domenica 31 marzo 2013

Un giorno devi andare

"Un giorno devi andare" di Giorgio Diritti. Con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Sonia Gessner, Amanda Fonseca Galvão e altri. Italia, Francia 2013 ★★★½
Augusta, trentenne traumatizzata per la perdita del figlio che portava in grembo e abbandonata dal marito a causa della sopraggiunta sterilità, per rimettere insieme i cocci della sua esistenza e riflettere sul senso della propria vita lascia il natìo Trentino e parte alla volta del Brasile assieme a suor Franca, un'amica della madre, missionaria fra le tribù indie del bacino del Rio delle Amazzoni. Un'opera di evangelizzazione a base di santini e paccottiglia che fa venire in mente le perline di vetro con cui i primi europei sbarcati nelle Americhe turlupinavano gli indigeni che non le conoscevano, imponendo loro credenze e rituali che, non facendo parte della loro esperienza di vita, non riescono a comprendere e a cui Augusta non può aderire. Decide quindi di "farsi terra" e agire per conto suo andando a vivere e a dare una mano nelle favelas di Manaus, capitale dello Stato di Amazonas, dove il contrasto tra la povertà estrema delle periferie e il rutilante ma vuoto mondo del centro globalizzato della città è estremo. Perché nelle favelas un senso di comunità rimane, benché minacciata dalla "modernità risanatrice" e pure se l'umanità che vi sopravvive, spesso con mezzi illeciti, non è esattamente esempio di virtù. Anche se Diritti ogni tanto sembra scivolare nella retorica della comunità e della virtuosità della povertà ha il pregio di non giudicare e di lasciare intravedere anche gli aspetti della carità pelosa, per quanto in buona fede, e sostanzialmente fredda e autoreferenziale delle strutture ecclesiastiche e delle persone che vi ruotano intorno: lo fa specialmente quando, a contrasto, salta dalle immagini fluviali dell'Amazzonia (peraltro bellissime: la fotografia è di altissimo livello) a quelle del mondo valligiano e del convento frequentato dalla madre di Augusta e da cui proviene suor Franca. In definitiva la storia è quella del viaggio alla ricerca di sé stessa da parte del personaggio principale, la giovane donna interpretata da una brava e credibile Jasmine Trinca, capace di esprimere con pacata intensità pensieri, insicurezze, disagi e perplessità anche e soprattutto attraverso i suoi silenzi e il modo di muoversi e interagire, e lasciando perfino trasparire i dubbi che lei stessa nutre sul rischio di confondere la ricerca di una via di fuga con un solidarismo artificiale, in questo dicendo di più lei con il "non detto" di quanto faccia lo stesso regista con la sua equidistanza. Film un po' lento ma, lasciato opportunamente sedimentare per un paio di giorni, senz'altro pregevole. 

sabato 30 marzo 2013

Perché ci vuole orecchio, bisogna avere il pacco...

Se ne è andato ieri, a 77 anni, Enzo Jannacci. Nato, da immigrati pugliesi, vissuto e morto in quella Milano che amava in maniera struggente e di cui è stato il cantore più profondo. Milano è sempre stata, in particolare nei due dopoguerra del secolo passato, città di immigrazione, in cui i nuovi venuti, grazie a un humus  preesistente particolarmente fertile, si integravano molto più facilmente, velocemente e felicemente che altrove diventando presto meneghini tout court (Milano è la più grande città pugliese al mondo, prima ancora di Bari, ad esempio). Strehler, Gaber, Celentano: sono i primi esempi che mi vengono in mente, per rimanere nel campo dello spettacolo. Figlio anch'io di immigrati, "nativo" di Porta Lodovica  all'ombra di Sant'Eustorgio (dove c'è tuttora il celebre Bar Gattullo, sede dell'ufficio facce fondato da Beppe Viola e covo di milanisti, forse motivo inconscio per cui mi sono spostato nell'adiacente Porta Romana, feudo nerazzurro), ero legato a quella Milano in modo viscerale. Non c'è più da un pezzo la città la cui anima Jannacci era capace di descrivere con un linguaggio unico, solo apparentemente surreale e strampalato, ed è la ragione per cui ne sono scappato ormai più di dieci anni fa, incapace di riconoscerla e di sopportarne l'abbrutimento, la perdita di identità e il degrado della dimensione comunitaria e solidale che era la sua caratteristica, e con lui se ne va un altro frammento di memoria. Musicista, poeta, medico, soprattutto uomo, e con un cuore enorme: forse per questo si era specializzato in cardiochirurgia. Va da sé: aveva anche orecchio. Enorme anche questo, come sulla copertina di uno dei suoi dischi di maggiore successo, non solo a livello locale. Ci mancherai tanto, Enzo. Come usava dire un altro milanese acquisito, Gianni Brera, al momento di salutare la dipartita di un amico, che la terra ti sia lieve.

