lunedì 30 dicembre 2013

Molière in bicicletta

"Molière in bicicletta" (Alceste à bicyclette) di Philippe Le Guay. Con Fabrice Luchini, Lambert Wilson, Maya Sansa, Laurie Bardesoules, Stephane Wojtowicz, Camille Japy, Anne Mercier e altri. Francia 2013 ★★★¾
Tutto secondo le previsioni: da un'idea di Fabrice Luchini, uno dei migliori attori europei, la sceneggiatura di Le Guay ("Le donne del sesto piano"), un cast all'altezza e un'ambientazione adeguata (L'Île d Ré,sulla costa atlantica, al largo di La Rochelle), non poteva che nascere una commedia intelligente, frizzante, divertente e alo stesso tempo amarognola, che utilizza un classico come "Il misantropo" di Molière per parlare non soltanto di teatro, della vanità e fragilità degli attori, della vacuità del successo ma anche di amicizia, sentimenti, tradimenti, realtà: perché il teatro è vita, anche quando è trasposto cinematograficamente, come dimostra del resto anche la "Venere in pelliccia" di Roman Polanski, cui questo "Molière in bicicletta" inevitabilmente rimanda, pur essendo più "facile", e però mai banale. Gauthier, un vanesio attore televisivo che deve la sua notorietà al personaggio di una serie "medical", e che per riscattarsi professionalmente intende mettere in scena "Il misantropo", va a stanare Serge, ritiratosi da anni sull'isola, disgustato dall'ambiente, per coinvolgerlo nell'impresa. Questi, un misantropo autentico, ne è lusingato ma si lascia desiderare e costringe Gauthier a una settimana di prove sul testo, alternandosi le parti di Alceste e Filinto, in un duetto che renderebbe al massimo se goduto nella versione originale ma che conserva un suo perché anche doppiato in italiano. A complicare le cose, ingarbugliando un'amicizia che sta riprendendo slancio e inceppando sia il rinato entusiasmo di Serge sia l'esordio teatrale di Gauthier nella parte a lui non consona di Alceste, la comparsa di Francesca (Maya Sansa), un'italiana brusca e complicata, appena reduce da un divorzio, dietro alla quale si intravede la Celimene dell'originale di Molière. Campione di incassi e di pubblico in patria, in Italia lo è Checco Zalone: con tutto il rispetto, è la differenza che passa tra lo stato, comatoso, del cinema - e del pubblico - nostrano e quello francese. Triste ma vero. E per quanto "Molière in bicicletta" sia un ottimo film, non siamo, né pretendeva di esserlo, alle vette assolute del cinema d'Oltralpe. 

sabato 28 dicembre 2013

Still Life

"Still Life" di Uberto Pasolini. Con Eddie Marsan, Joanne Froggart, Karen Drury, Andrew Buchan, Ciaran McIntire, Neil D'Souza, Paul Anderson, Tim Potter. GB, Italia 2013 ★★★★½
Una vera chicca, questo sorprendente piccolo grande film, seconda regìa di Uberto Pasolini, parsimonioso nell'uso della cinepresa ma attivo da anni come produttore di film di qualità e successo come Full Monty. "Natura morta", è la traduzione dall'inglese del titolo, e con la morte ha a che vedere l'attività di John May, da 22 anni funzionario della municipalità di Kennington, nel quadrante meridionale di Londra, incaricato della ricerca dei parenti delle persone morte in solitudine e dell'organizzazione delle loro esequie, che avvengono, per lo più, alla sua sola presenza e di cui cura ogni aspetto, dal discorso funebre alla scelta della musica più adeguata. Per farlo, coscienzioso com'è, perlustra, con l'attenzione e il fiuto di un investigatore, le abitazioni dei deceduti alla ricerca degli elementi che possano ricostruirne legami e personalità: in questa maniera, uomini e donne i cui ultimi momenti sono stati segnati dall'abbandono o, tutt'al più, dalla presenza di un animale domestico, ricevono da morti le attenzioni che non hanno avuto da vivi da un estraneo, da un burocrate apparentemente grigio che è in realtà una persona solitaria come loro e che quindi è in grado di capirli, oltre a coltivare nel proprio animo un'empatia autentica verso il prossimo, che nulla ha a che fare con il buonismo bensì con la sensibilità e ciò che i latini chiamavano pietas. Licenziato a causa della riorganizzazione in seguito alla spending revue che anche in Gran Bretagna, che li ha inventati, colpisce i servizi pubblici, John May dedica tutto il suo zelante impegno all'ultimo caso che gli tocca in sorte e che lo mette sulle tracce dell'esistenza tutt'altro che banale di Bill Stoke, morto alcolizzato e solo ma con un passato a tratti felice che si ripresenta, grazie alle ricerche di May, alle sue esequie. Tutto è perfetto in questo film, dalla sceneggiatura, alla fotografia, all'ambientazione, alla recitazione di attori pressoché sconosciuti da noi ma perfetti nel ruolo; un film delicato, rigoroso, che proprio perché non è "urlato", come aveva detto di augurarsi il regista, rimane dentro a chi lo vede. Ovviamente la critica yankee, come dimostra la recensione apparsa su Hollywood Reporter, affidata a un perfetto imbecille e ripresa dal n° 1030 di Internazionale due settimane fa, non apprezza: ma questa è una nota di merito. 

giovedì 26 dicembre 2013

Do it Selfie!

Si ringrazia sentitamente il geniale autore di questo impagabile file gif che illustra un esempio di moto armonico (con masturbazione)

domenica 22 dicembre 2013

Da Petrarca e Ferrer: viva la campagna!


Abbandoniamo la città senza l'intenzione di tornarvi [...]. Bisogna sradicare i motivi di preoccupazione e tagliare i ponti [...]. Affrettiamoci, lasciamo la città ai mercanti e agli avvocati, ai sensali agli usurai ai notai, ai medici ai profumieri ai macellai ai cuochi ai salsicciai ai fabbri ai tesorieri [...] ai musicanti ai ciarlatani agli architetti, ai mezzani ai ladri agli scioperati che con l'olfatto sempre all'erta captano l'odore del mercato: e questa è l'unica loro felicità. (Francesco Petrarca)




venerdì 20 dicembre 2013

Madiota

Se questa è la responsabile del nuovo Pd per il lavoro e Alessia Morani quella per la giustizia, immaginatevi Renzie alla presidenza del consiglio: un Letta-Letta schizzato ma altrettanto inconcludente. Con il consenso di due terzi dei solerti votanti alle "primarie" del PD. Grazie: nessuno potrebbe rendervi un servizio peggiore, nemmeno i peggiori nemici. 

lunedì 16 dicembre 2013

Figli

"Ho letto nel tuo ultimo articolo che forse il grillismo potrebbe essere sperimentato. E ho anche ascoltato l'altro giorno i tuoi appunti su Napolitano affidati alla "recitazione" di Travaglio.
Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato.
Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene".

