giovedì 31 luglio 2014

Song 'e Napule

"Song e' Napule" di Marco e Antonio Manetti. Con Alessandro Roja, Giampaolo Morelli, Serena Rossi, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso, Peppe Servillo, Franco Ricciardi, Ciro Petrone e altri. Italia 2013 ★★★½
Brillante prestazione della premiata ditta "Manetti Brohers" con un film divertente, istruttivo, ironico, ambientato nella Napoli di oggi e ispirato ai "poliziotteschi" che negli anni Settanta avevano rinnovato i fasti degli "Spaghetti Western" (con tanto di Giulia Alfa Romeo d'epoca lanciata - con successo - all'inseguimento di una moderna Porsche Boxter giù per i vicoli della città vecchia), basato su una sceneggiatura cronometrica, che funziona a meraviglia, e che racconta una storia più verosimile di quanto possa sembrare, in un'ambientazione che più autentica non potrebbe essere: è Napoli, con tutte le sue contraddizioni, la vera protagonista della pellicola, assieme ai suoi cantanti neomelodici. Paco Stillo, talentuoso e posato pianista neodiplomato al Conservatorio, naturalmente disoccupato, viene convinto dalla madre a cercare di entrare in polizia su raccomandazione di un potente assessore, e dopo un esilarante colloquio col questore viene assegnato, considerata la sua totale inadeguatezza al servizio attivo, al deposito dei beni sequestrati. Lì il commissario Cammarota, da anni alla caccia di Ciro Serracane, un feroce killer senza volto della Camorra, ne scopre per caso il talento pianistico e, dopo averlo preso con sé alla squadra anticrimine, lo infiltra nel complesso del cantante neomelodico Lollo Love (uno strepitoso Giampaolo Morelli, autore anche del soggetto della pellicola) al posto del tastierista, fatto arrestare ad hoc con una scusa, in vista di un concerto che si terrà in occasione del matrimonio della figlia del boss della Camorra di Somma Vesuviana, tale Scornaienco, e a cui parteciperà il Serracane, di cui l'infiltrato dovrà comunicare le fattezze, che nessuno finora conosce. Paco, presentatosi al provino come nuovo tastierista con una nuova pettinatura scolpita, vestito da coatto e col nome di battaglia di Pino Dinamite, viene assunto dopo una partita a biliardino che perde, ma con onore, contro Lollo Love, facendolo sudare, ed entrando nelle grazie di quest'ultimo nonché in quelle della sorella Marianna, e nelle due settimane che precedono l'entrata in azione si affeziona al cantante e al suo gruppo, e tutto sommato anche a una produzione musicale che prima riteneva indecente, riconciliandosi in qualche modo anche con una "napolitanità" che, per cultura, rifiutava. Nel momento clou riuscirà a far modificare in corsa il piano mal congegnato dal commissario Cammarota evitando che la band venga coinvolta e prendendo sorprendentemente in mano la situazione, un po' per fortuna, un po' per caso, un po' perché, pur essendo uno sprovveduto, ne è cosciente e possiede una discreta intelligenza, oltre a un buon carattere. C'è il lieto fine, ma anche una discreta dose di azione, una colonna sonora all'altezza, un ritratto assai credibile di una certa parte della città, la bravura e simpatia degli attori, una buona mano registica. Più che soddisfacente, considerato il genere, volutamente di "Serie B". A rivederci speriamo presto con la "Manetti Brothers"!

lunedì 28 luglio 2014

Parlare con i piedi*


L'abito non fa il monaco, ma le scarpe fanno il mona: e chi, se non il compagno DeFirenzie (qui affiancato dalla ministra della Difesa Pippotti), poteva presentarsi ieri a Genova conciato in questa maniera, in occasione dell'arrivo in porto della Costa Concordia? E chi, se non il rottamatore per definizione, poteva dare la propria benedizione a un'operazione di smantellamento affidata, dopo lunghe vicissitudini, alla sapiente mano d'opera italiana? Ciclo completo: costruita dalla Fincantieri a Genova Sestri, affondata al Giglio (comandante Francesco Schettino) e smantellata al VTE di Genova Voltri. Un inno al Made in Italy, da propagare per l'universo mondo. Come le scarpe tricolori. Marca Tod's, per caso? Degli amici Della Valle, proprietari peraltro dell'amata Viola? L'Unità, ossia l'organo ufficiale del PD, il giornale fondato da Antonio Gramsci, quello che chiede solidarietà per non chiudere, a meno di non essere salvato dalla cordata che fa capo a Daniela Santanché, non lo chiarisce, nella sua velina di giornata...



*ogni riferimento a Osvaldo Soriano è puramente casuale. Nonché improprio...

