domenica 30 dicembre 2012

La regola del silenzio

"La regola del silenzio" (The Company You Keep) di Robert Redford. Con Robert Redford, Shia LeBoeuf, Julie Christie, Susan Sarandon, Sam Elliott, Brendan Gleeson, Terrence Howard, Richard Jenkins, Stanley Tucci, Chris Cooper, Nick Nolte. USA 2012 ★★★+
Un buon film, in linea con quello che ci si può aspettare dal sincero democratico e correttissimo Robert Redford (avercene!), esempio perfetto dello yankee buono, ma pur sempre yankee, anche se uno dei pregi del film è di non essere del tutto una "americanata", e di far fare una pessima figura all'apparato poliziesco federale, il FBI: vendicativo, incapace, esagerato. In seguito all'arresto di una ex militante  (che peraltro si stava costituendo), del un gruppo radicale "Weather Underground", attivo negli anni Sessanta e Settanta, coinvolta ai tempi in un "esproprio proletario" a una banca in cui è rimasta vittima una guardia giurata, un giovane cronista di Albany, NY, scopre che vi è coinvolto anche un avvocato, Jim Grant, che in realtà nasconde un'altra identità, quella di uno dei dirigenti del gruppo, accusato dell'omicidio di quasi quarant'anni prima e quindi inseguito dai "federali". Vedovo da poco, padre single di un'adolescente, è costretto ad affidare la figlia al fratello e a darsi alla fuga, che in realtà non è tale ma un mezzo per raggiungere l'unica persona che potrebbe scagionarlo: la sua ex compagna, che ora vive in California occupandosi di importazione di marijuana. In sostanza è un film sulla ricerca della verità: da parte del giornalista, per certi versi del FBI (più che altro nel senso di farla pagare a questi ex ribelli), del protagonista e della sua ex fiamma, con cui si scopre che ha avuto una figlia, adottata da un ex poliziotto loro amico e che aveva contribuito ad archiviare il caso. Bello vedere i vecchi leoni ancora in splendida forma nonostante gli acciacchi e i segni dell'età, ed è sintomatica la differenza con le leve più giovani: il giornalista saputello e insopportabilmente ficcanaso ma che alla fine impara la lezione, la figlia data in adozione, i poliziotti: tutta gente che non ha la minima idea di cosa fosse accaduto per davvero quarant'anni fa, per nulla consapevole di quanto fosse stata decisiva quell'epoca per la piega che avrebbero preso le cose fino portarci alla situazione attuale. Unico neo, ma glielo perdoniamo, è che Redford si riserva la parte del buono più buono: radicale sì, ma ravveduto e convertito alla fede democratica e alla convinzione che le ingiustizie del sistema si possano se non combattere, perlomeno arginare dall'interno. Pia illusione, molto "obamiana" e perdente nei suoi presupposti. Comunque una pellicola godibile. 

venerdì 28 dicembre 2012

La parte degli angeli

"La parte degli angeli" (The Angel's Share) di Ken Loach. Con Paul Brannigan, John henshaw, Roger Allam, Gary Maitland, Jasmine Riggins e altri. GB, Francia, Belgio, Italia 2012 ★★
La "parte degli angeli" è quel 2% di nettare che evapora, letteralmente sparisce, del whisky nella sua fase di invecchiamento in botte, ed è anche quella che Ken Loach attribuisce a un manipolo di diseredati di Glasgow, un campionario di umanità sofferente, che in Gran Bretagna viene affidato a lavori socialmente utili anziché essere associato alle patrie galere. Emarginati da una società che li vede come reietti irrecuperabili (e tali sono, in un mondo devoto al dio mercato: un farabutto col dono della sincerità come l'ex presidente francese Sarkozy li avrebbe definiti racaille, ossia feccia), trovano nella solidarietà umana, tra di loro e da parte di coloro che decidono di dedicare il proprio tempo ad occuparsene, una possibilità di rifarsi e di recuperare innanzitutto la propria dignità. Quello di Ken Loach è un socialismo umanista, prima ancora che "umanitario" e buonista, che crede nell'individuo e nella sua interazione coi suoi simili. Non per "redimersi" in senso cattolico, bensì per recuperarsi ed essere sé stesso, perché ognuno deve essere messo nelle condizioni di esprimere le proprie capacità: nessun essere umano ne è completamente privo. Ken Loach illustra brevemente quanto efficacemente ambiente e situazioni e perno della vicenda diventa Robbie, recidivo per atti di violenza, la cui vita sta cambiando anche perché in attesa del primo figlio da Leonie (la cui famiglia non vuole saperne di lui). Rhino, l'assistente sociale che ha in affidamento il gruppo di "lavoratori socialmente utili", vede in lui non solo il lampo dell'intelligenza nello sguardo, ma anche un olfatto non comune che gli permette di entrare in contatto con l'ambiente dei degustatori di whisky. E lì Robbie, con l'aiuto di tre suoi compagni di ventura, trova la chiave per cambiare la propria esistenza, riscattarsi e conquistarsi un futuro. Tutti gli attori sono bravissimi ma Brannigan, nativo di Glasgow e con alle spalle una storia identica al personaggio che interpreta, è straordinario e sentiremo ancora parlare di lui. Ken Loach in formato commedia, naturalmente sociale, piena di umorismo però mai banale né volgare, un "Grande Vecchio" che non sbaglia mai un colpo. 

