giovedì 31 ottobre 2013

Una piccola impresa meridionale

"Una piccola impresa meridionale" di Rocco Papaleo. Con Rocco Papaleo, Barbora Bobulova, Riccardo Scamarcio, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza, Giuliana Lojodice, Giorgio Colangeli, Giovanni e Mela Esposito, Giampiero Schiano. Italia 2012 ★★★+
Si è sempre un po' perplessi e forse anche prevenuti quando si sente parlare di "nuova commedia all'italiana" dopo gli indubbi fasti del passato (peraltro spesso ingigantiti, perché di boiate se n'è girate a iosa anche durante i "mitici" Sessanta e Settanta), ma non è il caso di questo secondo film di Papaleo dopo "Basilicata coast to coast" che, come il primo, ha un andamento lieve e un tocco surreale e, senza teorizzare sul massimi sistemi né giudicare, mette in scena una storia, per quanto improbabile e volutamente favolistica, plausibile e con un senso, al di là della trama che è puro pretesto benché ossatura di un divertissement comunque gradevole. La voce narrante è quella di Papaleo stesso, nei panni di Costantino, un prete spretato che torna al suo paese, in un Sud non meglio precisato (tra Puglia e Basilicata anche se il film è stato girato in Sardegna) e in casa della madre, Stella (la sempre bravissima Giuliana Lojodice), la quale, per evitare le dicerie dei compaesani, lo "smista" presso un faro semidiroccato con una piccola proprietà attorno che appartiene alla famiglia. Il ritorno allo stato laicale del figlio maggiore non è l'unico cruccio della vecchia, ma anche l'abbandono del tetto coniugale da parte della figlia Rosa Maria. Ben presto il faro abbandonato diventa il ricettacolo di tutta una serie di "ex", oltre al protagonista: prima Magnolia (la Bobulova), già prostituta originaria dell'Europa dell'Est con la passione del karaoke e sorella di Valbona, la donna delle pulizie di Stella (a sua volta ex ballerina classica); poi Arturo (Scamarcio), il cognato cornuto, pure lui in fuga dalle maldicenze,  aspirante musicista del genere raffinato, da sempre in conflitto col padre (malato terminale, l'ottimo Giorgio Colangeli), anche lui musicista però da matrimoni e sagre paesane; poi Rosa Maria e Valbona (perché è quest'ultima l'amante misteriosa della sorella di Costantino), per finire con Raffaele e Jennifer, due ex acrobati, che hanno trasformato la disciolta compagnia circense nella "Piccola impresa meridionale" che dà il titolo al film e che si occupa della riparazione del tetto della casa-faro e si porta dietro la piccola Mela, affidata al padre, Raffaele, titolare di questa strampalata impresa di ristrutturazioni. A questa sorta di comune di "ex" qualcosa, una vera a propria famiglia allargata finisce per aggiungersi perfino l'anziana Stella, a sua volta ex insegnante, che si occuperà dell'educazione di Mela per permetterle di conseguire la licenza elementare ed evirare che i servizi sociali tolgano l'affidamento al padre. Happy End d'obbligo ma senza melensaggini, col vecchio faro che viene trasformato, col contributo di tutti e il fondamentale apporto di capitale della ex prostituta, in un originale albergo di charme, il tutto nella forma di un racconto permeato di una malinconica ironia e  dove l'elemento musicale, come già nel precedente film di Papaleo, è fondamentale: la colonna sonora, di alto livello, è affidata alla bravissima Rita Marcotulli, pianista e compositrice jazz di fama e successo. Insomma, a me non è dispiaciuto affatto, e lo consiglio per una gradevole visione.

martedì 29 ottobre 2013

Moneta buona per Renʑi

Nonostante da un pezzo mi sia imposto di non sprecare tempo ed energie per stare dietro alle pagliacciate e astruserie della politica italiana, limitandomi a un quotidiano aggiornamento a volo di gabbiano sui titoli di apertura dei GR e TG meno nocivi, mi è stato impossibile sfuggire alla nuova dizione invalsa per la pronuncia del cognome dell'astro nascente del PD, il Fonzie di Rignano d'Arno, già conosciuto come "Il Rottamatore", insomma Matteo Renzi, anzi: Renʑi, con la zeta dolce, contro qualsiasi regola fonetica, quasi blesa. E' cosa nota che gli addetti ai meʑʑi di disinformaʑione di massa sono peggio dei macachi: basta che cominci uno con un neologismo, un aggettivo o un nomignolo, una nuova inflessione (per esempio pronunciare ts la z di ʑucchero, come si usa in romanesco) e tutti gli altri gli vanno dietro, manco si trattasse di una parola d'ordine (o forse è proprio un ordine di serviʑio): luogocomunismo e banalità sono imperanti nel giornalismo moderno, e in questo campo quello italiota fa scuola. E così, in piena inflaʑione renʑiana, è trascorso l'intero weekend sentendo nominare la "Leopolda", il workshop del suddetto, la tre giorni del suo think tank, e stamattina non ho potuto esimermi dal leggere quanto ne scriveva una penna affidabile come quella di Stefano Feltri del "Fatto Quotidiano", uno che di economica ne capisce, il quale ha opportunamente intitolato il suo peʑʑo "Il programma con il buco intorno". Tutto un programma, per l'appunto: il nulla farsi verbo, ma non ho potuto trattenere uno sghignaʑʑo quando ho scoperto che consigliere del Renʑi, come già lo fu Miguel Gotor per Bersani, nonché ispiratore del suo programma economico (il sindaco di Firenze in materia è uno ʑero assoluto) è un tale che di nome fa Itʑhak Yoram Gutgeld, il cui cognome in tedesco, cui è affine lo yiddish, suona come "soldi buoni" o anche "bene - in senso economico - denaro". Israeliano di nascita, naturaliʑʑato italiano, già direttore della McKinsey, paracadutato in parlamento dal PD (deputato per la 17ª circoscriʑione, quella dell'Abruʑʑo: la coaliʑione si chiamava, evocativamente, Bene Comune), conferma la tendenʑa all'esotismo degli ʑombie, le cui scuole di partito, in tempi non troppo lontani, erano note per sfornare intere legioni di economisti di vaglia (benché nessuno in grado di prevedere neppure lontanamente a quali disastri avrebbe portato il sistema demenʑiale e criminale che studiavano e sostenevano sotto mentite spoglie, seppure con gli opportuni "adattamenti" a una visione marxisteggiante). Oggi si preferisce far scrivere il programma economico per il futuro capo di un governo di svolta direttamente all'ex dirigente di una multinaʑionale di consulenʑa strategica, formatosi in due Paesi, Israele e gli USA, le cui finanʑe pubbliche sono al collasso da decenni. Effetto combinato di lungimiranʑa e globaliʑʑaʑione i cui risultati li stiamo scontando fin da ora. 

