mercoledì 30 gennaio 2013

Il panico


“Il panico” di Rafael Spregelburd. Regia di Luca Ronconi. Traduzione di Manuela Cherubini, scene di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di A. J. Weissbard, suono si Hubert Westkemper, trucco e acconciature di Aldo Signoretti. Con Maria Palato, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Paolo Pierobon, Valentina Picello, Valeria Milillo, Riccardo Bini, Iaia Forte, Sandra Toffolatti, Maria Pilar Pérez Aspa, Alvia reale, Clio Cipolletta. Elena Ghiaurov, Manuela Mandracchia, Bruna Rossi, Lucrezia . Guidone. Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa. Al Teatro Strehler di Milano fino al 10 febbraio
“Il testo è costruito apposta perché il pubblico non capisca: perché capirà dopo... Ci devi pensare quando sei uscito”. Luca Ronconi, il guru del teatro italiano, dixit. Così in un’intervista del libretto dello spettacolo. Ho lasciato quindi decantare la perplessità che mi aveva suscitato la visione ieri sera de “Il panico”, secondo testo dell’Eptalogia di Hieronymus Bosch del drammaturgo argentino Rafael Spregelbrud ispirato ai Sette Peccati Capitali messo in scena da Ronconi, col risultato che si è trasformata in disappunto, e la domanda che mi sorge è quale sarebbe stato il risultato se “La modestia”, presentata due anni fa, e “Il panico” le avesse affrontate un collettivo affiatato come quello degli Elfi, per rimanere nell’ambito milanese e quindi senza andare lontano. Dello spettacolo non temevo né la durata, due ore e quaranta al netto dell’intervallo, né la complessità del testo, il suo gioco di rimandi interni, i riferimenti, ma la tendenza alla masturbazione intellettuale ossessiva del regista, che rischia, insieme a un impianto acustico forse imperfetto (o forse anche alla recitazione un po’ troppo flautata da parte di alcuni interpreti), a renderlo meno intelleggibile di quello che già sia. Nessuno va a uno spettacolo del “Piccolo” per mero intrattenimento con la pretesa di non azionare le sinapsi, altrimenti si rivolgerebbe a qualche musical o alle tante proposte “leggere” che affollano i cartelloni, ma rendere la comprensione ostica al fiducioso quanto incauto spettatore pagante non è un bel servizio. Nonostante la scena glabra e monocromatica, avventurosamente declinante verso la platea, a sottolineare l’instabilità dell’esistenza, il fragile confine tra vita e morte, la sottile linea che separa l’accidia (questo il peccato preso di mira) dal “panico” del titolo che ne deriva, lo spettacolo ha una sua vivacità, i cambi si scena sono fluidi, e gli attori si muovono bene, per cui il primo atto, pur durando un’ora e mezzo, scivola via relativamente veloce e con un buon ritmo. E’ nel secondo, che dura un buon terzo in meno, che il meccanismo si inceppa e ne è testimone la reazione del pubblico che, sfoltito nel corso dell’intervallo, regala un tiepido applauso di pura stima, molto meno convinto di quello tributato alla chiusura del sipario sulla prima parte. Concordo con Ronconi e con Escobar che Spregelbrud sia tra i pochi autori contemporanei capaci di una ricerca nella contemporaneità senza cadere nella trappola dell’attualità (che l’autore stesso definisce “la sorella scema della realtà”), e anche che il suo lo spettacolo, che potrebbe essere visto come un “horror metafisico” quanto “La modestia” come un “metafisico noir”, ha delle valenze universali (tali sono per definizione l’accidia e, come conseguenza, il panico), ma i riferimenti alla realtà argentina e, in alcuni casi, strettamente porteña (credo di essere stato tra i pochi presenti in sala in grado di capire la differenza tra il fatto di affittare una casa a Palermo Viejo, abitare a San Isidro oppure a Caballito, tre “barrios” di Buenos Aires con caratteristiche e storie diverse, così come generalmente si ignora che nella capitale argentina, e non a caso, esercitino più psicoterapeuti che a New York, per cui risulta essere la città più psicanalizzata al mondo) sono così particolari, che non si possono dare per scontati, e nemmeno che lo spettatore medio si sia premurato di leggere il libretto di presentazione che spiega quanto l’opera di Spregelburd, e questa in particolare, sia legata al contingente della crisi economica del 2001 e tutta la parte dello spettacolo incentrata sui “morti viventi”, che non si riesce a seppellire, non sia una trovata macabra e sarcastica, ma faccia riferimento alla tragica vicenda dei 30 mila desaparecidos vittime della dittatura che ha appestato il Paese tra il 1976 e il 1983. Sono cose che il pubblico medio, complice la vergognosa ignoranza mista e indifferenza dell’informazione e della politica nostrana, sebbene a parole tanto esterofile, nei confronti di un Paese pur così strettamente legato e simile all’Italia, ignora. Ed è qui che l’intellettualismo di Ronconi diventa presunzione e sconfina nell’arroganza. Oltre che nella pallosità. Peccato. Tra gli attori, Elena Ghiaurov e Sandra Toffolatti una spanna sugli altri, una sicurezza Maria Palato e Paolo Pierobon, per il resto a mio parere siamo nella routine: neanche gli attori possono fare miracoli con una messa in scena discutibile.