venerdì 29 marzo 2013

Gli amanti passeggeri

"Gli amanti passeggeri" (Los amantes pasajeros) di Pedro Almodóvar. Con Antonio de la Torre, Hugo Silva, Miguel Anguel Silvestre, Javier Cámara, Lola Dueñas, Cecília Roth,  José María Yazpic, Carlos Areces, Raúl Arevalo, Guillermo Toledo e altri. ★★★½
Un Airbus a340 della compagnia Peninsula, con a bordo un equipaggio improbabile di sex addicted omo e bisessuali, alcolizzati e drogati, in rotta da Madrid a Città del Messico, rimane in avaria un'ora e mezzo dopo il decollo da Barajas perché gli addetti dell'aeroporto, in tutt'altre faccende affaccendati (un cameo con Penelope Cruz e Antonio Banderas), hanno dimenticato di togliere uno dei "tacchi" che fermano gli pneumatici e che è stato inghiottito da un carrello, bloccandolo. Quando il personale di bordo se ne accorge, e il velivolo è costretto a tornare indietro e poi volteggiare per ore e ore in cerchio sopra il cielo di Toledo in attesa che si liberi una pista per l'atterraggio d'emergenza, decide di sedare i passeggeri della classe economica (e le hostess etero) e di intrattenere quelli della "business" con un ogni sorta di mezzo, a partire da fiumi di "Agua de Valencia" con aggiunta di mescalina che tolgono loro ogni freno inibitore passando per una sorta di esilarante vaudeville ad opera degli Stewart mentre la trasgressione regna sovrana e si svelano le pulsioni e i segreti dei vari personaggi: dalla veggente che "sente" la morte, e anche l'imminente perdita della propria verginità, ingaggiata per una trasferta in Messico, a una maîtresse d'alto bordo che tiene in pugno, ricattandoli, i potenti di Spagna, al killer ingaggiato per eliminarla che finisce per innamorarsi di lei, al finanziere ricercato e in fuga, a un attore dongiovanni impenitente, a una coppia di sposi  tossicomani, per finire in una sorta di sabba liberatorio ad alta gradazione di sesso. Un delirio generalizzato zeppo di battute demenziali e ad alto tasso di scorrettezza politica e di genere, fino allo happy end dell'atterraggio sulla pista ricoperta di schiuma di un fantomatico aeroporto de "La Mancha", costruito grazie a una speculazione in mezzo al nulla e completamente deserto. A prima vista una pochade, che fa pensare a un regista che ha perduto l'ispirazione e che gira film soltanto per routine o autofinanziarsi, come il Woody Allen delle trasferte turistiche a Londra, Barcellona, Parigi e Roma, ma trattandosi di quel geniaccio di Almodóvar, ancora troppo vitale per essere affetto da senilità come da tempo lo è il regista newyorkese, non è difficile intravedervi la metafora della situazione in cui si trova la Spagna (e con lei gli altri Paesi dell'Europa mediterranea, a cominciare dal nostro), in preda a una crisi finanziaria di cui non ha alcun controllo. Non a caso la compagnia a cui appartiene l'aereo si chiama Peninsula e mi ha fatto immediatamente venire in mente "La zattera di pietra" di Saramago, che immaginava una Penisola Iberica che, strappatasi la cerniera che la unisce all'Europa attraverso i Pirenei, veleggia alla deriva verso quel Nuovo Mondo che essa stessa aveva scoperto per trovarvi una nuova collocazione più consona; nella classe turistica anestetizzata non si fatica a immaginare il riferimento alle classi lavoratrici che si dibattono tra precariato e disoccupazione, tenute sotto controllo per evitare le rivolte di piazza, mentre la classe dirigente, che ha intrallazzato, rubato e fallito su tutto il fronte, anche personale, si diverte con quel che le rimane, che è sempre troppo. Intanto, mentre la Peninsula è sospesa nell'aria, in panne, a rischio di precipitare da un momento all'altro per mancanza di carburante (e alternative) e attende istruzioni che tardano ad arrivare, nella cabina e  in prima classe si scatena una sorta di rito orgiastico, amorale e sfrenato, che si ricollega alle energie che si erano sprigionate ai tempi della movida seguita alla caduta del regime di Franco ormai quaranta anni fa. In mancanza d'altro, per il momento, almeno ci si rifà con lo sberleffo, di cui Pedro rimane un maestro e con un inno alla disubbidienza, nella speranza che prima o poi la classe turistica esca dallo stato narcotico e si ribelli. 

mercoledì 27 marzo 2013

Oblivion Show 2.0 / Il Sussidiario

"Oblivion Show 2.0 / Il Sussidiario". Con Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli. Regia di Gioele Dix, testi di Davide Calabrese e Lorenzo Scuda, musiche di Lorenzo Scuda, Coreografia di Francesca Folloni, luci di Raffaele Perin e Claudio Tappi. Coproduzione Malguion srl e Il Rossetti- Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia. Al Teatro Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia (PN), stasera alle 21 al Teatro Ristori di Cividale del Friuli
Devo ringraziare un mio caro amico che l'altroieri mi consigliava vivamente lo spettacolo di questo ensemble di solisti formidabili che si definiscono "madrigalisti post moderni", diventati famosi, dopo anni di gavetta, con il micro musical "I promessi sposi in dieci minuti" diffuso su You Tube in un video che è diventato di culto in rete e consacrati anche in TV su "Zelig".  Diffido in genere di personaggi che devono il loro successo grazie al passaggio ossessivo in TV col rischio di diventare dei tormentoni, ma non è il caso di questi artisti completi, di solida formazione musicale, vocale, teatrale, mimica al contempo. "Il dottore", loro suiveur e sostenitore della prima ora, che me li segnalati è un formidabile cazzaro ma anche un vero intenditore nonché musicista di buon livello a sua volta e dunque affidabile: aveva ragione. Conoscevo "I promessi sposi", da sbellicarsi dal ridere e riproposto ieri sera come bis, in 10' esatti mentre sullo sfondo scorre il count down sulle immagini di un filmato di fan che ne ripropongono le scene (un po' alla "Rocky Horror Picture Show"), ma è l'intero spettacolo, un compendio di ciò che il gruppo bolognese è capace di fare, a mantenersi sullo stesso livello di arguzia, ritmo, presenza scenica, citazioni anche colte e raramente banali, rivisitazione del musical, del cabaret, nonché della colonna sonora degli anni sessanta e settanta italiani ma non solo, andando ancora più indetto nel tempo (il Quartetto Cetra fra i loro dichiarati "numi tutelati, assieme a Gaber, Rodolfo De Angelis e i Monty Python). Sistemati anche Dante con "L'Inferno" e "Pinocchio", entrambi in versione di 6', e assemblati Lady Gaga con Bach, Morandi con i Queen, non è mancata la demenza pura in una parodia "Bollywoodiana" del "fare yoga" e nelle rivisitazioni delle Hit Parade dei tempi di Lelio Luttazzi (stupefacente fino a un certo punto che abbiano successo anche tra i giovani di oggi, visto il livello penoso della produzione musicale attuale) raggiungendo però a mio parere il culmine con l'esibizione delle due donne del gruppo come "Vocalist" e "Consonantist", riuscendo a cantare in questa maniera "Nel blu dipinti di blu". Sala stracolma, applausi calorosi, uno spettacolo esilarante, da raccomandare se si vuole divertirsi con gente che da fare il proprio lavoro.