Così Eugenio Scalfari, nell'omelia del 15 dicembre 2013 su Repubblica.
Il "Superitaliano" figlio di un 
croupier del casinò di Sanremo, 
voltagabbana ma pur sempre fascistissimo e pronto a levare gli scudi in difesa del vecchio camerata Napolitano, coltiva l'aspirazione a farsi Dio fomentando la riscossa dei novantenni con l'incontinente sbrodolamento paternalistico e pedantissimo che propina ai suoi lettori a ogni santo pranzo domenicale. Amen.

domenica 15 dicembre 2013

venerdì 13 dicembre 2013

The Rolling Stones Day - Sweet Summer Sun: Hyde Park Live 2013

"The Rolling Stones Day - Sweet Summer Sun: Hyde Park Live 2013" di Paul Dugdale. Con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Ron Wood, Mick Taylor. GB 2013 - Senza giudizio
Considerato il titolo del film-documentario che combina i due concerti dal vivo tenuti a Londra dalla Greatest Rock'n Roll Band in the World a Hyde Park il 6 e 13 luglio di quest'anno, benedetti per l'appunto da un caldo sole estivo e un cielo senza una nuvola, ho atteso la ricorrenza di Santa Lucia, "il giorno più corto che ci sia" (adeguatamente festeggiato in senso beneaugurante nei luoghi ancora civili e sostituito dal farlocco Babbo Natale consumista travestito dal Santa Klaus di derivazione yankee solo di recente - peraltro San Nicola è il 6 di dicembre) per parlarne brevemente. Perché non c'è molto da dire: i quattro vecchi leoni, insieme ai loro fedeli amici e accompagnatori, una vera e propria orchestra, ruggiscono anche all'alba dei settant'anni (suonati per Charlie Watts) e dimostrano ancora una volta che nel mondo del rock non c'è niente di meglio in giro, almeno dal vivo, anche in questo strano tour del "Post-Cinquantenario" (che prosegue nei primi mesi dell'anno prossimo in Oceania e in Estremo Oriente, con probabile capatina in Europa durante l'estate). Niente di nuovo, la scaletta è senza sorprese, a parte "Doom and Gloom" il singolo tratto dalla raccolta "GRRR!" uscita l'anno scorso, ed "Emotional Rescue", finora mai eseguita dal vivo in Europa. Il film rende bene l'atmosfera gioiosa, sia sul palco sia sul prato, che accoglieva una folla di centomila persone circa per concerto. Un ritorno sul "luogo del delitto" per gli Stones, in tutti i sensi: 44 anni dopo il mitico concerto gratuito, nello stesso parco londinese, del 5 luglio 1969, tre giorni dopo la morte di Brian Jones, loro primo chitarrista, che raccolse 500 mila persone e vide il ritorno della band in versione live dopo due anni di stop e l'esordio, al posto di Jones, del timido e taciturno Mick Taylor, che lasciò tracce indelebili nel periodo più fecondo, fino a quando li lasciò nel 1974: anche questa volta è della partita, in una versione esemplare e mozzafiato di "Midnight Rambler" e nel gran finale con botto. Un ritorno a casa anche per gli altri membri del gruppo, tutti londinesi, e si vede bene quanto siano a loro agio e con quale naturalezza riescano a dare quel qualcosa in più nell'occasione. Nel frattempo è uscito il DVD, ma la visione sul grande schermo, che finora è stata possibile soltanto nella giornata del 5 dicembre scorso come speciale anteprima del "Medimex, Salone dell'innovazione musicale" tenutosi a Bari dal 6 all'8 dicembre scorsi, è un'altra cosa e vivamente raccomandata.
Setlist (con l'inganno):

mercoledì 11 dicembre 2013

Le bugie hanno le gambe di Pippi Calzelunghe


Semplicemente democratica. E voltagabbana. Così Debora Serracchiani, presidente della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, soltanto un anno fa. Da lunedì è stata cooptata tra le 7 donne (5 gli uomini) della squadra del neosegreterio del PD Renzie, responsabile per le infrastrutture. "Adesso del Nord mi occuperò io", afferma, con sommo sprezzo del ridicolo. Stiamo a posto. E' giunta l'ora di facce (di bronzo) nuove, e qui a NordEst siamo all'avanguardia. 

lunedì 9 dicembre 2013

Sono morti democristiani


Come volevasi dimostrare (in tempi non sospetti). Peccato che i gonzi siano stati più del previsto (e dell'auspicato). Comunque è il turno della generazione degli Jovanotti. Boh!