venerdì 25 luglio 2014

Autoritarismo e italianità


E' ben vero che non bisogna generalizzare, cadere nel luogo comune; che il 40,81% di cui è stato accreditato il partito del DeFirenzie alle ultime elezioni europee va rapportato comunque al 57% dei votanti, per cui il fanfarone di cui sopra può dirsi legittimato al massimo come capo del maggiore partito membro del PSE in un'elezione a cui non era nemmeno candidato (per lui, le cinque squinzie della sua banda di cheerleader promosse a capolista delle cinque circoscrizioni elettorali) e non certo come rottamatore, termine a lui caro, di un Parlamento di cui nemmeno è membro; però davanti al più pesante attacco a una già incorporea e discutibile democrazia rappresentativa dai tempi dell'omicidio Matteotti, 90 anni fa, e questo ad opera dei due firmatari del fantomatico "Patto del Nazareno", di cui tutti parlano ma nessuno sa cosa sia, sottoscritto dal presidente del Consiglio in carica assieme all'intramontabile Silvio Berlusconi con l'attiva complicità del Presidente Napolitano per attentare alla Costituzione vigente, bisogna chiedersi se la "deriva autoritaria" insita nella cosiddetta "riforma" della nostra legge fondamentale non faccia parte della componente genetica di questo Paese, non sia insomma connaturata all'italiano medio. Perché questo indica non solo la storia della nazione dall'Unità in poi, ma anche quella delle entità che l'hanno preceduta, tornando indietro nel tempo fino all'epoca di Roma, il Glorioso Passato che un Paese smidollato e immemore tira puntualmente in ballo pur non essendo minimamente in grado di conservarne nemmeno le vestigia (bastino l'esempio della manutenzione di Pompei e il restauro del Colosseo affidato a uno scarparo alla moda), e spiegherebbe la quasi completa indifferenza rispetto a quanto sta avvenendo al Senato in questi giorni, nonché l'assordante silenzio della "intellettualità" del Paese, altrettanto comprensibile vista la sua storica servilità nonché appiattimento su qualsiasi forma di potere, politico o religioso; per non parlare del mondo dell'informazione, se si esclude la meritoria iniziativa della raccolta di firme contro i ladri di democrazia promossa dal Fatto Quotidiano. Questo è il risultato, quando a Capo dello Stato e garante degli equilibri viene messo un comunista irriducibile come Giorgio Napolitano che, in piena coerenza con la sua formazione, non ha il benché minimo senso delle istituzioni ma in compenso uno sviluppatissimo per il Partito, che viene prima di tutto, e per il Potere; un democristiano a capo del partito post-comunista e pure di un governo di larghe intese di fatto sostenuto da un altro criptocomunista, o tale a sua insaputa, come il piduista e pregiudicato Berlusconi. A conferma di quanto quest'ultimo sia a pieno titolo un comunista, seppure abilmente camuffato, ripropongo quanti scrivevo sul vecchio blog splinderiano quasi sei anni fa. A riprova non solfanto di "averlo detto" e che non c'è niente di nuovo sotto il sole, ma che per vedere le cose basta aprire gli occhi.