lunedì 25 marzo 2013

Abbaglio a Cinque Stelle / Considerazioni di un grullo che ha votato Grillo

"Mai mi sarei aspettato che foste così politicamente stupidi e impreparati": faccio mie le parole di Federico Maestri, che non ho il piacere di conoscere ma sintetizza efficacemente  lo stato dell'arte. Questa volta non posso affermare che “io l’avevo detto”: questo blog e alcuni post pre e post elettorali sono a dimostrarlo (non ho l'abitudine di nascondere la sporcizia sotto al tappeto, ossia di manomettere le prove della mia coglioneria). E’ passato esattamente un mese dal giorno in cui si sono avuti i risultati delle urne, sorprendenti anche per me che pure avevo previsto il botto del M5S e vi ho perfino contribuito perché, come avevo annunciato, l'ho votato. Mi è di poco conforto il fatto che avessi esitato fino all’ultimo, recandomi al seggio soltanto nel corso dell’ultima ora utile, lunedì pomeriggio: alla fine la suggestione di poter punire con l’unico strumento legalmente disponibile l’intera classe politica che ci ammorba da due generazioni, con un voto che le facesse male, mi ha fatto uscire dall’astensionismo a oltranza in cui mi ero rifugiato finché non fosse stata varata una legge elettorale accettabile. La botta è arrivata (mai abbastanza forte) ma la cazzata l'ho fatta lo stesso. Le prime avvisaglie le ho avute il lunedì successivo al voto, quando al borgo dove risiedo si è tenuta la riunione del costituendo gruppo M5S di Spilimbergo, per discutere sulla possibilità (fortunatamente abortita per inettitudine dei promotori) di presentare una lista alle imminenti elezioni comunali. La sala, affollata di curiosi ed elettori del M5S alle politiche, si è velocemente svuotata allorché hanno aperto bocca gli organizzatori della riunione, per non parlare della supponenza pari solo alla pochezza dei due "commissari politici" inviati dal capoluogo, giunti con la lista di candidati già riempita per 2/3 da noti opportunisti ed ex fascisti saltati sul carro del vincitore, da "completare possibilmente con donne" (a causa delle quote rosa) per ottenere l'imprimatur (ossia l'uso del marchio) da parte dello staff di Grillo e senza lo straccio di un programma perché questo, secondo il mantra a cinque stelle, "viene costruito su singole proposte che riflettono gli interessi e le competenze dei cittadini": hanno finito per parlare quasi esclusivamente del costo dei parcheggi e di campi sportivi e attività estive per i bambini. A livello nazionale, nelle due settimane successive ho tralasciato di far caso a schermaglie reciproche, battibecchi, affermazioni campate per aria e pagliacciate varie che hanno trovato ampiamente spazio su TV e giornali e mi limito qui a trarre le conseguenze dello spettacolo penoso offerto dai pentastellati a partire dall'insediamento delle Camere in poi, ossia da dieci giorni a oggi. Ora: se si concorre per entrare in Parlamento lo si fa, lo dice il termine stesso, per confrontarsi e discutere, accettandone le regole: nulla vieta di rimanere un movimento al di fuori delle istituzioni, per l'appunto extraparlamentare, il che non impedisce di ottenere dei risultati anche notevoli, come dimostrano, da ultimo, i referendum dell'estate del 2011. Ma quando si entra in pista, si balla: se stai lì per fare il "signornò" e l'oppositore a un governo che non esiste, non sei né un "apriscatole", né un rompiscatole; ma inutile, anzi: dannoso. Al primo banco di prova, l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento, pur di rimanere "fedeli alla linea" e di non "fare accordi sottobanco" (nulla vietava di farli alla luce del sole), il M5S ha perso l'opportunità di ottenere la presidenza della Camera (e dunque disporne, di fatto, l'ordine del lavori e quindi le priorità) in cambio di quella del Senato al PD dove, se avesse accettato la trattativa, avrebbe potuto porre il veto a una candidatura indesiderata (Finocchiaro, Marini, Casini) invece di sbracare pubblicamente rivelando le proprie contraddizioni e dover inghiottire la minestra Grasso pur di non saltare dalla finestra Schifani. Quanto al governo e al relativo voto di fiducia, è comprensibile che si rispedisca al mittente il "programma in otto punti" con cui Bersani intende presentarsi in Parlamento, ma di un governo qualsivoglia c'è bisogno, soprattutto se si afferma che la priorità sono i 20 punti irrinunciabili del proprio programma. E per farlo occorre il voto di fiducia (questo sconosciuto). Che può essere concessa a tempo, concordata su alcuni punti prioritari, e per un governo guidato da una personalità a sua volta concordata, e non per forza da un politico o da un banchiere. Soprattutto, può essere revocata. E la trattativa, inserita all'interno di un'altra ancora più importante, su un passaggio strategico: l'elezione del prossimo presidente della Repubblica, a partire dal 15 aprile. L'alternativa è favorire l'ennesimo inciucio, a cui peraltro stanno lavorando alacremente i berluscones, mezzo PD, i montiani nonché "l'Europa che ce lo chiede", per trarne un discutibilmente  immediato vantaggio politico chiamandosene fuori, sempre ammesso che si torni presto a votare, e perdendo qualsiasi opportunità di incidere sull'elezione di chi sostituirà Napolitano come Capo dello Stato, ovvero chi nei prossimi sette anni avrà il potere di sciogliere le Camere e, considerata la situazione di impasse, assumerà un ruolo sempre più decisivo nella vita politica e nel quadro istituzionale (e gli ammiccamenti a un semipresidenzialismo alla francese tra PD e PDL vanno in tal senso). Se non si è in grado di vedere e di capire questo, o è per stupidità o c'è del metodo. Ossia complicità, di fondo, e gioco delle parti. Infine, siamo giunti al delirio del "silenzio stampa" dei portavoce (begli elementi!) dei portavoce dei portavoce, nonché alla certezza di aver votato per delle marionette, esecutori eterodiretti delle decisioni di due personaggi, Grillo e Casaleggio, il gatto e la volpe, che non rispondono a nessuno se non a sé stessi o a entità sconosciute. A questo proposito, e alle loro tecniche manipolatorie, consiglio la lettura dell'interessante e approfondita analisi che fa "l'ex kebabbaro umanista", autore  anche di "5 buone ragioni per non votare Grillo", che ha ottenuto oltre un milione di click  nella settimana prima delle elezioni ma non da parte mia e quindi, purtroppo, inascoltato. Sintetizza a questo proposito un mio conoscente: "A mio avviso quello che viene chiamato fenomeno Grillo tutto è tranne che un fenomeno. Nel senso che rappresenta soltanto un aspetto dell'attuale sistema, che prevede, per poter sopravvivere, anche l'espressione di ciò che apparentemente si oppone ad esso. Per cui ciò che esprime l'amico ex-kebabbaro è in gran parte condivisibile nel contenuto, ma siccome la forma è altrettanto importante, il suo lungo monologo non solo non scalfisce minimamente ciò che critica, ma nemmeno gli fa il solletico. E anche questo è sistema. Un movimento veramente rivoluzionario, cioè non previsto dal sistema, è tale perché fa appello a ciò che di rivoluzionario c'è nelle coscienze. Semplice. E l'ultima volta che ho sentito qualcosa di rivoluzionario durante una campagna elettorale era quando tra le liste ce n'era una con il simbolo dell'infinito su fondo arancione. :-)". Si tratta del nastro di Möbius, simbolo del Partito Umanista. Quello di cui ogni tanto mi dimentico di avere la tessera. Mi auguro a questo punto un rapido ritorno alle urne per emendare al più presto il mio errore e rientrare, male che vada, nella rassicurante grotta dell'astensione. 