domenica 8 dicembre 2013

TetrAgonia

Si celebra oggi, con grande squillo di trombe mediatiche, il rito delle "primarie aperte" del PD, per sceglierne il segretario. Domina il disinteresse generale e l'unica incognita sembra essere l'affluenza ai 9000 gazebi sparsi sul territorio nazionale. La soglia minima per non parlare di flop è fissata sui 2 milioni di votanti (così riporta Repubblica, l'organo ufficiale del PD, e conferma il CoreSera, che è invece la gazzetta governativa per eccellenza): si tratterebbe di un vero miracolo per gli zombie e la certificazione dell'esistenza di un tale numero di illusi e smemorati convinti di rappresentare la sinistra in questo Paese. Per quanto mi riguarda, sotto il milione e mezzo brinderei con uno spumante e se fossero soltanto un milione o giù di lì stapperei lo champagne: significherebbe che tanta brava gente si è risvegliata dal letargo e abbia guardato in faccia la realtà. Sempre che alla fine non vinca Civati, perché sarebbe l'unico a poter tenere in vita quanto rimane di vagamente di sinistra nel PD, ma sono ottimista e mi auguro un trionfo di Renzie con una miserrima partecipazione al voto: garanzia per la dissoluzione finale degli zombie entro un brevissimo arco di tempo e giusta punizione per i veterocomunisti, quella di morire democristiani. Sì, perché è con il partito che fu di Togliatti, il politicante italiano più abietto, arrogante, cinico, falso e opportunista del secolo scorso che ho dei conti in sospeso. In un Paese di smemorati, dove da duemila anni imperversa una chiesa che si identifica col potere, e da cui derivano i vizi storici degli italiani e la loro incapacità di farsi comunità prima ancora che Stato, un secolo fa, all'ultima incarnazione dell'eterno spirito nazionale, quello clerico-fascista e poi democristiano, si è aggiunto l'equivoco comunista. E la prima cosa che si rimuove è il passato. Dogmatici e integralisti, DC e PCI furono entrambi partiti a vocazione totalitaria (di massa, si blaterava un tempo): da qui l'irriducibile vocazione all'inciucio, altro che "bipolarismo". Ma mentre dai democristiani, espressione diretta del Vaticano, già si sapeva cosa ci si potesse aspettare, i comunisti, ambigui, manipolatori e ipocriti come nella loro natura, per anni erano riusciti a ingannare gli ingenui (e i gonzi) e sembrarne l'alternativa, incarnando la speranza di cambiamento di milioni di italiani: quando è stato il momento buono per scoprire le carte e provare ad abbattere il sistema democristiano, integrato dall'iniezione socialista di stampo craxiano, altra versione del ladrocinio di Stato, si sono rivelati uguali quando non peggiori di loro, e in più supponenti. E si sono alleati con loro, in modo più o meno mascherato, fino al momento in cui vi si sono fusi assieme: ecco da dove nasce il PD, il Partito Comunistiano, e la sua natura cancerogena. Sopravvive il riflesso pavloviano, presente soprattutto nella componente ex comunista (e anche in Civati, illuso di poter cambiare il PD dall'interno, tentativo fallito perfino da Gorbaciov con le conseguenze che sappiamo sull'ex URSS), per cui votare è un "dovere": stasera dalle 20 in poi sapremo quanti ne sono ancora affetti.

venerdì 6 dicembre 2013

La mafia uccide solo d'estate

"La mafia uccide solo d'estate" di Pierfrancesco Diliberto (Pif). Con Pif, Cristiana Capotondi, Alex Bisconti, Ginevra Antona, Ninni Bruschetta, Barbara Tabita, Rosario Lisma e altri. Italia 2013 ★★★★★
Allegro, scanzonato, irriverente, demistificante, a tratti crudo e alla fine commovente, l'esordio alla regia di Pif (ma era già stato l'aiuto di Marco Tullio Giordana ne "I cento passi") è senza dubbio il film di maggiore impegno civile prodotto in Italia negli ultimi cinque anni, un vero miracolo, che andrebbe quanto prima diffuso in tutte le scuole di ogni ordine e grado. A idearlo e girarlo un palermitano DOC che racconta, con parecchi riferimenti autobiografici, la "formazione" di Arturo nel capoluogo siciliano tra gli anni Settanta e Novanta, le cui tappe fondamentali, a cominciare dal concepimento nel dell'estate 1969, sono invariabilmente contrassegnate da una qualche mattanza di stampo mafioso. Innamorato fin dai banchi delle elementari della compagna di classe Flora, trova nel giudice Rocco Chinnici il suo mentore discreto, in Boris Giuliano il commissario gentile che gli fa conoscere la mitica iris alla ricotta, nel generale Alberto Dalla Chiesa il primo personaggio di rango intervistato quale vincitore di un concorso per giornalisti in erba, tutti personaggi conosciuti di persona e che verranno via via eliminati dalla mafia, mentre mai incontrerà dal vivo, nemmeno ai funerali del Prefetto Dalla Chiesa, quello che è stato il suo idolo d'infanzia, Giulio Andreotti (che quel giorno dichiarò di preferire i battesimi), di cui raccoglieva maniacalmente immagini e dichiarazioni, tappezzando la sua stanzetta di poster che lo ritraevano e ispirandosi a lui per dichiararsi a Flora: dandole appuntamento in un cimitero, così come il "Divo Giulio" fece con sua moglie Livia. Flora però seguirà per un decennio il padre, direttore di una banca siciliana in odore di collusione con Cosa Nostra, durante il periodo più rovente vissuto da Palermo, costellato da omicidi eccellenti. Nel frattempo Arturo seguirà il suo percorso formativo in una scalcagnata TV locale fino a quando incontrerà di nuovo Flora rientrata a Palermo come capo ufficio stampa di Salvo Lima in campagna elettorale, e lo farà assumere, anche se per breve tempo, perché è da quell'omicidio, fino alla escalation che portò all'uccisione di Falcone e Borsellino, che Arturo diventa consapevole che per combattere la mafia si deve per prima cosa guardarla in faccia e non rimuoverla, come hanno fatto per anni la sua famiglia, anche e soprattutto con l'intento di proteggerlo, e l'ambiente siciliano in generale. Medesimo percorso che compirà anche Flora e i due finalmente coroneranno il loro sogno. Lieto fine, certo, ma la commozione arriva non per il risvolto sentimentale ma per le ultime scene, che vedono Arturo, Flora e il loro bambino percorrere la via crucis delle lapidi che Palermo ha dedicato ai suoi coraggiosi martiri, che ancora tanto hanno da insegnare. Non è stata necessaria alcuna retorica, alcuna forzatura per trasmettere questo messaggio, ma un racconto ben congegnato in forma di parabola, ambientato in una Palermo dolente, tragica ma anche viva e solare, vera, in cui l'inserimento di filmati e immagini d'epoca, spesso di una crudezza che non ricordavamo, fanno da contrappunto al sogno d'amore realizzato di Arturo e Flora, che coincide con la loro presa di coscienza. Grazie, Pif.

mercoledì 4 dicembre 2013

Incostituzionali


La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul "Porcellum", ha dichiarato illegittimo sia il premio di maggioranza senza soglia sia le liste bloccate. Lo rende noto la Corte. (ANSA). In sostanza, l'attuale Parlamento, come i due che lo hanno preceduto, è abusivo (e così i governi che hanno espresso nonché l'attuale presidente della Repubblica). Ossia, i rappresentati del popolo sovrano sono stati eletti in maniera anticostituzionale, oltre a essere per la maggior parte dei cialtroni. Perché questa è la Terra dei Cachi, la Terra dei Cachi...