domenica 27 ottobre 2013

Frost/Nixon

"Frost/Nixon" di Peter Morgan. Regia di Ferdinando Bruni, Elio De Capitani; traduzione di Lucio De Capitani. Con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Luca Torraca, Alejandro Bruni Ocaña, Claudia Coli, Matteo De Mojana, Andrea Germani, Nicola Stravalici. Scene e costumi di Ferdinando Bruni, Luci di Nando Frigerio, suono di Giuseppe Marzoli. Co-produzione Teatro dell'Elfo e Teatro Stabile dell'Umbria. Fino al 10 novembre al Teatro Elfo/Puccini di Milano
Mantiene pienamente le aspettative l'adattamento da parte del duo Bruni/De Capitani della pièce di Peter Morgan del 2006 (e da cui Ron Howard trasse il film successo omonimo) sul primo vero caso di politica-spettacolo: la serie di interviste che il conduttore TV (e non giornalista) David Frost fece a Richard Nixon nel 1977, tre anni dopo le sue dimissioni, inchiodandolo e facendogli ammettere le proprie responsabilità nel Caso Watergate e diventa al contempo occasione per un duello in scena tra i due dioscuri dell'Elfo, che lavorano assieme da quarant'anni alle fortune del teatro milanese. Del resto lo spettacolo, che per tre quarti si concentra sulle fasi preparatorie e sui retroscena di quella vicenda, e solo per un quarto, quella finale, sulle 4 sessioni di  registrazione delle interviste vere e proprie, si adatta perfettamente alle caratteristiche quasi cinematografiche delle messe in scena dell'Elfo: il paradosso è che in questo caso si parla di TV e della sua potenza, perché solo le riprese televisive, i primi piani impietosi e la conoscenza del mezzo da parte di David Frost (assistito sì da una équipe di agguerriti giornalisti esperti nello "scavare nel fango" che lavorava nell'ombra, ma l'idea delle interviste e la loro conduzione erano esclusiva farina del suo sacco) ottennero il risultato voluto, la "resa" dell'ex presidente, e che i due registi-attori rendono in maniera strabiliante e insieme sobria, senza bisogno di effetti speciali, in uno scambio dialettico fatto di parole, sguardi, espressioni, posture, su una scena che utilizza soltanto due poltrone da ufficio che si trasformano, di volta in volta, in uno studio televisivo d'epoca, in una camera d'albergo, in un'automobile, in complementi d'arredo della villa di Nixon in California. Fu nella realtà (e così viene percepita di chi assiste a teatro) una "sfida all'OK Corral" tra due personaggi che vedevano in queste interviste un'opportunità per riabilitarsi: Frost per imporsi nuovamente sulla scena americana, quella newyorkese in particolare, in cui in tempi passati aveva goduto di una certa notorietà che rimpiange, dopo essere stato "esiliato" nella natìa Inghilterra e in Australia; Nixon, che dopo il coinvolgimento nel Watergate e le forzate dimissioni, aveva perso ogni credibilità politica pur essendo riuscito a evitare un processo, consapevoli entrambi che solo uno ne sarebbe uscito vincitore: per lungo tempo in vantaggio sembra essere l'ex presidente, abile nell'aggirare le domande divagando, portando l'altro sul suo terreno, ossia quello dei suoi meriti, tra cui i successi in politica internazionale, facendo battute di gusto molto "americano" e infarcendo le risposte di aneddoti; Frost abbozza, sembra adattarsi al suo interlocutore e assecondarlo, anche troppo secondo i suoi assistenti ma, conscio dei meccanismi televisivi, rimane fiducioso e sicuro di essere in grado di sferrare il colpo del KO al momento opportuno, che si presenta nell'ultima sessione di interviste quando uno dei suoi collaboratori gli fornisce alcune prove inconfutabili del coinvolgimento diretto di Nixon nello scandalo Watergate trovate peraltro in un archivio pubblico a Washington. De Capitani, che già aveva interpretato magistralmente Berlusconi ne "Il caimano" di Moretti in una delle sue rare escursioni sul grande schermo, è  perfetto nei panni di un Nixon furbo, bugiardo, vanitoso, avido e mai domo ma consapevole; altrettanto Bruni in quelli di Frost, uomo di spettacolo ambizioso, modaiolo, un po' frivolo, sornione, e sono degnamente assecondati dal resto della compagnia, con una nota di merito speciale per Andrea Germani (uno dei reporter che collaborano con Frost) e  Nicola Stravalaici (un militare assistente di Nixon). Uno spettacolo da non perdere, che svela gli intrecci tra potere mediatico e politico, le menzogne e i trucchi che lo accompagnano, e in cui chiunque può vedere riflessi gli accadimenti di casa nostra di questi tempi grami. 

