domenica 29 settembre 2013

Sacro GRA

"Sacro GRA" di Francesco Rosi.  Italia, Francia 2013 ½
Riguardo alle polemiche sorte sulla conquista del "Leone d'Oro" a Venezia 70 da parte di questo lungometraggio è bene chiarire da subito un equivoco: non si tratta di un documentario, e quindi la giuria non ha  snobbato le opere cinematografiche propriamente dette, ammesso che le distinzioni di tipologia e di genere abbiano un senso; sempre di film, per di più in formato digitale, si tratta. A mio avviso sono propriamente documentari quelli che documentano (per l'appunto) una realtà, o un personaggio, raccontati da chi cura l'inchiesta o sta dietro la cinepresa, oppure dal protagonista della vicenda. Per fare degli esempi, sono documentari quelli di Michael Moore (Sicko, Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11, per esempio); Super Size Me; The Corporation; La Deuda di Pino Solanas; o anche Shine a Light di Marty Scorsese sui Rolling StonesLa cosa di Nanni Moretti. Perfino Caro Diario, sempre di Moretti, era più documentaristico in senso stretto, di questo Sacro GRA, e sicuramente meno noioso. Francesco Rosi può dire ciò che vuole, ma questo film ha una sceneggiatura, peraltro ben solida, e i personaggi recitano: magari sé stessi, perché "presi dalla strada" e offrendo squarci della loro vita quotidiana, ma chiaramente secondo un copione accuratamente studiato. O almeno è ciò che ho percepito io. Un documentario solitamente rifugge da tutto ciò che è "fiction", qui è tutto chiaramente artefatto. Per certi aspetti, almeno nelle sequenze sulla Roma monumentale meno conosciuta, ha più della docu-fiction un film come La grande bellezza. Lo dimostrano i due anni di riprese per girare attorno ai 90 chilometri del Grande Raccordo Anulare che cinge Roma per rappresentare, attraverso episodi slegati da loro, squarci di vita "marginali" di persone che vivono a ridosso di questa cinta autostradale urbana. Abbiamo un paramedico che vive sulle ambulanze e ha una madre sofferente di demenza senile e un nobile decaduto; il "palmologo" che vive nella convinzione che "la palma ha la forma dell'anima dell'uomo" e il pescatore d'anguille che conosce tutti i segreti del Tevere e vive filosofando; il nobile decaduto finito in una palazzina-lager con la figlia e le vicine che sono passate da uno sfratto all'altro e  si rimbecilliscono davanti alla televisione; un altro nobile che affitta la sua magione come set per fotoromanzi, gli inevitabili transessuali; la coppia di ragazze-immagine che si esibisce sul bancone di un bar di raro squallore e il dj sudamericano che prepara il programma per una fiesta nello spiazzo di un osceno condominio di palazzine caltagironiane. Sostanzialmente, un viaggio attorno al nulla. Se era questo lo scopo, e mostrare qualche bella inquadratura, potevano bastare 45' e magari un anno di riprese in meno. Che poi la giuria di Venezia abbia, come al solito, premiato il film sbagliato, questo va da sé ed è un altro paio di maniche. Per quel che mi riguarda, ingenuamente mi aspettavo qualcosa di più e sono rimasto piuttosto deluso, ma avrei dovuto aspettarmelo, considerando i precedenti dell'ultimo decennio almeno.

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