martedì 3 dicembre 2013

Venere in pelliccia

"Venere in pelliccia" (Venus in Fur) di Roman Polanski. Con Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric. Francia, Polonia 2013 ★★★★★
Un altro colpo di genio da parte di un maestro, un film imperdibile per chiunque ami il cinema, il teatro, i grandi interpreti e, soprattutto, coltivi l'esercizio dell'intelligenza, con in più la garanzia di divertirsi. "Venere in pelliccia" è l'adattamento cinematografico della pièce teatrale di David Ives a sua volta tratta dall'omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch del 1870, ed è ambientato in un piccolo e un po' decrepito teatro parigino in cui un regista, Thomas, sta concludendo, sconsolato, le audizioni per assegnare la parte della protagonista, Vanda, del proprio adattamento dell'opera. E' quasi rassegnato, data la pochezza e inadeguatezza delle candidate, quando fa irruzione, nella teatro vuoto, un'aspirante in ritardo su un appuntamento che nemmeno aveva, scarmigliata, vociante, volgare, ignorante, dall'aspetto decisamente puttanesco, così determinata ad ottenere la parte da imporre la propria audizione, quasi "violentando" Thomas. "Per pura coincidenza" si chiama proprio Vanda e dalla prima parola del testo che pronuncia, peraltro non inquadrata, si capisce che non più che essere lei, la prescelta, perché da quel momento nasce la magia, tutta teatrale, della finzione che si confonde con la realtà, dell'intreccio dialettico sempre più calzante e sempre puntuale, dell'inversione delle parti e Vanda non può che essere lei e non solo, diventa perfino la Venere del testo di Sacher-Masoch e comincia a interagire col sempre più disorientato e affascinato Thomas, fino ad invertire in sostanza le parti e diventare lei la regista dell'adattamento fino a manipolarne il testo e lui il protagonista che, nella scena finale, riassume in sé tutto: l'uomo e la donna, il sadico e il masochista, il regista e l'attore, il reale e l'immaginario, legato e come immolato a un cactus di cartapesta, resto di una rappresentazione precedente. E' tutto questo oggetto del film, il masochismo e le fantasie sessuali solo una parte e comunque il pretesto, per quanto la Seigner, magnifica interprete e altrettanto magnifica cinquantenne, distilli una carica erotica quantomai potente che sembra uscire dallo schermo, per consentire ancora una volta a Polanski di esplorare i lati ambigui e nascosti dell'animo umano e di una realtà che è soltanto apparente, perché la verità, in quanto tale, non esiste. L'interpretazione di Amalric è altrettanto all'altezza, il risultato un film perfetto, esemplare: non perdetelo. Grazie ancora una volta, maestro!

domenica 1 dicembre 2013

Il passato

"Il passato" (Le passé) di Asghar Farhadi. Con Bérénice Bejo, Ali Mosaffa, Tahar Rahim, Pauline Brulet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin, Sabrina Ouzani, Babak Karimi,  Valeria Cavalli. Francia, Italia 2013 ★★★★+
Era stata sollevata da più parte l'obiezione che l'aver ambientato e girato il film in una Parigi periferica anziché nella realtà iraniana abbia in qualche modo "distratto" il regista e tolto mordente alla sua grande capacità narrativa. Semmai ha sgombrato il campo da qualche elemento considerato, all'occhio occidentale, esotico, peraltro del tutto assente anche negli ottimi lavori precedenti, confermando che Fahradi è un acutissimo, attento, raffinato osservatore di dinamiche relazionali, sia di coppia, sia in generale, che hanno una valenza universale anche fuori di un contesto particolare come quello dell'Iran post-khomeinista, oltre a possedere una rara capacità di racconto e una padronanza invidiabile non solo della macchina da presa ma della sceneggiatura, nonché della capacità di fare esprimere al meglio qualsiasi attore con si trovi a lavorare. Qui la parte del leone la fanno Ali Mosaffa, che interpreta Ahmad, e Bérénice Bejo nella parte dell'ex moglie Lucie, non a caso premiata quest'anno a Cannes come miglior interprete femminile e già candidata come migliore attrice non protagonista agli Oscar. Il primo torna a Parigi da Teheran dopo quattro per firmare le carte del divorzio da Lucie, la quale anziché prenotargli un albergo preferisce ospitarlo nella casa che condivide con le due figlie, nate dal primo matrimonio, e di Fouad, figlio del suo attuale compagno, Shamir, la cui moglie (e madre) si trova in coma per un tentato suicidio. In questo modo Ahmad viene suo malgrado coinvolto nelle dinamiche malsane che si sono innescate in questa sorta di famiglia allargata tutto fuorché equilibrata e trasparente, e il regista le svela con i meccanismi di un vero e proprio thriller psicologico aperto a ogni sviluppo che lo spettatore possa immaginare. Come suggerito dal titolo, tutto ruota attorno alla impossibilità di tagliare con il proprio passato: quello che ci va più vicino è Ahmad, che infatti si ritrova a fare da mediatore nei conflitti che si creano tra le parti in causa, specialmente quello tra Marie e la figlia maggiore Lucie, che mal sopporta il suo nuovo compagno Shamir, che considera, con più di una ragione, un idiota, ma meno ancora le ambiguità della madre; mentre non ci riescono né Marie, né Lucie, che si sente responsabile del tentato suicidio di Corinne, la moglie di Shamir e meno ancora quest'ultimo, benché Marie porti in grembo un figlio suo (cosa che non rivelerà direttamente all'ex marito, come non gli aveva detto della convivenza con lui). Ma non è il "passato che non passa" l'unico tema della pellicola; almeno altrettanto lo è quello di quel particolare tipo di persone che traggono linfa vitale dal succhiare letteralmente l'energia da chi li circonda e la cui unica ragion d'essere, nel loro immenso quanto spesso inconsapevole egocentrismo, sembra essere procurare l'infelicità altrui, creando prima caos, poi disagio e infine malessere attorno a sé, e questo con atti ma soprattutto omissioni, cose non dette, inganni, sotterfugi: così è la Lucie de Il passato, magnificamente interpretata dalla Bejo, ambigua e manipolatrice quanto bella, con l'ingannatore sguardo dolce degli occhi da cerbiatta, che al suo passaggio diffonde confusione (anche nella gestione della casa), malessere, incomprensioni, zizzania, alla fine un deserto: non a caso il primo marito è diventato cardiopatico, Ahmad era caduto in una forte depressione da cui è guarito facendo ritorno in Iran e Shamir è un succube, irresoluto e ambiguo quanto lei. Una donna in questo caso, ma potrebbe benissimo essere un uomo, da cui prendere le distanze il più presto possibile per non cadere nella sua micidiale trappola. Un film notevole, assolutamente all'altezza de "La separazione" e "About Elly" che l'hanno preceduto.