lunedì 28 gennaio 2013

Flight

"Flight" di Robert Zemeckis. Con Denzel Washington, Don Cheadle, Kelly Reilly, John Goodman, Bruce Greenwood e altri. USA 2012 ★★★
Se desiderate un prodotto ben confezionato, che racconti una storia eccitante, tesa e al contempo verosimile e vi piace Denzel Washington questo è il film che fa per voi. E ha fatto anche per me, che non sapevo come ammazzare il pomeriggio in attesa di una elettrizzante serata di socializazione alla milanese in un lunedì di gennaio iniziato sotto una nevicata, ed ero dell’umore giusto per sopportare l’inevitabile finale edificante, l’americanata in agguato in coda a una pellicola per il resto originale. Whip è il comandante alcolizzato e tossicomane che dopo una notte di bagordi con una hostess del suo equipaggio, probabilmente proprio grazie al suo stato “alterato”, con l’aereo in picchiata dopo essere rimasto in avaria in mezzo a un fortunale, riesce a inventarsi una manovra geniale che gli consente di recuperare la linea di volo dopo aver capovolto il velivolo facendolo poi atterrare in un campo lontano da centri abitati e limitando il danno a sei morti su 102 passeggeri. Un miracolo, ma segue l’inchiesta di rito, che pur chiarendo che l'aereo era difettoso per scarsa manutenzione, scopre anche lo stato di Whip. L’avvocato ingaggiato dal sindacato piloti per assisterlo è però riuscito a  invalidare l’esame tossicologico e durante l’udienza a Whip basterebbe attribuire il consumo delle uniche due bottigliette di vodka reperite nei cestini dei rifiuti alla hostess sua amante, rimasta uccisa e nel cui sangue era stato trovato dell’alcol, ma in un rigurgito di onestà per la prima volta nella sua vita, dice, e proprio nel corso dell'interrogatorio che sta ponendofine alla vicenda giudiziaria, si rifiuta di mentire sul suo stato e ammette di essere stato ubriaco la mattina dell’incidente come nei tre giorni precedenti sia nel preciso momento in cui sta parlando. Da eroe, così, e da gaudente, si trasforma in detenuto volontario in fase di recupero (naturalmente anche dei rapporti col figlio e magari con la moglie separata). Insomma il solito consueto happy end holliwoodiano, con l'eroe nero, bello e al contempo colpevole, ma per il resto il film è bello teso, a tratti spettacolare, ben girato e recitato, e se avete un paio d’ore da passare senza annoiarvi è perfetto.

