domenica 29 settembre 2013

Sacro GRA

"Sacro GRA" di Francesco Rosi.  Italia, Francia 2013 ½
Riguardo alle polemiche sorte sulla conquista del "Leone d'Oro" a Venezia 70 da parte di questo lungometraggio è bene chiarire da subito un equivoco: non si tratta di un documentario, e quindi la giuria non ha  snobbato le opere cinematografiche propriamente dette, ammesso che le distinzioni di tipologia e di genere abbiano un senso; sempre di film, per di più in formato digitale, si tratta. A mio avviso sono propriamente documentari quelli che documentano (per l'appunto) una realtà, o un personaggio, raccontati da chi cura l'inchiesta o sta dietro la cinepresa, oppure dal protagonista della vicenda. Per fare degli esempi, sono documentari quelli di Michael Moore (Sicko, Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11, per esempio); Super Size Me; The Corporation; La Deuda di Pino Solanas; o anche Shine a Light di Marty Scorsese sui Rolling StonesLa cosa di Nanni Moretti. Perfino Caro Diario, sempre di Moretti, era più documentaristico in senso stretto, di questo Sacro GRA, e sicuramente meno noioso. Francesco Rosi può dire ciò che vuole, ma questo film ha una sceneggiatura, peraltro ben solida, e i personaggi recitano: magari sé stessi, perché "presi dalla strada" e offrendo squarci della loro vita quotidiana, ma chiaramente secondo un copione accuratamente studiato. O almeno è ciò che ho percepito io. Un documentario solitamente rifugge da tutto ciò che è "fiction", qui è tutto chiaramente artefatto. Per certi aspetti, almeno nelle sequenze sulla Roma monumentale meno conosciuta, ha più della docu-fiction un film come La grande bellezza. Lo dimostrano i due anni di riprese per girare attorno ai 90 chilometri del Grande Raccordo Anulare che cinge Roma per rappresentare, attraverso episodi slegati da loro, squarci di vita "marginali" di persone che vivono a ridosso di questa cinta autostradale urbana. Abbiamo un paramedico che vive sulle ambulanze e ha una madre sofferente di demenza senile e un nobile decaduto; il "palmologo" che vive nella convinzione che "la palma ha la forma dell'anima dell'uomo" e il pescatore d'anguille che conosce tutti i segreti del Tevere e vive filosofando; il nobile decaduto finito in una palazzina-lager con la figlia e le vicine che sono passate da uno sfratto all'altro e  si rimbecilliscono davanti alla televisione; un altro nobile che affitta la sua magione come set per fotoromanzi, gli inevitabili transessuali; la coppia di ragazze-immagine che si esibisce sul bancone di un bar di raro squallore e il dj sudamericano che prepara il programma per una fiesta nello spiazzo di un osceno condominio di palazzine caltagironiane. Sostanzialmente, un viaggio attorno al nulla. Se era questo lo scopo, e mostrare qualche bella inquadratura, potevano bastare 45' e magari un anno di riprese in meno. Che poi la giuria di Venezia abbia, come al solito, premiato il film sbagliato, questo va da sé ed è un altro paio di maniche. Per quel che mi riguarda, ingenuamente mi aspettavo qualcosa di più e sono rimasto piuttosto deluso, ma avrei dovuto aspettarmelo, considerando i precedenti dell'ultimo decennio almeno.

sabato 28 settembre 2013

Parole "sante" di un eretico


Non posso resistere a "rubare" al Fatto Quotidiano in edicola oggi e sottoscrivere alla lettera questo magistrale pezzo di Massimo Fini per il momento non ancora disponibile on line.

Perché non amo il papa “piacione” 

E adesso ci tocca anche il Papa democratico, femminista, di sinistra e magari, chissà, antifascista. “Non sono mai stato di destra”. Da quando esistono queste due categorie, cioè dalla Rivoluzione francese, nessun Pontefice si era mai abbassato a tanto, a nominarle. E che significa “non sono mai stato di destra”? Forse che quel Cristo che ha sempre in bocca (povero Cristo), non del tutto legittimamente perché il cattolicesimo non coincide col cristianesimo, riserva una maggior misericordia a quelli di sinistra (il discorso naturalmente vale, a segno contrario, se avesse detto “non sono mai stato di sinistra”)? L’atteggiamento da “piacione”, cioè di uno che vuole piacere a tutti senza dispiacere nessuno, compresa la tambureggiante retorica della modestia, la sua (il massimo dell’immodestia), Bergoglio, intelligenza fine, da gesuita, non lo ha scelto a caso anche se magari ha assecondato un aspetto reale del suo carattere. Il significato profondo della fluviale intervista a Civiltà cattolica ce lo spiega in un pur contorto articolo sul Corriere della Sera (20/09) un cattolico doc come Vittorio Messori (cui, se lo conosco un po’, devono essersi torte le budella a far sue le “aperture” di Bergoglio): “È da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l’aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti fra quelle confidate dal Papa al confratello”. Siamo alle solite: all’evangelizzazione. Che muove da uno slancio di generosità (se io posseggo la Verità perché non farne partecipi anche gli altri?), ma è quel tipo di generosità, come certi favori non richiesti, che ti ricade in testa come una tegola.
NELL’EVANGELIZZAZIONE c’è infatti, in nuce, il vizio oscuro di tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di reductio ad unum dell’intero esistente. L’evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente diversissimi. Il primo sarà l’eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra culture “superiori” e “inferiori” e il dovere delle prime di portare la civiltà alle altre. Il secondo figlio – anche se può apparir strano – sarà l’Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita “buona novella”. Il terzo – il che può apparire ancora più strano – sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell’internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (Trotsky: “La Rivoluzione o è permanente o non è”). Il quarto, il più compiuto e realizzato , è il modello di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di evangelizzazione mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. È in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa. Quando Bergoglio afferma che “senza lavoro non c’è dignità” non so se si renda conto che così si inserisce, a pieno titolo, nonostante le parole su solidarietà e misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po’ più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l’ha fondata, definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio.

venerdì 27 settembre 2013

Assurdo evocare il colpo di Stato. Soltanto adesso...

"

Stizzita reazione da parte di Sua Maestà Giorgio I alla minaccia di dimissioni in massa da parte dei deputati del PDL, nell'ipotesi che la giunta delle elezioni del Senato voti a favore della decadenza di Burlesquoni; il presidente del Consiglio Letta-Letta, gravemente offeso, che con voce flebile squittisce che "Il PDL ha umiliato l'Italia" e proprio mentre lui è in America (le umiliazioni subite dal Paese quando capo del governo era lo "statista" brianzolo, dagli incontri con Gheddafi, Putin, Merdogan, dalla Bielorussia alla Bulgaria - cfr "editto" - a Strasburgo naturalmente quanto a sputtamanento contano molto meno e comunque sono già passate nel dimenticatoio) e che chiede un "chiarimento nel governo e in parlamento", valutando se porre la fiducia; di "colpo alla schiena" all'Italia che lavora" ciancia  a vanvera anche Epifani, l'ectoplasma provvisoriamente alla guida del PD, che a sua volta chiede una "verifica" e si allinea pedissequamente al capo dello Stato nonché suo compagno di partito. Sorvola, così come il Nipote del Consiglio, sul fatto che sia il PD a governare insieme al PDL, non qualcun altro. Come se il golpe, quello vero, strisciante, non fosse già in atto da quasi quarant'anni (il programma si chiama "Piano di Rinascita Democratica" ed è quello della P2) e a mettere il sigillo su una prima fase dell'operazione non fosse stato proprio l'attuale monarca incostituzionale quando, nell'autunno di due anni fa, eseguendo gli ordini provenienti da Bruxelles, Berlino, Francoforte e Washington, fece dimettere Burlesquoni per sostituirlo con Mario Monti, dopo aver nominato il tirapiedi di Goldman Sachs (e di Mario Draghi) senatore a vita (per sottolinearne la parlamentarietà nonché fedeltà alla linea quirinalizia e dunque europea) invece che sciogliere immediatamente le camere e andare alle elezioni; quando firmò senza fare un plissé l'introduzione del cosiddetto Fiscal Compact e l'obbligo di pareggio di bilancio nella Costituzione, vanificando quel poco che restava della nostra sovranità nazionale, ammesso di averne mai avuta una, USA permettendo; poi quando accettò di farsi rieleggere alla presidenza della Repubblica per un secondo mandato consecutivo, che non  fu una mera forzatura, bensì una lesione del dettato costituzionale; infine quando ripagò i suoi grandi elettori nominando di fatto un "Governo del Presidente" come quello, ridicolo,  attualmente in carica, e di cui sono azionisti i tre partiti che hanno perso le ultime elezioni (e, insieme, 10 milioni di voti), giunti rispettivamente 2° (il Pd) e 3° (il PDL) e 4° (Scelta Civica) nel confronto elettorale del febbraio scorso. Dato per scontato che l'attuale governo non conta assolutamente nulla ed è lì per finta, l'unico che dovrebbe dimettersi, e anche di corsa, sarebbe proprio Giorgio Napolitano. E farlo di sua spontanea volontà, visto che nessuno tra i politici, a parte Grillo, glielo chiede. Io, che lo ritenevo non rieleggibile esattamente quanto incandidabile Burlesquoni, a meno di eludere o violare le legge, continuo a considerarlo il maggior responsabile della miserabile, grottesca, illegale 
e insanabile situazione in cui ci troviamo e vorrei vederlo incriminato per attentato alla Costituzione. 