DOMENICA, 19 OTTOBRE 2008
Il compagno Berlusconi, vero comunista

E' nei momenti di crisi che le persone mostrano sé stesse e il loro vero volto: non fa eccezione il Cavalier Banana, che si è rivelato l'unico, vero comunista di questo Paese. Ormai non c'è alcun dubbio in proposito: a margine del Consiglio europeo svoltosi a Bruxelles mercoledì ha lanciato l'allarme affermando che l'Italia è a rischio di scalate da parte dei "fondi sovrani", e ha annunciato il varo di norme contro le OPA ostili, sottintendendo una sorta di "gradimento" da parte dello Stato, alla faccia della tanto declamata globalizzazione e libera circolazione dei capitali; il giorno successivo, nella conferenza stampa tenuta assieme a Tremonti e al gagà Frattini, insomma la triade a capo del Soviet Supremo, con uno sorriso sardonico e compiaciuto ha potuto dire che finalmente in Europa «gli aiuti di Stato, che fino a ieri erano peccato, sono un imperativo categorico»: niente di meno; e che «se gli Usa hanno investito così massicciamente nel settore dell'auto non c'è da scandalizzarsi anche da parte nostra, ove sia necessario, che gli Stati possano pensare di dare in qualche modo supporto alla loro industria automobilistica». Ne da conto il Financial Times nell'articolo che avevo già segnalato ieri, qui nella versione originale, che nota come della crisi stia beneficiando Silvio Berlusconi, "il cui trattamento in alcune parti dei media sta raggiungendo livelli nordcoreani mentre il suo governo sembra godere di un’autorità che non si è vista per decenni". A dispetto della sua discutibile fama di imprenditore sedicente liberale, è adesso, nel pieno della crisi finanziaria che si sente più a suo agio, "alla guida di mercati e settori chiave attraverso lo Stato, con Alitalia come esempio più lampante. La compagnia in perdita - sottolinea il Financial Times - è stata affidata a un gruppo di imprenditori nazionali escludendo un compratore straniero, cambiando le leggi anti-monopolio e presentando un conto di miliardi di euro ai contribuenti italiani".
L'italiota, gonzo, che secondo un sondaggio accredita il premier di un consenso al 62%, celebra il ruolo dello "Stato salvatore" sorvolando sul fatto che pompi danaro per salvaguardare banche e mercati togliendolo all'assistenza e alla scuola, come fa notare Ilvo Diamanti, citato nel pezzo. Sempre ieri, illuminante l'editoriale dell'economista Francesco Giavazzi sul CorSera a proposito degli aiuti di Stato, intitolato opportunamente "Il passo indietro". Della profonda natura statalista del Cavalier Banana, e del suo essere profondamente comunista, secondo un'interpretazione naturalmente del tutto personale, ben prima del quotidiano inglese se ne erano resi conto i gli eterni custodi italiani di quella ideologia che appariva morta e sepolta dal crollo del Muro di Berlino, ovvero i dirigenti e maîtres à penser dell'allora PCI, poi PDS, quindi DS e ora PD. I più svegli o solerti dei quali, come Ferrara, Costanzo o Bondi, per non parlare degli orfani di Bettino Craxi, passando direttamente alle sue dipendenze prima ancora che tentasse l'avventura politica con Forza Italia; gli altri, rimasti nella casa madre, spianandogli la strada prima quando ancora era soltanto un piccolo costruttore brianzolo riciclatosi nelle TV commerciali, poi come pseudo avversario politico: riconoscendo in Berlusconi uno col loro stesso DNA, ma più capace, in una prima fase hanno tentato di fermarlo confidando nella magistratura, quindi lo hanno inseguito, arrancando invano e penosamente, sul terreno scelto e imposto da lui stesso. Essendo dei comunisti, per quanto alle vongole, essi stessi, non potevano muovergli l'accusa di esserlo, e nemmeno rinfacciargli di essere un fascista e tantomeno un baciapile, considerata la loro stessa sudditanza alla chiesa cattolica: il Cavalier Banana è un pragmatico che pensa esclusivamente ai suoi interessi, alla "roba" e al potere, fottendosene di ogni orpello ideologico. Si sono impuntati invece sul conflitto di interesse che, né prima della "discesa in campo" nel 1994, sia successivamente nei complessivi 7 anni di governo controsinistrato, hanno fatto nulla per risolvere, anzi: stendendo delle consistenti reti di protezione (statali) quando le sue aziende erano indebitate fino al collo. Né più né meno quello che sta facendo il Cavalier Banana con Alitalia. Avendo a che fare con degli idioti del genere come avversari politici, pieni di scheletri nell'armadio quanto e più di lui, come ben sappiamo l'impostore ha avuto buon gioco ad accreditarsi come imprenditore liberale, insofferente delle regole e dei "lacciuoli" posti dallo Stato: il cui compito, si capisce ora, nella sua ottica non è quello di dettare norme valide per tutti ma solo per alcuni, e di sostenere gli imprenditori in difficoltà a causa delle loro scelte a capocchia. E poiché l'uomo è un menarosto, epperò furbo e un grande imbonitore dotato di una faccia di tolla senza pari, accusava lui di essere comunista chiunque facesse appena finta di ostacolare i suoi piani: da ineguagliabile  venditore di pubblicità qual è, conosce i polli che popolano la Terra dei Cachi e sa quali favole vuole sentirsi raccontare, l'unico ad aver leninisticamente imparato la lezione della DC che, non a caso, ha governato l'Italia per mezzo secolo, e continua a farlo seppure sotto mentite spoglie e in condominio col compagno Berlusconi. Ed ecco spiegato il "trattamento nordcoreano" riservato al capo del governo dal sistema informativo nazionale che tanto stupisce il Financial Times, questo foglio di sovversivi liberali e per di più straniero, zerbinaggio mediatico che si basa a sua volta sul 62% di consensi che gode da parte dell'italiota-tipo, il quale vede lo Stato non come un organismo di cui fa parte o di una struttura per porre le basi di una convivenza civile, cosa che in questo Paese non interessa, ma come una forza estranea e ostile e al contempo una vacca da mungere all'occorrenza: una matrigna dai due volti. Un rapporto schizofrenico e dunque malato che da vita a una realtà televisiva e virtuale in cui tutti i problemi vengono risolti dall'ometto della provvidenza per mezzo dello Stato salvifico che sistema tutto. Un viaggio in un mondo incantato il cui biglietto verrà pagato da tutti noi, per anni al momento del brusco risveglio. Non volevo morire demoscristiano, ma nemmeno comunista!

martedì 22 luglio 2014

2001: l'ultima estate italiana


Genova, luglio 2001. In questi giorni. Ultimi fuochi. Da allora il silenzio, la narcosi. Nel 2011 c'è stato il movimento M-15 in Spagna, "Occupy" diffusosi da New York nel resto del mondo, vampate di coscienza spente entrambe nel giro di pochi mesi. In Italia, i V-Day di Grillo e la " deriva parlamentare" del M5S  (e cara grazie che c'è stata!). Per il resto ora e sempre Berlusconi, Napolitano, Monti, Letta, il PD, e un futuro affidato a Renzie. La vedo grama.