sabato 26 gennaio 2013

In Darkness

"In Darkness" di Agnieszka Holland. Con Robert Wieckiewicz, Benno Fürmann, Agnieszka Grochowska, Maria Schrader, Herbert Knaup, Marcin Bosak, Krzystof Skoneczny e altri. Germania, Polonia 2011 ★★★
Ispirato a una storia vera e tratto dal romanzo "Nelle fogne di lvov", di Robert Marshall, il cupo e coinvolgente film della regista polacca ci riporta nel 1943, nella Leopoli occupata dai nazisti, coadiuvati dai solerti aguzzini dei corpi speciali ucraini, e alla vicenda di Leopold Socha, un personaggio realmente esistito, ispettore delle fogne della città e, all'occasione, svaligiatore di case di ricchi, comprese quelle degli ebrei rinchiuso nel ghetto, un uomo insomma esperto nell'arte di arrangiarsi e di non cadere, lui assieme alla moglie e alla figlioletta, in balia di eventi su cui non ha alcun controllo. Si ritrova a nascondere nei cunicoli sotterranei di Leopoli, in un universo oscuro, maleodorante, freddo e umido, e dopo una serie di peripezie a salvare un gruppo di undici ebrei. Essi rivedranno la luce quattordici mesi dopo essere penetrati in questo mondo sotterraneo e parallelo grazie a questo Caronte furbo, disincantato, che all'inizio è mosso esclusivamente dal proprio interesse (assicurarsi un gruzzolo per regalare una esistenza sopportabile alla sua famiglia) ma col passare del tempo, nonché l'interazione con questo gruppo di diseredati a loro volta disomogenei e tutt'altro che esente da gelosie e conflitti anche molto profondi, trova anche un senso diverso nella propria azione. La vicenda è raccontata senza edulcorazioni e l'aspetto più interessante della pellicola sta proprio nell'essere capace di descrivere in maniera estremamente credibili le differenti reazioni dei singoli di fronte di fronte a situazioni estreme; non tanto e non solo di fronte alla guerra, a qualcosa che è fuori controllo e inspiegabile secondo i metri di giudizio abituali, ma specialmente davanti a sé stessi. L'accostamento a Shindler's List viene naturale, il tema è lo stesso, ossia il comportamento di fronte all'Olocausto in corso di chi sapeva ma ne era terzo: meno spettacolare, forse, del film di Spielberg, prodotto con ben altri mezzi,"In Darkness" evita in compenso furbizie e finali consolatori holliwoodiani e risulta più autentico e profondo. Esce  a ridosso della "Giornata della memoria" che cade domani, 27 gennaio e benché sia candidato agli Oscar come miglior film straniero temo che non avrà premi, nonostante l'ottima regia e la bravura di tutti gli attori, e che non rimarrà a lungo nelle sale, per cui consiglio di andare a vederlo in fretta, senza farsi scoraggiare dalla lunghezza del film: 145 minuti, e li vale tutti. 

giovedì 24 gennaio 2013

Qualcosa nell'aria

"Qualcosa nell'aria" (Après mai) di Olivier Assayas. Con Clement Metayer, Lola Creton, Felix Armand, Carole Combes, India Menuez e altri. Francia 2012 ★★¾
Autobiografia di un regista (francese) da giovane, lento, verboso, interpretato da attori che sembrano passati lì per caso come spesso avviene nelle pellicole d'Oltralpe, post sessantottardo: questo film aveva tutte le caratteristiche per farmi girare gli zebedei, e invece non mi sento di tirargli la croce addosso. Perché il regista, che avevo apprezzato per la miniserie televisiva "Carlos" del 2010, mio coetaneo, racconta in maniera credibile un'epoca, quella dei primissimi anni Settanta, in un ambiente, quello liceale, che era anche il mio, e dei fremiti rivoluzionari dei figli della borghesia, che conosco altrettanto bene per esserci passato, con tanto di dubbi, scetticismo di fronte a scelte dettate dall'ideologismo esasperato dei fratelli di poco più anziani protagonisti del "vero" 68, quello del maggio. Efficace il personaggio principale, Gilles, assolutamente autobiografico, più che credibile nel suo trovarsi in bilico tra un impegno totale, le sue ispirazioni artistiche, i contrasti col padre vissuti però in maniera non dirompente. C'è anche un viaggio in Italia fatto mentre era ricercato per un episodio di violenza politica insieme con la giovane fidanzata Cristine che lo porta in contatto com dei cinematografari "militanti", quelli degli interminabili dibattiti e delle pellicole di lotta dalla valenza rivoluzionaria. Quel che è nell'aria sono le contraddizioni di un'epoca, che in quei primi anni Settanta erano uguali in Francia come in Italia e, in parte, in Germania: negli ultimi due Paesi ci sarebbe stato presto la cesura del passaggio di alcuni gruppi alla lotta armata. Apprezzabile, in un film autobiografico, la mancanza di una nostalgia melensa sempre in agguato in questi casi (perché di stronzate se ne sono dette e fatte tante) e qualsiasi intento dogmatico e preconcetto: il film non dà giudizi. Se durasse una mezz'oretta in meno, però, sarebbe meglio. 