giovedì 24 ottobre 2013

La prima neve

"La prima neve" di Andrea Segre. Con Jean Christophe Fully, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterrutzner, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon, Sadia Afzai. Italia 2013 ★★★★
Si conferma in questo suo secondo lavoro di fiction, dopo Io sono Li, il bravo documentarista veneziano Andrea Segre, affrontando con la consueta sensibilità e attenzione i temi dell'immigrazione e della perdita, collocandoli, con molta precisione e armoniosamente, in un ambiente umano e naturale particolare e suggestivo. Nel film precedente si trattava della comunità di pescatori di Chioggia e l'habitat circostante era la Laguna veneta, qui la Valle dei Mocheni con i suoi boschi dai colori struggenti, che si imbocca da Pergine Valsugana in Trentino, abitata fin dal Medioevo da una popolazione proveniente dalla Baviera e che ha conservato il proprio patrimonio linguistico. E' qui che finisce Dani, proveniente dall'inquieto e malsicuro Togo, da cui è fuggito per lavorare in Libia, che ha a sua volta abbandonato su un barcone in seguito al caos seguito alla caduta di Gheddafi: vi è giunto assieme alla figlia ancora in fasce, con la quale ha un rapporto estremamente perturbato perché gli ricorda troppo l'amatissima moglie Layla, morta di parto in seguito alle vicissitudini del viaggio per mare, e della cui scomparsa in fondo attribuisce la colpa alla bimba. Vittima di sensi di colpa e solitudine, riesce tuttavia a integrarsi nella comunità locale, lavorando presso un anziano e saggio falegname e apicultore (lui stesso era un intagliatore di legno) ed entrando in confidenza con il nipote di lui, Michele, un ragazzino di circa dieci anni, segnato anche lui dalla perdita improvvisa del padre, vittima di un incidente di montagna, di cui non riesce a darsi pace dandone la responsabilità alla giovane madre, la brava Anita Caprioli. Chiusi entrambi nel loro dolore che non riescono ad esprimere con gli altri, entrano man mano in confidenza durante lunghe escursioni nei magnifici boschi della zona, e si crea un rapporto di totale fiducia tra loro: Dani, che attendeva soltanto che gli rilasciassero il permesso di soggiorno che gli permettesse di raggiungere la meta che si era prefisso, Parigi, da solo, lasciando che la figlioletta fosse adottata da una famiglia italiana, perché consapevole di avere con lei un rapporto turbato dal ricordo e nella speranza che possa avere un futuro migliore, finisce per rivedere i suoi propositi, rendendosi conto, come gli diceva il vecchio apicoltore, che "le cose che hanno lo stesso odore si appartengono", nonostante tutto. Non è il classico e melenso happy-end ma lo sbocco di un percorso sofferto che ha luogo dopo il confronto con Michele e l'accoglienza da parte di una comunità che lo accetta senza le sfumature razziste che avevano accompagnato le vicende della cinese Li nel film precedente di Segre. Che non si ripete, nonostante le analogie tra i due film, perché racconta le due vicende, che sono sì d'immigrazione ma anche e soprattutto di persone, sotto un'angolatura diversa. Fa il bis, però, in quanto a credibilità e bravura: un film poetico, profondamente umano, calibrato al punto giusto e mai melenso; d'attualità, per i valori che esprime raccontando una storia e facendo parlare i personaggi (tutti bravissimi gli interpreti) a prescindere dalle tristi vicende dei naufragi di disperati di questi tempi.

sabato 19 ottobre 2013

Gloria

"Gloria" di Sebastián Lelio. Con Paulina García, Sergio Hernández, Marcial Tagle, Fabiola Zamora, Diego Fontecilla, Antonia Santa Maria. Cile, Spagna 2013 ★★★
Un buon film, ben girato e interpretato splendidamente da Paulina García, peraltro ottimamente coadiuvata da Sergio Hernández: una cinquantottenne separata da tempo, con due figli ormai grandi e indipendenti che, ancora piena di energie, frequentando feste e discoteche per single, è alla ricerca di un nuovo amore. E lo trova in Rodrigo, un coetaneo, come lei separato ma da poco, di fatto ancora intrappolato in un rapporto di dipendenza dalla moglie e dalle due figlie che ancora vivono con lei: nonostante la forte attrazione anche sessuale tra Gloria e Rodolfo, sarà la sua meschinità e dipendenza biunivoca a far saltare il loro rapporto proprio in un'età in cui potrebbero, e dovrebbero, sentirsi finalmente liberi da qualsiasi "dovere" sociale. E' anche un film molto cileno: descrive con rara efficacia una borghesia che non ha mai voluto mostrarsi molto, né al cinema né altrove, avendo parecchi scheletri nell'armadio da nascondere per essere vissuta e prosperata all'ombra del regime di Pinochet: Rodrigo stesso è un ex militare (della Marina, però, tiene a precisare, come se fosse una scusante), e nonostante la sua timidezza e i suoi modi da gentleman impacciato ha finito per occuparsi di un parco di divertimento per adulti dove si gioca alla guerra simulata. Mai si parla apertamente di politica e meno che mai del proprio coinvolgimento e dei propri silenzi in una dicta-dura che non sembra mai veramente trascorsa, in questo ambiente: e nel film viene magistralmente rappresentata, non so quanto consapevolmente, proprio questa fascia di società imbalsamata, perbenista, ipocrita, autocensurata che ha da sempre, e sempre di più, in mano le ricchezze e le leve di un Paese dai contrasti sociali fortissimi: laboratorio negli anni Settanta e Ottanta per le teorie monetariste dei "Chicago Boys", il Cile è da tempo all'avanguardia nel liberismo più sfrenato. La Santiago che si vede nei film è quella benestante dei quartieri alti (anche in senso non figurato) e settentrionali; non vi è un accenno a quelli sud-occidentali, non si vedono quasi facce meticce e meno che mai indigene (così come nei film di newyorkesi di Woody Allen non c'è verso di vedere un nero): è un mondo ibernato, dove la comunicazione interpersonale è improntata al formalismo più rigido e alla frigidità, e dove un personaggio come Gloria, pur borghese fino al midollo, diviene un elemento di vitalità. Merito del film, oltre a farci conoscere una grande attrice, è però soprattutto quello di affrontare con grazia ma senza ipocrisie un tema come l'amore e il sesso  a sessant'anni, ricordando che non è con l'avanzare dell'età che per forza devono diminuire i sogni e la voglia di vivere, e offrire un ritratto a tutto tondo, nelle sue mille sfaccettature, di una "giovane" donna di mezza età, grazie a una recitazione calibrata alla perfezione e attenta a ogni sfumatura di una attrice davvero speciale.