domenica 20 luglio 2014

La ricostruzione

"La ricostruzione" (La Reconstrucción) di Juan Taratuto. Con Diego Peretti, Claudia Fontán, Alfredo Casero, Eugenia Aguilar, Maria Casali. Argentina 2013 ★★★★
Miracolo: è il secondo film argentino che esce nelle nostre sale negli ultimi mesi, e anche questo, come già The German Doctor, di ottimo livello; anche questo ambientato in Patagonia, però nella sua estremità meridionale; e anche questo ha tra gli interpreti (anzi: ne è il protagonista) l'ottimo Diego Peretti. Oltre, naturalmente, alla potenza dei paesaggi: fatti apposta per evocare stati d'animo tormentati ed estremi. Come già detto in occasione del commento all'altro film, è una caratteristica del cinema argentino (ma anche del suo teatro) quella di affidarsi molto alla capacità espressiva degli interpreti (e spesso alla loro improvvisazione) piuttosto che a una sceneggiatura elaborata e a dialoghi ridondanti, al contrario di quello francese e, in parte, italiano: la differenza tra un pezzo blues e un pezzo pop, tra Rolling Stones e Beatles, ed è superfluo dire dove sono orientate le mie preferenze. Qui siamo nella Terra del Fuoco, dalle parti di Rio Gallegos, dove Eduardo, un cinquantenne tecnico petrolifero, si è isolato dai rapporti umani, dedicandosi unicamente al lavoro, e trascurando sé stesso: non curandosi, non lavandosi, mangiando con le mani, vivendo nell'unica stanza, alquanto degradata, di una casa altrimenti  non utilizzata. Questo finché un vecchio amico ed ex collega, Mario, lo prega di raggiungerlo a Ushuaia, dove vive con la moglie e due figlie che adora, per sostituirlo per qualche giorno nel negozio di souvenir di cui è proprietario mentre lui si deve recare in ospedale per degli esami cardiaci. Eduardo accetta, ma i controlli si rivelano in realtà un intervento piuttosto serio, che Mario aveva tenuto nascosto alla famiglia per non spaventarla: così serio da rimetterci la vita. Eduardo saprà prendersi cura della moglie di Mario e delle due figlie adolescenti, coi fatti più con le parole; rivelando non solo un'attenzione e una sensibilità che non gli erano conosciute, ma le ragioni del suo "auto-esilio" dai rapporto umani e da sé stesso, punendosi per  il fatto di non essere riuscito ad accettare la morte della amata moglie, che per tre anni aveva inutilmente lottato contro un cancro, al punto di non partecipare nemmeno al suo funerale. Lei stessa, col figlio, era andata a morire a Buenos Aires, con la scusa di tentare un'altra cura, sapendo che lui non avrebbe resistito, e questo Eduardo lo ha poi vissuto come una vergogna. Recuperata la sua dimensione umana, e il rispetto di sé stesso, potrà iniziare la ricostruzione che dà il titolo al film. Il cui happy end, ma sarebbe neglio dire la logica conseguenzasi limita a questo, un rientro nel consorzio umano, e non a un'improbabile sostituzione di Mario come capo famiglia. Siamo dalle parti di Buenos Aires, città di tango, non a Holly né Bolly-Wood, per fortuna!

giovedì 17 luglio 2014

Mai così vicini

"Mai così vicini" (And So it Goes) di Bob Reiner. Con Michael Douglas, Diane Keaton, Sterling Jerins, Francis Sternhagem, Andy Carl, Scott Shepherd, Frankie Valli, Bob Reiner e altri. USA 2014 ½
Non una sorpresa in questo commediola sentimentale scontata e buonista, quanto di più tipicamente hollywoodiano ci si possa aspettare, di un autore di fama come Bob Reiner (che nel film ha anche un ruolo non del tutto secondario), che col celeberrimo "Harry, ti presento Sally" si era sicuramente espresso meglio. Per carità, il mestiere c'è, e la storiella, che racconta della trasformazione dello stronzissimo Oren Little, agente immobiliare prossimo al pensionamento, nel perfetto e premuroso nonno della piccola Sarah (affidatogli dal figlio Luke, ex tossicomane che deve scontare 9 mesi patteggiati di galera per un reato non commesso) e nuovo compagno della vicina di casa Leah, ex attrice e vedova inconsolabile riciclatasi in cantante di vecchi successi in una pretenziosa locanda della turistica e pittoresca contea di Fairfield, nel Connecticut (così autenticamente yankee da sembrare un fondale di cartapesta) è un cliché che torna sempre buono. Trama inesistente e scontata, qualche battuta gustosa di Oren nella fase in cui era ancora carogna (ma naturalmente nessuno nella Grande Patria della Libertà è davvero cattivo: un motivo c'è sempre, perché tendenzialmente l'uomo è buono e virtuoso, e se si adegua all'american way of life, lo diventa), quel che in definitiva infastidice di più del film, a parte seguire il filone quanto mai prospero delle "pantere grigie", vieppiù in auge quanto più la generazione dei "Baby Boomers", entra nella terza età, sono proprio i suoi atout, ossia la coppia di protagonisti, che a fine carriera ormai mostrano tutti i loro limiti: nulla più che onesti caratteristi, imbalsamati nei loro ruoli di sempre: il fetente, cinico ed elegante Michael Douglas e la nevrotica, intelligente e al contempo attraente (?) Diane Keaton, che possiede però la femminilità di un tubero quanto il suo collega la disinvoltura. Coi loro volti plastificati dai lifting, sembrano perfino più vecchi di quel che sono, però anche in questo (come nella scelta dell'abbigliamento) tipicamente americani. Se Douglas almeno ha il dono naturale di una certa simpatia e fascinosità, la Keaton, almeno per me, è indigesta. Se avete voglia di refrigerio in una sala buia e niente di meglio da fare...

martedì 15 luglio 2014

PD(uisti) di complemento


Non ho nulla da eccepire sul contenuto dell'editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano in edicola oggi, anche perché ripropone quanto già detto e ripetuto su questo blog, l'ultima volta qui, tranne sul titolo: "Piduisti a loro insaputa". Perché lasciare a questi attentatori della Costituzione, a cominciare da chi è stato eletto (benché da un Parlamento sostanzialmente illegittimo) per tutelarla e garantirne l'applicazione, il beneficio del dubbio? Intanto il segretario del partito di maggioranza, Matteo Renzi, sta disintegrandola dopo aver stretto coscientemente, in pieno possesso delle sue facoltà mentali, un patto (detto "del Nazareno"), mai reso integralmente pubblico, come da tradizione massonica, con un piduista in servizio permanente effettivo, il tesserato n° 1816 alla Loggia Propaganda Due, nonché pregiudicato destinato ai servizi sociali Silvio Berlusconi; secondariamente, i parlamentari, a cominciare dai membri di un Senato in liquidazione, disposti a votare il proprio suicidio oltre allo stravolgimento di tutto l'assetto istituzionale, se ignorano le conclusioni della Commisione Anselmi (la cui relazione è disponibile qui) è per loro colpa, per cui alla meglio si dimostrano degli utili idioti, e alla peggio dei complici, e quindi dei piduisti di complemento, altro che "a loro insaputa": in questi casi la conoscenza è un dovere, così come per un normale cittadino l'ignoranza della legge non è un'esimente. Su Renzi aveva avuto dunque perfettamente ragione Piero Pelù nella sua invettiva del 1° Maggio, che aveva suscitato tanta riprovazione da parte dei sepolcri imbiancati che si annidano nel PD; anzi: limitandosi a dargli del boy scout di Licio Gelli ci è andato ancora leggero. Quanto al programma piduista (qui esposto dal suo autore nella celebre intervista a Maurizio Costanzo, altro membro della loggia segreta, sul Corriere della Sera del 5 ottobre 1980), riportato in vita dall'attuale capo del governo e segretario del PD, ecco cosa ne pensa, ad esempio, Rino Formica, storico esponente del PSI e cosa ne scrivono i massoni stessi, o almeno quelli che si definiscono democratici: una lettura istruttiva.