mercoledì 23 gennaio 2013

La banca del buco

In cinque anni sono riusciti a disintegrare una credibilità acquisita in oltre cinquecento anni di storia, dissestando la più antica banca del mondo in attività: il Monte dei Paschi di Siena, fondato nel 1472. Con queste credenziali il partito che dal dopoguerra ne ha nominato i massimi dirigenti, il PD ex DS-PDS-PCI e tratto i massimi vantaggi, si candida a governare per i prossimi cinque anni il Paese nel pieno di una tempesta finanziaria, che altro non è che un sintomo del collasso di un intero sistema a livello globale. Da soli o, più probabilmente, in condominio con la ghenga di banchieri guidata da Mario Monti, e magari l'appoggio della cricca berluscioniana, come già sperimentato negli ultimi 13 mesi di "governo tecnico". 4 miliardi di euro, fra Tremonti e Monti-bond, ci è già costato il salvataggio di questa banca, prima dell'ultimo buco stimato di 740 milioni rivelato da uno scoop dell'ottimo Marco Lillo del "Fatto Quotidiano" (gli altri giornali, nel frattempo, dormivano) portando alle dimissioni di Giuseppe Mussari da presidente dell'ABI, Associazione bancaria italiana, incarico a cui era stato "promosso" (ut amoveatur) dopo essere stato sostituito da Alessandro Profumo, altro fedele esecutore dei voleri del PD, dopo il siluramento di quest'ultimo dal vertice della prima banca italiana che era stato quasi capace di affondare, l'Unicredit. A Siena, è venuto a completare l'opera di Mussari. Così come all'ILVA di Taranto è stato spedito come esecutore testamentario un altro trombato eccellente del partito comunistiano, quel Bruno Ferrante, già prefetto di Milano, scelto dal PD come candidato sindaco nel 2006 in quella città contro Mestizia Moratti, ovviamente riuscendo a buscarle nell'occasione perfino dal sindaco più detestato di sempre nella storia ambrosiana. Sono questi i particolari che gli elettori, o almeno quelli intenzionati a recarsi alle urne e considerati alla stregua di un "parco buoi" tanto dai politicanti quanto dai banchieri, dovrebbero tenere bene a mente il 24 e 25 febbraio prossimi, dettagli che non gli verranno mai forniti dall'informazione narcotizzata o dai "talk show" che li ospitano in pianta stabile. Qui, nel mio piccolo cerco di rimediare.