giovedì 17 ottobre 2013

Priebke: antinazifascismo strabico e inutile

Ora: io posso anche capire l'incazzatura dei cittadini albanesi (sic) per i funerali di Erich Priebke che avrebbero dovuto tenersi martedì nella loro città, ma non giustifico e anzi mi procura un senso di disagio e fastidio il comportamento del manipolo di pasionari che, come colti da raptus, si sono accaniti contro il carro funebre che trasportava il feretro assalendolo a calci e pugni, invece di sfogare la loro rabbia contro il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che prima aveva autorizzato la cerimonia funebre nel monastero di San Pio X, presidio dei seguaci di Lefebvre, per poi revocare il permesso (è lo stesso alto funzionario responsabile delle manganellate al corteo degli studenti del 14 dicembre 2010 a Roma e dei successivi incidenti nonché del recente affaire Shalabayeva; era stato lui a firmare il decreto d'espulsione per la moglie e la figlia del dissidente kazako; e a un personaggio simile è affidato l'ordine pubblico nella capitale in vista delle manifestazioni di domani e, soprattutto, sabato: quindi non ci si stupisca di quanto potrà accadere). Insomma, se la sono presa con un un morto invece che con un vivo, colui che ha creato l'imbarazzante situazione. Un gesto non propriamente eroico e una protesta sterile, oltre che grottesca e francamente ripugnante. Sarebbe stato più comprensibile cercare di malmenare l'immancabile gruppo di neonazi e nostalgici di varia ispirazione che considerano Priebke un eroe, prontamente radunatisi in occasione delle esequie e immancabilmente protetti con solerzia dalle cosiddette forze dell'ordine, e perfino se qualche sempiterno resistente, magari parente di una delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine (10 per ogni tedesco ucciso nell'attentato di via Rasella), avesse affrontato l'ex capitano delle SS durante una delle sue passeggiate alla Balduina, dove era agli arresti domiciliari, facendosi giustizia da sé. Invece è stato mantenuto in vita, a nostre spese, dal rientro in Italia nel 1995 fino alla morte avvenuta qualche giorno fa, a cento anni suonati: avrei preferito che qualcuno gliel'avesse fatta pagare prima, tanto per chiarire quanto non abbia alcuna pena né comprensione per questo nazista mai pentito e anzi ostinato e orgoglioso di esserlo. A prescindere dal fatto che responsabile principale dell'eccidio delle Fosse Ardeatine fu Herbert Kappler, in quanto comandante della Gestapo a Roma dall'inizio del 1944 (e che se Priebke si fosse opposto ai suoi ordini sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi camerati), ci si dimentica che si era in guerra e che, per quanto crimine contro l'umanità (e, appunto, di guerra, ma sanzionato "a posteriori"), la rappresaglia è praticata anche oggi, impunemente, pure e soprattutto da chi dei diritti dell'umanità si autoproclama paladino, persino in situazioni di belligeranza non dichiarata. Non concordo con tutto quanto scrive Fulvio Grimaldi nel suo post su "Mondocane", ma i fatti a cui si riferisce non sono inventati né le cifre indicate iperboliche: "Crimine di guerra e contro l’umanità, quello di Priebke, da valutare in rapporto al progresso della civiltà e dei diritti umani nell’era democratica post-nazista, che ha visto i presidenti della più grande democrazia del mondo, Bush e Obama, ammazzare, a occhio e croce, 1000 civili per ogni cittadino Usa polverizzato nell’operazione attribuita a nemici islamici dell’11 settembre 2001. Clamori portati al diapason dal solista del coro, Pacifici, presidente della comunità ebraica, che, con logica coerente, serba il più stretto riserbo sui 3000 e passa palestinesi, donne, bambini, anziani, fatti massacrare a Sabra e Shatila dal comandante Ariel Sharon. E poco gli interessa il rapporto tra 1.450 palestinesi uccisi a Gaza da Piombo Fuso, in parte bruciati vivi dal fosforo bianco, e i 15 israeliani colpiti dai razzi della Resistenza, occasione nella quale si è passati dall’orrenda decimazione nazista, all’equilibrata centimazione dell’ 'unica democrazia del Medio Oriente'". Ma anche su questi particolari si sorvola allegramente. Inevitabile la consueta figura di merda a livello internazionale, con uno Stato incapace perfino di gestire un cadavere se non in maniera incongrua e ridicola, mentre probabilmente sarebbe stato sufficiente cremare la salma, consentire una cerimonia privata ai famigliari più stretti e, in mancanza, consegnare le ceneri all'ambasciata tedesca e che si arrangiassero i diplomatici della cancelliera Merkel e il suo governo. Ma siccome siamo in Italia, ci si mettono anche gli orfani della Resistenza (sentire il sindaco Marino abbandonarsi alla retorica di "Roma città antinazifascista", e questo dopo un quinquennio alemanniano-rautiano al Campidoglio, è quantomeno incongruo) col risultato, paradossale, di mantenere in vita il ricordo di Priebke e di un mondo ormai morto e sepolto, senza riuscire a vederne gli eredi che sotto mentite spoglie, vivi e vegeti, sono costantemente e tenacemente all'opera in quello attuale. 

martedì 15 ottobre 2013

Mare nostrum o mare eorum?

Grandi peana e suoni di fanfara per l'avvio dell'operazione Mare Nostrum, così battezzata in un impeto di megalomania e con grande sprezzo del ridicolo, come se il Mediterraneo non fosse dal dopoguerra la pozza in cui sguazza la Sesta Flotta USA, la cui base nonché comando si trovano, per chi non lo sapesse, a Napoli, e a cui la nostra Marina e quelle degli altri Paesi alleati non fanno altro che da supporto. Operazione di carattere militare e umanitario, come se non si trattasse di un ossimoro, che "prevede il rafforzamento del dispositivo di sorveglianza e soccorso in alto mare per incrementare il livello di sicurezza delle vite umane", secondo le parole del ministro della Difesa Mario Mauro. Due le domande che sorgono spontanee: perché non prima, dato che sono più di vent'anni che centinaia di imbarcazioni all'anno fanno rotta verso le nostre coste, incorrendo puntualmente in incidenti facilmente prevedibili che finiscono per causare vere e proprie stragi di innocenti? E perché non c'è mai stata una volta che le navi e i relativi equipaggi della suddetta Sesta Flotta, che incrociano diuturnamente sulle rotte utilizzate dai moderni negrieri e sono dotate dei più sofisticati mezzi di rilevamento e comunicazione, siano intervenuti, prestando soccorso ai naufraghi o lanciando quantomeno degli allarmi tempestivi? Eppure sono il braccio operativo di governi, di qualsiasi orientamento siano, che col pretesto di garantire ed espandere i diritti umani non esitano a imbracciare le armi e intervenire negli affari interni di un altro Paese; da queste parti, tramite la NATO, bombardando proprio la Libia, solo due anni fa, allo scopo di far cadere ed eliminare Gheddafi, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti, anche se quasi nessuno ne parla. Meno che mai i mezzi d'informazione italiani. 