mercoledì 26 dicembre 2012

Agenda: essere il cambiamento. Il pensiero di Serge Latouche


Riprendo dal sito "La voce del ribelle", fondato da Massimo Fini, che a sua volta ha ripubblicato un'intervista apparsa su Comune Info questa intervista a Serge Latouche che consiglio caldamente come istruttiva, stimolante nonché gradevole lettura per queste festività natalizie e di fine anno: autentica vitamina per cervelli non robotizzati. 
Cita il suo amico Cornelius Castoriadis e poi il subcomandante Marcos. Parla di fotocopiatrici, di Gruppi di acquisto solidale giapponesi e di un interessante documentario del regista Coline Serreau. IntervistareSerge Latouche è sempre un viaggio piacevole che percorre molti temi, con le sue risposte a volte in francese a volte in italiano. E se gli chiedi di ragionare di lavoro e di lavoratori, come abbiamo fatto noi, è piuttosto probabile che non userà francesismi: «Fare la cassiera in un supermercato è un lavoro di merda».
Considerando quanto sta avvenendo negli ultimi anni, quale rapporto esiste tra l’attuale struttura del potere e i processi della decrescita?
Su questi temi, cioè sulla relazione tra decrescita e Stato, e più in generale tra decrescita e politica, sono stati scritti molti articoli negli ultimi mesi, perché dentro il movimento della decrescita in Francia da tempo ci sono dibattiti su questi argomenti. Anch’iaho scritto un saggio che mi ha richiesto molto lavoro, perché confesso che su questo problema le mie idee non erano chiare. Certo ho scritto spesso sul ruolo dello Stato e sulla politica. Ma alcuni mi hanno accusato, soprattutto persone vicine alle culture e ai movimenti anarchici, di aspettare dallo Stato la realizzazione della decrescita. Allora ho capito che la cosa sbagliata che scrivevo era «la decrescita è un progetto politico». Penso che la formula non sia felice. La decrescita è un progetto sociale, non un progetto politico, Lenin aveva un progetto politico. Tutti quelli che hanno un progetto politico vogliono realizzarlo, per questo la tradizione rivoluzionaria, soprattutto in America latina, resta legata alla presa del potere.
Pensiamo a quando il subcomandante Marcos e le comunità zapastiste hanno preso San Cristóbal de las Casas, in Chapas, il 1° gennaio 1994: la prima cosa che hanno detto è stato: «Non vogliamo prendere il potere perché sappiamo che se prendiamo il potere saremo presi dal potere». Per questo penso che avere un progetto politico sia diverso dall’avere un progetto sociale. Un progetto di una società alternativa deve essere pensato concretamente in funzione del luogo, della cultura dove il movimento agisce, ma il problema è che ha a che fare anche con il potere. Naturalmente è una buona cosa, se alcuni nostri amici diventano deputati, ministri, consiglieri ma sappiamo bene che qualsiasi politico è sempre sottomesso alla pressione dei grandi poteri, non esiste un governo buono…
Per queste ragioni penso che non dobbiamo fare un partito politico per la decrescita e partecipare alle elezioni. In alcuni casi possiamo sostenere dall’esterno un certo programma, oppure un partito, ma il movimento deve essere sempre un contropotere, un gruppo di pressione anche con il più cattivo dei poteri. Perfino quando la pressione è forte possiamo ottenere qualcosa, come dimostra la vicenda dgli accordi di Cochabamba sull’acqua, ottenuti nonostante in Bolvia allora, nel 2000, ci fosse un potere quasi fascista. Quel potere fu costretto ad ascoltare la protesta che chiedeva la cancellazione del contratto con la multinazionale Bechtel. Una grande vittoria. Perciò la strategia deve essere quella dei piccoli passi avanti, anche quando il potere cambia, come nella stessa Bolivia in cui oggi è presidente Evo Morales: la pressione deve essere mantenuta anche contro Morales. Insomma, credo che i movimenti della decrescita oggi debbano mantenere questo spirito di contropotere di ispirazione gandhiana.