domenica 13 luglio 2014

venerdì 11 luglio 2014

Le cose belle

"Le cose belle" di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno. Con Adele, Enzo, Fabio e Silvana. Documentario, Italia 2013 ★★★★
"Le cose belle" sono quelle che anche i napoletani più fedeli al dialetto augurano, pronunciando la locuzione in italiano, e sono quelle che auguravano a sé stessi da adolescenti i quattro protagonisti di questo documentario, quando avevano girato "Intervista a mia madre" a cura degli stessi autori, e ripresi a 13 anni di distanza da Ferrente e Piperno, che mettono a confronto la loro esistenza attuale tra disoccupazione, precariato cronico, famiglia sconquassate, violenze camorristiche e degrado urbano, culturale e sociale con i sogni e i progetti del passato. Chi voleva diventare modella, chi ballerina, chi calciatore e chi cantante: l'unica a seguire la sua "vocazione" è stata Adele, una figlia da mantenere, il compagno assente, una madre che ha sempre prediletto l'altro figlio, un transessuale, la quale esercita la sua professione in un lugubre locale da lap dance. Enzo, che con la sua voce d'oro da ragazzo accompagnava il padre chitarrista per trattorie, e raccogliere qualche spicciolo, fa vendite di contratti telefonici per rete fissa porta a porta per conto di un'agenzia "giovane, dinamica e motivante", che alla fine lo lascia a piedi, come la sua fidanzata d'origine nigeriana: un ragazzo profondamente buono, nostalgico del suo vecchio quartiere, dove vive anche Fabio, l'aspirante calciatore, il più ciarliero e colto dei quattro, segnato dalla morte prematura del fratello maggiore, che continua a vivere con la madre, il quale alterna un lavoretto un altro, rassegnato a un fatalismo sfiduciato: della passione del calcio gli è rimasta l'attività di vendita (abusiva) di sciarpe e cappellini fuori dallo stadio San Paolo prima delle partite del Napoli; le due ragazze hanno degli ambienti famigliari devastati e dei rapporti assai conflittuale con le rispettive madri, di cui diventano le vittime preferite, rassegnate anche loro a un destino che come alternativa ha solo la fuga da una città che non offre prospettive. Una pellicola toccante che racconta Napoli e i suoi giovani così com'è, senza pietismi né prediche né compiacimenti, lasciando parlare i fatti, la quotidianità e il confronto con quello che i giovani di oggi erano da adolescenti, e la disillusione è tutta nei loro sguardi, nelle loro espressioni, nel loro modo di muoversi ed esprimersi (sempre in dialetto, sottotitoli in italiano). Perfette anche le (poche) canzoni, ripetute, che costituiscono la colonna sonora. Gran bel film.

mercoledì 9 luglio 2014

The Harder They Come...