domenica 13 ottobre 2013

La vera invasione degli extracomunitari e alieni

Per gentile concessione di Enzo Apicella
Questi sono sbarcati da oltre settant'anni, godono di extraterritorialità rimanendo impuniti per qualsiasi malefatta, usano l'Italia come piattaforma di lancio delle loro criminali e sanguinarie imprese di "esportazione di democrazia", "civiltà" e american way of life, e nessun governo nostrano, e tantomeno l'UE, si è mai sognato di respingerli e levarceli dai coglioni. E se qualcuno obietta che ci hanno "liberati", ricordo che il risultato è stato occuparci, a nostre spese, ridurci a poco più di una loro colonia e imporre un modello socio-economico demenziale che farà saltare in aria anche loro, con l'augurio che questo avvenga prima che questi mentecatti paranoici facciano saltare per aria l'intero globo.

venerdì 11 ottobre 2013

Lo scafista e lo schifista

Lo scafista è il braccio esecutivo, protagonista della fase finale della tratta di umani che quotidianamente dalle sponde africane e talvolta mediorientali del Mediterraneo porta frotte di migranti a quelle europee e italiane in particolare: l'unico visibile, che ogni tanto viene colto in flagrante, arrestato e qualche volta perfino condannato (le pene, di cui raramente si ha notizia, si aggirano attorno ai sette anni di reclusione) mentre le altre figure coinvolte, dagli organizzatori "a monte" ai complici nelle forze di sicurezza dei vari Paesi d'uscita (e probabilmente anche d'entrata) inevitabilmente coinvolti, rimangono puntualmente nell'ombra e nessuno si cura di andarle a scovare e smascherare. Il fenomeno nel suo complesso, e mi riferisco sia alle migrazioni sia alla tratta degli schiavi, non è soltanto locale né attuale: si verifica al giorno d'oggi anche nel Continente australiano e in quello americano, vedi la frontiera tra USA e Messico, e le reazioni nei Paesi d'entrata sono ovunque improntate al contempo all'isteria isolazionista e allarmistica come alla rimozione, ossia al menefreghismo. Gli USA, che si pongono come modello di civiltà, di diritti umani e di democrazia da esportare a livello globale, del resto si sono fondati sul genocidio degli indigeni e la schiavitù d'importazione, e le prime leggi serie contro la discriminazione razziale si sono avute soltanto durante gli anni Sessanta del secolo scorso, unica breve stagione di progresso e di speranza in un'epoca tutto sommato buia che perdura. Lo scafista, insomma, è una personaggio che è sempre esistito: un tempo lo si chiamava negriero. Lo schifista, invece, è una figura del tutto nuova, anche se altrettanto repellente, che opera sul piano politico e mediatico nazionale (anche se disprezza, non a torto, i giornalisti italiani), eterodirige il movimento (5 Stelle) più votato alle ultime elezioni politiche e i suoi gruppi parlamentari, vive appartato in una bella villa a Sant'Ilario nell'entroterra genovese quando non veleggia per mare con lo yacht: è la navigazione, con le conseguente consuetudine con l'elemento marino che ha in comune con lo scafista (e pure una certa  esperienza in naufragi) oltre che il lucrare, per quanto metaforicamente, sulla pelle dei disgraziati che provano a raggiungere l'Italia (il più delle volte come tappa intermedia, per proseguire verso lidi più accoglienti: ma questo evita di dirlo). Mi riferisco, com'è evidente, a Beppe Grillo, e alle posizioni assunte nei confronti dell'emendamento presentato da due senatori del M5S (o meglio portavoce, secondo il lessico suo e del degno socio Gianroberto Casaleggio) sull'abolizione del reato di clandestinità (un controsenso concettuale e giuridico che fa il paio con obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione) perché "non faceva parte del programma votato da parte di otto milioni e mezzo di elettori". Tra cui io, lo ammetto: che però prima che un programma (condivisibile in buona parte, ma anche velleitario e incompleto) avevo votato per una rappresentanza parlamentare che fosse in grado di fare opposizione (indipendentemente dal fatto che un ordine del giorno o un disegno di legge da discutere in aula fossero contenuti nel programma del M5S oppure no) e comunque scompaginasse le carte in un quadro politico mummificato oltre che di malaffare come quello nostrano. Finora, a parte le insicurezze e la confusionarietà delle prime settimane, ho anche avuto modo di apprezzare l'operato dei deputati e senatori del M5S, mentre mi fa sempre più imbestialire quello dello schfista e quello del suo compare. "Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l'abolizione del reato di clandestinità, presente in Paesi molto più civili del nostro, come la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (in cosa consista questa "molto maggiore civiltà", specie degli USA, i due maggiorenti del MoVimento non lo dicono, ndr), il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico", ha avuto il coraggio di scrivere il Duo Meschino, ed è vero che durante la campagna elettorale certi vellicamenti dell'umore dell'elettorato para-leghista e forzitaliota erano stati motivo fino all'ultimo dei miei dubbi sul voto ai pentastellati, che non avrei dato se le loro posizioni in proposito di fossero appalesate fin da subito con chiarezza. "Questo emendamento è un invito agli emigranti dell'Africa e del Medio Oriente a imbarcarsi per l'Italia. Il messaggio che riceveranno sarà da loro interpretato nel modo più semplice: La clandestinità non è più un reato", concludono, tralasciando che l'esistenza della Legge Bossi-Fini, in vigore dall'estate del 2002, e che ha previsto il reato di clandestinità, non ha impedito da allora, e sono 11 anni, l'arrivo in Italia di centinaia di migliaia di migranti, di cui si stimano in almeno mezzo milione gli irregolari, e questo al costo di diverse migliaia (una stima per quanto vaga è impossibile) di morti annegati. I vellicamenti di cui sopra, in campagna elettorale, erano consistiti in riferimenti più o meno larvati all'assistenza che lo Stato italiano offrirebbe agli stranieri per negarla agli italiani; nella contrarietà alla concessione della cittadinanza in base allo ius solis o alla residenza (regolare e continuativa) da meno di dieci anni, per non parlare del diritto di voto (che, in un Paese davvero civile, dovrebbe essere legato al pagamento dei contributi); nell'abusato ritornello del "lavoro che viene tolto agli italiani" e nelle strizzatine d'occhio ai bottegai, ai micro-imprenditori e in genere ai piccolo borghesi alla ricerca del Perón di turno, terreni di caccia al voto privilegiati per il nostro schifista da sbarco e da diporto, evitando accuratamente di dire che è attraverso l'utilizzo spregiudicato di una manodopera mansueta e ricattabile proprio perché clandestina e quindi penalmente perseguibile che si è fatto dumping salariale mettendo alle corde la manodopera italiana, abbassando sempre più al contempo i livelli di garanzie e diritti di tutti: ma invece di dare la caccia a chi utilizza e sfrutta il lavoro degli "irregolari", facilmente individuabili nelle campagne come nei laboratori e nei cantieri delle grandi città, si preferisce prendersela con i migranti appena sbarcati, e magari freschi reduci da un naufragio o da un incendio come a Lampedusa otto giorni fa, immediatamente riconoscibili come "clandestini" e trattati irremovibilmente come tali. In quest'ottica, cinicamente elettorale, si comprende anche come per il Conducator a Cinque Stelle, sempre più un clone di Berlusconi in versione aggiornata, la rimozione del cosiddetto "Porcellum" sia tutt'altro che una priorità, con il proposito esplicito di raggiungere così l'agognato 51% dei seggi parlamentari, tutti occupati da meri portavoce ed esecutori indicati e di fatto nominati direttamente da lui e da Casaleggio così come dai politburo dei tanto esecrati partiti. A cui il M5S concepito da il Gatto e la Volpe 2.0 è diversamente uguale.