venerdì 18 gennaio 2013

Django Unchained

"Django Unchained" di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washinghton e altri. USA 2013 ★★★★★
Habemus Django! Il film che attendevo con maggiore ansia di tutta la stagione, con il timore che potesse non essere all'altezza delle mie già notevoli attese di "tarantiniano" della prima ora, non solo non le ha deluse, ma si è rivelato superiore alle più rosee previsioni. Dopo aver introdotto elementi western e b-movie in tutte le sue pellicole, questa volta Tarantino ha riversato tutta la sua visione cinematografica in un western autentico, per quanto anomalo ("revisionista", l'ha definito l'autore), ambientato nel Sud negriero degli attuali USA due anni prima dello scoppio della guerra civile, nel 1858. Personaggio chiave della vicenda il dottor Schultz, impersonato in modo superlativo dall'amico e attore austraico Christoph Waltz, un ex dentista cacciatore di taglie che, sulle tracce dei fratelli Brittle, cerca e trova Django, un nero ridotto in catene, l'unico che possa riconoscerli, lo libera dai suoi aguzzini e si mette in società con lui, col patto di aiutarlo a sua volta a rintracciare la moglie Broomhilde, una schiava allevata da una famiglia tedesca, passata ora in proprietà di Calvin Candie, un negriero fetentissimo interpretato da un superbo Leonardo Di Caprio, che migliora sensibilmente con il passare degli anni. E' questo il colpo di genio: rileggere la grande saga del Nord, La canzone dei nibelunghi, in chiave western, con Django che diventa il Sigfrido della vicenda, il tutto suggerito da Waltz stesso al regista nella realtà e raccontato dal suo personaggio nella pellicola. Il lato splatter, spesso così criticato, è come sempre tanto caricaturale quanto paradigmatico: la vera violenza, che non cambia mai, è quella dell'America che Tarantino rappresenta in tutti i suoi film, e in questo più che mai. Si riassume in due battute: quando Django commenta lo sbigottimento del suo collega e amico Schultz di fronte alla scena di un "mandingo" sbranato dai cani e giustificando  la propria impassibilità: "Io sono abituato agli americani da più tempo di lui", e il grido finale di Stephan, il servo nero del feroce Candie, tanto compreso nella sua parte e rassegnato alla propria perdita di dignità da immedesimarsi nel padrone e diventare un aguzzino più spregevole perfino del negriero bianco: "Non hai speranza, Django, non puoi scappare in eterno: ci sarà sempre una Candyland sulla tua strada!". 165 minuti di puro cinema, spettacolare, intelligente, suggestivo, colto, tecnicamente esemplare da tutti i punti di vista, con un commento musicale come sempre perfetto: a mio modo di vedere un capolavoro, e un film che, da solo, sul razzismo, sempre attuale negli USA, specialmente nel Sud,  e i suoi meccanismi, dice più cose di tutta la cinematografia holliwoodiana "politicamente corretta" prodotta finora. Sala gremita al primo spettacolo e coda per entrare al secondo, al "Centrale" di Udine ieri pomeriggio, e pubblico quanto mai eterogeneo ma unanime nel gradimento. Applausi: grazie Quentin.

martedì 15 gennaio 2013

Farfalle



“Farfalle”
di Mário Quintana

Quando poniamo molta fiducia o aspettative in una persona, il rischio di una delusione è grande.
Le persone non esistono in questo mondo per soddisfare le nostre aspettative, così come noi non siamo qui per soddisfare le loro.
Dobbiamo bastare... dobbiamo bastare a noi stessi sempre, e quando vogliamo stare con qualcuno dobbiamo essere coscienti che stiamo insieme perché ci piace, lo vogliamo e stiamo bene, giammai perché abbiamo bisogno di qualcuno.
Una persona non ha bisogno dell'altra, esse si completano... non per essere due metà, ma per essere un intero, disposte a condividere obiettivi comuni, gioia e vita.
Nel corso del tempo, ti rendi conto che per essere felice con un'altra persona, è necessario, in primo luogo, che tu non abbia bisogno di questa persona.
Comprendi anche che la persona che ami (o pensi di amare) e che non vuole condividere niente con te, sicuramente, non è l'uomo o la donna della tua vita.
Impara a volerti bene, a prenderti cura di te stesso, e principalmente a voler bene a chi ti vuole bene.
Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te.
Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te.

lunedì 14 gennaio 2013

The Master

"The Master" di Paul Thomas Anderson. Con Philip Seymour Hoffman, Joaquin Phoenix, Amy Adams, Ambyr Childers, Rami Malek, Laura Dern e altri. USA 2012 ★★+
Non si può dire che sia un film da buttare, certamente non è il portento annunciato, in ogni caso meglio de "Il Petroliere", ma di gran lunga non all'altezza di "Magnolia", quello sì un capolavoro. Bravissimi gli attori (Philip Seymour Hoffman su tutti), estremamente accurata la ricostruzione d'epoca (siamo agli inizi degli anni Cinquanta), palese il riferimento alle vicende legate alla nascita di Scientology e al suo fondatore, L. Ron Hubbard, nel racconto dell'incontro tra Freddy Quell, un ex marine uscito con l'equilibrio psichico definitivamente compromesso dalla Seconda Guerra Mondiale e Lancaster Dodd, che ha inventato un trattamento introspettivo, simile all'ipnosi, per indagare sulle "vite passate" e che sperimenta su Dodd. La cura sembra sortire effetti positivi e tra i due nasce un sodalizio che si cementa negli anni, ed è questo legame quasi simbiotico tra i due uomini, che più diversi non potrebbero essere, basato sulla sincerità e la reciproca conoscenza dei lati oscuri più che su una complicità esplicita che è oggetto del film, e non tanto i meccanismi della setta" in via di formazione, anche se è interessante l'analisi della famigliola che circonda e accompagna il "guru" (e di cui di fatto Freddy diviene membro). Paradossalmente però, e nonostante i molteplici spunti e riferimenti, nel film manca una storia vera e propria, e quel che vi è narrato si dipana con una lentezza che, col passare dei minuti, diventa insopportabile, se dopo un'ora ho cominciato a compulsare, allarmato, l'orologio. Alla fine sono diventati 140', decisamente troppo perché non si trasformasse in una mappazza alquanto indigesta. Insomma, nonostante gli aspetti positivi, non ci siamo. 