Non dico che tutti i partigiani della decrescita condividono questa visione, per esempio alcuni miei amici propongono di non votare più alle elezioni, io invece sono favorevole. Naturalmente sappiamo bene che dalle elezioni non uscirà mai un governo buono; se per caso ci fosse un governo di nostalgici diventerebbe subito un cattivo governo. Su questo punto ho cambiato idea nel tempo: prima condividevo l’idea del mio amico Cornelius Castoriadis, che aveva un progetto politico, la democrazia radicale, che lui credeva possibile costruire… Oggi, invece, credo che quello possa essere soltanto un orizzonte di senso, che non si realizzerà mai. Tuttavia, dobbiamo cercare di realizzarlo ogni giorno. Non possiamo aspettare il cambiamento o la democrazia radicale per agire: dobbiamo utilizzare tutti i mezzi e agire al livello più basso, più concreto, dove si possono fare le cose.
Hai conosciuto esperienze in giro per il mondo che consideri particolarmente valide come strategie per la decrescita?
Non esiste un’esperienza che si può etichettare come la vera esperienza della decrescita, della società frugale o della prosperità senza crescita. Quando ad esempio tre anni fa abbiamo incontrato quelli della Conai, la Confederazione delle comunità indigene dell’Ecuador, a Bilbao, abbiamo capito come la loro concezione del buen vivir è esattamente il progetto della decrescita, se pur in un contesto diverso e nonostante il coinvolgimento dei governi locali. In ogni caso penso che il progetto delle Transition town dell’amico Robert Hopkins, che ha partecipato con me alla Conferenza interazionale sulla decrescita di Venezia, sia l’esperienza che a livello locale realizza meglio ciò che per me corrisponde al progetto della decrescita: sviluppare la resilienza, ridurre l’impronta ecologica, ritrovare l’autonomia alimentare ed energetica. A un livello più limitato credo che il movimento dei Gruppi di acquisto solidale e il loro corrispondente giapponese, quello dei Teikei, che letteralmente significa «il cibo che ha la faccia del contadino», piuttosto che alcune esperienze della Rete francese delle imprese alternative e solidali, siano esperienze che vanno nella direzione del progetto della decrescita.
Se avessimo il potere e la capacità di suggerire delle strategie per la decrescita, cosa bisognerebbe fare tra le cose più urgenti?
Questo è un esercizio di politica virtuale, me lo hanno chiesto anche i verdi greci cosa fare adesso… Credo che la cosa più importante oggi sia cercare di realizzare il programma concettuale delle otto «R»,rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare, la cui priorità è sintetizzabile con la riduzione dell’impronta ecologica. Ma tra le prime cose da fare c’è la necessità di dare lavoro: per questo ho proposto un programma che poggia su tre piedi rilocalizzare, riconvertire e ridurre. Rilocalizzare l’attività produttiva significa demondializzare e questo implica avere i mezzi per farlo, tra cui l’autonomia finanziaria monetaria. Occorre pensare anche a una politica protezionista: il libero scambio è il protezionismo più forte dei predatori e allora dobbiamo fare un protezionismo dei deboli e progetti di conversione ecologica. La riconversione più importante è quella dell’agricoltura: dobbiamo uscire dall’agricoltura produttivista e sostenere un’agricoltura senza pesticidi e concimi chimici. Su questi temi vengono pubblicati sempre più libri e documentari interessanti.