lunedì 7 ottobre 2013

Anni felici

"Anni felici" di Daniele Luchetti. Con Micaela Ramazzotti, Kim Rossi Stuart, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Nicolò Calvagna, Benedetta Buccelato, Pia Engleberth. Italia, Francia 2013 ★★★½
Leggendo alcune critiche non particolarmente entusiaste, temevo di andare a vedere una sorta di bis de "La prima cosa bella", quello che tra i film di Paolo Virzì è stato quello che mi è piaciuto di più, ma pur essendo anche"Anni felici" autobiografico, e Luchetti pressoché coetaneo del regista livornese, sono diversi le storie, gli ambienti, pur se filtrati dagli occhi qui di un ragazzino che aveva 10 anni nell'estate del 1974, là da un bambino di qualche anno più giovane alla fine dei mitici Sessanta. Uguale è la protagonista femminile, Micaela Ramazzotti, che tra l'altro è la moglie e musa di Paolo Virzì, che dimostra la sua versatilità risultando perfetta nella parte in entrambe le pellicole. Qui siamo a Roma, e testimoni delle vicende coniugali  di Guido e Serena, insegnante all'Accademia di Belle Arti lui, scultore concettuale, anticonformista e alquanto velleitario che si sente ingabbiato (ma all'occorrenza rassicurato) dall'ambiente borghese di lei, figlia di commercianti benestanti, innamorata persa del fascinoso marito artista quanto poco interessata all'arte, e gelosissima a causa dei costanti tradimenti di Guido con le modelle su cui lavora nel suo laboratorio. Siamo nell'estate che segue il referendum sul divorzio, in piena epoca di rivendicazioni femministe, e alle istanze di Guido di vivere liberamente il rapporto di coppia lei risponde seguendo il consiglio di Elke (Martina Gedeck), la gallerista dello scultore, partendo con lei e un gruppo di donne che, con i loro figli verso la Camargue, per trascorrere le ferie in una sorta di comune. Mentre Guido si sentirà abbandonato, Serena comincia a riflettere sul rapporto col marito e il suo grado di autonomia e, per ironia della sorte, finisce per innamorarsi di Elke. Tradizionalista com'è, per lei non esiste la trasgressione senza amore, mentre le scappatelle di lui sono senza importanza, e questo farà la differenza nell'evoluzione del rapporto tra i due. Che cambierà direzione e modalità dopo il chiarimento, pur rimanendo viva un'attrazione erotica fortissima e un affetto profondo, ed entrambi i protagonisti si sbloccheranno, lui da un punto di vista artistico, lei da quello personale. Presi come sono dalle loro schermaglie non si accorgono della presenza e delle esigenze dei figli, in particolare di quella di Davide, l'alter ego del regista, già da allora con la cinepresa (Super8) in mano, né che quelli, pur conflittuali, erano davvero anni felici. E non posso che concordare con Luchetti: il 1974 in particolare!