...The Harder They Fall, come cantava nel 1972 Jimmy Cliff in un pezzo famosissimo all'epoca, tratto dalla colonna sonora dell'omonimo film. Tutto qui: a forza di intonare peana sulla supposta superiorità intrinseca del calcio brasiliano, come se l'avessero inventato loro (anche gli yankees sono convinti di avere scoperto la pizza) e ne possedessero la scienza infusa, e celebrandolo acriticamente a ogni latitudine, il luogocomunismo mediatico ha finito per diffondere urbi et orbi la menzogna del "País do futebol", dove tecnica, predisposizione naturale e passione nonché una maglia dai colori vivaci e accattivanti avrebbero portato per definizione ai risultati esteticamente e sportivamente migliori. La realtà non è così, esattamente come il Brasile non è un Paese allegro e felice, bensì triste e fatalista, intimidito e frastornato prima da una dittatura durata vent'anni e poi mal governato, salvo che per un breve periodo assai enfatizzato da Lula, puntualmente smentito dalla sua erede Rousseff, mentre il mito do carnaval non è altro, per la maggioranza della popolazione, che una fuga da una realtà prevalentemente misera, ingiusta e spesso violenta, l'eterna promessa di un futuro che non arriva mai. A forza di pomparlo il pallone si gonfia, e così è stato per la Seleção verdeoro e il suo imponente seguito di tifosi pronti a farsi incantare dalle favole, che non si limita ai confini nazionali ma è, per così dire, globalizzato: un marchio, quello della Seleção, che i brasiliani, questo sì, sono stati capaci di vendere bene in giro per il mondo, così come i franzosi lo champagne o i loro profumi. La convinzione di essere i migliori, i più belli e anche i più simpatici, insomma gli eletti, ha alimentato da un lato una presunzione senza limiti e dall'altro un vittimismo infantile e indisponente che si riflettono immediatamente sul campo, e la partita di ieri sera con la Germania, trasformatasi in una catastrofe per i brasiliani, è stata l'ennesima riprova di quanto il calcio sia lo specchio dei pregi e dei difetti di un Paese, in una parola della sua realtà. Le prime avvisaglie si erano avute già alla vigilia dell'incontro, quando dirigenti, allenatori e giocatori hanno cominciato a lagnarsi, nel perfetto stile del chiagni e fotti ben noto a noi italianiper la squalifica di Thiago Silva, capitano della squadra e unico difensore di valore (ma scorretto assai) per somma di ammonizioni, facendo pure ricorso alla FIFA; poi dell'infortunio, per un fallo di gioco assolutamente fortuito, nel quarto di finale con la Colombia, vinto con scarso merito ai rigori, che li ha privati della loro unica stella, Neymar, sulle cui esili spalle avevano posto tutte le speranze di andare avanti, giocatore peraltro fragile di fisico (AKA: mezza sega) nonché notoriamente scorretto e facile alla simulazione per mezzo di tuffi acrobatici degni di Tania Cagnotto. Commedianti come sono, hanno perfino portato in campo la sua maglia come cimelio esibendola durante l'esecuzione degli inni nazionali e le foto di rito, e suggerito al pubblico di presentarsi allo stadio con una sua maschera a coprire il volto, come a proclamare all'universo intero "Siamo tutti Neymar": per molto meno qualsiasi altra rappresentativa sarebbe stata sanzionata, ma questo non vale per il Brasile, nazione ospitante dell'Evento, ribattezzato per l'occasione "il Mondiale dei Mondiali" solo per il fatto di svolgersi sul suolo del gigante sudamericano, che ha sempre goduto di amplissime protezioni nelle alte sfere della FIFA (di cui l'onnipotente connazionale João Havelange fu presidente per vent'anni dal 1974 al 1994 e padre-padrone ancora oggi), che non a caso ha designato come arbitro il peggiore (e quindi manovrabile) tra tutti i direttori di gara visti finora all'opera nel torneo: il messicano Marco Moreno, quello che non sanzionò il morso di Suarez a Chiellini in Italia-Uruguay e che espulse invece Claudio Marchisio a metà partita per un normale intervento di gioco. Queste le premesse, tradottesi in campo in un atteggiamento tattico figlio della arrogante e immotivata presunzione di chi non vuol rendersi conto dei propri limiti: tecnicamente, tatticamente e atleticamente di tre spanne inferiori ai tedeschi, i brasiliotes sono partiti in quarta con l'intenzione di "fare la partita", come si dice in gergo, trascurando ogni prudenza e la legge aurea del calcio razionale, il "primo non prenderle" che deve accompagnare la consapevolezza dei propri mezzi, e venendo inesorabilmente trafitti dai tedeschi, organizzati come da copione, atleticamente prestanti, seri e precisi, diventando pane per i loro denti. Che poi hanno  a loro volta confermato la loro fama di implacabili esecutori, non risparmiandosi nemmeno sul 5-0 e continuando a infierire sulla vittima metodicamente, chirurgicamente, senza pietà, insomma professionalmente, fino al 7-1 finale, perché "queste sono le regole del gioco". Atteggiamento sportivamente corretto, ma che potevano anche risparmiarsi, dopo aver messo al sicuro il risultato. Insomma, la bolla creata ad arte è scoppiata ieri sera allo stadio Mineirão di Belo Horizonte, così come scoppiano i palloni gonfiati all'eccesso, e anche questa è una legge del calcio, dello sport in generale (vedi Lance Armstrong, per fare un esempio ciclistico) come dell'economia (vedi il crack Lehman Brothers, lo scoppio delle varie bolle speculative e le relative conseguenze), così com'è successo in politica a Toni Blair, a Sarkozy, a Berlusconi e accadrà, ci si augura