giovedì 28 novembre 2013

Avanti il prossimo

La mia, più che una sensazione, è pressoché una certezza: i trionfalismi di ieri, la celebrazione della decadenza di Berlusconi da parlamentare come una sorta di 25 aprile, la Liberazione dal fascismo, non fanno i conti con l'oste, ossia con la storia: cioè con la maggioranza del popolo italiano che, come del resto quello russo e tanti altri su questa Terra, non riesce a fare a meno di identificarsi con un capobranco, una figura salvifica o, per altri, malefica, un feticcio a cui addossare tutto ciò che non funziona. Già si dimentica che il ventennio berlusconiano, dichiarato chiuso con una certa precipitosa avventatezza e, naturalmente, senza alcuna analisi seria da parte dei media più diffusi, è stato preceduto da un quindicennio di Craxismo e da quarant'anni di sostanziale Andreottismo, che dispiegano del resto i loro effetti perniciosi ancora oggi, mentre dall'altra parte (della medaglia, non della sostanza) fanno ancora i conti con il miserabile cinismo, l'inarrivabile arroganza a nascondere la sostanziale piccineria, la doppiezza e lo sfacciato opportunismo di una figura morta ormai da cinquant'anni come Togliatti. Il suo successore nel PD ex DS ex PDS ex PCI Gugliemlo Epifani sostiene che col voto al Senato di ieri non si sia fatto altro che applicare la legge (e in effetti è stato nulla più che un atto dovuto, peraltro procrastinato di quasi quattro mesi) tralasciando di ricordare che i suoi predecessori si sono ben guardati, fin dal 1994, di applicare quella del 30 marzo 1957 numero 361 sull'ineleggibilità dei beneficiari di concessioni pubbliche; i parlamentari del M5S festeggiano a spumante; tutti quanti insieme incorrono nel consueto errore di scambiare la causa con gli effetti: in altri termini Berlusconi non è la malattia, ma il sintomo; così come la crisi dei subprime e ciò che ne è seguito è la conseguenza logica di un sistema che non non può funzionare, e completamente impazzito. Come diceva Giorgio Gaber, "non temo il Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me". Conoscendo questo Paese, i tempi sono maturi per il suo successore nell'eterna commedia all'italiana.

martedì 26 novembre 2013

La cuoca presa per la gola: non sanno più che "strozzate" inventarsi



Dal Corriere della Serva on line: "Nigella Lawson presa per il collo dal marito Charles Saatchi: le foto, pubblicate per prime dal Sunday People in copertina, hanno fatto il giro del mondo".

lunedì 25 novembre 2013

Grazia ar cazzo!


Grazia, Graziella e grazie al...
Al capo dello stato va riconosciuta la coerenza. Se il malfattore si fosse fatto da parte, lasciando la vita politica, come nella richiamata nota del 13 agosto, la grazia sarebbe arrivata. Adesso è chiaro e confessato. “Non si sono create via via le condizioni, e nulla è risultato più lontano del discorso tenuto sabato dal senatore Berlusconi dalle indicazioni e dagli intenti che in quella dichiarazione erano stati formulati”. Dunque il cavaliere disarcionato rimproveri solo sé stesso. Il Colle la strada per evitare l’umiliazione di pulire i cessi da un qualche reverendo gliela aveva davvero aperta. Alla faccia dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, Napolitano era pronto a recitare la parte di Gerald Ford con Richard Nixon, a fare quel gesto di pacificazione nazionale che avrebbe garantito la continuazione del berlusconismo senza il suo fondatore. Il solito calcolo di sinistra nei confronti del Caimano. Se mollo un po’, sul conflitto di interessi, sulle leggi vergogna, sulla bicamerale, sulle riforme lo riconduco alla ragione, quella mentale e quella di stato. Vent’anni dopo la lezione di Scalfaro, l’uomo che aveva annullato il berlusconismo in meno di un anno a colpi di par condicio e schiena dritta!
"Il contropelo" di Massimo Rocca, Radio Capital
In una breve sintesi, il motivo per cui sarebbe ora che Re Giorgio venisse detronizzato e mandato a marcire in galera assieme al delinquente abituale in questione: altro che pulire i cessi ai servizi sociali!

domenica 24 novembre 2013

L'ultima ruota del carro

"L'ultima ruota del carro" di Giovanni Veronesi. Con Elio Germano, Alessandra Mastronardi, Ricky Memphis, Virginia Raffaele, Ubaldo Pantani, Alessandro Haber, Massimo Wertmüller, Francesca D'Aloja, Dalila Di Lazzaro e altri. Italia 2013 ★★-
Ennesima dimostrazione che non bastano le buone intenzioni né un mattatore assoluto come Elio Germano per fare un buon film. La storia italiana degli ultimi cinquant'anni, più o meno, vista "dal basso", dalla parte dei più umili, se buona come idea, dà l'impressione di visto e rivisto in mille salse e, ancora una volta, sembra che ultimamente in Italia non si sia in grado di sfuggire allo schema del format televisivo: come serial di prima serata poteva anche funzionare, un decennio per puntata sulle reti nazionali e il successo era assicurato. Invece siamo alla solita pellicola romanocentrica, con i triti e ritriti luoghi comuni del caso: l'arroganza coniugata alla stupidità dello straricco; la furbizia dell'arrivista; la bontà della "brava gente", di cui è simbolo Ernesto, il protagonista, segnato fin dalla gioventù dalla "maledizione" del padre tappezziere, di cui è aiutante, che gli predice un avvenire da "ultima ruota del carro", per l'appunto. E' da un auto-carro da spedizioniere-traslocatore che il buon Ernesto, resosi indipendente, vede scorrere quattro decenni di storia italiana trovandosi, immancabilmente presente di persona e testimone, per quanto involontario, di tutte le svolte via via "epocali" nelle vicende del Paese: dal ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani nel 1978 al "Mundial" del 1982, alle monetine gettate a Craxi davanti all'Hotel Raphaël in piena epoca tangentopolizia all'ascesa di Berlusconi nel 1994, alla crisi attuale; parallelamente scorre la sua vita privata, scandita dai passaggi comuni alla stragrande maggioranza dei baby boomers italiani: l'adolescenza tra il beatnik e il protestatario; il matrimonio; i figli; e poi i nipoti (la famigghia); le simpatie politiche a sinistra e il portafogli a destra; le amicizie di infanzia che segnano l'intera esistenza, accompagnandola; le disavventure sanitarie e l'eterna lotta contro la burocrazia, aggirabile con la "spintarella" e l'altrettanto eterna e celebrata arte di arrangiarsi; la fiducia, malriposta, nello "Stellone". Manca solo la mamma, stranamente: forse Veronesi e Chiti si sono dimenticati di specificare nella sceneggiatura che Ernesto ne era orfano, oppure il riferimento è saltato in fase di montaggio, perché altrimenti sarebbe davvero un caso unico nelle vicende di italiane. Se la ricostruzione d'epoca è efficace e il cast dignitoso (insieme a Germano spiccano la Raffaele e Haber, mentre Alessandra Mastronardi ha l'espressività di una scamorza), incredibile è la sciatteria del trucco: i personaggi invecchiati sembrano degli zombie usciti dai film di Romero,  sebbene questo sia il Paese che ha dato i natali a Rambaldi e a costumisti, parrucchieri e truccatori d'eccezione. Alla fine film non pessimo, ma molto al di sotto delle ambizioni: in confronto il tanto disprezzato Anni Felici o anche Una piccola impresa meridionale sono autentici capolavori.