mercoledì 25 settembre 2013

Via Castellana Bandiera

"Via Castellana Bandiera" di Emma Dante. Con Emma Dante, Alba Rohwacher, Elena Cotta, Renato Malfatti, Dario Casarolo e altri. Italia, Svizzera 2013 ★★★★½
Gran bel film, con la potenza della tragedia greca, un'espressività degli interpreti (in buona parte attori non professionisti, e anche i tre protagonisti principali, che invece lo sono, si integrano perfettamente al resto del "coro") e una "verità" profonda e ineluttabile degna del miglior neorealismo, e la tensione dell'epilogo di un tipico western: il duello. Si tratta dell'esordio cinematografico della regista palermitana, finora attiva, con indiscutibile successo, nella dimensione teatrale: dimostra di trovarsi a suo agio anche dietro, e al contempo di fronte, alla macchina da presa. Rosa (la Dante) torna malvolentieri a Palermo, dove ha lasciato una madre con cui è in conflitto e un passato che non vuole rievocare, insieme alla sua compagna Clara, (la Rohrwacher), per accompagnarla al matrimonio di un vecchio amico. Mentre attraversano, a bordo di una FIAT Multipla, la periferia sempre più labirintica della città per giungere alla meta, tra loro cresce la tensione e finiscono in una strada "senza senso": né unico, né doppio, Via Castellana Bandiera, per l'appunto, dove si trovano di fronte alla "Punto" guidata da Samira (Elena Cotta, superba) e con a bordo il genero Rosario ("Saro") Calafiore, una figlia di lui e tre chiassosi nipotini, di rientro da una giornata al mare. Anche Samira è chiusa nel suo dolore, in uno stato quasi autistico: persa la figlia trentaseienne per un tumore, è tiranneggiata e disprezzata dal genero (è una "turca", ossia una straniera, originaria di Piana degli Albanesi, uno dei luoghi dove  vive una comunità albanese e greco-ortodossa che ancora oggi parla l'idioma delle origini) e si relaziona solo con un nipote che parla la sua stessa lingua. La strada è stretta, ognuna resta convinta del proprio diritto di precedenza (che non è chiaro in un rione dove pure esistono due numeri civici identici) e nessuna delle due intende cedere il passo all'altra, per cocciutaggine in parte innata, in parte dovuta alle circostanze della vita che le ha indurite; nel caso di Samira giocano anche le vessazioni del genero Saro, che le impone di tenere duro. Trascorre così, con le due automobili imbottigliate nella strettoia che si fronteggiano, e le due donne che si osservano e sfidano ma probabilmente pure capiscono tra di loro, per l'intero pomeriggio di una domenica canicolare e poi per tutta la notte, diventando una sorta di attrazione spettacolare per tutti gli abitanti della zona: chi va dare consigli all'una o all'altra, chi arriva ad avviare un lucroso giro di scommesse su quale delle due donne cederà per prima. Ci sono la dimensione corale e ironica di "Tano da morire" di Roberta Torre ma soprattutto quella grottesca del più recente e bellissmo "E' stato il figlio" di Daniele Ciprì, però la pellicola di Emma Dante vive di vita propria. Finisce inevitabilmente in tragedia, ma senza spargimento di sangue e relativa: tale forse solo per il nipote di Samira, che perde la nonna, e per Saro, che perde macchina e autista: per lei però sarà una liberazione, dal dolore e dal disprezzo altrui.

lunedì 23 settembre 2013

Il grande sonno

Dormite. Va tutto bene. Andate a votare. (Chapatte, Neue Zürcher Zeitung, CH)

domenica 22 settembre 2013

Rush

"Rush" di Ron Howard. Con Daniel Brühl, Chris Hemsworth, Alexandra Maria Lara, Olivia White, Pierfrancesco Favino, Christian McKay, Olivia White, Alistair Petrie e altri. USA, GB, Germania, 2013 ★★★★½
Negli anni Settanta, epoca d'oro della Formula Uno, fenomeno pressoché esclusivamente europeo, l'entusiasmo per l'automobilismo era tale da suscitare la stessa passione del calcio, con tanto di vere e proprie migrazioni da un circuito all'altro dei suiveurs più fedeli, alcuni dei quali sacrificavano le ferie nel grand tour degli autodromi. Era fra aprile e la fine dell'estate che, sulle piste del Vecchio Continente, si svolgeva la maggior parte delle gare: spesso risultava decisivo il GP d'Italia che per tradizione si svolge a Monza la seconda domenica di settembre. Non nella stagione 1976, rimasta storica perché in bilico fino alla fine e caratterizzata dalla epica rivalità fra l'austriaco Niki Lauda, campione mondiale in carica, e l'inglese James Hunt, il quale gli tolse il titolo negli ultimi minuti dell'ultima gara, sul circuito del Fuji, in Giappone, in una giornata di pioggia fitta, sotto un cielo tetro: una corsa che si è svolta soltanto perché i diritti televisivi erano stati venduti in tutto il mondo per cifre enormi (oggi è la norma che le TV condizionino lo svolgimento di qualsiasi sport, allora la cosa suscitò perplessità e discussioni infinite), e questo al termine di un'annata ricca di incredibili colpi di scena. Ma non è il fatto agonistico il tema centrale del film, benché reso con estrema precisione, tanto che le immagini d'epoca che compaiono nella pellicola risultano quasi indistinguibili da quelle girate da Ron Howard (e anche la somiglianza dei due attori protagonisti coi due piloti è impressionante): il vero fulcro è il ritratto umano e caratteriale dei sue campioni, e la relazione ambivalente che si instaura tra due persone che per indole non potevano essere più diverse: playboy, impulsivo, stravagante, simpatico l'inglese; introverso, perfezionista fino alla maniacalità, calcolatore, razionale e non sempre gradevole l'austriaco. Avevano però in comune sia la passione, correre in automobile, sia il fatto di essere ripudiati dalle rispettive famiglie, entrambe benestanti, di cui erano i rampolli, per essersi dedicati anima e corpo all'automobilismo. La pellicola ricostruisce fedelmente la vicenda della rivalità tra i due, dalle piste di Formula Tre, dove cominciano a ingaggiare i primi duelli e starsi sulle scatole a vicenda, fino al passaggio in F1: Lauda per via di un prestito per cui si "comprò" un posto alla BRM, Hunt grazie a uno stravagante miliardario scozzese, Lord Hesketh, che mise in piedi una scuderia per conto suo. I due giovani talenti emergono presto e si fanno notare, Lauda passa alla Ferrari su raccomandazione del suo compagno di squadra Clay Regazzoni (qui interpretato dall'ottimo Pierfrancesco Favino), che rientrava alla corte del "Drake", e Hunt alla McLaren. Lauda vince il campionato del 1975 (a Monza, arrivando terzo: primo Regazzoni, il mio idolo: c'ero, alla "Parabolica") mentre l'anno dopo, sempre al GP d'Italia del 12 settembre (c'ero anche in quell'occasione) arriverà quarto, e fu portato in trionfo, tornando a gareggiare incredibilmente dopo soli 42 giorni, e contro il parere dei medici, dal terribile incidente del 1° agosto al Nürburgring, nel quale andò quasi arrosto e fu salvato dalle fiamme del nostro Arturo Merzario. Era ancora davanti di tre punti rispetto a Hunt in Giappone, nella gara decisiva che chiudeva la stagione: era il 24 ottobre ed era la prima volta che un Gran Premio di F1 si correva su suolo asiatico e Lauda, dopo un solo giro sotto la pioggia a dirotto e un cielo plumbeo, si ritirò: non cercò scuse "meccaniche" e ammise si aver avuto paura (anche al fatale Nürburgring pioveva e lui era contrario a rischiare inutilmente). Enzo Ferrari non gliela perdonò mai del tutto, Lauda smentì di essere un semplice computer, quale lo si accusava di essere, e Hunt si rese conto, dopo la corsa, di aver esagerato nello sfidarlo e si sentiva in colpa per averlo "costretto" a gareggiare in condizioni quasi impossibili anche in Germania, dove l'austriaco fu vittima dell'incidente che, oltre ai lineamenti del viso, gli valse l'assenza dai successivi due GP, il che consentì all'inglese di recuperare il distacco in classifica  I due si rendono conto di essere complementari, uno l'insostituibile stimolo per l'altro, in un rapporto quasi simbiotico e alla fin fine si stimano e capiscono nonostante tutte le loro differenze, in una sorta di "vampirizzazione" reciproca in cui uno era necessario all'altro. Non solo l'epoca ma anche tanti episodi all'apparenza marginali sono ricostruiti con estrema precisione, e posso dirlo con cognizione di causa, perché seguivo con passione quel mondo e ho visto di persona parecchi dei personaggi citati, compresa Marlene Knaus, la moglie di Lauda, fatta "rivivere" dal suo clone, Alexandra Maria Lara. Mai mi sarei aspettato che un regista statunitense, che mai si è interessato all'automobilismo, e meno che mai a quello prettamente "europeo" della Formula Uno, completamente diverso da quello USA, sarebbe stato capace di confezionare un prodotto così potente, che non si può davvero definire soltanto un film "sportivo". E' il ritratto di due uomini, di un mondo, di un'epoca molto particolare, e chi l'ha vissuta la ritroverà. Eccezionali fotografia, ambientazione, impeccabile la sceneggiatura, bravissimi tutti gli interpreti. Uno dei migliori film visti quest'anno. 