sabato 23 marzo 2013

La scelta di Barbara

"La scelta di Barbara" (Barbara) di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Jasna Fritzi Bauer, Rainer Bock, Mark Waschke. Germania 2012 ★★★½
Sebbene abbia le cadenze di un un buon, anzi ottimo film per la TV, questo film ha il pregio di far rivivere in maniera straordinariamente verosimile quel che era la DDR negli anni immediatamente precedenti la caduta del Muro, nell'autunno del 1989. Qui siamo in un paesino sulla costa Mare del Nord, dalle parti di Rostock, e Barbara, una chirurga pediatrica, vi viene spedita dopo una richiesta di visto di espatrio, per punizione e per essere più agevolmente tenuta sotto controllo. Vì incontra Andre, il primario della struttura dove lavora, a sua volta relegato lì per essersi accollato la responsabilità di un errore fatto da una sua collega. Come da copione, tra i due nasce man mano un sentimento intenso, anche grazie alla comune sensibilità nei confronti dei giovani pazienti e alle loro vicende e nonostante le distanze che Barbara deve tenere, a costo di risultare scostante e sgradevole, sia per non tradirsi sia per non coinvolgere altri nel suo ormai imminente piano di fuga: Jörg, il suo fidanzato dell'Est, le ha fornito il danaro e i contatti per effettuarla ma alla fine la sua scelta sarà di rimanere e fare scappare al suo posto una ragazzina sfuggita a un centro di rieducazione minorile che usa metodi nazisti di cui già si era presa cura in ospedale, fuga da quella prigione a cielo aperto che era questo fulgido esempio di socialismo reale, per di più in salsa tedesca. Il regista riesce alla perfezione nel suo intento di raccontare una storia credibile e, soprattutto, una dimensione generale senza enfasi, e senza calcare la mano su atmosfere particolarmente cupe e claustrofobiche, anzi: la vicenda si svolge nel giro di pochi giorni nel pieno dell'estate del 1980, quella delle Olimpiadi di Mosca, spesso all'aperto, con cieli luminosi, panorami soleggiati e dolci, in atmosfere tranquille anche se non idilliache, perché oltre al controllo della Stasi, il tradimento e la spiata sono sempre in agguato e quindi anche la comunicazione tra le persone avviene attraverso l'uso di codici e con reticenze reciproche, il che non impedisce la nascita di legami forti. Non siamo all'altezza di "Le voci degli altri", che era stato un pugno nello stomaco e soprattutto una novità assoluta, ma il risultato è più che apprezzabile lo stesso anche perché ottenuto senza forzature, attraverso  dialoghi scarni ed essenziali, senza inutili fronzoli.  

giovedì 21 marzo 2013

Il dittatore

"Il dittatore" (The Dictator) di Larry Charles. Con Sacha Baron Cohen, Anna Faris, Ben Kingsley, Jason Mantzoukas, Megan Fox. USA 2012 ★★★
Recupero solo ora, con colpevole ritardo, questa chicca uscita nel giugno scorso, mai abbastanza apprezzata in un Paese buonista e ipocrita come il nostro. A mio parere di gran lunga il migliore dei tre film girati dal duo Baron Cohen-Charles: i precedenti erano i pur pregevoli e caustici Borat e Brüno. Il dio (della comicità satirica) li fa e poi li accoppia: inglese (ben educato e colto) l'attore, newyorkese il regista (un tipo molto defilato), entrambi ebrei. Ma corrosivi, scurrili, politicamente, religiosamente e "genderly" scorretti, ne hanno per tutti, senza distinzioni, sbertucciando potenti, imbecilli e fanatici di ogni genere, rivoltandogli contro i luoghi comuni dominanti di cui la pseudo-cultura massmediatica si pasce rincoglionendo sistematicamente l'inclito pubblico. Qui Baron Cohen è nei panni di Haffaz Aladeen, dittatore di Wadiya, Stato ricco di petrolio situato dalle parti del Corno d'Africa (e non del Nord come è stato propalato, malintendendo che si trattasse della Libia): un incrocio tra Gheddafi, Saddam Hussein, Bin Laden, Ahmadinejad e Assad, puerile, egocentrico, ignorante, sanguinario, orgogliosamente idiota, che vola a New York per perorare la causa della sua (e di ogni altra) dittatura all'ONU dopo che questa lo aveva invitato a dimettersi. Una volta nella Grande Mela è vittima di una congiura di palazzo per cui viene sostituito da un sosia, un pastore di capre ancora più becero e cretino di lui, al quale i suoi rivali, che lo manovrano, vogliono far firmare la prima carta costituzionale di Wadiya davanti agli esponenti del mondo sedicente democratico. Aladeen, rimasto senza barba (uguale a quella di Bin Laden) e letteralmente in mutande a vagare tra Brooklyn e Manhattan, finisce per impiegarsi in un negozio di alimenti biologici e naturali gestito da una femminista vegana dura e pura con ascelle particolarmente cespugliose di cui finisce per invaghirsi e lei di lui. Riuscirà a sventare la firma della costituzione da parte dell'impostore, convincerà con un discorso magistrale i democratici yankee della bontà della dittatura usando tutte, dalla prima all'ultima, le argomentazioni usate dai governi USA per scatenare guerre a destra e a manca allo scopo di "esportare la democrazia" e "combattere il terrorismo", demolisce con una serie di battute fulminanti perfino la sacralità dell'11 Settembre e finisce per fare un ritorno trionfale a Wadiya insieme alla sposa americana che, durante uno special su una pseudo CNN, rivelerà si essere ebrea e incinta. "Sarà un maschio o un aborto"? gli chiede il prossimo padre Aladeen, e su questa battuta agghiacciante e definitiva calano i titoli di coda e rimaniamo fiduciosamente in attesa del prossimo appuntamento con i due campioni del demenziale duro di oggi. Grandioso. Da rivedere quando si è di umore inverso e non se ne può più di sentire scemenze.