sabato 5 ottobre 2013

Migranti: guardare oltre il proprio naso


Applausi scroscianti ad Alfano, ieri alla Camera dei deputati quando, riferendo sulla strage di migranti avvenuta sulla coste di Lampedusa, il ministro degli Interni nonché vicepresidente del Consiglio ha così esordito: "La rabbia, l'indignazione, il senso di impotenza mi impongono di unirci al grido di papa Francesco, a quel 'Vergogna!' che credo sia un sentimento collettivo. Non vi è alcuna ragione per pensare che quanto accaduto ieri a Lampedusa sia l'ultima volta". Tutti a far finta che quel "vergogna" pronunciato dal pontefice non fosse rivolto al governo italiano e a un parlamento che ha votato la legge Bossi-Fini in vigore (e prima quella Turco-Napolitano che ne è stata la matrice) ben guardandosi dal modificarla. "Nella storia non c'è mai stato uno Stato, una unione di Stati, che non abbia assunto su di sé la responsabilità di proteggere la propria frontiera. Uno Stato che non protegge la frontiera non è uno Stato: l'Europa deve decidere se essere o non essere. Con il semestre italiano, porremo con grande attenzione il tema strategico di un'Italia come plancia del Mediterraneo". Bisogna poi intervenire, ha proseguito, "su Frontex, il sistema europeo per la protezione delle frontiere: questo mare segna il confine tra l'Africa e l'Europa, non tra l'Africa e la Sicilia. E quindi va protetto con aerei e navi europei in modo più efficace di quanto avviene ora. Così c'è anche meno rischio di morti". Il tema, ha detto ancora Alfano, "lo porrò lunedì e martedì a Lussemburgo quando incontreremo il commissario europeo Cecilia Malmstrom e gli altri ministri del Continente". In sostanza si tratterebbe innanzitutto di un problema di protezione dei confini, attraverso una sorveglianza più attenta e nutrita e, s'intende, adeguatamente armata, e questo ragionamento non sono solo Alfano e i vari governanti della "civilissima" Europa a farlo, ma anche la stragrande maggioranza dei commentatori. Quando si passa alle cause delle ondate migratorie, il mantra che si ascolta è la "ricerca di democrazia e benessere", ossia proprio ciò, se non ricordo male, che ci si propone di esportare con le "guerre umanitarie" teorizzate dagli USA e generalmente sostenute dai maggiori membri dell'UE, vedi Irak o, in tempi più recenti, Libia e Siria. Guarda caso è la Libia (Misurata nel caso del barcone andato a fuoco e poi affondato a Lampedusa l'altroieri) il principale porto di partenza di questi disperati, provenienti per la gran parte dal Corno d'Africa (dove l'Italia ha peraltro responsabilità storiche) ma anche dalla Libia e, ultimamente, proprio dalla Siria in preda alla guerra civile scatenata dai "rivoluzionari" anti-Assad. Siriani che erano rarissimi quando costui era saldamente al potere così come pressoché nulli erano quelli libici prima che Gheddafi fosse abbattuto dall'intervento occidentale: è evidente a tutti la "sicurezza" della Libia da allora, così come il suo ruolo nel traffico di esseri umani. Sempre per rimanere in argomento, nessuno che si chieda come mai i sofisticatissimi mezzi capaci di intercettare ogni minimo movimento a terra grazie a satelliti e telecamere potentissime quando si tratta di "terroristi" o di truppe asservite a tiranni anti-occidentali non siano in grado di vedere il movimento di intere carovane di migliaia di persone  che attraversano le desertiche regioni tra il Mar Rosso e la Libia per essere poi caricate sulle bagnarole in rotta verso le coste settentrionali del Mediterraneo. Cecità ad hoc? Per non parlare dell'opportunità di convertire le guerre umanitarie in soccorsi umanitari: eventualità che non viene nemmeno presa in considerazione, salvo alzare alti lai e autoflagellazioni a base di vergogna e "mai più si ripeta", veri inni all'ipocrisia, a ogni notizia di naufragio. L'ultima trovata è chiedere che venga attribuito il premio Nobel per la Pace all'isola di Lampedusa: col precedente di Obama siamo a posto. Ma questo è tutto fumo negli occhi, gettato a profusione,  per nascondere l'evidenza nonché sviare l'attenzione dal fatto che ci stanno prendendo per il culo, ossia che le ondate migratorie, che sono sempre esistite, derivano da uno squilibrio, divenuto insopportabile, tra chi ha di più e chi ha di meno, oppure niente, e quindi non ha più nulla da perdere; e quelle attuali, dalla tanto lodata e propugnata globalizzazione, ossia esportazione, anche forzata e con qualsiasi pretesto (democrazia, diritti umani, progresso) di un modello e di un conseguente sistema, quello basato su un mercato senza limiti, in via di implosione anche laddove è stato creato, e l'esempio l'abbiamo proprio in questi giorni negli USA con il grottesco shutdown che blocca l'attività degli uffici pubblici (con relativo taglio degli stipendi del personale: lì non esiste la cassa integrazione) a causa del mancato accordo sull'innalzamento del tetto del debito (il cui regolare sforamento è di per sé segno di un sistema economico che non funziona nemmeno secondo le regole che esso stesso si è dato, tant'è vero che l'UE ci ha imposto di inserire l'obbligo del pareggio di bilancio nella Costituzione): se non dovesse essere raggiunto entro il 17 di questo mese, la conseguenza sarebbe la dichiarazione di insolvenza, il cosiddetto default, né più né meno come quello dell'Argentina del 2002, con la differenza che a dichiararlo sarebbe la superpotenza americana, paladina del sistema di cui sopra, detentrice del maggior debito pubblico al mondo nonché stampatrice della moneta internazionale finora di riferimento. Il risultato sarebbero una crisi finanziaria e una recessione in confronto alla quale quella che stiamo subendo dal 2008 si rivelerebbe uno scherzo. Però lorsignori, pur predicando la globalizzazione a ogni pié sospinto, stanno a menarcela con la protezione delle frontiere: qui, negli USA ai confini col Messico, in Australia rispetto all'"invasione" asiatica, pronti ad innalzare muri che, inevitabilmente, sono destinati a crollare. 

venerdì 4 ottobre 2013

Gravity

"Gravity" di Alfonso Cuarón. Con Sandra Bullock, George Clooney. USA, GB 2013 ★★★-
Presentato come una sorta di capolavoro del genere fantascientifico-umanista, questo film ha due indubbi meriti: la spettacolarità visiva, perché le immagini della Terra a 600 chilometri di distanza elaborate con maestria attraverso la computer-grafica sono di grandissimo impatto e di per sé stesse emotivamente coinvolgenti, e il fatto di non indulgere alla visione tipicamente yankee dello spazio come un'immenso Far West palestra per le bravate dell'homo americanus e la costruzione del suo mito (di cartapesta). Il plot è semplice e adusato: la dottoressa Ryan Stone è alla prima missione su una stazione orbitante, alle prese con una serie di riparazioni assieme all'esperto tenente pilota Matt Kowalski e a un tecnico asiatico, quando un uragano di detriti si abbatte sulla stazione, uccide il terzo e i due protagonisti, interpretati da Sandra Bullock e George Clooney, rimangono isolati nello spazio, senza collegamenti con Houston, con carenza di carburante e ossigeno, cercando in ogni modo di rientrare alla base. In questa situazione da Can You Hear Me, Major Tom, il navigato e filosofico Matt Kowalski, un Clooney se possibile più gigione del solito ma sempre simpatico e umano, costantemente celato sotto al casco tranne in un'occasione quando apparirà come fantasma nella mente annebbiata di Stone aspirante suicida, cerca di infondere calma e coraggio alla scienziata, sempre sull'orlo di una crisi di panico e in preda a strazianti ricordi del passato (una figlia persa quando aveva quattro anni per un tragico quanto stupido incidente), tanto da darle la forza di resistere anche quando lui si sacrifica sganciandosi e decidendo di andare alla deriva nel vuoto perché è l'unica speranza perché uno dei due, ossia lei, si salvi; e poi, da fantasma appunto, quando lei sarà sul punto di rassegnarsi e di farla finita. E naturalmente lei si salverà, balzando da una Soyuz russa a un'altra stazione orbitante questa volta cinese, in una serie di sequenze mozzafiato quanto improbabili ma di grande efficacia, dalla quale si disancorerà per rientrare sulla Terra a bordo di una capsula lì lì per incendiarsi che finirà provvidenzialmente paracadutata in un lago. L'aspetto stupefacente è che una star come Clooney si presti a fare da spalla alla vera protagonista, la Bullock, una delle attrici più insulse della scena mondiale e che si conferma tale, immancabilmente, anche in questa occasione, scelta con ogni probabilità perché è l'immagine vivente del perdente senza talento, che in questo caso trova miracolosamente in sé stesso la forza di non lasciarsi andare e lottare per la sopravvivenza. Come si vede, l'americanata è sempre in agguato, a cominciare dai dialoghi ruffiani e finto-dislnvolti conditi da umorismo in salsa texana, ma dal punto di vista dell'intrattenimento e della tensione la pellicola regge, con il pregio di non menare il torrone per più di un'ora e mezzo. Insomma, 2001 Odissea nello spazio o Solaris, per restare in tema di distanze siderali, rimangono distanti anni luce.