Il film-documentario Maison du future, ad esempio, è stato pensato in Francia dopo un dibattito alla televisione, nel quale Josè Bovè contestava due esperti di agricoltura secondo i quali è impossibile nutrire il mondo senza Ogm, pesticidi e concimi chimici: gli autori hanno girato il mondo per raccontare esperienze alternative che dimostrano come l’agricoltura più produttiva, e non più produttivista, è quella contadina. Quel film sarà presentato in diversi paesi nei prossimi mesi, dall’India ai paesi latinoamericani. Un altro documentario molto interessante è Solutions locales pour un désordre global, di Coline Serreau, un regista francese molto bravo, che ha messo insieme esempi di coltivazioni alternative dal Brasile all’India, dalla Francia all’Ucraina.
Il progetto delle otto «R» è piuttosto chiaro, ma molti continuano a temere che la decrescita sia soprattutto sinonimo di rinuncia, di ritorno al passato…
È importante far capire alle persone che non si tratta di rinunciare alla lavatrice ma di avere una buona lavatrice, che non siamo obbligati a buttarla ogni due anni per comprarne una nuova, perché subito qualcosa non funziona più. La stessa cosa con il computer. Quelli nuovi sono più veloci? Allora si devono progettare e diffondere, come si faceva all’inizio, computer modificati ai quali aggiungere qualcosa per farli progredire. Un’esperienza importante di questo tipo è quella della Rank Xerox, con le sue fotocopiatrici pensate come dei moduli che si possono prendere e rinnovare. La Rank Xerox oggi vende più servizi di fotocopiatura e meno fotocopiatrici, di cui si prende cura nel tempo. Gettare oggetti pensati per durare poco è un’assurdità, io ho già buttato tre computer. È uno spreco di risorse incredibile. Si può concepire un computer che si può migliorare, che si può riparare e alla fine si può riciclare. Questo discorso vale per tutti i nostri strumenti, è la dimostrazione che si deve ancora sviluppare, si deve pensare la struttura produttiva del futuro meno come industria pesante è più come insieme di piccole imprese, ma anche singli artigiani che lavorano per il riciclo e riuso, per le riparazioni.
Agricoltura, riuso e riciclo, sostenibilità… Alcuni dicono che sono pezzi di un processo, quella della green economy, con il quale il capitalismo si trasforma per sopravvivere. Quali pericoli vedi nella green economy?
Non uso mai l’espressione green economy perché resta nell’orizzonte del capitalismo e questo è un problema. Ho molti amici che non hanno capito oppure non condividono il mio punto di vista quando dico «si deve uscire dall’economia». Il problema è la parola «economia», vale a dire il capitalismo, verde va bene ma economia no, al massimo potremmo dire «vogliamo una società verde». Naturalmente questo significa che si deve ancora produrre e consumare ma non più nella logica economica, utilitarista e quantitativa. È un discorso complesso e difficile da far capire, per questo molto spesso lo lascio dire ai miei amici nel parlare di altra economia, lo accetto come un compromesso. Ma in fondo tutto il mio lavoro, la mia ricerca, il mio pensiero, comincia dal contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione teorica, storica e semantica, dalla quale dobbiamo uscire. Il progetto della decrescita implica l’uscita dall’economia. Allora il discorso dell’economia verde è effettivamente ambiguo: se produciamo pannelli solari a livello industriale, inquinando, come avviene in alcuni casi, siamo di fronte al green business, e questo non può far parte della nostra ricerca.
A proposito di nuova ricerca: c’è il tema del lavoro che sembra ancora poco esplorato. Abbiamo la sensazione che serva una critica più profonda del concetto di lavoro che è stato finora il volano dello sviluppo, cioè del capitalismo. Cosa ne pensi? Come si organizza il lavoro in una fase di transizione come quella attuale?
