martedì 10 settembre 2013

Il terrorismo delle "guerre umanitarie"


Rilancio questa esaustiva riflessione del filosofo Eduardo Zarelli sulla questione degli interventi cosiddetti umanitari, quanto mai d'attualità di questi giorni nei confronti della Siria e che mi trova completamente d'accordo, pubblicato su "Il Ribelle", testata on line fondata da Massimo Fini e diretta da Valerio Lo Monaco, il 28 agosto scorso.

L'ennesima terroristica "guerra umanitaria"

«Chi dice umanità cerca di ingannarti»: la massima di Proudhon, risulta tanto lapidaria quanto inoppugnabile nel descrivere in essenza la “guerra umanitaria”, che con la vulgata dei “diritti umani” sorregge ipocritamente l’imperialismo occidentale. L’ideologia liberaldemocratica della humanitarian intervention coincide con una strategia generale di promozione degli “interessi vitali” dei Paesi occidentali, iscritti in un modello parossistico di “sviluppo illimitato” a discapito delle limitate risorse naturali. 



Un progetto esplicito di governo mondiale, portato avanti con cinismo criminale, sui cadaveri di migliaia di morti diretti o indotti nella popolazione (“effetti collaterali”, nella neolingua dei dominanti), che nella spregiudicatezza dell’uso dello strumento bellico, va definito per quello che è: terrorismo. 
La guerra che si autoproclama umanitaria serve non solo a legittimarsi presso la propria opinione pubblica, ma anche a delegittimare il nemico, cui è negata in principio la qualità stessa di “essere umano”. In questo modo, il conflitto può essere combattuto senza alcuna regola e venire spinto fino a ogni estrema conseguenza, compreso l’olocausto nucleare, dato che il “nemico”, come male manifesto, o si redime o si eradica. La barbarie dispiegata era stata ben intesa già nel secondo dopoguerra novecentesco dal giurista tedesco Carl Schmitt, che in un passo profetico così scriveva: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizione dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera e così via. Esso considererà come violenza extraeconomica il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi agli effetti di questi metodi “pacifici”»
La storia che si ripete
Se si adotta un approccio anche solo minimamente realistico, si possono agevolmente individuare le motivazioni effettive delle “guerre globali” dell’ultimo ventennio. Accanto a interessi elementari come l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati, in particolare quelli finanziari, emergono significativamente quelle fonti energetiche, di cui il Medio Oriente è ricchissimo: il petrolio e il gas naturale, anzitutto. Se si pensa alle guerre scatenate dagli Stati Uniti, quindi, non si può che riferirle a un progetto di occupazione neoimperialistica del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale secondo la logica geopolitica, che vede in Oriente – dato il destino di potenza della Cina – lo scenario degli interessi cruciali nell’immediato o forse medio futuro. 
Conferme
Una limpida conferma degli obiettivi reali delle “guerre globali” viene dalle motivazioni formalmente avanzate dalle potenze occidentali; si tratta di motivazioni infondate e sostanzialmente del tutto illegali, come provano le dichiarazioni con le quali la NATO – ma, di fatto, gli Stati Uniti – ha corroborato retoricamente il dispiegamento della forza militare. Il  generale Fabio Mini, già Capo di stato maggiore del comando NATO per il Sud Europa, in un illuminante volume titolato Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, ha scritto in merito: «Falso il pretesto delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che non servivano a chiudere la seconda guerra mondiale, ma a sancire la superiorità sui sovietici. Falso il pretesto dell'incidente di Tonchino, che ha dato il via alla guerra del Vietnam. Falso il massacro di Racak del 1999, che ha fornito il pretesto per la guerra in Kossovo. Falso il pretesto delle armi di distruzione di massa di Saddam, che ha aperto il conflitto in Iraq»; altrettanto può dirsi della guerra contro la Libia, che gli Stati Uniti hanno combattuto in collaborazione con la Francia, l’Inghilterra e l’Italia. Si è trattato di un’aggressione in perfetta  sintonia con quella messa in atto con la guerra per il Kosovo: stesse motivazioni, stessi obiettivi “umanitari”, stessa NATO, sempre pronta a bombardare senza limiti Paesi e città. È sufficiente una rapida lettura della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011, con la quale si è deciso il No-Fly Zone contro la Libia, per cogliervi una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite. La violazione della Carta è evidente, se si tiene presente che il comma 7 dell’art. 2 stabilisce che «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato». È dunque indiscutibile  che la “guerra civile” di competenza interna alla Libia non era un evento di cui poteva occuparsi il Consiglio di Sicurezza.  