venerdì 20 settembre 2013

Memento

E' più facile che sia questo papato, con alla guida Jorge Mario Bergoglio, Francesco I, un gesuita, a togliere le mani della chiesa dallo Stato italiano, smettendo di riempirlo di eccessive "attenzioni" dopo aver ridimensionato la curia romana, piuttosto che lo Stato italiano, più realista del re, la finisca di genuflettersi davanti al Vaticano.

giovedì 19 settembre 2013

Quand la merda la munta in scann...

L'istituzionale Trio Lescann una volta "montato in scann"

 ...o la spüssa o la fa dann. Ossia, parafrasando l'icastico detto milanese, "se i mediocri fanno carriera diventano arroganti e nocivi". Niente descrive meglio l'evoluzione e il comportamento di Laura Bodrini da quando, il 16 marzo scorso, è stata eletta presidente della Camera dei Deputati. La "Signora dei diritti umani", che per ben 14 anni ha svolto con riconosciuto impegno il ruolo di portavoce dell'UNHCR, Alto commissariato ONU per i rifugiati, giunta in Parlamento candidata nelle liste di SEL ed elevata alla presidenza di Montecitorio, sembrava poter bilanciare l'opportunismo e le ambiguità di Pietro Grasso, eletto a quella del Senato e seconda carica di questa sgangherata monarchia incostituzionale gerontocratica. La neopresidente sembra aver frequentato un corso accelerato di saccenteria, spocchia e intolleranza da D'Alema e Finocchiaro, e col passare dei mesi diventa sempre più pedante e, come se non bastasse, odiosa. Invece di essere imparziale e garantire innanzitutto l'opposizione, è contro quest'ultima che si scaglia regolarmente, ossia contro il Movimento 5 Stelle, l'unico gruppo parlamentare che la faccia seriamente, seppure con scarsa efficacia e talvolta in modo discutibile. In particolare, sembra avercela per fatto personale col deputato Alessandro Di Battista, che già l'aveva presa in castagna in una recente seduta dopo che la Boldrini aveva sospeso per cinque sedute cinque deputati del M5S per che erano saliti sul tetto di Montecitorio per protestare contro il ddl di delega sulla deroga all'articolo 138 della Costituzione e poi in aula l'aveva  censurato, compiendo una gaffe entrata nella storia, per aver affermato che "il PD è peggio del PDL" e che prima di punire  e sanzionare i deputati a 5 stelle andavano sbattuti fuori dalle istituzioni i ladri che rappresentano il PDL: la presidenta dell'assemblea, stizzita e indignata, gli aveva intimato di "non offendere". Ieri una conferma dell'involuzione (niente affatto inspiegabile, ma legata alla profonda verità del detto di cui sopra sulle vertigini da potere) di un personaggio un tempo amabile e rispettabile, con i continui pretestuosi rinvii della votazione della legge sull'omofobia e la sospensione dei lavori in aula, in modo da favorire la ricerca di un compromesso, naturalmente al ribasso, da parte dell'attuale maggioranza. Alla dura reazione dei deputati pentastellati, hanno fatto seguito i rinnovati piagnistei della Boldrini, autodefinitasi "bersaglio di una costante e strumentale opera di delegittimazione in Aula come in rete", alzando quindi professoralmente il ditino nei confronti non solo del M5S ma di tutto il web; a rincarare la dose non poteva mancare il monito di Sua Maestà Giorgio Napoltano che, ritrovando all'improvviso la parola dopo aver taciuto per un mese e mezzo sulla minacce del delinquente di Arcore e dei suoi scherani, salvo dedicarsi a discretissime trattative con lui per interposta persona (Confalonieri) direttamente al Quirinale, prende immediatamente le parti della sua protetta farneticando di "turpi ingiurie e minacce" arrivate "dalla rete". Non rimane che associarsi alle parole quanto mai opportune e precise pronunciate da Alessandro Di Battista: “Boldrini, mi piange il cuore a dirlo, appare sempre più inadeguata, incompetente, nervosa, di parte e arrogante. Come tutte le persone di scarsa personalità, tende ad assecondare regolarmente il ‘grande potere’ e si dimostra più realista del re”. Se ne faccia una ragione, presidenta. A meno che per lei un'opinione non costituisca reato.