al più presto, a Renzie. Che il calcio brasiliano fosse in crisi e la sua fama in buona parte usurpata era chiaro da decenni a chi capisce un po' di pallone e conosce un minimo il Paese in questione: i loro stadi sono molto più desertificati di quelli italiani, dove la crisi è conclamata; i loro campionati non contano nulla o quasi; i praticanti (e questo vale anche per l'Argentina ma non per l'Uruguay), in rapporto alla popolazione, sono in numero inferiore a quel che si creda e decisamente meno che in quasi tutti i Paesi europei; nascono sempre meno talenti, specie tra gli attaccanti, e quei pochi emigrano ancora ragazzini quando ancora devono formarsi come calciatori, rastrellati dai settori giovanili delle squadre di mezza Europa e perfino dell'Asia perché il loro "cartellino" costa quattro soldi e la CFB lo consente, col risultato che non hanno più nessuna caratteristica indigena, ragion per cui non esiste ormai nemmeno un gioco che possa definirsi "brasiliano". Non a caso i migliori visti in campo ieri, Julio Cesar e Maicon, peraltro ex glorie nerazzurre, ultratrentenni, appartengono alla generazione precedente. Faceva notare Fabio Caressa, il commentatore di SKY, con cui raramente concordo, che tra i 23 convocati dal CT Scolari, uno solo, il centravanti titolare, tale Fred, gioca nel campionato brasiliano, precisamente nella Fluminense, nemmeno una delle squadre più blasonate: in italia non giocherebbe titolare nemmeno nel Pordenone (l'altro attaccante, Hulk, è un energumeno nei cui occhi non si accende nemmeno una scintilla di comprendonio e rispetto al quale perfino Bobo Vieri era un atleta elegante nonché un fine intellettuale). Il calcio tedesco, che i suoi problemi e anche scandali (legati alle scommesse e che hanno coinvolto prevalentemente gli arbitri) li ha avuti, si è "rifondato", sia tecnicamente sia economicamente, dieci anni fa e ha puntato, oltre che sulle infrastrutture e la trasparenza finanziaria, sui settori giovanili: i risultati si sono visti presto, con la Bundesliga che da campionato cenerentola è ora solo un gradino sotto alla Premier League inglese e, come questa, registra il pieno di spettatori allo stadio, per cui non è nemmeno strettamente dipendente, come la Serie A italiana, dai diritti televisivi. Sempre a proposito della fama, che fonda più sul mito che su fatti concreti, che circonda la Seleção (che io chiamo la Juventus delle nazionali), tanto osannata dai media più conformisti assieme ai suoi epigoni europei quali il Barça e la nazionale spagnola, ormai giunti tutti al capolinea dopo essere stati incensati per anni e averci definitivamente frantumato gli zebedei: raramente ne ho visto una davvero spettacolare se non nei primi anni Sessanta; quella del 1970 in Messico (che però non era fatta da marziani, nonostante Pelé, se in finale dopo un'ora stava ancora sull'1-1 con un'Italia ormai appagata dal mitico 4-3 dopo i supplementari in semifinale con la Germania e fisicamente divelta), in parte quella del 1982 in Spagna (anche quella volta eliminata proprio dall'Italia sempre a causa della sua infinita quanto immotivata presunzione) e in minima parte quella che conquistò il titolo in uno dei Mondiali più squallidi di cui si abbia memoria, quello di Corea/Giappone del 2002, insieme a quello di USA '94, vinto anche questo immeritatamente dal Brasile su un'Italia sconvolta dal fuso orario e dai 40 gradi all'ombra del mezzogiorno di Pasadena. In confronto, non solo gli azzurri di Bearzot in versione 1978 (Argentina: la migliore sotto il profilo del gioco) e 1982, ma anche quelli di Vicini a Italia '90 erano decisamente superiori e hanno offerto prestazioni più convincenti. Stasera l'altra semifinale, tra Argentina e Olanda. Pronostico difficile: anche la presunzione dei rioplatensi tende all'infinito ma è meno malriposta. Essendoci parenti stretti sono molto più accorti e tignosi dei brasiliotes: mai commetterebbero l'errore di scoprirsi e andare all'arrembaggio degli orange. Facile prevedere che ne uscirà un incontro equilibrato, tattico, probabilmente monotono e brutto, salvo essere squassato e risolto dai lampi di genio provenienti dall'uno dell'altro campo, e magari dalla panchina olandese. Se andrà in finale l'Argentina vedo la sua sorte segnata nonostante l'intercessione di Papa Bergoglio di San Lorenzo (Bs.As.): tutto il Brasile le sarà contro, a cominciare dagli organizzatori dell'Evento: una vittoria dei detestati vicini sarebbe anche più difficile da digerire della squassante sconfitta di ieri, mentre con una Germania trionfante la nazione verdeoro intera si consolerebbe per essere stata battuta dai futuri campioni del Mondo. Se al Maracaná domenica se la giocasse l'Olanda, dopo aver vendicato l'indecente furto da parte dell'Argentina di Menotti nel 1978 ai Mondiali svoltisi sotto la dittatura di Videla e soci, la Germania si troverebbe contro un osso assai duro e il pronostico, per quanto favorevole alla squadra di Loew, sarebbe più incerto. E il destino in mano a Eupalla. Ultimissima osservazione: avete notato che la presenza di neri e mulatti nella seleção verdeoro era più che inversamente proporzionale a quella degli stessi sugli spalti, almeno a giudicare dalla inquadrature televisive? Perché un'altra favola è quella dell'inesistenza della discriminazione razziale in Brasile: certo, niente in confronto agli USA, ma quelli mica sono un esempio di civiltà, però esiste eccome, e si vede e si sente (sempre che si voglia vedere e sentire. E raccontare). 