E ora tocca alla Siria
Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, il Paese arabo viene oggi presentato mediaticamente come il diavolo in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della “democrazia”. 
La realtà della drammatica situazione siriana è che gli Stati Uniti e i servizi segreti alleati inglesi, francesi, turchi, sauditi, qatarioti e israeliani ne sono i protagonisti da almeno due anni e mezzo, per far degenerare il conflitto politico in guerra civile aperta. L’intento di rovesciare la Repubblica Araba siriana – autoritaria, ma laica e pluriconfessionale – governata da Bashar Assad, è sotto gli occhi di tutti, l'Europa e gli Stati uniti (in compagnia delle petromonarchie saudita e qatariota) nella coalizione degli «Amici della Siria», dal marzo 2011, hanno finanziato, armato, addestrato i ribelli. Alimentando e sostenendo la guerra che produce stragi, profughi, vittime. Consapevoli che sostenevano salafiti e qaedisti che puntano al califfato siriano. Com'era del resto accaduto nell'intervento «umanitario» in Libia contro Gheddafi. Ma una responsabilità di non minor conto, in ordine politico, è rappresentata dal sabotaggio sistematico di qualsiasi soluzione politica del conflitto interno – giustamente evocata dal Santo Padre Francesco – , così come della Russia, della Cina, della Repubblica islamica dell’Iran e di tutti i Paesi “non allineati”. 