martedì 17 settembre 2013

L'arbitro

"L'arbitro" di Paolo Zucca. Con Stefano Accorsi, Jacopo Cullin, Geppi Cucciari, Benito Urgu, Alessio di Clemente, Marco Messeri, Francesco Pannofino, Quirico Manunza e altri, tutti bravissimi. Italia, Argentina 2013. ★★★★★
"Il calcio ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce", ebbe a scrivere Osvaldo Soriano, ed è il grande giornalista e scrittore argentino assai prematuramente scomparso che viene subito  in mente vedendo questo piccolo grande film che parla sì di calcio (da sempre metafora della vita nonché "l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo", come diceva Pier Paolo Pasolini), ma anche di una Sardegna al contempo mitica e astratta però estremamente concreta, dei suoi uomini e delle sue donne, del loro orgoglio e della loro immensa dignità e umanità, e lo fa narrando in parallelo le vicende della rivalità tra due squadre della terza divisione sarda e quella di Cruciani, "rampante" arbitro internazionale in odore di designazione per una finale di coppa europea, precipitato dalle stelle alle stalle (la terza divisione sarda, per l'appunto) per una vicenda di corruzione in cui viene invischiato più per dabbenaggine e smisurata ambizione che per avidità di danaro. Il lungometraggio è l'espansione di un "corto" omonimo dello stesso Paolo Zucca vincitore del David di Donatello per la categoria nel 2009 e che qui viene ampliato fino a diventare un film completo, in cui si intrecciano generi e storie, dal grottesco, all'epico, al religioso, al romantico, fino alla faida pastorale tra parenti (due cugini che giocano nella stessa squadra), questo nelle vicende "barbaricine" che coinvolgono la rivalità ancestrale tra il Montecrastu, compagine diretta da Brai, un latifondista borioso e arrogante il cui scopo nell'esistenza sembra essere quello di umiliare i "peones" del Pabarile che lavorano al suo servizio, giocatori della squadra più scalcagnata del girone, guidata in panchina da Prospero (Benito Urgu, superbo): un cieco, però filosofo e che sa di calcio. Questa la "linea sarda" mentre le sorti di Cruciani (uno Stefano Accorsi sempre più convincente) sono seguite tra spogliatoi, camere d'albergo, riti propiziatori, balletti in solitario a ritmo di swing e a favore di specchio di questo narciso effeminato, abboccamenti con alti funzionari della Federazione Internazionale, fino a quando non viene fottuto dalla sua stessa vanità e inconsistenza. Le sorti del Pabarile però si invertono col ritorno al paese dall'Argentina di Matziztu (uno Jacopo Cullin perfetto nel ruolo, una via di mezzo tra Pietro Paolo Virdis, indimenticato campione del Cagliari, dell'Udinese e del Milan, e Socrates, per chi lo ricorda), figlio di "Sventura", che era andato nella Pampa nella speranza di svoltare e far fortuna, e le cui ossa sono rimaste lì. Sfigato come il padre, ma che in Argentina ha imparato a "pensare con i piedi" (cfr sempre Soriano), entra nella formazione e ne prende in mano (pardon: nei piedi) le redini cambiandone quindi le sorti a suon di gol (ogni goal è sempre un'invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica - P.P. Pasolini, 1971) fino a giocarsi il campionato all'ultima partita con gli odiati rivali. I pabarilesi perdono sul campo perché un dirigente del Montecrastu, all'insaputa di Brai, convince l'arbitro designato, un ex commilitone, l'ottimo Pannofino, a stravolgere l'incontro (viene immediatamente e pretestuosamente espulso Matzuzti, annullate diverse reti valide al Pabarile, concessi rigori inesistenti al Montecrastu), ma vincono moralmente e non solo: Brai, a suo modo sportivo, accetta di giocarsi il campionato in una "bella" che verrà arbitrata proprio da Cruciani, che ricomincia da un campo polveroso, pieno di pietre, che si raggiunge attraversando un cimitero, la sua carriera. Come accennato non manca tra i vari filoni la storia d'amore, che si dipana tra le le timidezze di Matzutzi in formato Peynet e Miranda, figlia di Prospero e titolare del negozio del paese, l'indomabile bisbetica interpretata alla grande da Geppi Cucciari che fa finta di non ricordarsi del ragazzino con cui andava alle elementari e che abitava di fronte a casa sua, lo tiene eternamente sulle spine salvo innamorarsene ma non volerlo ammettere. Non stupisce che si tratti di una coproduzione italo-argentina: non dubito che una storia surrealisticamente... concreta e terragna, in un Paese in cui il futbol, e non quello delle massime categorie celebrato in TV e sulle pagine sportive dei quotidiani ma quello che si gioca nei cortili, nelle strade, nei campetti di periferia, è la vera religione di tutti (e come tale sopravvive anche da noi, anche se nessuno ne parla), sarà apprezzato come merita, e una Sardegna che sembra una Patagonia infinita farà respirare aria di casa. Oltre che raccontare una vicenda inconsueta, fantasiosa ma che sta in piedi, "L'arbitro" è girato in un bianco e nero sontuoso, corredato da una fotografia magistrale e sorretto da una sceneggiatura che funziona come un cronografo. Avercene, di film così. 

domenica 15 settembre 2013

Il ritorno della Beneamata

Maurito Icardi si "beve" Barzagli e infila Buffon

Esprimere giudizi alla terza giornata di campionato è prematuro così come il fare previsioni azzardato, ma una cosa Inter-Fetentus giocata inopinatamente alle 18 di ieri pomeriggio l'ha detta: l'Inter c'è, non è inferiore agli strafavoriti campioni d'Italia, può giocarsela almeno alla pari con qualunque altra squadra (col vantaggio non indifferente di essere libera da impegni di coppa, e da questo punto di vista essere arrivati noni nella scorsa stagione, esclusi anche da una competizione secondaria ma estenuante come la Coppa Uefa che si gioca il giovedì e costringe a trasferte micidiali, soprattutto nei primi turni, è una benedizione) ma soprattutto è affidata a un allenatore che non sarà il massimo nell'arte della comunicazione ma è serio, capace, intelligente, conosce il mestiere e di cui si vede indiscutibilmente già la mano. Condivido quindi quanto hanno scritto i miei tre interisti di riferimento: gli ottimi blogger Settore e Rudi Ghedini e il suiveur ufficiale dei nerazzurri per conto del Corriere della Sera, Fabio Monti. Si dice che Walter Mazzarri sia capace di spremere vino anche dalle rape, la verità è che la squadra spaesata, per 9/11 la medesima, che nella seconda parte della passata stagione arrancava ad una media-retrocessione e buscava due gol a partita, sembra rigenerata nello spirito e nelle gambe e alcuni giocatori rinati: a cominciare da Álvarez a Jonathan a Ranocchia, e tutta la compagine dà la sensazione di sapere cosa sta facendo sul campo nonché il perché e il per cosa. Niente di trascendentale: cose semplici ma efficaci. Quanto basta per essere all'altezza dei bianconeri, imbrigliare le fonti del loro gioco e colpirli in velocità. Una partita a scacchi, quella di ieri, con poche occasioni eclatanti, ma più lineari quelle dell'Inter, anche nel primo tempo, in cui le due squadre si controllavano a vicenda: pericoloso Vucinic al 2' imbeccato da Tevez, sventato con sicurezza da Campagnaro, la vera sicurezza di quest'Inter, ma due gli interventi decisivi di Buffon, all'inizio del primo tempo su Nagatomo e allo scadere su Taider (positivo all'esordio come titolare), uno di Handanovic su una deviazione debole ma potenzialmente velenosa di Pogba (insieme a Vidal il migliore dei loro), mentre un mani di Vidal fischiato in area nerazzurra ha evitato un rigore dopo che Taider l'aveva opportunamente steso, perché il cileno era in posizione estremamente pericolosa. Nella ripresa l'Inter ha spinto di più, ha avuto una buona occasione con Palacio (utilissimo comunque per come ha fatto dannare la difesa juventina) ma Rodrigo è un attaccante dal colpo felpato, che sia di testa o di piede, non di potenza come invece Icardi, dotato pure di ottimi fondamentali, subentrato a Taider al 68' (l'unica mossa di Mazzarri che non ho condiviso: andava sostituito Guarin, il peggiore in campo, la cui presenza si è rivelata ancora una volta controproducente): gli avevo pronosticato un gol appena messo piede in campo e cinque minuti dopo, al 73', ha colpito infilzando inesorabilmente Buffon, su delizioso lancio in verticale di Álvarez che aveva sottratto con destrezza la palla al solito scomposto Chiellini: i due argentini si sono bevuti in un lampo la difesa della nazionale azzurra. Pareggio due minuti dopo: mentre Guarin come sempre dormiva a centrocampo, Asamoah eludeva sulla linea di fondo l'intervento molle di Jonathan, buttava la palla in area e lì la manovrava Vidal che aveva tutto il tempo di controllarla, spostarla sul sinistro mentre  Handanovic stava inspiegabilmente a guardare come ipnotizzato e la palla finiva nel sacco: responsabilità al 50% tra lo pesudidifensore brasiliano e il portierone sloveno, per il resto bravo e reattivo ma che a mio avviso pone eccessiva fiducia nella respinta a pugni uniti invece che tentare la presa, cosa da evitare quando si ha a che fare con vecchie volpi come Vucinic e Tevez, per quanto spelacchiate.  A questo punto l'Inter calava fisicamente, e Mazzarri lo spiega con la stanchezza degli argentini rientrati da una faticosa trasferta per giocare con la propria nazionale, e pur non convincendo un granché era la Fetentus a rendersi insidiosa con un tiro di Tevez sul fondo di poco e un colpo di testa ancora di Vidal, ma in entrambe le occasioni Handanovic c'era. Risultato alla fine giusto, per una partita non entusiasmante ma viva combattuta. Per me il "ritorno" beneaugurante della Beneamata coincideva con il rientro, dopo 16 mesi, in quella che per oltre 4 decenni era stata la mia "casa", lo stadio di San Siro, guardando il campo da un'ottica diversa da quella a cui ero abituato, da dietro una delle porte (2° anello blu) anziché dal lato lungo del rettangolo di gioco. Arguto lo striscione esposto all'inizio della ripresa per salutare la squadra agnellesca che attaccava proprio in direzione del settore blu, il cui terzo anello, alle mie spalle, ospitava la tifoseria "gobba": "Ha più stelle Grillo sul camper che voi sul campo". Schiumavano di rabbia e si sono pure cagati un po' sotto: sono soddisfazioni. 