venerdì 11 gennaio 2013

Soccorso Rosso

Chi si aspettava qualcosa di diverso invece del penoso avanspettacolo andato in onda ieri sera su "La 7" dalla puntata di Servizio Pubblico intitolata "Mi consenta", con unico ospite Silvio Berlusconi, e presentato come un evento storico, o è un inguaribile boccalone o non conosce la differenza fra informazione e intrattenimento, fra l'altro di qualità scadente, con Michele Santoro che, definitivamente sputtanato come giornalista, non si dimostra nemmeno un bravo show man, considerata la facilità irrisoria con cui il misirizzi brianzolo gli ha rubato la scena prendendo letteralmente in mano, nel finale, le redini della trasmissione per condurla in porto a suo esclusivo vantaggio. Dato per spacciato e in preda alla depressione soltanto un mese fa, il Tappo di plastica è tornato a galla grazie alla puntuale e provvidenziale entrata in azione del Soccorso Rosso, immancabile "portato" della Gioiosa Macchina da Guerra guidata dal partito degli zombie. Un segnale in tal senso veniva già imbattendosi nel ghigno di Massimo D'Alema, rispolverato per l'occasione da Frau Gruber a "Otto e Mezzo" e offerto come antipasto al piatto forte costituito dalla trasmissione del Guru de noantri. Il quale l'ha iniziata ossequiando con un "Presidente" (con la maiuscola incorporata) del tutto fuori luogo il suo ex datore di lavoro a MerdaSet, a meno che si riferisse alla sua carica nell'A.C. Milan. Già questo sarebbe bastato in situazioni normali per farmi cambiare canale o meglio ancora spegnere l'apparecchio, ma per una volta ho voluto tenere duro, allo scopo di documentarmi su quali livelli di degrado avessero raggiunto i "Talk Show" che da decenni dominano incontrastati la programmazione delle reti televisive della Penisola e poter dire la mia a ragion veduta, oltre a fornirmi un'ulteriore ottima motivazione in più per mandarli affanculo tutti quanti tra sei settimane. Una serie di siparietti sconfortanti (e palesemente concordati) tra due vecchi guitti, entrambi campioni di populismo, in cui all'invitato è stato concesso di tenere la parola per la quasi totalità delle tre, infinite e spossanti ore di trasmissione (nemmeno un musical appassionante ha tempi così dilatati), senza un vero contraddittorio e soprattutto senza domande, se non quelle scolastiche, sulla mancata opposizione all'IMU e sul "complotto" internazionale che avrebbe portato alle sue dimissioni nel novembre del 2011, poste dalle veline di fiducia di Santoro Luisella Costamagna e Giulia Innocenzi. Marco Travaglio sembrava spaesato, confinato nel suo spazio dove ha letto due puntuali letterine e infine sfrattato e sostituito da Berlusconi pure dalla sua scrivania: non è suo compito, nell'ambito di questa trasmissione pletorica quanto ridicola, porre domande, ma solo flautare qualcosa di simile a un editoriale. E infatti è stato l'unico ad accennare ai trascorsi piduisti di Berlusconi e ai sui legami con Licio Gelli, mentre nessuno si è accorto (o ha voluto accorgersene), né in trasmissione né stamattina nei vari commenti, che quello che Berlusconi andava esponendo,  in una efficacissima sintesi, con estrema chiarezza e tradotto in adeguati, semplici slogan, era nient'altro che il Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli e della sua P2, esposti per l'occasione a una vasta platea messa a disposizione da Santoro e dagli sponsor del suo circo mediatico. Votare per i due partiti maggiori (il suo oppure il PD) non tanto per avere in Parlamento una maggioranza che consenta di governare, ma i numeri, una volta eliminati i partiti minori, per abbattere la Costituzione in vigore e scriverne una nuova che concentri i poteri nell'esecutivo, premessa di qualsiasi governo che in futuro si proponga di "cambiare" (volente o nolente, e se necessario con la forza) il Paese: questo il messaggio. Né più né meno: l'ha ripetuto testuale almeno tre volte, al di là del fatto che concentrare la contesa elettorale sul duello tra lui e gli zombie gli consente di rispolverare il suo refrain preferito, quello della lotta agli odiati comunisti, e con un valletto come Santoro, che non a caso ha iniziato la sua carriera di pennivendolo a Servire il Pollo, organo ufficiale dell'Unione dei Comunisti Italiani (marxista-leninista), è come sfondare porte aperte: mai si sarebbe permesso di rinfacciargli la frequentazione di Lukashenko, di cui ha garantito la democraticità, o quella del suo intimo amico Vladimir Putin, altro campione in tal senso. Santoro non mi ha deluso: mi ha semplicemente confermato quel che ho sempre pensato di lui, ossia che incarni la versione maschile di Lucia Annunziata; che sia un assist-man, come si direbbe nel calcio; un Bruno Vespa (più ancora che un Emilio Fede) centrosinistrato; tutt'al più una discreta spalla per un comico di rango come Berlusconi ha confermato ancora una volta  di essere ieri sera, che in mezzo a dei nani come quelli che gli hanno fatto da comparsa in quest'ultima, ennesima occasione di rilancio gentilmente offertagli, non ha faticato a giganteggiare. Proprio lui. Ancora lui.