La riduzione degli orari di lavoro, che è nel progetto della decrescita, è anche un compromesso, una misura transitoria. È un compromesso che può aiutarci ad affontare il problema della disoccupazione, cioè una prima soluzione è lavorare meno per lavorare tutti. Questo è un punto sul quale non dobbiamo transigere. Ma è importante ridurre gli orari di lavoro anche perché l’obiettivo, l’orizzonte di senso, resta la democrazia diretta. Che si nutre anche di trasformazione del lavoro, propone, come obiettivo di lungo periodo, di abolire il lavoro salariato. Insomma, non si può più riprendere il discorso della nobiltà del lavoro quando si fa un lavoro di merda alla cassa di un supermercato… Dobbiamo smettere di pensare a creare posti di lavoro qualsiasi. Dobbiamo prima di tutto mettere al centro il valore dell’autonomia e per questo la forma cooperativa è un orizzonte di senso, è qualcosa che aiuta. Ma anche in questo caso dobbiamo essere consapevoli dei limiti. Lo dimostra pure una mia piccola esperienza: abbiamo voluto fare una cooperativa, una casa editrice sotto forma di cooperativa, ma ho capito subito che sarebbe stato molto difficile, che non poteva funzionare, perché non tutte le persone vogliono essere cooperatori, ci sono alcuni che preferiscono avere il salario, avere un orario di lavoro e basta. Si può capire. Si deve rispettare questo. E allora il problema è che nell’ingranaggio di una società salariale non per tutti è importante la cooperativa. Di certo, resta importante oggi reinventare il lavoro in settori come l’agricoltura biologica e il riciclo e riuso, esistono già esperienze importanti ma restano una nicchia.
La crisi è sufficiente per favorire nuovi stili di vita? Un esempio: quando è scoppiata la crisi in Argentina, dieci anni fa, si sono diffusi i mercati del trueque, cioè il baratto, insieme ad alcune esperienze di moneta locale e alle fabbriche recuperate, ma quando è ripresa la crescita quei mercati e quelle monete sono stati spazzati via…
Non conosco bene quanto accaduto in Argentina, ma è evidente che in quel caso l’uso per un certo periodo di monete complementari o alternative, quasi su scala nazionale, è stato possibile perché la crisi aveva toccato la borghesia, la piccola borghesia. Quando la moneta nazionale è tornata come prima, quell”esperienza è terminata. Nel frattempo gli operai che si erano impossessati di alcune imprese hanno continuato a lavorare in quel modo. Non solo non potevano più tornare indietro, ma speravano in una trasformazione sociale profonda. Ora sembra che in Grecia sia diverso: c’è infatti un incontro tra coloro che subiscono l’austerità e coloro che hanno avviato progetti di decrescita. Qualcosa di simile accade anche in alcune città della Spagna. Allora dobbiamo essere coscienti che la crisi è al tempo stesso un disastro, perché può favorire forme di vero fascismo, ma anche un’opportunità. In Francia, ad esempio, la politica ha totalmente cancellato qualsiasi progetto di alternativa e qualsiasi dibatitto sulla decrescita. «Siate seri, siamo in crisi», dicono, «non è il momento di parlare di queste cose». Un bel modo per rendere invisibile un desiderio diverso di cambiamento.
  • L’ultimo libro di Serge Latouche è Limite (Bollati Boringhieri, 2012). Quello che più mette in discussione la scienza economica in una prospettiva storico-filosofica è L’invenzione dell’economia (Bollati Boringhieri, 2010). Asterios invece ha da poco pubblicato alcuni scritti di Cornelius Castoriadis,La fine della filosofia.
  • Per un approfondimento sul tema «città e decrescita», qui solo sfiorato, suggeriamo la lettura di un’altra conversazione con Latouche: La città inedita.
  • Per ragionare invece di critica alla crescita in termini molto concreti e con una buona dose di fantasia consigliamo la lettura di Io ho un chiodo, il regalo di Ascanio Celestini per la nascita di Comune-info.
  • Infine, per conoscere meglio Solutions locales pour un désordre global segnaliamo il sito dedicato al film: solutionslocales-lefilm.com.
L’intervista è stata realizzata da Riccardo Troisi, Alberto Castagnola, Adriana Goni Mazzitelli e Cesare Budoni.