martedì 19 marzo 2013

La cuoca del presidente

"La cuoca del Presidente" (Les saveurs du Palais") di Christian Vincent. Con Catherine Frot, Jean d'Ormesson, Hyppolite Girardot, Arthur Dupont, Jean-Marc Roulot e atri. Francia 2012 ★★½
Film liberamente ispirato alla biografia di Danièle Depeuch, che fu per alcuni anni, dal 1986, cuoca personale di François Mitterrand all'Eliseo, scorre via innocuo, tra arguzie, strizzate d'occhio autoindulgenti su quella strana forma di monarchia che è la presidenza della Repubblica francese, sottolineatura della propria Grandeur Gastronomique e un eccesso di verbosità tipico del cinema transalpino. Racconta la storia di Hortense Laborie, cuoca eccelsa e fattoressa nel Périgord, paradiso di una cucina dai sapori autentici, chiamata a sorpresa a Parigi per soddisfare i desideri personali di Monseiur Le Président, una donna decisa, dal carattere piuttosto aspro, abituata a fare a modo suo e approvvigionarsi di persona da fornitori di fiducia, che finisce presto per inimicarsi, anche a causa del rapporto privilegiato col presidente, l'establishment cuciniero ossia gli chef ufficiali dell'Eliseo e l'infinita schiera dei loro aiutanti (mentre a lei ne basta uno solo, Nicolas,  che funge anche da pasticciere), sostenuti da una parte dello staff presidenziale che usa la burocrazia e il pretesto dell'attenzione ai conti per metterle i bastoni tra le ruote  e dall'altra dai dietologi del Grand'Uomo, impersonato dal noto giornalista,  scrittore nonché commis di Stato Jean d'Ormesson in persona, ansiosi di metterlo a stecchetto. Hortensie, trascorsi poco più di di due anni di servizio, preferisce andarsene e accettare per un anno un ingaggio presso una base scientifica sulle Isole Crozet, situate nel Mare Antartico, per accumulare denaro abbastanza da investire in terreni in Nuova Zelanda, terra pressoché vergine dove ha scovato una zona adatta per impiantarvi una tartufaia. E' in occasione dell'ultima cena che prepara agli operai e tecnici della base che Hortensie si lascia andare ai ricordi parigini, rievocandoli senza trionfalismi in un susseguirsi di flash-back e ricorda, in un'armosfera di amicizia come quella che si instaura tra esuli in capo al mondo, il rapporto che ebbe con l'illustre inquilino dell'Eliseo. Ovviamente invoglianti e di per sé gustose le descrizioni delle ricette, raccontate sempre a voce e la cui preparazione nonché gli esiti sono filmati con dovizia di particolari: mancano soltanto gli odori. La domanda che sorge però spontanea è come mai questa donna, così vocata alla cucina strettamente d'antán e di territorio, abbia preferito poi allontanarsi dalla sua fattoria nel cuore gastronomico della Francia per imbucarsi nelle cucine di Palazzo e poi in giro per il mondo, perfino in una sorta di mensa aziendale nei pressi dell'Antartico. Ossia: da una parte sembra la celebrazione di un epigono di José Bové (o Carlin Petrini) in gonnella, dall'altra quella del tartufo globailzzato. C'è qualcosa che non mi torna, e non da oggi, nella Grande Cuisine dei cugini d'oltralpe. Così come nella cinematografia.  Però la pellicola si fa vedere, se non si hanno grandi aspettative.

lunedì 18 marzo 2013

Troppo avanti

Esibizionista, vanesia e viva (nel senso argentino del termine, ossia "furba") com'è, Cristina Fernández de Kirchner, la "mandatária" o "Presidenta" dell'Argentina, non si è lasciata sfuggire l'occasione di essere il primo capo di stato ricevuto dal nuovo pontefice Francesco, il connazionale ed ex arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio e lo ha omaggiato di un tradizionalissimo mate de calabaza (zucca) con relativa bombilla d'argento. L'avevo preceduta di 5 giorni proprio su questo blog. Preveggenza? Forse anche, ma soprattutto conosco i miei polli. Meglio di quanti in questi giorni si spacciano per esperti, blaterano a vanvera e non ne imbroccano una.

Le rane

"Le rane" di Aristofane. Interpretato e diretto da Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall'Aglio, Luca Nucera, Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler. Scene di Alberto Favretto, costumi di Marzia Paparini, musiche di Alessandro Nidi, luci di Luca Bronzo. Produzione Fondazione Teatro Due. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 24 marzo
E' fresca, spassosa, sagace la rappresentazione della commedia di Aristofane da parte del nucleo storico della compagnia parmense, in realtà assai fedele nel testo originale a quella proposta ad Atene nel 405 A.C.: i riferimento all'attualità nostrana (e non solo) dimostrano ancora una volta quanto le dinamiche umane, in particolare quelle tra potere e cultura, e il rapporto diretto tra il decadimento di quest'ultima e quello della civiltà che la esprime sia stretto. Atene è in piena crisi e Dioniso, dio del teatro, insieme al servo Xantia, intraprende un surreale viaggio nell'Ade per riportare alla vita Euripide, scomparso di recente, perché i giovani tragediografi che sono venuti dopo di lui non sono all'altezza e non riescono a impedire il decadimento del teatro. Dopo una serie di peripezie tra cui la traversata della palude dell'Acheronte e l'incontro con le rane, che pur non riconoscendo Dioniso intonano un gracidante inno alla poesia e in onore della sua divinità (qui un brekekekex koax koax in stile Trio Lescano) trovano finalmente Euripide in piena lite con Eschilo per stabilire chi dei due sia il migliore. Parte una singolar tenzone a colpi di versi che vengono "pesati" in base alla loro levità e sottoposti anche a un referendum tra il pubblico, che viene però reso inutile perché lo spettacolo si  chiude con un inno generalizzato alla poesia di tutti i tempi e, in definitiva alla cultura. Visto che nella situazione attuale gli intellettuali sono divenuti afasici, anche se non si possono riportare in vita, si possono comunque rileggere quelli che li hanno preceduti: un nome che li riassume tutti può essere quelli di Pasolini. 
Pubblico divertito, corroborato, applausi scroscianti e convinti: bravissimi tutti. Da non perdere, avendo la possibilità di vedere lo spettacolo.