venerdì 13 settembre 2013

Il mondo di Arthur Newman

" Il mondo di Arthur Newman (Arthur Newman) di Dante Ariola. Con Colin Firth, Emily Blunt, Anne Heche, Stering Beaumon, Kristin Lehman, Philip Troy Linger, David Andrews. USA 2012 ★★½
Film d'esordio per Dante Ariola, finora acclamato regista pubblicitario, non è né banale né brutto però risulta incompiuto, senza respiro e senza nerbo, abbastanza prolisso e si salva in parte per la bravura degli interpreti ( curiosamente ambedue inglesi e molto "brit") e in parte per l'argomento, che a mio parere non è tanto la ricerca della propria vera identità di entrambi i personaggi, quanto il motivo per cui la perdono, o meglio preferiscono perdere la propria, e che risiede nell'alienante American Way of Life, o almeno è quello che ci ho visto io e tanto mi è sufficiente per dargli una pur stiracchiata sufficienza. Wallace Avery, sulla cinquantina, si sente sostanzialmente un fallito. Caporeparto alla Federal Express di Orlando, in Florida, divorziato, con un pressoché inesistente rapporto con il figlio adolescente che lo trova insopportabilmente noioso (così come lo trova tedioso pure la sua nuova fidanzata, che lui a sua volta capisce di non amare davvero), frustrato per non aver seguito fino in fondo la sua unica vera passione, quella del golf, di cui era un discreto giocatore che non è però emerso a causa di una serie di blocchi psicologici, decide di inscenare una scomparsa per probabile annegamento e assume una nuova identità dopo aver comprato da un falsario nuovi documenti e una Mercedes cabrio con cui intende recarsi a Terre Haute, in Indiana, nelle vesti dell'Arthur Newton del titolo e cambiare vita, finalmente sé stesso: sotto la nuova identità ha accettato l'invito del proprietario di un club di diventare maestro di golf.  Combinazione, il suo destino si incrocia subito con quello di "Miki", una ragazza che soccorre e porta in ospedale dopo che si è scolata un paio di bottigliette di medicinale tossico. Cleptomane, disturbata, scopre subito la falsa identità di lui mentre Wallace/Arthur ci mette un po' a svelare quella della ragazza venendo a sapere, man mano che prendono confidenza e lei si lascia andare, che anche lei ha "rubato" l'identità di sua sorella, ricoverata in un ospedale pisichiatrico, e che sta fuggendo da lei, dal passato della sua famiglia segnata dalla follia, con una madre schizofrenica e suicida, ma soprattutto da sé stessa e da quello che teme essere il suo destino: essere una "bomba genetica" pronta ad esplodere. Il film diventa a questo punto una vera e propria avventura on the road di due persone che apparentemente non potrebbero essere più diverse, lui impiegatizio e ligio al dovere, alle leggi e alle forme, lei irregolare, anarchica, imprevedibile, ma in realtà assai simili e, attraversando i tre o quattro Stati che li porteranno dalla Florida in Indiana, si intrufolano nelle vite di altre coppie che seguono, nelle loro case quando sono assenti, nei loro vestiti, nei loro letti, in un misto di gioco, provocazione e mascheramenti. Nel frattempo a Orlando il figlio di Wallace comincia a incuriosirsi della figura di suo padre proprio quando sembra dato per scomparso, e lo fa  frugando le sue carte e le sue cose e attraverso le domande imbarazzanti alla sua fidanzata: solo da probabile morto comincia a interessarsi a lui. Giunti assieme, Awery/Arthur e Miki Charlotte, a Terre Haute, formando ormai ufficialmente una coppia, Newman (un nome non a caso) viene smascherato anche dal suo mentore che, cercando su "Google", scopre che non c'era mai stato un giocatore che avesse vinto alcun trofeo nel passaggio a professionista con quel nome, mentre le gare che aveva vinto erano in realtà di categoria inferiore e sotto il suo vero nome. Perso il posto e svanito il sogno, entrambi rientrano nella realtà e non può mancare lo Happy End tipicamente americano, con lei che torna a farsi carico della sorella e lui a conoscere finalmente suo figlio. Però non si perderanno di vista. Quel che non stupisce è che due persone particolarmente sensibili e non per forza psicopatiche o caratteriali, finiscano per diventarlo in una realtà come quella USA che, al di là delle declamazioni individualiste, tende ad annullare o distruggere la personalità che non si adegua, lasciandola sola e senza alcuna protezione e sicurezza. Da questo punti di vista il film è riuscito perché lo si legge tra le righe, senza bisogno che lo si esprima se non con le immagini dell'indifferenza delle persone, della caducità dei rapporti, nello squallore senza fine dei motel, delle caffetterie e delle case che si susseguono tutte più o meno simili, in luoghi senza identità. Che se la tengano, l'America. E non ce la portino qui ché ce n'è già fin troppa.

mercoledì 11 settembre 2013

Cile / 3 - I due 11 Settembre


A completamento del trittico dedicato al Cile nell'anniversario del criminale golpe del 1973, aizzato e organizzato dagli USA attraverso la CIA, come risulta ufficialmente dai relativi documenti declassificati durante l'amministrazione Clinton, su gentile nulla osta de Il Ribelle ripropongo l'acuto editoriale di Ferdinando Menconi sulle diversità tra i due eventi di cui corre l'anniversario nella giornata odierna e la continuità delle paranoie egemoniche degli USA, le cui azioni sono rimaste esattamente uguali, nel metodo come nella sostanza, dall'11 settembre del 1973 a quello del 2001 e fino a oggi. 