Il Governo siriano aveva già colto la necessità di una nuova Costituzione e di elezioni pluralistiche, nella legittimità comunque della propria sovranità, ma l’intento occidentale è quello di fare cadere una nazione indipendente, quindi scomoda, che ha dimostrato sul campo una solidità istituzionale e di consenso popolare superiore all’enorme sfida postagli dallo schieramento internazionale avverso. Il risultato auspicato è in coerenza con il caos della guerra civile interconfessionale indotta dopo le guerre americane in Iraq, in Afghanistan e in Libia. 
Dalla Palestina all'Iran
I Palestinesi sono stati divisi in due entità distinte e spesso contrapposte (Hamas e Al Fatah) tra Cisgiordania e Gaza. I contrasti si sono estesi poi anche alla rete dei campi profughi in Libano e Siria. In pratica, tutti i Paesi già avversi e oppositori degli interessi occidentali e della politica espansionista israeliana sono devastati, in preda alla frammentazione settaria e all’insignificanza politica, in attesa dell’esplosione del Libano e della possibile aggressione diretta all’Iran.
Gli USA in Medio Oriente hanno agito – sollecitati, in questo, da Israele –  per frammentare, contrapporre e destabilizzare l'area. L'idea degli Stati Uniti è stata sempre quella di essere talmente forti da potere gestire l’instabilità che si veniva a determinare, preferendola a una stabilità e a un consolidamento delle relazioni all'interno dei Paesi arabi e islamici. Ad acutizzare l’instabilità è arrivata la crisi in Egitto, che in presenza del colpo di Stato militare, ha frantumato tutte le alleanze preesistenti e stenta a definirne delle nuove, alimentando così uno scenario di incertezza in tutta la regione. Turchia, Iraq e Qatar sono contro i militari egiziani e il loro nuovo regime, mentre l’Arabia Saudita e Israele sostengono il colpo di Stato dei militari e la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani. In questo “tutti contro tutti”, l'unico elemento che sembra potere ricomporre le vecchie alleanze è l'attacco contro la Siria. Bombardare Damasco e destabilizzare il governo di Bashar Assad può rappresentare il fine unificante contro il “nemico comune” in grado di rimettere insieme Stati Uniti e Turchia, Qatar e Arabia Saudita, Israele e le vecchie potenze coloniali dell'area come Francia e Gran Bretagna. 
I morti non sono tutti uguali
Il casus belli sarebbe l’utilizzo di gas nervino nei sobborghi della capitale Damasco.  Gli eventi del 21 agosto hanno cagionato, secondo le fonti unilaterali dei “ribelli”, circa 1.300 morti. Orbene: una cifra non di molto inferiore è quella degli egiziani uccisi nel corso delle manifestazioni di protesta contro il recente golpe militare appoggiato dall’Occidente. Va tenuto presente che in quest’ultimo caso, definito da Human Rights Watch «il più grave episodio di uccisioni extragiudiziarie di massa nella storia dell’Egitto moderno», a cadere sono stati per lo più dei civili disarmati (malgrado alcuni dei dimostranti abbiano fatto ricorso alle armi), mentre in Siria è in corso una vera e propria guerra tra milizie armate, in cui spesso è difficile distinguere il civile dal combattente. Se fosse una questione “morale”, con quale misura e quanta malafede si pesa il sangue umano? Solo poche settimane prima, decine di migliaia di Curdi si sono rifugiati precipitosamente in Iraq, inseguiti dalla pulizia etnica operata nel territorio nord-orientale della Siria dalle bande sanguinarie qaediste di al-Nusra, nella noncuranza generale.  In realtà, non si capisce come l’esercito siriano, che è in condizione di vantaggio strategico nel conflitto in corso, nell’imminenza di nuovi colloqui di pace fissati a Ginevra in presenza di osservatori delle Nazioni Unite voluti e ospitati dalle autorità siriane in Damasco per indagare sugli innumerevoli crimini commessi  da parte dei gruppi terroristici – anche con armamento chimico, come già comprovato e sostenuto da una fonte indipendente come la voce di Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale – abbiano potuto effettuare tale bombardamento. 
Cui prodest? Ma i mezzi di informazione “suonano a bacchetta” con le dichiarazioni del Dipartimento di Stato americano, tesi a dimostrare l’inverosimile anche di fronte alla realtà; se, paradossalmente, fosse credibile questa farsa, forse che i caccia atlantici, appurando – come credibilmente potrebbe essere – che la criminale irrorazione venefica fosse opera dei “ribelli”, prenderebbero il volo? Figuriamoci, i pianificatori militari del Pentagono sono profondamente consapevoli del ruolo centrale della propaganda di guerra. La plateale distorsione della verità della sistematica manipolazione delle fonti di informazione è parte integrante della pianificazione bellica.

Nella tragedia in corso risulta poi semplicemente inutile parlare dell’ignavia del nostro Paese: provincia marginale dell’Impero occidentale, è una semplice cassa di risonanza armonica della voce egemonica statunitense. Destra, centro, sinistra: la classe dirigente e politica più subalterna e servile dell’intera storia patria è una parodia di qualsivoglia simulacro di sovranità e dignità etica, o pur semplice realismo multilaterale a vocazione europea e mediterranea. Rimane quindi da attendersi il peggio; uno scenario, che potrebbe precipitare in una catastrofe internazionale, così come nell’ennesimo “fatto compiuto” del nuovo ordine mondiale: la dittatura oligarchica del denaro contro l’autodeterminazione dei Popoli. 
Viene quindi spontaneo evocare un’altra figura concettuale, posta a paradigma dell’epoca contemporanea da Carl Schmitt: quella del “resistente”. Il nemico, nell’ordine tradizionale legittimo, è un avversario, che partecipa delle stesse regole; il partigiano o guerrigliero, invece, operando al di fuori delle regole accettate, è il nemico assoluto, che oppone a colui che combatte una inimicizia assoluta, che impedisce, ad esempio, di accettare la sconfitta come risultato dello svolgersi della partita secondo le regole imposte dal dominante. 
Si tratta di una scelta di libertà interiore e di coerenza metapolitica.

Eduardo Zarelli

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