erba (commerciante al minuto, precisa lui), più semplice e popolaresco, che a trent'anni vive con la nonna, apparentemente cinico ma in realtà un cuore d'oro; la ragazza e convivente di Valerio, Serena, combattuta tra il desiderio di un figlio, mettere su famiglia e un'ardua carriera da ricercatrice universitaria; Giovanna, sorella "saggia" di Valerio e sua "coscienza critica" dopo la morte della madre, massoterapista nevrotica e frustrata, aspirante cuoca di cucina cinese: le loro vicende si intrecciano, come le rispettive confidenze e la difficoltà a trovare la propria dimensione, alla fine uniscono i propri sforzi, prima diretti in direzioni diverse se non contrastanti, per aiutare una giovane prostituta cinese a liberarsi dal giogo di un connazionale che la sfrutta, picchia e costringe a una moderna forma di schiavitù, che oltre a rifornire di "merce" Scheggia, esercita anche l'attività di lenone. Insicuri, intimiditi, persi e anche rassegnati ma non indifferenti e sprovvisti di valori nonostante il marasma morale in cui sono stati cresciuti e in cui vivono, sono gli stessi che hanno girato e recitato in questo film, tutti bravi e convincenti. Un grazie a tutti loro e a chi li ha aiutati, credendogli: ne ė valsa la pena.

venerdì 15 agosto 2014

Balkane moj

Jajce, Bosnia, tra i fiumi Vrbas e Pliva

Con il pretesto di evitare ingorghi autostradali al demenziale casello autostradale di Trieste-Lisert, detto "L'imbuto", ed eventuali code alla frontiera sloveno-croata, che delimita l'Area -Schengen, durante il fine settimana più affollato d'agosto, ho anticipato di qualche giorno la partenza verso la mia consueta settimana di "svacco totale" in riva al mare nell'amata Dalmazia arrivando a destinazione, fra Traù e Spalato, dopo aver attraversato tutta la Bosnia Erzegovina. Ingresso da Bosanska Gradiska, un centinaio di chilometri a Sud-Est di Zagabria fino a Banja Luka, capitale di una delle due principali entità in cui è suddivisa lo Stato in seguito agli Accordi di Dayton, la Republika Srpska, percorrendo la verde, sinuosa, boscosa e bellissima vallata del fiume Vrbas, gonfio al limite dell'esondazione (ma questa zona si è salvata dalle alluvioni che hanno colpito il Paese in maggio) fino alla suggestiva città fortificata di Jajce, alla confluenza col Pliva, già parte della Federazione (croato-musulmana) e poi, via Travnik, altra splendida e storica cittadina nonché patria di Ivo Andrić (Nobel per "Il ponte sulla Drina", quando quel premio godeva ancora del massimo prestigio) verso Sarajevo, mon amour


Sarajevo, la Miljačka nella città vecchia


Dove sono tornato dopo sette anni di assenza, che ho visto la prima volta ancora nei primi anni Sessanta da bambino e che da allora è sempre rimasta nel mio cuore. Una città, come Belgrado, dove ho soggiornato di recente e altre, sempre più rare, che conservano un'anima e sopravvivono anche alle prove più difficili, compreso l'assedio, durato quasi quattro anni, dal 5 aprile del 1992 al 29 febbraio del 1996, che ha minato la sua caratteristica peculiare di capitale multietnica, multireligiosa e multiculturale, ma senza riuscire a distruggerla. Sarajevo si è ricostruita in questi anni (di recente sono finiti i lavori di recupero della ex Biblioteca Nazionale Universitaria, oggi sede del Municipio) anche se sono visibili ovunque i segni di granate e pallottole nonché ruderi di palazzi divelti, ma per quanto riguarda la vita quotidiana ha ripreso e scorrere come da sempre, e si parla di qualche migliaio di anni, in un luogo che, per la sua collocazione, è stato sede di insediamento umano da che se ne abbia memoria e le ferite pian piano si stanno rimarginando e la sua verve, il suo carattere, hanno subito ripreso il sopravvento: la rassegnazione, da queste parti, è sconosciuta. Ora Sarajevo è tornata ad essere, com'è sempre stata, anche meta di un vivace turismo ma, come tutte le città che hanno conservato, come dico io, un'anima, lo assorbe senza farsene sopraffare (a differenza della vicina Mostar, almeno nella sua parte "cristiana": tralascio ogni accenno a Venezia, Firenze, Roma e Milano per carità di patria), e anche questo testimonia della sua forza. 