martedì 8 luglio 2014

MilaNapoli

Nella foto: un atollo nel quartiere "Isola": nomen omen

Ma che bella città, ha-ha-ha-ha...
Sento l'acqua alla gola he-he-he he...
In attesa di EXPO 2015, Milano riprende confidenza con le sue Vie d'Acqua, che a questo punto non occorre vengano completate per tempo: ci pensa Giove Pluvio.

venerdì 4 luglio 2014

Telemacaco

"Cosa vedremmo se l'Europa si facesse un selfie? L'immagine della rassegnazione"; "il Vecchio Continente non deve essere solo un puntino su Google Maps"; "la nostra generazione è come quella di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope narrato da Omero nell'Odissea. Dobbiamo fare come lui. Dobbiamo essere eredi, prendere la tradizione da cui veniamo e darla ai nostri figli"; "se pensiamo al passaggio del testimone tra Grecia e Italia non pensiamo a cose straordinarie e affascinanti e ricche di suggestione, come il rapporto tra Anchise ed Enea, Pericle e Cicerone, l'agora ed il foro, il tempio e la chiesa, il Partenone e il Colosseo"; "Ulisse affascina e emoziona, ha animato la letteratura antica, da Dante a Joyce..." e via di citazioni che sembrano tratte dalle spigolature della Settimana Enigmistica: questi alcuni passaggi del discorso introduttivo del trimestre italiano dell'UE tenuto due giorni fa a Strasburgo davanti al neoeleletto Parlamento europeo dal nostro ciarliero e fantasioso presidente del Consiglio farcito, come se non bastasse, da locuzioni come climate exchange e smart Europe. Del resto qualche giorno prima, sul sito della presidenza italiana del Consiglio Ue, a firma Matteo Renzie era comparso quest'altro passaggio, rimbalzato urbi et orbi dai mezzi di comunicazione governativi, ossia quasi tutti: "il tema dellEuropa è dire ai nostri figli che siamo la generazione Erasmus, che è possibile che l'Europa oggi sia il luogo in cui è possibile la speranza". Così si esprime il nostro capo del governo, confermando, se necessario, e senza dover scomodare il professor Umberto Eco, di essere il prodotto perfettamente coerente di quasi quarant'anni di televisione commerciale e che il suo orizzonte culturale, ideale e umano è fatto di quel materiale con cui essa, e Fininvest in particolare, ha disintegrato il cervello degli italiani videodipendenti annichilendone le già scarse capacità di pensare per proprio conto. "Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti" faceva dire Nanni Moretti al suo alter ego Michele Apicella in "Palombella Rossa" (1989). Temo che finiremo per rimpiangere Berlusconi perfino per la proprietà del suo linguaggio, oltre che per la sobrietà delle sue apparizioni televisive. Mala tempora currunt, sed piora parantur...

mercoledì 2 luglio 2014

Vive la diffeRenzie!

La prima pagina de "il Fatto Quotidiano" di oggi e qui il puntuale editoriale di Marco Travaglio. E non c'è niente da aggiungere.

martedì 1 luglio 2014

Jersey Boys

"Jersey Boys" di Clint Eastwood. Con John Lloyd Young, Erich Bergen, Michael Lomenda, Vincent Piazza, Christopher Walken, Renée Marino, Erica Piccininni e tanti altri. USA 2014 ★★★★
Film che è l'ennesima dimostrazione che non bisogna fidarsi della cosiddetta critica cinematografica maggioritaria e conformista, che ha parlato di un "Eastwood minore" (ma che in prevalenza non aveva amato, inizialmente, nemmeno quello "maggiore" salvo ricredersi dopo il favore incontrato dal pubblico nella sua carriera di regista e dopo averlo per anni snobbato come attore): avevo tergiversato inizialmente ad andare a vederlo, sapendo che è tratto da un musical di grande successo a Broadway che ripercorre la storia di Frankie Valli e del gruppo dei "Four Seasons" che tanto successo ebbe nei primi anni Sessanta negli USA, dominando il mondo del pop prima della comparsa dei Beach Boys e lo sbarco dei Beatles. E invece è geniale proprio l'idea di raccontare cinematograficamente e attraverso l'artificio palese di una commistione di generi tra biografico, documentario, musicale, drammatico, perfino comico in modo estremamente efficace una vicenda reale, ripercorrendola nei dettagli e ricostruendo con estrema attenzione caratteri e ambiente, e nell'affrontare quello musicale il grande Clint sa di cosa parla, avendolo raccontato in altri film indimenticabili come Honky Tonk Man, e il documentario Blues in collaborazione con Martin Scorsese ed essendo musicista lui stesso. Nelle sue colonne sonore Eaastwood ha scandagliato tutta la musica americana del Novecento, e nel suo carnet non poteva mancare l'epoca di cui si parla, e lo fa attraverso la storia di un gruppo che nasce a Belleville, sobborgo di Newark, nel New Jersey, formato da quattro ragazzi italo-americani che vivono di lavoretti ed espedienti in stretto contatto con l'onnipresente mafia locale, ma appassionati di musica e che ruotano attorno a Frankie, il più giovane di loro ma dotato di una voce che è un "dono di dio" per quanto è estesa e gli consente di cantare in un falsetto che verrà imitato fino a oggi. Anche il boss locale, Gyp De Carlo, un sempre notevole Christopher Walken, è convinto del loro talento e li asseconderà e aiuterà lungo l'arco di tutta la loro carriera, finendo per essere una specie di arbitro nelle loro controversie, il simbolo del legame con il loro quartiere d'origine. Un altro artificio è fare raccontare e "chiosare" le vicende ai diversi personaggi che si rivolgono direttamente alla telecamera, anche se il narratore principale sarà Tommy De Vito, amico d'infanzia di Frankie ma suo opposto, tanto furbo, vizioso, truffaldino quanto l'altro è innocente, onesto, rigoroso, che racconterà gli inizi, ossia la parte su cui maggiormente si concentra la pellicola. La fotografia, un po' seppiata, fortemente contrastata, spesso notturna, è tipicamente eastwoodiana; la musica potente, i personaggi indimenticabili come i motivi che hanno portato al successo, spesso commoventi; perfino il trucco, fortemente esagerato (gli strati di cerone che gli artisti si mettono in scena sotto i riflettori), paradossalmente rende ancora più realistici e credibili i por volti (mi vengono in mente i primi piani dei Rolling Stones ripresi in concerto da Scorsese in Shine a Light). Tra le curiosità: c'è anche Joe Pesci, come personaggio e non come interprete, che si improvvisa talent scout di indubbio naso, e un curioso cameo di Clint Eastwood che riprende sé stesso in un telefilm dell'epoca trasmesso in TV.  A mio parere un film notevole, da non perdere per chi ama la musica e vuole curiosare dietro le quinte. Quando non ci sarà più Clint Eastwood a raccontare le storie di uomini autentici della "sua" America, ne sentiremo la mancanza. Lunga vita...