venerdì 22 novembre 2013

Le voci di dentro

"Le voci di dentro" di Eduardo De Filippo. Regia di Toni Servillo. Con Toni e Peppe Servillo, Chiara Baffi, Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Gigio Morra, Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonio Cossia, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino. Scene di Lino Fiorito; costumi di Ortensia di Francesco; luci di Cesare Accetta; suono di Daghi Rondanini; aiuto regia Costanza Boccardi. Produzione Teatri Uniti/Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa/Teatro di Roma. Al teatro Nuovo Giovanni da Udine. Prossime date italiane: dal 3 all'8 dicembre al Teatro Donizetti di Bergamo, dal 10 al 20 dicembre alla "Pergola" di Firenze, il 21 e 22 dicembre al Teatro Mancinelli di Orvieto e dal 2 al 14 gennaio 2014 al Teatro San Ferdinando di Napoli.
Ci sono voluti Toni Servillo, suo fratello Peppe e una compagnia intergenerazionale di valore per riconciliarmi, a un anno di distanza, con un testo di Eduardo De Filippo, a dimostrazione che non basta essere figli del grande autore partenopeo per renderlo al meglio: occorre entusiasmo, talento, rigore e al contempo leggerezza. Missione compiuta, come dimostra il tutto esaurito nelle quattro tappe friulane de "Le voci di dentro", tra Pordenone e Udine, e questo recitando in napoletano, reso però comprensibile a chiunque dalla bravura ed espressività di tutti gli interpreti. In questa commedia del 1948 De Filippo, "il più straordinario e forse ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare", secondo le parole dello stesso Toni Servillo, scava nella cattiva coscienza dei personaggi, e del pubblico stesso, mettendo a nudo, nelle macerie fisiche e morali della Napoli del Dopoguerra, le loro miserie opportuniste, la delazione in nome del "si salvi chi può", l'incapacità di ascolto reciproco anche all'interno della stessa famiglia. In un'atmosfera "nera", in bilico tra grottesco e tragico, la vicenda prende il via da un sogno scambiato per realtà da Alberto Saporito, un "allestitore" di spettacoli, convinto che il suo migliore amico sia stato assassinato dal vicino di casa e di averne le prove. Così convinto da denunciarlo alla polizia, salvo accorgersi dell'autoinganno quando non è in grado di trovare i presunti documenti a sostegno dell'accusa, ma che tutti abbiano degli scheletri nascosti nell'armadio risulta sempre più chiaro quando tutti i membri della famiglia dei vicini di casa vengono singolarmente a trovarlo incolpandosi l'un l'altro di un omicidio in realtà mai compiuto, in un'orgia di sospetti e accuse reciproche, e il suo stesso fratello, Carlo, un baciapile ipocrita, gli trama alle spalle contando sul fatto che finisca in galera per la falsa accusa, portando Alberto alla conclusione che i veri assassini, ma della fiducia e della stima reciproca, sono loro stessi, pronti a ritenere plausibile un omicidio compiuto per bieco interesse da un proprio famigliare, e accusarlo per sviare l'attenzione dalle proprie piccole nefandezze, e che è quindi preferibile tornare a parlare con i morti, come zi' Nicola, da poco dipartito, e che si esprimeva sparando petardi e bengala e non verbalmente, perché "cosa parlamm' a' fa'"... Grande spettacolo, da non perdere. 

giovedì 21 novembre 2013

Sole a catinelle

"Sole a catinelle" di Gennaro Nunziante. Con Checco Zalone, Aurore Erguy, Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Ruben Aprea, Valeria Cavalli, Marco Paolini e altri. Italia 2013 ★★+
Ero in dubbio se contribuire al record di incasso di questa terza pellicola targata "Checcozalone", ma un buco di tre ore in una Milano piovosa in attesa di un treno ieri l'altro mi hanno portato a sciogliere gli indugi e a chiudermi in una sala cinematografica, al buio. E cominciamo da quello che non va già all'apparire sullo schermo della sigla Merdusa  Film: un volume audio assordante, marchio di fabbrica Fininvest-MerdaSet e, di conseguenza, l'impianto prettamente televisivo della pellicola. Come plot, taglio (raffazzonato) delle riprese, accozzaglia di luoghi comuni: la vicenda narra di un padre pugliese che vive e lavora al Nord, precisamente a Padova (e non a Vicenza dove più di un "critico" ha collocato la location, facendosi ingannare dalla targa dell'auto usata dal protagonista), pressappochista, inaffidabile, "imprenditore di sé stesso" (fa il rappresentante di scope elettriche), che fa sfoggio della sua ignoranza senza ritegno, ottimista allo spasimo, tipico prodotto del ventennio berlusconiano, in via di separazione dalla moglie a causa della sua inguaribile cialtronaggine (si indebita fino al collo contando sul suo presunto talento per permettersi un livello di vita incongruo e insostenibile, votato all'inseguimento del gadget e del prodotto di tendenza), fedele però alla parola data: aveva promesso al figlio di dieci anni, Nicolò, una vacanza da favola se fosse stato promosso a pieni voti e la manterrà dopo che è andato a ritirarne la pagella di tutti dieci. Manterrà involontariamente, perché all'inizio lo porterà in Molise, mendicando ospitalità presso una vecchia zia bigotta e spilorcia che non vede da trent'anni, ma una serie di vicissitudini lo porterà a frequentare Zoe, ricca rampolla di una stirpe di industriali (guarda caso proprietari della fabbrica dove la moglie di Zalone è stata messa in cassa integrazione), nella sua villa-agriturismo alternativo in Toscana, che gli serberà eterna gratitudine per avere "sbloccato" il figlio, coetaneo di Nicolò, affetto da "mutismo selettivo" (causato da padre cinematografaro e stronzo). Insomma, inevitabile lo Happy End, ma la trama è ovviamente il pretesto per dare sfogo all'indubbio talento di Luca Medici, in arte Checco Zalone, il quale, non ci sono santi, è l'unico in Italia, a parte forse Antonio Albanese, in grado di andare oltre alla dimensione dello sketch e reggere da solo un intero film: a mio parere è, in tutto e per tutto, l'Alberto Sordi del 2000 (capace come lui anche di cantare e di scrivere testi demenziali e all'altezza), perfetto interprete dell'italiano medio dei suoi tempi, con la differenza che Sordi in buona parte lo era lui stesso e Zalone è più cattivo e, secondo me, più acuto, intelligente e meno banale: mette consapevolmente il dito nella piaga, anche se fa finta di no. Alla fine mi sono abbastanza divertito, e il giudizio non del tutto negativo è dovuto esclusivamente a lui e, in misura minore, a due comprimari come Valeria Cavalli e Marco Paolini, mentre mi auguro che l'esordio cinematografico di Aurore Erguy rimanga tale e che torni a occuparsi di cinema dall'altra parte dello schermo. 