venerdì 15 marzo 2013

Il nipote di Rameau

"Il nipote di Rameau" di Denis Diderot. Adattamento di Edoardo Erba e Silvio Orlando. Con Silvio Orlando, Amerigo Fontani e Maria Laura Rondanini. Clavicembalista Simone Gulli. Scene di Giancarlo Basili, costumi di Giovanna Buzzi. Regia di Silvio Orlando. Produzione Cardellino srl. Al Teatro Sociale di Gemona (UD)
Questa briosa, acuta, intelligente, godibile e sempre attualissima satira in forma di dialogo, poco o niente rappresentata negli ultimi decenni, è stata meritoriamente ripresa da uno dei nostri più bravi e versatili attori, Silvio Orlando, e portata in giro per l'Italia, dai palcoscenici delle grandi città a quelli dei centri minori e spesso dimenticati. E infatti è al Teatro Sociale di Gemona, in provincia di Udine, che ieri sera ho assistito a questo gustoso spettacolo messo in scena da questa minicompagnia di tre attori più clavicembalista, con Silvio Orlando, per l'occasione anche regista, nella parte di Jean-François Rameau, nipote debosciato del celebre compositore, musico fallito, ruffiano di professione, immorale e scroccone, che duella verbalmente con l'alter ego dello stesso filosofo durante un incontro che si svolge al "Café de la Regence" ma potrebbe tenersi anche oggi in una qualsiasi trattoria vicina al Pantheon a Roma frequentata da parlamentari e portaborse, o nei pressi di qualsiasi altro luogo del potere. Non occorre alcuna strizzata d'occhio all'attualità per vedervi, con due secoli e mezzo di anticipo, la descrizione perfetta del "servo libero", di cui abbiamo esempi lampanti in personaggi come Bruno Vespa, Giuliano Ferrara, Augusto Minzolini detto Minzolingua, tanto per citarne alcuni, a cui fa seguito la vasta schera di adulatori, profittatori, scrocconi, voltagabbana, opportunisti a vario titolo che questo Paese a vocazione servile ha sempre prodotto in abbondanza in tutte le epoche. La differenza è che il "nipote di Rameau", pur facendosi beffe della dignità, che a suo dire non mangia, argomenta la propria vocazione di leccaculo con un sano richiamo all'edonismo e non invocando morali inesistenti, e lo fa con arguzia e ragionamenti tali da mettere in difficoltà perfino un filosofo eticamente solido e sottile nel ragionamento come Diderot. Si possono dire cose importanti in modo efficace anche in poco tempo (80' la durata dello spettacolo) con scarsi mezzi e in spazi ristretti: un grazie a Silvio Orlando e ai suoi colleghi e collaboratori. 

mercoledì 13 marzo 2013

¡Habemus Mate!


Il figlio dell'altra

"Il figlio dell'altra" (Le fils de l'Autre) di Lorraine Lévi. Con Emmanuelle Devos, Areen Omari, Pascal Elbé, Khalifa Natour, Jules Sitruk, Mehdi Dehbi, Mahmoud Shalabi e altri. Francia, 2012 ★★★½
Egregio film che prende spunto da un'idea apparentemente banale, uno scambio di neonati, uno ebreo e l'altro arabo all'ospedale di Haifa durante l'evacuazione in seguito a un attacco di missili "Scud" nel 1991, che si svela al momento della visita di leva di Yosif, figlio di un colonnello dell'esercito israeliano: il suo gruppo sanguigno è incompatibile con quello dei genitori. In seguito a un esame del DNA viene individuato il vero figlio della coppia, Yacin, cresciuto in una famiglia araba che vive nella Cisgiordania occupata. Le due coppie si incontrano e tocca loro confrontarsi: i padri, rinchiusi nei loro schemi mentali da cui derivano inevitabili rancori e visioni diametralmente opposte, sono riluttanti a dire ai figli come stanno le cose; le madri che, in quanto tali, hanno una visione più complessiva e basata sul buon senso pratico avendo cresciuto personalmente i figli l'una dell'altra, prendono in mano la situazione con saggezza e comprensione reciproca. Quelli che hanno meno problemi, una volta che si sono incontrati, sono proprio i due ragazzi, che si trovano a vivere parzialmente la vita dell'altro, più disponibili a fare i conti, senza tragedie e con disponibilità reciproca, con la propria identità. Non troppo paradossalmente avrà più problemi Yosif, non tanto con la sua nuova personalità araba quanto con la sua ebraicità che, come gli ricorda il rabbino, non dipende da una convinzione o da una scelta, ma da una condizione: razziale. Educato da ebreo, non potrà più esserlo perché figlio di una madre araba: supererà questo trauma grazie alla sua mentalità da artista, capace di vedere le cose da un punto di vista più ampio. Va a merito della regista, di origini ebraiche, affrontare il fatto che questa religione, l'unica e più antica tra le tre maggiori monoteiste, non sia dedita al proselitismo proprio perché si basa sul concetto di razza, un aspetto che troppi non tengono presente. Come non si tiene presente che uno Stato basato sull'apartheid, l'occupazione abusiva di terre da cui si cacciano i legittimi abitanti salvo rinchiuderli in ghetti, fondato su barriere e confini che non sono solo fisici ma mentali e questo riguarda sia gli arabi sia gli ebrei che, in quanto tali, sono entrambi in senso stretto palestinesi, non può chiamarsi né moderno né democratico: come e più dell'Iran, Israele è una teocrazia autoritaria e per di più razzista. Sono tutti bravissimi gli interpreti, in particolare i genitori e ancor più le due attrici nelle parti delle madri, con una nota speciale per la Emmanuelle Devos, portentosa e affascinante attrice francese pressoché sconosciuta in Italia e bellissima donna, che sembra il ritratto vivente di Alida Valli, con un tocco di Romy Schneider. 

martedì 12 marzo 2013

Pacta sunt servanda e Fiscal Compact

Gli assassini di Stato Latorre e Girone omaggiati da Giorgio Napolitano
Ovvero gli accordi vanno rispettati: è la prima e fondamentalmente unica norma che regge l'intero baraccone del cosiddetto diritto internazionale, ossia quello che regola i rapporti tra gli enti "superiorem non recognoscentes", in altre parole gli Stati sovrani, come sa chiunque abbia avuto una qualche dimestichezza con la facoltà di giurisprudenza, quindi anche il ministro degli Esteri in carica, benché limitatamente agli affari correnti, Giulio Terzi di Sant'Agata. A prescindere dalla dabbenaggine di chi conclude accordi con un Paese che ha i precedenti dell'Italia, che specialmente in campo militare non ha mai mantenuto la parola data nel corso della sua esistenza dal 1861 a oggi, è fuori di ogni ragionevole dubbio che la mancata restituzione all'India, dopo un astruso e pretestuoso mese di "permesso elettorale", per essere  processati dal tribunale locale, dei due fucilieri accusati di aver ucciso due pescatori inermi sia il risultato di un "truschino" tra il nostro governo semiabusivo e le autorità di un Paese che in quanto a cialtronaggine, corruttela, nepotismo, assuefazione alle caste e servilismo non ha nulla da invidiare al nostro (non a caso l'eminenza grigia ne è da decenni un'italiana) ma il punto è un altro. Se il rispetto di un accordo con l'India è un optional, perché il Patto di Stabilità Europeo, altrimenti conosciuto come Fiscal Compact, deve rivestire un'aura di sacralità ed essere indiscutibile?