lunedì 24 dicembre 2012

Love Is All You Need

"Love Is All You Need" di Susanne Bier. Con Pierce Brosnan, Trine Dyrholm, Molly Blixt Egelind, Sebatsian Jassen, Paprika Steen e altri. Danimarca, Svezia, Italia, Francia Germania 2012. Ingiudicabile
Mah! Un film sconcertante, ambivalente, che si presta a due letture. Come commedia sentimentale di tipo brillante è penosa: l'umorismo è di tipo scandinavo, quando c'è, e dunque lascia perplessi alle nostre latitudini (come suppongo rimarrebbe basito un danese o uno svedese davanti a un cinepanettone di produzione nostrana), così come le espressioni facciali e il modo di comportarsi e di parlare dei personaggi, che sembrano un manipolo di mentecatti in libera uscita da un istituto specializzato in assistenza ai minorati, anzi: in viaggio premio, in una Sorrento da dépliant turistico, dove si sposano Patrick, il figlio del "bellone" di turno, Philip, titolare di una grande azienda ortofrutticola, un Pierce Brosnan frollo ma ancora tonico, un uomo d'affari indurito e diventato cinico dopo la morte dell'amata moglie, e Astrid, la figlia di Ida, una modesta parrucchiera (appena guarita, forse, da un tumore al seno) e Leif, che durante le cure della moglie si sollazzava con la contabile della sua ditta. Il matrimonio viene organizzato nella magione di Philip (che non si capisce se sia un oriundo italiano emigrato in Danimarca: come tale, Brosnan è poco credibile) e vi accade di tutto, tra preparativi e rivelazioni sorprendenti che hanno il loro culmine quando giungono tutti gli invitati giunti dalla Scandinavia, compresi l'amante di Leif, la cognata di Philip che lo sta puntando da quando è rimasto vedovo, e altri casi più o meno umani. Basti dire che nasce l'amore tra il duro Philip e la dolce Ida, che trova il coraggio per mandare all'inferno il suo stupido marito e cambiare vita, mentre salta il matrimonio tra Astrid, che vede confermarsi i suoi presagi negativi, e Patrick, che scopre la sua omosessualità e che ha trascorso la sua vita nel tentativo di compiacere il padre "macho". Alla fine, la verità (e il vero ammòre) trionfano su tutto. Patetico dunque in quanto pastrocchio che ammicca a Hollywood, e al pubblico di bocca buona che ha amato "Mamma mia", altra produzione di successo sul genere, basata sull'opera omnia degli ABBA, gloria del pop scandinavo degli anni Settanta e dintorni, e afflizione per le orecchie dei musicofili (qui il titolo fa il verso a una delle più note canzoni dei "Beatles", ma purtroppo il leitmotiv è "That's Amore" cantata da Dean Martin), si rivela invece un film geniale se lo si guarda da una prospettiva, diciamo così, "Monty Python", maligna, caustica, dissacrante, e si desse credito, ma tendo a escluderlo, che le intenzioni della Bier fossero proprio quelle di mettere in ridicolo il luogo comune, sia sull'Italia "sole-amore-cuore-vino-pizza-mandolino", sia sullo scandinavo babbeo, imbranato e abbagliato dal Mediterranean Way of Life, sia le pellicole di genere: un'operazione mefistofelica, troppo per la regista e sceneggiatrice danese, perché se visto con l'ottica di un film comico alla Mel Brooks, "All You Need Is Love" è tutt'altro che disprezzabile e rasenta perfino la genialità: basti pensare con quale malvagia attenzione alle facce è stato messo insieme un cast che sembra uscito da un manicomio. Se fosse vera questa versione, a Susanne Bier va assegnato un Oscar alla carogneria.

sabato 22 dicembre 2012

A colpi di grazia

Aveva cominciato ieri Re Giorgio, come viene ormai chiamato confidenzialmente il prossimo ex capo dello Stato (sempre che a qualcuno oltre a Eugenio Scalfari, suo sodale e coetaneo, non venga in mente l'idea demenziale di proporne la rielezione a 86 anni, eventualità da non escludere) a commutare la pena detentiva (si fa per dire) ad Alessandro Sallusti, perché sia mai che un appartenente alla casta, fosse anche quella dei servi sciocchi opportunamente rappresentata dall'ordine dei giornalisti italioti, passi un solo giorno non dico dietro le sbarre, ma neppure agli arresti domiciliari, benché condannato; ha proseguito oggi l'altro monarca assoluto che esercita il suo potere a Roma, ma sulla sponda destra del Tevere: Benedetto XVI, che ha concesso la grazia a Paolo Gabriele, alias il "Corvo di Vatileaks", condannato per aver sottratto documenti riservati dall'appartamento del pontefice. Per la serie che i maggiordomi, autentici o di complemento come il Sallusti, vanno a tutti i costi salvaguardati. Infine, il colpo di grazia più grosso, almeno a chi ha ancora a cuore un minimo di decenza, ossia l'accogliere con tutti gli onori i due marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sotto processo in India per avere ucciso due pescatori (scambiati per pirati, dicono loro: ma rimangono degli assassini), tornati in Italia in permesso speciale (e licenza di uccidere) per festeggiare il Natale con le famiglie: per santificare la festa di questi due stronzi, il governo italiano ha prestato garanzie per coprire una cauzione pari a 826 mila euro, scarrozzandoli avanti e indré dal Kerala alla Terra dei Cachi con un aereo di Stato (vedi foto), ossia pagato da noi sudditi. Va da sé che appena dopo essere sbarcati all'aeroporto di Ciampino, siano stato accolti in udienza al Quirinale dallo Stronzo Supremo. Quando si dice un Natale di merda...