giovedì 10 gennaio 2013

A Royal Weekend

"A Royal Weekend" (Hyde Park on Huston) di Roger Michell. Con Bill Murray, Laura Linney, Samuel West, Olivia Colman, Elizabeth Marvel, Elizabeth Wilson. GB 2012 ★★★
Bel film, recitato alla grande da tutti gli interpreti, a cominciare da uno strepitoso Bill Murray nei panni di Franklyn Delano Roosevelt, che racconta un episodio poco conosciuto, la prima visita dei reali inglesi negli USA, svelandone i retroscena raccontati da Daisy, una lontana cugina del grande presidente americano, col quale ebbe una lunga relazione. Tutto vero: a cominciare dalla visita di Giorgio VI (il "re balbuziente" al centro di un altro ottimo film, "Il discorso del re") e consorte nell'estate del 1939 nella residenza di campagna di Roosevelt (nella casa di sua madre) pochi mesi prima dello scoppio ormai ineluttabile della guerra, per cercare di porre le premesse per un'eventuale futura partecipazione al conflitto in appoggio all'Inghilterra e alla Francia, sicure soccombenti, così come tratta dai diari di Daisy, ritrovati dopo la sua morte, con tutti i dettagli e segreti che vi scrisse, è la sceneggiatura del film, che è prezioso non soltanto perché ricostruisce con estrema cura l'epoca (splendide l'ambientazione e la fotografia) ma perché svela i lati sconosciuti, umanissimi nella loro normalità di personaggi che hanno fatto la storia e che poco sembrerebbero avere da spartire con le gente comune. Un Roosevelt erotomane ma anche  psicologo prima ancora che politico che riesce ad assumere un ruolo paterno e rassicurante rispetto al giovane sovrano contro la sua volontà; l'immanenza della madre del presidente, il femminismo a volte invadente della moglie Eleonor, i pregiudizi inglesi verso i selvaggi cugini americani impersonati dalla consorte reale, le fida segretaria di Roosevelt a sua volta da sempre legata a lui sentimentalmente e infine la dolce Daisy, sulla sfondo, che vive la sua storia d'amore prima sognando a occhi aperti, poi soffrendo sentendosi tradita, quando scopre le altre tresche del cugino, e che infine accetta quest'uomo di grande spessore, sia politico sia umano, e mai banale ,così come non è banale questa pellicola che merita di essere vista. 