domenica 10 marzo 2013

Il lato positivo - Silver Linings Playbook

"Il lato positivo - Silver Linings Playbook" di David. O. Russell. Con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Jackie Weaver, Chris Tucker, Anupam Kehr, Shea Wigham e altri. USA 2012 ★★★
E' un film simpatico, gradevole, brioso, una commedia sentimentale inconsueta che ha per protagonisti due "svitati", affetti da turbe psichiche, ma da qui a osannarlo come un capolavoro ce ne corre. Pat, un ipercinetico e vitaminico Bradley Cooper, dopo otto mesi di ospedale psichiatrico perché affetto da disturbi bipolari (aveva pestato a sangue l'amante e collega della moglie Nikki, insegnante di letteratura al liceo, trovato assieme a lei sotto la doccia) esce e torna a vivere con i genitori, con tanto di divieto di avvicinamento alla moglie che lo aveva lasciato. Lui però vive col pensiero fisso di riconquistarla e il mezzo lo trova in Tiffany, una giovanissima vedova cognata di un suo caro amico, diventata una specie di ninfomane dopo la morte in circostanze quasi grottesche del marito poliziotto, a sua volta sotto trattamento di psicofarmaci: lei si offre di inoltrare una lettera di lui a Nikki, in cambio dell'impegno di lui ad allenarsi duramente per partecipare a un concorso di ballo (la danza lei la pratica come terapia). Il tutto si intreccia con le attività del padre, maniaco di baseball con tanto di "Daspo" (divieto di accesso allo stadio) e diventato allibratore dopo aver perso il lavoro. E' un italo-americano e manco a farlo apposta lo interpreta un De Niro gigioneggiante come nella serie "Ti presento i miei": fortunatamente Bradley Cooper è di un'altra pasta rispetto all'irritante Ben Stiller, mentre nei panni di Tiffany c'è la vera rivelazione del film, una Jennifer Lawrence potente e talentuosa, a cui è impossibile non volere bene, giustamente, per una volta, premiata con un Oscar: è giovane, appena 22 anni, e la speranza è che il suo talento non vada sprecato. Film a basso costo, il tutto si svolge in un quartiere periferico di Filadelfia e davanti allo stadio degli "Eagles", passione comune di tutti i personaggi della pellicola. La colonna sonora è un altro asso nella manica del film, che corre verso l'inevitabile happy end: Pat re-incontra Nikki, che lo solleva così dal divieto di avvicinamento e in qualche modo dà l'imprimatur all'amore che scoppia, com'era inevitabile, con Tiffany. Siamo nell'ambito di un prodotto di buona fattura, con una spruzzata liberal che accontenta anche il pubblico più intellettuale della East Coast, ma ci fermiamo lì.

venerdì 8 marzo 2013

Pianeta maschio, abbiamo un problema

"'In tutto il mondo le donne tra i quindici e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere uccise o menomate dalla violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici messi insieme', scrive Nicholas D. Kristof, una delle  poche firme note ad affrontare spesso l'argomento". Da "La guerra più lunga - Contro le donne" di Rebecca Solnit sul numero 990 di Internazionale in edicola questa settimana. Nel mondo animale non accade nulla di simile. Riflettiamoci su, l'8 marzo, invece di metterci a posto la coscienza regalando un mazzo di mimose. 

giovedì 7 marzo 2013

Fogli morti. Per non parlar delle TV

Al chiosco, i giornali del mattino pendono flosci e già un po' gialli, formidabile carciofo di notizie in via di marcescenza. (Luis-Ferdinand Céline, "Viaggio al termine della notte", 1932).
Anche se Grillo non si risparmia nello sparare cazzate, spesso ci prende. Come dargli torto in questo caso?

martedì 5 marzo 2013

Educazione siberiana

"Educazione siberiana" di Gabriele Salvatores. Con John Malkovich, Arnas Fadaravicius, Vilius Tumalavicius, Elaonor Tomlinson, Jonas Trukanas, Vitalji Porsnev, Peter Stormare. Italia 2013 ★★★★★
In seguito a recenti prove alterne, questa volta a mio parere Gabriele Salvatores fa pienamente centro con questa trasposizione sul grande schermo dell'omonimo romanzo di Nicolai Lilin, giovane e potente scrittore russo, "siberiano" della Transnistria per la precisione, che vive nel nostro Paese e scrive in italiano di cose che conosce in prima persona per averle vissute. Non è mai facile trarre un film da un romanzo di successo, e non so nemmeno dire se Salvatores vi sia riuscito, anche se i personaggi principali e i tratti essenziali ve li ho trovati tutti, pur avendo letto "Educazione siberiana" già alcuni anni fa, poco dopo la sua uscita nel 2009: il film mi è parso bello di per sé, coinvolgente, spesso poetico e commovente, nonostante la durezza, trattandosi pur sempre di un'educazione criminale. Tanto è vero che mi è subito venuto alla mente tutt'altro libro, letto di recente e che ho amato molto, il bellissimo Trans Europa Express di Paolo Rumiz. Nella visione del mondo di questi "criminali onesti" deportati ai tempi di Stalin dalla Siberia nella provincia della Moldovia sovietica, c'è molta più rettitudine, coerenza, moralità, spirito comunitario, solidarietà, in una parola umanità, che in tutta la plastificata, marcia, corrotta, "liquida", come la definisce Zygmunt Bauman, società globalizzata che ha come modello l'American Way Of Life. Rumiz a ragione sostiene che il vero cuore dell'Europa batte molto più a Est di quello che riteniamo comunemente, e questo film rende tangibile, o meglio visibile, questa sua asserzione. E' così forte che la fa vivere. L'infanzia e poi l'adolescenza  e l'iniziazione dei due amici Kolima e Gagarin avviene a cavallo del crollo del Muro di Berlino e durante il conseguente disfacimento dell'impero sovietico, che porta con sé anche quello del mondo della loro comunità, tenuta fino ad allora assieme da regole ferree che le hanno permesso di resistere sia collettivamente sia individualmente persino a un sistema come quello comunista: il cancro della globalizzazione e dell'esistenza basata sul denaro è arrivato anche lì, dove "lo sterco del demonio" è bandito dalle case dei "criminali onesti" e va sepolto in giardino, all'esterno, anche quando è rubato; dove i "matti" sono considerati persone che pensano e si esprimono in modo diverso e vanno protetti perché "sono voluti da dio" così come i deboli; dove l'avidità è un disvalore e l'amore è il valore supremo; dove nonno Kuzja, un John Malkovich perfetto nella parte, mai sopra le righe, insegna che "la fame viene e va, ma la dignità, una volta perduta, non torna più". Insegnamenti profondi, con forza di norma morale, che rimangono dentro perfino a chi, come Gagarin, li ha traditi e che accetta con dignitosa consapevolezza anche l'inevitabile punizione che ne deriva per mano del compagno di infanzia, Kolima, proprio la persona che più ha amato nel corso della sua esistenza "deviata" e corrotta dal "nuovo che avanza" e a cui tocca il dovere di vendicare l'inaccettabile violenza commessa da Gagarin su Xenjia, la dolce ragazza "voluta da dio" nonché figlia del medico della comunità dei siberiani sotto la sua protezione. A parte Malkovich, bravissimi tutti gli altri interpreti, sconosciuti e forse nemmeno professionisti, fotografia splendida, nessun fronzolo e nelle riprese di Salvatores si sente partecipazione autentica. "Absolute Beginners" di David Bowie, nella scena in cui il gruppo di ragazzi siberiani scopre la "musica occidentale" mentre la giostra in una piazza della città transnistriana in cui si svolge il film, è la firma del regista. Che si conferma autore vero.