La parte più "islamica" e autentica di Mostar, dallo Stari Most


Per concludere questo breve soggiorno nel cuore dei Balcani, un passaggio in Erzegovina e, come accennavo, a Mostar, che comunque, a distanza di sicurezza dallo Stari Most e nella sua parte più genuinamente musulmana, conserva i suoi ritmi lenti e le sue caratteristiche più autentiche, e poi verso la costa dalmata lungo la valle della verdissima Neretva il suo fiume (la Narenta dei veneziani), con sosta d'obbligo a Počitelj, altra cittadina fortificata rimasta miracolosamente intatta, fino alla zona del suo florido e ricchissimo delta che si apre dopo Metković sboccando nell'Adriatico a Nord di Dubrovnik. E ora sole, mare e ozio a volontà alla faccia dei monsoni autunnali nella Padania e dintorni!


La Neretva dal borgo fortificato di Počitelj, Erzegovina

mercoledì 6 agosto 2014

In grazia di Dio

"In grazia di Dio" di Edoardo Winspeare. Con Celeste Casciaro, Gustavo Caputo, Anna Boccadamo, Laura Licchetta, Barbara De Matteis, Amerigo Russo, Angelico Ferrarese, Antonio Carluccio. Italia 2013 ★★★★
Decisamente un buon film, inconsueto, che viaggia su un doppio registro: le vicende personali e i rapporti tra i protagonisti, in particolare le quattro donne di una famiglia colte nelle diverse età, e quelle di un Sud ben conosciuto dal regista, Il Salento da cui provengono sia Winspeare, a dispetto del cognome, sia gli interpreti, tutti attori non professionisti tranne una (quella che nel film fa, per l'appunto, l'attrice), ai tempi dell'ultima crisi, quella attuale (dico ultima perché di crisi sento parlare da quando ho raggiunto l'età della ragione, anche se ai bei tempi, negli anni Sessanta e Settanta, andava di moda il termine "congiuntura", tanto per usare un eufemismo che non compromettesse la fiducia in un radioso futuro - quello che ci troviamo serviti oggigiorno - dietro l'angolo). Film girato in famiglia (l'interprete principale, Celeste Casciaro, intensa e bravissima, è la moglie del regista e Laura Licchetta, nel film come nella vita, la figlia di lei), e che tratta delle vicissitudini di una famiglia di "fasonisti", titolari di un'azienda che confeziona vestiti per le grandi firme del Nord, la cui attività è mandata in crisi non solo dalla delocalizzazione in Cina o altrove nel Terzo Mondo ma anche dall'avidità e spietatezza di banche, finanziarie e intermediari che agiscono da veri e propri strozzini, e costretti a chiudere. Non soltanto: ma anche a vendere la casa, costruita dal padre dopo anni di duro lavoro in Svizzera, e dove Vito, il figlio maggiore, torna con la sua famiglia a fare l'emigrato, mentre l'energica sorella Adele, contitolare dell'azienda, si trasferisce assieme alla madre, alla sorella minore (laureata e aspirante attrice) e alla figlia (indifferente a tutto salvo che ai ragazzotti del paese e al denaro da spendere in vestiti alla moda) nel rustico da risistemare sul podere, coltivato a orti e oliveto, che ancora possiedono in riva al mare. E' a questa nuova vita che le quattro donne dovranno adattarsi: ci riusciranno la più anziana Salvatrice, rimasta vedova da tempo, per cui è un ritorno alle origini contadine e anche all'amore con Cosimo, che conduceva il podere, e pure Adele, nonostante l'asprezza di carattere che la portano spesso a entrare in contrasto con la sognatrice sorella Maria Concetta e la svogliata e inconcludente figlia Ina, che invece avranno più problemi a entrare nella nuova dimensione. Il piatto forte è proprio l'interazione fra le quattro generazioni di donne, con le loro forti individualità e alle prese con le rispettive dimensioni relazionali e sentimentali, in un contesto particolare, anche nei suoi aspetti culturali e religiosi, ma al contempo simbolo (o variante) di una situazione generale del Paese e non solo: sicuramente della parte mediterranea dell'Europa, e il riferimento alla Grecia, distante sole 40 miglia marine, non è casuale, anche storicamente, in terra di Puglia. Come anche la prospettiva realistica di dover tornare "a zappare", e magari a forme di baratto, per assicurarsi un'esistenza dignitosa. Ottima la fotografia, più che adeguate le interpretazioni (il film è parlato prevalentemente in dialetto e quindi opportunamente sottotitolato), essenziale la sceneggiatura, ma più che sufficiente a tenere in piedi una pellicola robusta, ben strutturata, che merita di essere vista. 