mercoledì 20 novembre 2013

La gabbia dorata - La jaula de oro

"La gabbia dorata" (La jaula de oro) di Diego Quemada-Díez. Con Brandon Lopez, Rodolfo Dominguez, Karen Martinez, Carlos Chajon, Ramón Medína e altri. Messico 2013 ★★★★½
Eccellente esordio alla regia dello spagnolo Diego Quemada-Díez, già collaboratore, non a caso, di Ken Loach, Spike Lee, Oliver Stone, Meirelles e Gionzález-Iñarritu, che per raccontare la piccola grande epopea migratoria di tre ragazzini dal Guatemala agli USA attraversando tutto il Messico (dove il regista risiede), ha impiegato dieci anni, di cui la metà dedicati a interviste e a percorrere lui stesso per tre volte il tragitto, via treno, compiuto abitualmente dai migranti centroamericani. Un'opera viva, dunque, che trae spunto da diverse storie vere raccolte di persona e che racconta la vicenda di Juan, Sara e Samuel che, partendo da una vila miseria guatemalteca ai margini di una discarica abusiva, vogliono raggiungere gli USA, superando due confini. Acciuffati dalla polizia messicana, derubati e rispediti indietro al primo tentativo, ci riprovano con maggiore successo al secondo, quando al gruppo si aggrega Chauk, un maya del Chiapas che non parla una parola di spagnolo, prima respinto da Juan (c'è sempre qualcuno più "negro", o "terrone", o "indio" di un altro) e poi accettato dopo avergli salvato la vita: da qui nasce un'intesa basata sulla solidarietà che non necessita di parole (quelle che invece Chauk e Sara provano a usare insieme per comprendersi anche verbalmente). Il quartetto man mano si assottiglia: Samuel deciderà di rimanere in Guatemala; il resto del terzetto verrà vessato, insieme ad altre decine di migranti, da una serie di sfruttatori che, come gabellieri medievali, li deruberanno o costringeranno a delle corvé lavorative per poter procedere, finché all'ennesimo posto di blocco (quando non è la polizia sono dei banditi, ma non cambia la sostanza) viene scoperto il sesso di Sara, nonostante la fasciatura del seno e il taglio dei capelli, e la ragazza rapita per essere avviata alla prostituzione; Chauk e Chauk riusciranno a raggiungere i tanto agognati USA, non senza essere stati usati per trasportare droga e venire abbandonati a sé stessi, oltre la vergognosa muraglia innalzata da Bush e soci, oltrepassata la quale, e in sua prossimità, è ammesso il "tiro libero" da parte della famigerata migra e il povero indio ci rimarrà secco al primo colpo. Juan sarà l'unico a raggiungere la meta, che si rivela fin da subito una "gabbia dorata": oltrepassato il muro il panorama cambia immediatamente, e da agreste che era diventa un deserto cementizio e industriale che si annuncia con ciminiere da cui escono miasmi non meno pestilenziali di quelli delle discariche del Guatemala. Un mondo che si rivela di plastica. Juan finisce pur sempre ad avere a che fare con la putrefazione i rifiuti, questa volta alimentari, in un macello industriale, ultimo degli addetti alle pulizie: una scena agghiacciante. Film che parla sostanzialmente di confini, non solo geografici ma anche mentali, entrambi di per sé insensati quanto difficili da superare; fedele alle vicende reali e che dà voce a un fenomeno mai abbastanza affrontato come quel delle migrazioni, sempre esistito ma oggetto, come tutto il resto, a una minuziosa opera di sfruttamento minuziosamente organizzata sotto ogni aspetto, secondo una logica "globalizzata"; visto dalla parte e con gli occhi dei più indifesi, e illusi. Da non perdere. 

lunedì 18 novembre 2013

Il "caso" e le (pari) opportunità

E' la terza settimana di fila che la giornata inizia invariabilmente con disamine, commenti, disquisizioni, ipotesi, retroscena e quant'altro sul "Caso Cancellieri", ultimo argomento di distrazione di massa, come se si trattasse di una notizia. Ma dove? La vera notizia sarebbe costituita dalle sue dimissioni, o dalla sua immediata destituzione, non dal fatto che rimanga con le sue possenti natiche avvitata alla poltrona. Non esiste alcun caso. Non è per "caso" che l'energumena sia diventata responsabile del dicastero della Giustizia, nominata da un golpista su proposta di un imbecille (per quanto fornito di palle d'acciaio), indicazione della marionetta robotizzata con cui aveva esordito nel precedente governo e il placet di un delinquente abituale pluricondannato che non si riesce nemmeno ad espellere dal Parlamento in cui siede abusivamente da quasi un ventennio. Nella Terra dei Cachi è giusto che anche una rappresentante del sesso femminile abbia la sua seconda opportunità, così come l'ha avuta il suo collega agli Interni, rimasto al suo posto nonostante il sequestro e il rimpatrio forzoso in Kazakistan di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov e della loro figlioletta di sei anni da parte di diplomatici kazaki in combutta con funzionari del Viminale. E diamogliela anche a un esponente di un sesso non definibile, per correttezza politica, come l'esimio governatore delle Puglie. Nulla è un "caso", meno che mai fare parte di un governo espressione perfettamente adeguata di una classe politica ributtante nel suo complesso, senza distinzioni. Per quanto mi riguarda, chi partecipa a qualsiasi titolo a questo disgustoso e truffaldino gioco delle parti è un complice, e perfino di più  chi continua a parlarne conferendo a questa gentaglia una qualsivoglia credibilità: altro che "caso". Poi questi Soloni del nulla cadono dal pero e blaterano di deriva autoritaria, trionfo dell'antipolitica, eversione strisciante. Come se non ne fossero loro i protagonisti, oltre che corresponsabili. 