Il palazzo presidenziale preso d’assedio da insorti, istigati e foraggiati dagli Stati Uniti, mentre un Presidente legittimo si difende armato di Kalashnikov e combatte fino al suicidio: questo però non è quanto sta per accadere in Siria, ma quanto già accaduto l’11 settembre 1973 in Cile, e quel Presidente si chiamava Salvador Allende.
Non si può certo paragonare Allende con Assad. L’eroe del Palacio de La Moneda non era certo il tirannello mediorientale che regge la Siria, ma un uomo che voleva aprire una nuova via di libertà e giustizia al popolo cileno. Non si creda, però, che allora godesse di così buona stampa come oggi: egli era un “comunista”, un uomo che apriva alla dittatura e a cui quel mostro di Fidel aveva regalato l’AK che avrebbe brandito nel suo ultimo combattimento.
No. Allende non è Assad, ma gli USA di allora sono gli stessi di ora, e oggi più che mai i due 11 settembre si incrociano. Quello di Ground Zero ha segnato l’inizio della linea politica egemonica USA del terzo millennio, è stato l’offesa subita che tutto permette agli Stati Uniti, almeno nei confronti del mondo islamico. Poco importa qui se hanno ragione i complottisti o le relazioni ufficiali sugli eventi delle Twin Towers: ai fini del ragionamento basta registrare che è da quell’11 settembre che la politica estera USA subisce una brusca svolta, che però si mantiene in linea con le vecchie pratiche, quelle in uso fin dall’11 settembre ‘73.
Nel 2001 l’offensiva degli States fu possibile e necessaria perché era venuto a mancare quel nemico assoluto che legittimava le violazioni statunitensi del diritto internazionale: l’assenza dell’URSS da una parte permetteva la politica di aggressione e dall’altra la rendeva necessaria. Senza un “male assoluto” da combattere chi mai avrebbe potuto essere dalla parte degli sceriffi di Washington?
Negli ultimi mesi sono però emerse tutte le contraddizioni di questi esportatori di democrazia che fondano la loro legittimità sulla guerra al terrore: da una parte si finanziano le stesse organizzazioni terroristiche accusate delle stragi di Manhattan, dall’altra ci si appoggia alle tiranniche teocrazie sunnite del Golfo.
In realtà, tuttavia, ben poco è cambiato nei metodi statunitensi dai tempi dell’11 settembre di Santiago del Cile: demonizzazione dell’avversario, insurrezione interna sostenuta e finanziata dai servizi e insediamento di un Quisling che riporti legge ed ordine. Certo va ribadito quanto già detto sopra: Assad non è Allende, nessun paragone può essere fatto fra i due, ma i parallelismi fra le situazioni sono leciti.
La differenza risiede forse nel fatto che all’epoca gli USA non avevano neppure l’ipocrita bisogno di spacciarsi per esportatori di democrazia, anzi potevano bellamente rovesciarla in nome dello scontro col blocco sovietico: le dittature filoccidentali erano migliori dei regimi socialisti vicini all’URSS, anche quando questi ultimi non tendevano a sfociare in tirannide, ma solo in giustizia sociale. Era, però, proprio questo per l’Impero Nordamericano delle Multinazionali il rischio più terribile e da scongiurare a tutti i costi.
Quello di Santiago fu anche un monito per tutti coloro che cercavano di sfuggire alla tutela USA: a nessuno sarebbe stato permesso, neppure per via democratica, anzi soprattutto non per via democratica, di mandare al potere regimi anticapitalisti in zone che gli USA ritenevano di loro esclusiva influenza. Anche in Italia il messaggio fu recepito forte e chiaro e la politica del PCI mutò radicalmente una volta compreso che una vittoria elettorale sarebbe sfociata in un golpe che avrebbe spodestato l’aspirante bieco dittatore comunista Enrico Berlinguer.
Sia chiaro: neppure Berlinguer era Assad, ma tiranno come il siriano lo avrebbe fatto percepire al mondo la stampa asservita alle veline CIA, dopo di che la caduta del suo governo, inviso agli Stati Uniti, avrebbe riportato legge ed ordine nel mondo; la questione democratica all’epoca non aveva peso: bastava l’anticomunismo.
Il messaggio che gli Usa vogliono mandare tramite l’attacco alla Siria non è però cambiato di una virgola: non ci si può ribellare alla volontà degli Stati Uniti, anche se adesso sembrano incapaci di riportare legge ed ordinecome insegna la  lunga linea di fallimenti che va dall’Afghanistan alla Libia.
Ma se gli Usa si mettono in marcia deve esser chiaro che nulla li può fermare, e non ci riferiamo agli eserciti, ma al diritto ed alla azione diplomatica. A nulla può valere, per chi diventa bersaglio potenziale dei missili statunitensi, rilevare che si tratta di questioni di ordine interno, rendersi disponibile agli ispettori ONU o dichiararsi disposto a mettere sotto tutela internazionale i propri arsenali chimici e decidersi a sottoscrivere i trattati internazionali in materia. Poco importa che le atrocità siano state commesse, come in ogni guerra civile, da ambo le parti: solo l’agnello che beve a valle del lupo va punito, quello che beve col lupo piò commettere ogni crimine, sia col gas che col fosforo bianco, che non essendo cavillosamente rubricato quale arma chimica, ma incendiaria, gli Usa e i loro amici di Tel Aviv possono usare liberamente come arma di distruzione di massa. Loro non hanno firmato i trattati sulle armi incendiarie e possono, loro e sempre e solo loro, non firmare altri trattati scomodi, lasciando proliferare armi di distruzione di massa, anche nucleari, o rifiutare di sottomettersi a tribunali internazionali, cui però vogliono deferire i loro nemici che non possono far proliferare neppure l’atomo civile.
Poco è quindi cambiato dall’11 settembre che vide Allende combattere con l’AK regalatogli da Fidel contro i mercenari USA, che aprirono alla terribile dittatura di Pinochet. Oggi sono i ribelli di Al Qaeda a voler rovesciare il regime di Assad. Allora la tirannia sostituì la democrazia, ora a tirannia si sostituirà tirannia peggiore e caos, ma grazie all’11 settembre delle Torri Gemelle tutto avverrà al ritmo della ballata ipocrita dell’esportazione di democrazia e difesa dei civili inermi.
Oggi c’è, tuttavia, una variabile nuova rispetto ai due precedenti 11 settembre. La Russia si è risollevata e la logica di Yalta è stata spazzata via dall’espansione NATO. Questo implica che: gli USA non sono più la superpotenza che tutto può senza timore di essere efficacemente contrastata anche sul piano militare, mentre su quello economico le parti rispetto agli anni 80 e 90 si sono totalmente invertite. La Russia non è più vincolata al patto di spartizione del mondo voluto a Yalta e le campagne denigratorie non bastano a trasformare Putin, o la Russia in sé, nel demone che si era riusciti a fare dell’URSS.
Le linee guida restano le stesse passando di 11 settembre in 11 settembre, ma vanno registrate  alcune varabili che non sono secondarie, specie se la goffa arroganza USA trasforma Putin nel grande pacificatore e l’aggressione alla Siria in una specie di operazione simpatia per Assad, che altrimenti di simpatia non ne meriterebbe alcuna.
In questo giorno in cui si incrociano due diversi 11 settembre è il caso di fermarsi per un momento di riflessione su come, grazie alla crisi siriana, gli equilibri del mondo stiano cambiando, se non sono già cambiati. Se per il meglio o per  il peggio bisognerà attendere e vedere come i protagonisti sapranno giocare le loro carte: la storia non è ancora scritta, ma si sta cominciando a riscriverla, nella speranza che vengano sconfitti coloro che seguono logiche da 11 settembre. Ma di quello del 1973.
Ferdinando Menconi


Cile, oggi. Todos a la Moneda: Marcel Claude, il candidato umanista alle presidenziali del 2014


* Marcel Claude non è il candidato presidenziale governativo alle prossime elezioni di novembre in Cile. E’ il candidato dei giovani, delle organizzazioni di base, di chi difende l’ambiente e lotta per la giustizia sociale. E’ il candidato dei venti di cambiamento e futuro aperto che soffiano in America Latina. Lo intervistiamo via mail per parlare di queste elezioni e della sua candidatura, sostenuta da tutti gli umanisti del mondo. Abbiamo realizzato questa intervista (concepita per il pubblico internazionale) e la pubblichiamo in occasione di un anniversario molto speciale, i 40 anni del golpe.

Marcel, potresti descriverci la situazione attuale del Cile?
Ci sono tre elementi di cui tener conto. Il Cile è un paese che cresce a livello macroeconomico; prima la crescita annuale era del 7% e ora circa del 4%, eppure più cresce, più si mantiene uguale. E’ il paradosso della macroeconomia, che incanta tutti i politici cileni. I benefici della crescita favoriscono pochissime persone (tra l’1% e il 10% della popolazione), il cui favoloso arricchimento avviene a spese del resto degli abitanti e del paese. Loro sostengono che l’arricchimento di questa minoranza finisce per andare a beneficio di tutti gli altri, ma la realtà è molto diversa. Il sistema sociale ed economico cileno è strutturato secondo una forma di clientelismo a circoli concentrici. Il nucleo centrale è costituito dallo 0.1% che accumula fortune. Per loro lavora un primo circolo, per il quale lavora un secondo e così via e questo schema si ripete nel mondo politico. Si tratta di un mondo clientelare, paternalista e arcaico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Cile è un paese di poveri, o di gente molto sacrificata.
In secondo luogo, ciò che è successo nel 1990 è stato un passaggio di poteri dai militari ai civili, a condizione di non cambiare niente. La Concertación, che è una destra democratica, ha accettato questo accordo ed è rimasta al potere fino al 2009, senza introdurre cambiamenti sostanziali. Il fatto che nel 2009 la destra pinochetista sia tornata al governo dimostra come siano tutti conformi a questo modello.
Terzo e ultimo dato. La Concertación, o Nueva Mayoría, come si fa chiamare ora che include il Partito Comunista, non ha la minima intenzione di cambiare il modello vigente. Le riforme proposte non mettono in discussione il sistema istituzionale creato dai militari sotto l’influenza di Jaime Guzmán (ideologo del governo di Pinochet, assassinato da un gruppo armato di estrema sinistra e riferimento culturale e ideologico della destra, N.d.T.).
Davanti a questa situazione, i movimenti studenteschi e sociali hanno alzato la testa e cercano di far sentire la loro voce in un mondo che non gli concede spazio e li tratta con i lacrimogeni e gli idranti. La mia candidatura nasce da questo ambito, non da un’ambizione personale.