lunedì 4 agosto 2014

L'Internazionale del groove in... Incognito

Gli Incognito in azione ieri sera a Tarvisio in Piazza Unità
Non compro quasi mai il più diffuso giornale della regione in cui vivo, "Il Messaggero" aka "Il Menzognero", limitandomi a buttare un'occhiata alle pagine di cronaca locale quando è disponibile la copia offerta in lettura dal bar, ma per fortuna l'ho fatto sabato scorso quando l'inserto "estate" dava l'annuncio del concerto gratuito tenuto dagli Incognito ieri sera in Piazza dell'Unità a Tarvisio, corredandolo con un'intervista al fondatore della band, Jean Paul Maunick detto "Bluey", punto fermo attorno a cui sono ruotati, nei 35 anni di carriera che si festeggiano in occasione di questa tournée, fior di musicisti che sono stati tra i pionieri di quello che si è chiamato "Acid Jazz", movimento che ha preso piede nel Sud dell'Inghilterra negli anni Ottanta, e che ha fatto della fusion tra jazz, soul, rhythm' n blues, dance music e hip hop la propria bandiera. Non ero mai riuscito a vedere dal vivo gli  Incognito, e l'inopinata lettura del giornale è stato il motivo per cui non mi sono fatto scappare l'occasione. Meglio ancora di quel che mi aspettassi: "Bluey" si è presentato con una formazione di undici elementi che, unendo una grande qualità musicale, senso del ritmo e dello spettacolo, passione e piacere per quel che fanno che il pubblico percepisce immediatamente, creando così una corrente di empatia immediata tra chi è sul palco e chi assiste alle loro performance, si è prodotta per oltre due ore in un concerto intenso, divertente, ritmato, raffinato e al contempo pulsante e che invogliava a ballare. La bravura di questo piccolo uomo corpulento e simpatico, che chiacchiera col pubblico raccontando la sua storia immigrato a Londra da Mauritius, ex conducente di carrelli in una fabbrica con la passione per la musica vista come linguaggio comune tra gli uomini di ogni provenienza, e dei suoi virtuosi colleghi che guida, chitarra alla mano, come una sorta di direttore d'orchestra, è di essere capace di amalgamare spunti musicali diversi e mai banali in un suono spesso, compatto, ma meglio sarebbe dire linguaggio, facilmente comprensibile a chiunque. Il concerto è consistito in una carrellata di tutta la storia del gruppo, che si è presentato a Tarvisio nella formazione che ha registrato il recentissimo album "Amplified Soul", il 16° della serie, di cui ha eseguito tre brani tra cui la scatenata "Hats". Tra le 20 e oltre canzoni, chicche come Don't You Worry 'Bout a Thing, Reach Out, Still a Friend of Mine, Can't Get You Out of My Head, Colibri, Hands Up If You Wanna Be Loved, I hear Your Name, Nights Over Egypt e Brazilian Love Affair. La band, decisamente multietnica, con membri provenienti dai diversi Continenti, potrebbe essere definita una multinazionale, se Bluey non aborrisse il termine per motivi di sensibilità politica, e probabilmente il nome che il suo fondatore le ha dato non è casuale: l'importante è che chi ne fa parte, anche solo pro tempore, sempre di altissimo livello, suoni col cuore e creda in ciò che fa e i suoi membri sono sostanzialmente intercambiabili (mi sono venuti in mente i "Wu Ming"): l'importante è il gruppo, e non le singole individualità. Però i nomi li faccio di seguito, e uno su tutti: il nuovo acquisto Katie Leone (inglese, figlia di jazzisti e di più che probabili origini italiane), capelli rosso magenta, movenze... feline, per non smentire il suo cognome (sembrava di vedere in azione Uma Thurman nella scena madre di "Pulp Fiction" con John Travolta), presenza scenica da autentica front-woman e a mio parere la migliore vocalist britannica in circolazione. Forse non è un caso che si siano esibiti in una cittadina alpina che è al crocevia di tre frontiere. Un gran bel concerto. Non fateveli scappare quando li avete a portata di mano. Incognito - Tony Momrelles, Vanessa Haynes e Katie Leone: voci; Matt Cooper: tastiere; Francis Hylton: basso; João Caetano: percussioni; Francesco Mendolia: batteria; Sid Gauld: tromba; Nigel Hitchcock: sassofono; Bluey: chitarra (questa la formazione di "Amplified Soul": ai fiati c'era un altro musicista, anche lui bravissimo, di cui non sono riuscito a sapere il nome). 