martedì 8 gennaio 2013

La migliore offerta

"La migliore offerta" (The best Offer) di Giuseppe Tornatore. Con Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland, Philip Jackson. Italia 2012 ★★★¾
Ambientato a Vienna (ma girato prevalentemente in Italia, specie tra Alto Adige e Trieste, dove non mancano ambientazioni austroungariche) il film è il convincente risultato di un'ottima produzione nostrana, una pellicola godibile a più livelli, dal melodrammatico al filosofico al noir. Personaggio principale Virgil Oldman, interpretato in modo superbo da Geoffrey Rush, un maturo esperto d'arte, tra i più ricercati battitori d'asta al mondo, misogino ma la contempo attratto irresistibilmente dalla figura femminile, che nel tempo si è fatto una formidabile collezione di quadri con ritratti muliebri che conserva gelosamente in una stanza segreta della sua sfarzosa ma algida dimora in cui vive da solitario. Finché non viene incaricato dalla misteriosa Claire di procedere all'inventario dell'arredamento della villa di famiglia ereditata di recente. Malata di agorafobia, la ragazza evita gli incontri diretti e riesce alla fine a incuriosire prima e attirare in seguito il recalcitrante Virgil, anche attraverso l'esca di ingranaggi fatti ritrovare ad arte e che, messi insieme da Robert, un giovane e talentuoso restauratore, risultano far parte di un automa costruito nel 1700. Virgil man mano perde le sue rigidità, si fa consigliare da Robert anche su come approcciarsi al sesso femminile e perde man o le sue rigidità fino a conoscere di persona e innamorarsi definitivamente della fanciulla. Da qui in poi non svelo altro, perché il finale è a sorpresa anche se probabilmente i 10' che lo "spiegano" risultano a ben vedere superflui nell'economia del film. Che è ben costruito, per niente banale, giocato sulla sottile linea che divide l'autentico dal falso, la verità dalla menzogna e dall'inganno, realistico nella sua inverosimiglianza, filosofico e teoretico, credibile come affresco del mondo del mercato dell'arte e dei personaggi che vi ruotano attorno. Se "Il codice Da Vinci" e "Angeli e demoni" hanno avuto successo ed erano ben fatti, almeno altrettanto lo merita questa pellicola di Tornatore, girata con grande professionalità, ottima sceneggiatura, fotografia e commento musicale. 

martedì 1 gennaio 2013

Alice Underground

"Alice Underground", scritto, diretto e disegnato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia e tratto da Lewis Carroll. Con Elena Russo Arman, Ferdinando Bruni, Ida Marinelli e Matteo De Mojana. Luci di Nando Frigerio, suono e programmazione video di Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al teatro Elfo/Puccini di Milano (fino al 31 dicembre 2012)
Non avevo potuto andarlo a vedere tre settimane fa durante il mio più recente passaggio a Milano fa quando avevo il posto prenotato, ho recuperato un biglietto per la penultima recita che si teneva ieri pomeriggio e la rapida trasferta mordi e fuggi è valsa la pena perché si tratta di uno spettacolo raro, completo, modernissimo che si avvale delle più avanzate tecniche multimediali ma al contempo artigianale come pochi, nella cura certosina dei dettagli, dalle maschere create a mano agli oltre trecento acquerelli dipinti personalmente da Ferdinando Bruni e proiettati su una scenografia costituita da un'unica quinta bianca, un pannello da cui escono a turno i personaggi e gli oggetti con cui interagisce Alice, splendidamente interpretata da Elena Russo Arman, autentica mattatrice. Un'Alice in un paese delle meraviglie visionario, multicolore, a volte ipnotico, vivo, surreale, che esprime un immaginario infantile che però rimane vivo nel subconscio di chiunque abbia un minimo di sensibilità e fantasia. Gli "elfi" nella loro essenza: a mio modo di vedere gli unici in Italia a saper confezionare, e completamente in proprio, un teatro a tutto tondo dove testi, recitazione, immagini e musiche si integrano in una perfezione che è quasi cinematografica ma al contempo calda, partecipe, coinvolgente come soltanto il vero teatro sa essere. Pubblico convinto, tanti applausi e l'auspicio che lo spettacolo possa andare in tournée ed essere visto anche nel resto della Penisola, perché merita come pochi.