TodosaLaMoneda è il nome del movimento che ti appoggia e del tuo sito: è uno slogan, un’idea forza?
E’ uno slogan inventato dai primi gruppi che hanno deciso di presentare la mia candidatura e anche un programma: Todos a La Moneda esprime innanzitutto l’idea che bisogna restituire la sovranità al popolo, alla nazione, a quelli a cui è stata sottratta con la violenza nel 1973 senza mai più rendergliela. Il nervosismo delle due destre, quella pinochetista e quella democratica, rispetto al tema dell’Assemblea Costituente è una dimostrazione del loro timore della sovranità popolare, del potere costituente originario.
Un economista amico dei giovani. Qui in Italia non c’è niente del genere. Ci racconti questa storia?
E’ una lunga storia. In sintesi, è dal 2006 che giro per tutto il paese, nelle aule universitarie e nelle scuole, tenendo discorsi e conferenze e parlando con gli studenti. Questa campagna presidenziale si basa su di loro. Credo di essere uno dei pochi candidati, se non l’unico, che non viene fischiato nelle università. Anzi, tutto il contrario. A Valparaíso, per esempio, è arrivata così tanta gente ad ascoltarmi che abbiamo dovuto trasferirci in una piazza.
Un economista molto distante del neoliberismo e vicino a cosa?
Il neoliberismo è innanzitutto un’ideologia, che si è imposta per prima in Cile, paese cavia, poi è stata adottata negli Stati Uniti e nel Regno Unito da Ronald Reagan e Margaret Thatcher e oggi è universale. E’ un’ideologia perché dai lavori di Karl Polanyi (La grande trasformazione, 1944) emerge che il libero mercato è un’invenzione recente. Fin dalla preistoria in nessuna società il mercato aveva costituito il centro delle relazioni economiche. Le decisioni giuridiche ed economiche, per esempio sul diritto del lavoro, definite nella Dichiarazione di Filadelfia, che creò lOrganizzazione Mondiale del Lavoro in quello stesso anno 1944, verso la fine della seconda guerra mondiale, dovevano rispettare la persona umana e non disumanizzarla come avevano fatto i nazisti. Nel mondo occidentale il neoliberismo ha smantellato a poco a poco questa concezione umanista. Io credo nella giustizia sociale, nell’uguaglianza di opportunità e in uno Stato neutrale, che faccia da garante degli interessi comuni, del bene comune.
Qual è la tua proposta economica?
Non è una sola, ma una serie di misure. La ri-nazionalizzazione dell’industria mineraria cilena, il recupero dell’acqua, anch’essa privatizzata, la cancellazione delle quote di pesca, che consegnano tutto il mare cileno a meno di sette famiglie. Mi sembra che il Cile continui a essere un paese arcaico anche rispetto alle sue produzioni, tutte volte solo all’esportazione. Come in passato, è principalmente un produttore di materie prime esportate senza quasi trasformarle. Se il Cile vuole essere un paese moderno, del primo mondo, deve trasformarsi in un paese in grado di produrre beni con valore aggiunto, eventualmente di alta tecnologia. Questo significa un cambiamento sostanziale del modello economico.
L’educazione gratuita è possibile; tu stai lottando per ottenerla in Cile, uno dei paesi più privatizzati del mondo. Lo si può fare anche da altre parti? In tutto il mondo?
Le condizioni di ogni paese sono diverse. Il Cile ha avuto un’istruzione gratuita e di buon livello. Non vedo perché non si potrebbe tornare a questo, se non per salvaguardare gli interessi economici dei pochi proprietari di scuole e università private. Bisogna rendersi conto che uno dei maggiori affari in Cile è stato quello di accaparrarsi le ricchezze dello Stato. Nell’istruzione l’affare è rappresentato dai sussidi pagati dallo Stato per ogni studente. Sono favorevole a farla finita con questo sistema. Non si tratta di impedire l’esistenza di università o scuole private, ma i fondi pubblici devono essere riservati al settore pubblico.
Quali sono i temi principali del tuo programma?
Quelli di cui ho già parlato.
Tu rappresenti la speranza che anche in Cile soffino i venti del cambiamento: cosa fai ogni giorno perché questo sogno si realizzi?
Come ho già lo detto, giro per il Cile, mi muovo dovunque, parlo, cerco di convincere la gente che la decisione di cambiare il modello sta nelle sue mani.
In Cile se nessun candidato ottiene la maggioranza nelle elezioni, c’è un secondo turno. Che possibilità hai di essere uno dei due candidati finali?
In Sudamerica, per esempio in Ecuador, è successo che un candidato a cui i sondaggi attribuivano non più del 2% sia stato eletto. Io spero che i cittadini cileni si sveglino dal letargo dell’astensionismo. 
Pochi giorni fa c’è stata una polemica sulla commemorazione dell’11 settembre organizzata dal Presidente Piñera: potresti darci la tua opinione ed esprimerci i tuoi sentimenti su quell’evento?
Quello che si è cercato di fare negli ultimi giorni è far passare l’idea che in Cile 40 anni fa ci fosse stata una “rottura delle democrazia” e che questo giustificasse l’intervento dei militari; questa idea vorrebbe giustificare le richieste di perdono molto ipocrite da parte dei protagonisti dell’epoca. Quel che non si vuol dire è che il golpe fu il mezzo per imporre il modello neoliberale nel nostro paese, mettendolo a ferro e fuoco, e che, per questo, chi difende quel modello, difende quel massacro provocato dal golpe.

Intervista a Marcel Claude, candidato alla presidenza del Partito Umanista alla Presidenza della Repubblica del Cile alle elezioni che si terranno nel 2014, a cura di Olivier Turquet pubbllicata ieri su Pressenza

Ricordando Salvador Allende


"Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati. Questi subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun Parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l'interesse collettivo. In poche parole, la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta. Le grandi imprese multinazionali non solo attentano agli interessi dei Paesi in via di sviluppo, ma la loro azione incontrollata e dominatrice agisce anche nei Paesi industrializzati in cui hanno sede. La fiducia in noi stessi, che incrementa la nostra fede nei grandi valori dell'umanità, ci dà la certezza che questi valori dovranno prevalere e non potranno essere distrutti". Dal discorso tenuto da Salvador Allende all'ONU il 4 dicembre del 1972. L'11 settembre del 1973 l'Amministrazione Nixon gli avrebbe presentato il conto. Era la fase esecutiva dell'Operazione Condor. Ora siamo al tentativo avanzato di completare l'attuazione del PNAC, Progetto per un Nuovo Secolo Americano, avviato ufficialmente un altro 11 settembre, quello del 2011.

martedì 10 settembre 2013

Il terrorismo delle "guerre umanitarie"


Rilancio questa esaustiva riflessione del filosofo Eduardo Zarelli sulla questione degli interventi cosiddetti umanitari, quanto mai d'attualità di questi giorni nei confronti della Siria e che mi trova completamente d'accordo, pubblicato su "Il Ribelle", testata on line fondata da Massimo Fini e diretta da Valerio Lo Monaco, il 28 agosto scorso.

L'ennesima terroristica "guerra umanitaria"

«Chi dice umanità cerca di ingannarti»: la massima di Proudhon, risulta tanto lapidaria quanto inoppugnabile nel descrivere in essenza la “guerra umanitaria”, che con la vulgata dei “diritti umani” sorregge ipocritamente l’imperialismo occidentale. L’ideologia liberaldemocratica della humanitarian intervention coincide con una strategia generale di promozione degli “interessi vitali” dei Paesi occidentali, iscritti in un modello parossistico di “sviluppo illimitato” a discapito delle limitate risorse naturali. 



Un progetto esplicito di governo mondiale, portato avanti con cinismo criminale, sui cadaveri di migliaia di morti diretti o indotti nella popolazione (“effetti collaterali”, nella neolingua dei dominanti), che nella spregiudicatezza dell’uso dello strumento bellico, va definito per quello che è: terrorismo. 
La guerra che si autoproclama umanitaria serve non solo a legittimarsi presso la propria opinione pubblica, ma anche a delegittimare il nemico, cui è negata in principio la qualità stessa di “essere umano”. In questo modo, il conflitto può essere combattuto senza alcuna regola e venire spinto fino a ogni estrema conseguenza, compreso l’olocausto nucleare, dato che il “nemico”, come male manifesto, o si redime o si eradica. La barbarie dispiegata era stata ben intesa già nel secondo dopoguerra novecentesco dal giurista tedesco Carl Schmitt, che in un passo profetico così scriveva: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizione dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera e così via. Esso considererà come violenza extraeconomica il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi agli effetti di questi metodi “pacifici”»
La storia che si ripete
Se si adotta un approccio anche solo minimamente realistico, si possono agevolmente individuare le motivazioni effettive delle “guerre globali” dell’ultimo ventennio. Accanto a interessi elementari come l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati, in particolare quelli finanziari, emergono significativamente quelle fonti energetiche, di cui il Medio Oriente è ricchissimo: il petrolio e il gas naturale, anzitutto. Se si pensa alle guerre scatenate dagli Stati Uniti, quindi, non si può che riferirle a un progetto di occupazione neoimperialistica del Mediterraneo, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale secondo la logica geopolitica, che vede in Oriente – dato il destino di potenza della Cina – lo scenario degli interessi cruciali nell’immediato o forse medio futuro. 
Conferme
Una limpida conferma degli obiettivi reali delle “guerre globali” viene dalle motivazioni formalmente avanzate dalle potenze occidentali; si tratta di motivazioni infondate e sostanzialmente del tutto illegali, come provano le dichiarazioni con le quali la NATO – ma, di fatto, gli Stati Uniti – ha corroborato retoricamente il dispiegamento della forza militare. Il  generale Fabio Mini, già Capo di stato maggiore del comando NATO per il Sud Europa, in un illuminante volume titolato Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, ha scritto in merito: «Falso il pretesto delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che non servivano a chiudere la seconda guerra mondiale, ma a sancire la superiorità sui sovietici. Falso il pretesto dell'incidente di Tonchino, che ha dato il via alla guerra del Vietnam. Falso il massacro di Racak del 1999, che ha fornito il pretesto per la guerra in Kossovo. Falso il pretesto delle armi di distruzione di massa di Saddam, che ha aperto il conflitto in Iraq»; altrettanto può dirsi della guerra contro la Libia, che gli Stati Uniti hanno combattuto in collaborazione con la Francia, l’Inghilterra e l’Italia. Si è trattato di un’aggressione in perfetta  sintonia con quella messa in atto con la guerra per il Kosovo: stesse motivazioni, stessi obiettivi “umanitari”, stessa NATO, sempre pronta a bombardare senza limiti Paesi e città. È sufficiente una rapida lettura della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011, con la quale si è deciso il No-Fly Zone contro la Libia, per cogliervi una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite. La violazione della Carta è evidente, se si tiene presente che il comma 7 dell’art. 2 stabilisce che «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato». È dunque indiscutibile  che la “guerra civile” di competenza interna alla Libia non era un evento di cui poteva occuparsi il Consiglio di Sicurezza.  