domenica 17 novembre 2013

Aspettando Godot

Aspettando Godot di Samuel Beckett. Regia di Jurij Ferrini, traduzione di Carlo Fruttero. Con Natalino Balasso, Jurij Ferrini, Angelo Tronca, Michele Schiano di Cola. Scenografia di Samuel Beckett; costumi di Michela Pagano. Produzione U.R.T.-Teatria. Ultimo spettacolo al Teatro Elfo/Puccini di Milano oggi pomeriggio alle 16, prossimamente alcune date nel Triveneto e tra fine gennaio e inizio febbraio a Torino, tournée in via di definizione
Che la coppia Balasso-Ferrini funzionasse perfettamente lo si era visto nell'allestimento de "I rusteghi" di Gabriele Vacis per il CRT di Torino portato un tournée con grande successo due stagioni fa, tanto da indurre i due attori a continuare la loro collaborazione sul registro comico-assurdo che li vede sempre più affiatati portando in scena il capolavoro di Beckett, per la regia dello stesso Jurij Ferrini. Scenografia senza fronzoli, secondo le indicazioni dello stesso drammaturgo irlandese, con un solo, scarno albero lungo un sentiero di campagna sotto il quale si ritrovano ogni giorno, verso il tramonto, Didi e Gogo, ossia Vladimiro ed Estragone, i due clochard-clown in perenne attesa dell'arrivo del fantomatico Godot, con cui hanno preso un appuntamento delle cui cause hanno ormai perso memoria, come pure dell'identità stessa del personaggio, e per ammazzare il tempo intrecciano un duello dialettico fatto di dialoghi tanto surreali quanto esilaranti. Uniche variazioni sul tema, le apparizioni, altrettanto puntuali, di Pozzo e Lucky, un padrone che tiene a guinzaglio il suo servo tiranneggiandolo  senza pietà, diretti a una meta altrettanto imprecisata, e un ragazzo che, al termine di ogni giornata, viene ad annunciare che, per questa volta, Godot non potrà venire ma che l'indomani, senz'altro, giungerà all'appuntamento. Allestimento fedele all'originale, due attori bene assortiti ed entusiasti supportati da altri due all'altezza per un classico moderno sulla circolarità e l'insensatezza dell'esistenza umana, e sulla perseverante coltivazione dell'arte dell'attesa di un futuro che si ritiene, chissà perché, migliore del presente: si esce dallo spettacolo più leggeri e con la confortante consapevolezza di non essere soli in questa gabbia di matti che è il mondo. 

sabato 16 novembre 2013

Miss Violence

"Miss Violence" di Alexandros Avranas. Con Themis Panou, Eleni Roussinou, Rena Pittaki, Sissi Toumasi, Kalliopi Zontanou, Constantinos Athanasiades, Chloe Bolota e altri. Grecia 2013 ★★★★
E' fuori di dubbio che una giuria meno accomodante con il familismo italiota di quella presieduta da Sua Eminenza Bernardo Bertolucci, altra icona sbiadita del progressismo e "laicismo" cinematografato nazionale, avrebbe assegnato il Leone d'Oro all'ultima rassegna veneziana a questo film o, ancora meglio, a Via Castellana Bandiera di Emma Dante, e invece quest'ottima seconda pellicola del giovane greco Alexandros Avranas ha dovuto accontentarsi del Leone d'Argento e l'eccellente Themis Panou del premio come migliore attore: a entrambi il film, gli unici che avesser qualcosa da dire del decaduto festival lagunare, è stato preferito l'insulso e pretenzioso finto documentario Sacro GRA. Atene, interno giorno in un appartamento piccolo borghese decoroso, asettico, adornato di agghiaccianti quadri tratti da puzzle che rappresentano paesaggi alpini: in salotto, con tanti di cappellini, cotillons e torta, la famiglia sta festeggiando il genetliaco della undicenne Angeliki che, mentre i parenti sono distratti, con fredda determinazione, scavalca il parapetto e si precipita nel vuoto. Il tutto senza motivazioni apparenti, le quelli emergono però man mano col procedere della pellicola. La famiglia ha infatti delle reazioni sconcertanti e, sotto a direzione del "capo", il nonno, un personaggio all'apparenza mite e irreprensibile, improntate alla rimozione dell'accaduto, a cominciare dai vestiti e dagli oggetti appartenuti ad Angeliki, in nome della normalità. Sono perplessi gli insegnanti della scuola, e ancora di più i funzionari dei servizi sociali che affiancano la polizia nelle indagini di rito, i quali tengono d'occhio la situazione e cercano di capire cosa c'è sotto. La normalità, appunto, di una famiglia malata dove dietro a un'apparenza di pulizia, perbenismo, ordine si nascondono vicende inconfessabili, violenze, forse incesti, comportamenti aberranti e colpevole complicità delle vittime, i cui ruoli si riescono a capire solo col procedere della pellicola, e nemmeno del tutto perché in fondo è di secondaria importanza definirli, in un universo chiuso fatto di squallore, morbosità, reticenza: Angeliki si uccide quando Myrto, la quattordicenne figlia del nonno e sua zia, le rivela le consuetudini di famiglia e dunque l'avvenire che l'aspetta. Tutto questo verminaio viene fatto emergere senza che occorrano spiegazioni, e alcuna scena truculenta, solo attraverso le immagini, le espressioni e soprattutto i silenzi (la figlia maggiore Heleni, madre di Angeliki e di due suoi fratelli e nuovamente incinta di ignoto padre - forse il nonno - è emblematica): per questo servono un regista di alto livello, e Avranas, sulla scie di Heineke e Seidl lo è; e degli interpreti in gamba e tutto il cast, adolescenti bravissimi a parte, di estrazione teatrale, lo è anch'esso. Themis Panou, poi, è un mostro di bravura, almeno quanto mostruoso è il personaggio che interpreta nel film: scomodo, e per questo fastidioso e perturbante in un Paese fondato sul mammismo.