giovedì 3 ottobre 2013

The Spirit of '45

"The Spirit of '45" di Ken Loach. GB 2013 ★★★★★
Questo è un documentario. Non quell'esercizio di stile pretenzioso ed estetizzante, asettico quanto privo di contenuti che è Sacro GRA. Parla di passioni autentiche, sofferenze, lotte, conquiste e sconfitte, e di una speranza che non muore; dando voce a persone vere, testimoni a protagonisti di un'epoca che vide, con la vittoria del Labour di Attlee e Bevan su Churchill appena finita la Seconda Guerra Mondiale, per la prima volta al governo in Gran Bretagna un movimento socialista, che durante il suo mandato eresse quello che fu chiamato Welfare State e che a partire dal 1979 in poi, con l'avvento del governo Thatcher e il tradimento del partito laburista e delle stesse Trade Unions, è stato ed è tuttora oggetto di progressivo smantellamento in nome dell'ideologia del profitto innanzitutto, dell'asservimento al "libero mercato" e in nome dell'individualismo più sfrenato. Tutto il contrario delle parole d'ordine che dominavano l'epoca del Dopoguerra descritto dalla pellicola, dove solidarietà, condivisione, comunità e partecipazione erano i valori che animarono la ricostruzione postbellica nel segno di un riscatto e affrancamento dalle condizioni miserevoli che affliggevano la classe lavoratrice nel suo insieme dai tempi dell'inizio della Rivoluzione Industriale, e che ebbero il loro culmine nel periodo tra le due guerre, dominato da livelli di disoccupazione e dalle perverse conseguenze di un "mercato" lasciato allo stato brado che ricordano da vicino la situazione odierna. Quel governo diede vita al Servizio Sanitario Nazionale (con il rivoluzionario passaggio dalla medicina curativa alla prevenzione), procedette alla nazionalizzazione dei trasporti e del settore energetico (gas ed elettricità), avviò il piano abitativo (council housing), in poche parole rese effettivamente beni comuni quelli che si definiscono "monopoli naturali", quelli che è necessario, nonché economicamente conveniente, siano pubblici. Non è imparziale, e ci mancherebbe anche altro che lo fosse, questo film di Ken Loach, esemplare nella sua asciuttezza, stilisticamente perfetto nel bianco e nero delle testimonianze di chi c'era, che si amalgama con quello degli abbondanti documenti d'epoca, ma soprattutto necessario in un momento come quello attuale, e ancor di più in un Paese smemorato come il nostro. Last but not at least, dato che è in lingua originale e sottotitolato, è un'occasione da non perdere per ascoltare e fare esercizio con la lingua inglese parlata dalla gente comune nell'isola in cui nacque e non quella paludata delle classi alte o della BBC, e meno che mai quella storpiata dai buzzurri che la violentano nel Coninente Nuovo e in quello Nuovissimo. 

martedì 1 ottobre 2013

The Grandmaster

"The Grandmaster" (Yi Dai Zong Shi) di Wong Kar-wai. Con Tony Leung, Ziyi Zhang, Chen Chang, Xingxiang Wang, Tielong Shang e altri. Cina, Hong Kong 2013 ★★★¾
Si tratta di un film sul kung fu e non di un film di kung fu, e potrà parzialmente deludere i fan del genere; più precisamente è la biografia romanzata di Ip Man, celebre maestro di arti marziali di cui fu allievo Bruce Lee, magistralmente interpretato da Tony Leung. Non che le arti marziali siano semplicemente un pretesto, perché hanno una parte importante nel racconto, che si dipana per un ventennio con sullo sfondo le vicende cinesi tra la metà degli anni Trenta e i Cinquanta e al centro l'amore platonico tra Ip Man e Gong Er, figlia del Grande Maestro Gong Baosen, fuggito dal NordEst della Cina, invasa dai giapponesi, a Fo Shan, dove sceglie il suo successore durante una cerimonia di addio, Ip Man, per l'appunto. Che lo batte durante il combattimento decisivo ma viene a sua volta sconfitto (a causa della sua garbatissima galanteria?) da Gong Er, la brava e bellissima Ziyi Zhang, che dal padre ha imparato una tecnica letale, ma non potrà succedergli perché le arti marziali sono interdette alle donne: diventerà medico. Ip Man proviene da una ricca famiglia di commercianti, è un ottimo padre di famiglia e persona retta, perde però tutto durante la guerra, che raggiunge anche il Sud, insieme alle armate giapponesi e al governo fantoccio che si rifiuta di servire. I due si stimano, ammirano e continueranno a rimanere in contatto; dopo varie vicissitudini, compresa le conseguenze della Lunga Marcia che nel 1949 portò al potere i comunisti, si ritrovano in una casa di tè a Hong Kong nel 1953, dove Gong Er ha aperto uno studio medico e Ip Man la sua celebre scuola di arti marziali, occasione in cui il loro amore troverà finalmente le parole per esprimersi ma sarà troppo tardi per realizzarsi. Se vogliamo un feuilleton (ma non solo), però di gran classe e dove si amalgamano con un accattivante equilibrio generi diversi, che danno come risultato una narrazione fluida, coinvolgente, a tratti emozionante,in cui le mosse di kung fu diventano passo di danza e la disciplina si esprime come una vera e propria forma d'arte. Affascinante l'attenta ricostruzione ambientale - la pellicola è completamente girata in interni -, perfette la fotografia e l'uso delle luci, accattivante la colonna sonora ed eccellenti tutti gli interpreti. A conferma che dall'Estremo Oriente arrivano pellicole interessanti che, pur non essendo capolavori e senza la pretesa di esserlo, garantiscono però intrattenimento di alto livello e tecnicamente non hanno nulla da invidiare alle produzioni holliwoodiane, spesso mera paccottiglia ridicola, con sceneggiature raffazzonate e attori pompati a dismisura quanto scarsamente credibili.