E ora tocca alla Siria
Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, il Paese arabo viene oggi presentato mediaticamente come il diavolo in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della “democrazia”. 
La realtà della drammatica situazione siriana è che gli Stati Uniti e i servizi segreti alleati inglesi, francesi, turchi, sauditi, qatarioti e israeliani ne sono i protagonisti da almeno due anni e mezzo, per far degenerare il conflitto politico in guerra civile aperta. L’intento di rovesciare la Repubblica Araba siriana – autoritaria, ma laica e pluriconfessionale – governata da Bashar Assad, è sotto gli occhi di tutti, l'Europa e gli Stati uniti (in compagnia delle petromonarchie saudita e qatariota) nella coalizione degli «Amici della Siria», dal marzo 2011, hanno finanziato, armato, addestrato i ribelli. Alimentando e sostenendo la guerra che produce stragi, profughi, vittime. Consapevoli che sostenevano salafiti e qaedisti che puntano al califfato siriano. Com'era del resto accaduto nell'intervento «umanitario» in Libia contro Gheddafi. Ma una responsabilità di non minor conto, in ordine politico, è rappresentata dal sabotaggio sistematico di qualsiasi soluzione politica del conflitto interno – giustamente evocata dal Santo Padre Francesco – , così come della Russia, della Cina, della Repubblica islamica dell’Iran e di tutti i Paesi “non allineati”. 


Il Governo siriano aveva già colto la necessità di una nuova Costituzione e di elezioni pluralistiche, nella legittimità comunque della propria sovranità, ma l’intento occidentale è quello di fare cadere una nazione indipendente, quindi scomoda, che ha dimostrato sul campo una solidità istituzionale e di consenso popolare superiore all’enorme sfida postagli dallo schieramento internazionale avverso. Il risultato auspicato è in coerenza con il caos della guerra civile interconfessionale indotta dopo le guerre americane in Iraq, in Afghanistan e in Libia. 
Dalla Palestina all'Iran
I Palestinesi sono stati divisi in due entità distinte e spesso contrapposte (Hamas e Al Fatah) tra Cisgiordania e Gaza. I contrasti si sono estesi poi anche alla rete dei campi profughi in Libano e Siria. In pratica, tutti i Paesi già avversi e oppositori degli interessi occidentali e della politica espansionista israeliana sono devastati, in preda alla frammentazione settaria e all’insignificanza politica, in attesa dell’esplosione del Libano e della possibile aggressione diretta all’Iran.
Gli USA in Medio Oriente hanno agito – sollecitati, in questo, da Israele –  per frammentare, contrapporre e destabilizzare l'area. L'idea degli Stati Uniti è stata sempre quella di essere talmente forti da potere gestire l’instabilità che si veniva a determinare, preferendola a una stabilità e a un consolidamento delle relazioni all'interno dei Paesi arabi e islamici. Ad acutizzare l’instabilità è arrivata la crisi in Egitto, che in presenza del colpo di Stato militare, ha frantumato tutte le alleanze preesistenti e stenta a definirne delle nuove, alimentando così uno scenario di incertezza in tutta la regione. Turchia, Iraq e Qatar sono contro i militari egiziani e il loro nuovo regime, mentre l’Arabia Saudita e Israele sostengono il colpo di Stato dei militari e la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani. In questo “tutti contro tutti”, l'unico elemento che sembra potere ricomporre le vecchie alleanze è l'attacco contro la Siria. Bombardare Damasco e destabilizzare il governo di Bashar Assad può rappresentare il fine unificante contro il “nemico comune” in grado di rimettere insieme Stati Uniti e Turchia, Qatar e Arabia Saudita, Israele e le vecchie potenze coloniali dell'area come Francia e Gran Bretagna. 
I morti non sono tutti uguali
Il casus belli sarebbe l’utilizzo di gas nervino nei sobborghi della capitale Damasco.  Gli eventi del 21 agosto hanno cagionato, secondo le fonti unilaterali dei “ribelli”, circa 1.300 morti. Orbene: una cifra non di molto inferiore è quella degli egiziani uccisi nel corso delle manifestazioni di protesta contro il recente golpe militare appoggiato dall’Occidente. Va tenuto presente che in quest’ultimo caso, definito da Human Rights Watch «il più grave episodio di uccisioni extragiudiziarie di massa nella storia dell’Egitto moderno», a cadere sono stati per lo più dei civili disarmati (malgrado alcuni dei dimostranti abbiano fatto ricorso alle armi), mentre in Siria è in corso una vera e propria guerra tra milizie armate, in cui spesso è difficile distinguere il civile dal combattente. Se fosse una questione “morale”, con quale misura e quanta malafede si pesa il sangue umano? Solo poche settimane prima, decine di migliaia di Curdi si sono rifugiati precipitosamente in Iraq, inseguiti dalla pulizia etnica operata nel territorio nord-orientale della Siria dalle bande sanguinarie qaediste di al-Nusra, nella noncuranza generale.  In realtà, non si capisce come l’esercito siriano, che è in condizione di vantaggio strategico nel conflitto in corso, nell’imminenza di nuovi colloqui di pace fissati a Ginevra in presenza di osservatori delle Nazioni Unite voluti e ospitati dalle autorità siriane in Damasco per indagare sugli innumerevoli crimini commessi  da parte dei gruppi terroristici – anche con armamento chimico, come già comprovato e sostenuto da una fonte indipendente come la voce di Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale – abbiano potuto effettuare tale bombardamento. 
Cui prodest? Ma i mezzi di informazione “suonano a bacchetta” con le dichiarazioni del Dipartimento di Stato americano, tesi a dimostrare l’inverosimile anche di fronte alla realtà; se, paradossalmente, fosse credibile questa farsa, forse che i caccia atlantici, appurando – come credibilmente potrebbe essere – che la criminale irrorazione venefica fosse opera dei “ribelli”, prenderebbero il volo? Figuriamoci, i pianificatori militari del Pentagono sono profondamente consapevoli del ruolo centrale della propaganda di guerra. La plateale distorsione della verità della sistematica manipolazione delle fonti di informazione è parte integrante della pianificazione bellica.

Nella tragedia in corso risulta poi semplicemente inutile parlare dell’ignavia del nostro Paese: provincia marginale dell’Impero occidentale, è una semplice cassa di risonanza armonica della voce egemonica statunitense. Destra, centro, sinistra: la classe dirigente e politica più subalterna e servile dell’intera storia patria è una parodia di qualsivoglia simulacro di sovranità e dignità etica, o pur semplice realismo multilaterale a vocazione europea e mediterranea. Rimane quindi da attendersi il peggio; uno scenario, che potrebbe precipitare in una catastrofe internazionale, così come nell’ennesimo “fatto compiuto” del nuovo ordine mondiale: la dittatura oligarchica del denaro contro l’autodeterminazione dei Popoli. 
Viene quindi spontaneo evocare un’altra figura concettuale, posta a paradigma dell’epoca contemporanea da Carl Schmitt: quella del “resistente”. Il nemico, nell’ordine tradizionale legittimo, è un avversario, che partecipa delle stesse regole; il partigiano o guerrigliero, invece, operando al di fuori delle regole accettate, è il nemico assoluto, che oppone a colui che combatte una inimicizia assoluta, che impedisce, ad esempio, di accettare la sconfitta come risultato dello svolgersi della partita secondo le regole imposte dal dominante. 
Si tratta di una scelta di libertà interiore e di coerenza metapolitica.

Eduardo Zarelli