sabato 2 marzo 2013

Macbeth

"Macbeth" di William Shakespeare. Traduzione di Nadia Fusini, adattamento e regia di Andrea De Rosa, spazio scenico di Nicolas Bovey e Andrea De Rosa, costumi di FAbio Sonnino, luci di Pasquale Mari, suono di Hubert Westkemper. Con Giuseppe Battiston, Frédérique Loliée, Ivan Alovisio, Marco Vergani, Riccardo Lombardo, Stefano Scandaletti, Valentina Diana, Dennaro di Colandrea. Produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino/Teatro Stabile del Veneto "Carlo Goldoni". Al Piccolo Teatro Strehler di MIlano fino a domani.
Per fortuna Beppe Battiston è fornito di spalle possenti per reggere da solo un allestimento che a furia di voler essere originale risulta cervellotico, velleitario, truculento, esagerato e, in una parola indigesto, altrimenti il minuto scarso di tiepidi applausi, caldi solo nei confronti del portentoso attore udinese, si sarebbero tramutati in fischi. Non ho nulla in contrario a una rappresentazione non convenzionale della tragedia più cupa e anche più breve di Shakespeare, ma una sua rilettura in base alle psicosi e alle ossessioni sanguinolente e paranoiche del regista, magari abbondantemente carburata da abbondante uso di sostanze etiliche o lisergiche, come si potrebbe evincere da un Macbeth e dalla sua Lady che elaborano il piano diabolico di uccidere re Duncan nel pieno di un delirio alcolico suggestionati dalle profezie di tre osceni e bambolotti (i loro figli mai nati) che sostituiscono le tre streghe del testo originale: mi hanno ricordato quelli inquietanti appesi qualche anno fa da Cattelan ai rami di tre alberelli in Piazza XXV Aprile, a Milano. Come se non bastassero le voci registrate e meccaniche dei tre orridi pupazzi, a contribuire all'inquinamento acustico in sala ci si è messa anche quella gracchiante di Frédérique Loliée, che passa metà dello spettacolo a prodursi in agghiaccianti risate senza senso muovendosi con la rigidità di un automa cui è stato inserito un manico di scopa nel deretano ed esprimendosi in un italiano improbabile con l'intonazione dell'ispettore Cluseau. A completare questa versione pulp ma pretenziosa di una tragedia che ha per oggetto pulsioni umane basilari come la brama di potere nonché il meccanismo diabolico delle profezie che si autoavverano, scene ginecologiche di parto di feti insanguinati nati morti e altre virate al trash e al grottesco, come i due protagonisti che ripuliscono il pavimento di un soggiorno  tipo Ikea che costituisce la scena con il "mocio" Vileda. Teatro pieno ma pubblico assai poco convinto per un Macbeth insulso, grottesco più che realmente inquietante nonostante l'impegno e la bravura di Battiston, che sarebbe bello poter dimenticare al più presto. Se penso solo a quanto ho brigato per venire a vederlo, e pure fuori abbonamento, mi incazzo due volte. 

venerdì 1 marzo 2013

Exit

"Exit". Testo e regia di Fausto Paravidino. Con Sara Bertelà. Nicola Pannelli, Angelica Leo, Davide Lorino. Scene di Laura Benzi, musiche di Giorgio Mirto, luci di Lorenzo Carlucci. Produzione Teatro Stabile di Bolzano. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 10 marzo.
Una commedia "lieve ma non leggera", come l'ha definita l'autore, formatosi allo "Stabile" di Genova così come tre dei quattro interpreti di questa pièce in tre atti che scorrono senza soluzione di continuità sulla scena; godibile, ironica, dolce e un po' malinconica sull'eterno gioco delle parti che è il rapporto di coppia, una rappresentazione teatrale di per sé, e sulla sua pressoché inevitabile tomba: la convivenza. I motivi per cui la coppia in questione, A e B, non funziona più sono "affari interni" della stessa e molteplici; i due personaggi ne parlano tra di loro e col pubblico: la politica, il sesso, i figli (sia averli, sia non averli), la noia, i malintesi. In definitiva si sentono entrambi in gabbia ed è tempo di uscire (exit) e gli inevitabili rapporti con gli altri diventano così "affari esteri". Per A, docente universitario di geopolitica, sarà C, una giovane studentessa di cui si innamora e con cui tende a instaurare come in un riflesso pavloviano gli stessi meccanismi di interdipendenza reciproca del tipico rapporto di coppia; per B, la briosa e multifaccia Sara Bertelà, che sta seguendo un manuale americano per il "recupero di sé stessa" in dieci punti, sarà l'incontro con D, un ragazzo semplice, generoso, di animo gentile, forse ingenuo che apprezza in lei l'amica più che la femmina seduttrice mettendo così in crisi questo lato stereotipato ma profondamente radicato della sua personalità. In un gioco di intrecci, sarà proprio D il trait-d'union per rimettere in contatto C, la studentessa, con A, il docente, di cui era rimasta incinta a sua insaputa (di lui). Divertimento intelligente, frizzante, senza alcuna volgarità o forzatura, ben recitato e molto apprezzabile sotto tutti gli aspetti.