domenica 3 agosto 2014

Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie

"Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie" (Dawn of the Planet of the Apes) di Matt Reeves. Con Andy Serkis, Jason Clarke, Gary Oldman, Keri Russell, Toby Kebbell e altri. USA 2014 ★★★★
I blockbuster, e questo film senz'altro è stato girato per esserlo e ha raggiunto lo scopo, riempiendo le sale anche in piena estate, proprio per il profluvio di mezzi con cui sono prodotti vanno a mio parere giudicati con parametri diversi e più severi rispetto a quelli usati per i film normali e ancor più a basso budget. Viene in mente Berlusconi: buoni tutti a fare televisione (e, sostiene il personaggio, "impresa") investendo soldi altrui, ottenendo concessioni pubbliche a titolo pressoché gratuito, senza concorrenza; un altro paio di maniche è fare un buon prodotto. Nel caso del piazzista brianzolo, il risultato è una televisione di merda. Vale lo stesso discorso per il cinema: si possono investire quattrini a profusione per produrre film inguadrabili, come C'era una volta a New York, probabilmente la peggiore porcheria vista in questa stagione, oppure mediocri e deludenti come Zero Dark Dirty e Prometheus. Apes Revolution mantiene le promesse: è spettacolare; pur facendo largo uso del computer appare molto reale, come verosimile è la trama, perché che un virus creato in laboratorio possa sfuggire al controllo e infettare, uccidendola, gran parte dell'umanità e, al contempo, potenziare le attitudini degli animali su cui viene sperimentato non è per nulla fantascientifico; si basa su una sceneggiatura semplice ma solida; non antropomorfizza eccessivamente le scimmie che, come nella realtà, sono diverse ma simili a noi, e distribuisce il "bene" e il "male" equamente; per meglio dire, affronta efficacemente la questione del perché il male sia inevitabile anche con le migliori intenzioni, e vi siano situazioni in cui non è così facile operare una distinzione. Sicuramente è un film razionalmente pacifista e, in quanto tale, pessimista. Il dialogo può esistere, certo, tra diversi, ma la sete di potere avrà alla fine il sopravvento, con gli inevitabili strascichi di violenza, distruzione, odio che ne derivano. Qui siamo a dieci anni di distanza dall'episodio precedente, quando dopo una battaglia durissima sul Golden Gate le scimmie di laboratorio "potenziate" dal virus che veniva testato su di loro fuggirono da San Francisco per rifugiarsi in una foresta di sequoie. Nel frattempo hanno sviluppato una società preindustriale pacifica ed efficiente, convinte che gli umani non esistano più. Ma piccolissime comunità di costoro, formate da persone naturalmente immuni, sopravvivono, una di esse proprio a San Francisco, e alcuni suoi emissari  entrano in contatto con le scimmie perché vorrebbero raggiungere e rimettere in funzione una vecchia centrale idroelettrica (dismessa a suo tempo a vantaggio dell'energia nucleare) che si trova nel loro territorio. Da questo incontro nascono due spaccature speculari nei due fronti, tra chi vuole dialogo e pace e chi la guerra per soddisfare desiderio di vendetta e di sopraffazione: tra i primi Cesare, il condottiero delle scimmie nato e cresciuto tra gli umani, e Malcolm, uno scienziato; dall'altra Koba, una scimmia guerriera a suo tempo atrocemente torturata dagli umani e il guerrafondaio a capo della difesa dell'insediamento umano. Avranno la meglio le scimmie - anche in previsione del sequel e per fedeltà alla vicenda -, ma avranno perso per sempre l'innocenza. Oltre al lavoro a computer, agli effetti speciali e alla sempre più perfetta interpretazione in "motion capture", specializzazione dell'ottimo Andy Serkis (bisogna davvero essere bravi attori per recitare solo con occhi e mimica), ciò che funziona è il mix di generi, perfettamente calibrato: si va da quello "pandemico" al post-apocalittico, a quello di guerra, fondendo sequenze panoramiche mozzafiato e primi piani estremamente efficaci. Convincente e soddisfacente. Ave Cesare e alla prossima!

venerdì 1 agosto 2014

L'Unità brandy e trendy #Affanculo



#Unità#Matteo#PassioneInformazione#OdioGliIndifferenti#SiamoUnaFamiglia#Hashtag#Progetto#Brand
Indecenti. Penosi. Peggio dei piagnoni del "manifesto". Vergognatevi, se ne siete ancora capaci. Non vi meritate nemmeno la Santanché. Solidarietà? E' una cosa seria. Provate a  chiederla ai minatori del Sulcis. Se avessi visto prima questo video sarei venuto a Roma di persona a prendervi a calci nel culo. Spero che lo faccia chi vi ha a portata di mano, pardon: di piede.