venerdì 21 dicembre 2012

Il Mundial Dimenticato


"Il Mundial dimenticato - La vera incredibile storia dei Mondiali in Patagonia" di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni. Italia, Argentina 2012 ★★★★★
La serata di ieri, organizzata dal benemerito CinemaZero di Pordenone per presentare “Dai un calcio al razzismo”, il bel documentario dell’attrice e regista Clara Salgado, ecuadoregna di nascita e friulana d’adozione, dedicato a una serie di omonimi tornei “interetnici” che si sono tenuti per alcuni anni nella frazione di Villanova assieme a un’interessante e correlata mostra fotografica di Marco Diodà, è stata l’occasione per recuperare in extremis “Il Mundial Dimenticato”, che mi ero perso alla sua uscita nel giugno scorso, prima che passasse nel dimenticatoio (e chissà se mai verrà diffuso in DVD) così come il Mondiale di calcio del 1942 che, come assicurava la immaginifica penna di uno scrittore e giornalista che ho amato moltissimo, Osvaldo Soriano, si sarebbero in realtà tenuti in Patagonia nel 1942 mentre in Europa infuriava la più imbecille e devastante delle guerre. Non ho alcuna esitazione ad affermare che si tratta di gran lunga del più bel film visto in tutto il 2012. Tratto dal racconto "Il figlio di Butch Cassidy", contenuto in "Fútbol", si presenta come un documentario assolutamente verosimile, preciso, con tanto di filmati d’epoca, arricchito da testimonianze autorevoli tra cui quelle di miti del calcio come Roberto Baggio, che conosce l’Argentina così bene da essere per lui una seconda patria, l’ex goleador inglese Gary Lineker, Jorge Valdano, giornalisti e cronisti famosi come Darwin Pastorin, perfino João Havelange, per anni presidente e padre padrone della FIFA, e che ricostruisce la storia di quel fantomatico Mundial organizzato in Patagonia da un eccentrico nobile d’origine mitteleuropea, il conte Von Otz (fortemente somigliante a Donald Sutherland: non sarà per caso lui?) di cui si era perso il ricordo ma su cui il documentario vuole fare luce in seguito al ritrovamento, durante degli scavi paleontologici, dei resti di una cinepresa degli Anni 40 in mezzo ai resti dei dinosauri di cui la zona abbonda. Apparteneva a un fotografo e cineoperatore di origine italiana, incaricato delle riprese della manifestazione dal conte Otz, della cui figlia si innamorò follemente, come racconta il nipote, che ne ha rilevato l'attività a Buenos Aires e che partecipa all'inchiesta. Più che un (falso?) documentario sportivo, diventa un viaggio nella Patagonia, da sempre terra di fuggitivi e visionari, come sa chiunque abbia letto Coloane, Sepúlveda, Chatwin, Theroux fino, naturalmente a Soriano, che in Patagonia ci è nato e cresciuto. E chi, come me, ci è stato e ci è tornato più di una volta. La Patagonia di cui ho ritrovato l'essenza nei paesaggi infiniti e nei loro colori nonché nelle situazioni più assurde, specie nella "pulpería" dove i documentaristi incontrano memorabilia di quel Mundial e personaggi che vi hanno assistito e partecipato. Ce ne sono ancora, di questi bar-magazzini-stazioni di servizio in mezzo al nulla, che traboccano dei tipi umani più eterogenei e delle loro storie, inverosimili quanto reali, e dove si accumulano oggetti di un trapassato prossimo che però ancora agisce nella memoria, perlomeno nella mia. Nella "pulpería" che compare nel film, proprio in quella, ci sono pure stato di persona, una quindicina di anni fa, e ne conservo ancora delle fotografie da qualche parte. A quei Mondiali parteciparono 12 nazionali, composte prevalentemente dal personale che ai tempi lavorava nella costruzione di ferrovie, strade e dighe (parecchi paesi e città portano tuttora il nome di chi ci lavorava, come Cipolletti, un'ingegnere che studiò il sistema irriguo del Rio Negro: zona desertica resa un frutteto dagli immigrati italiani) ma nel racconto si intreccia di tutto, dalle imprese sportive alla politica, dagli amori alle invenzioni più strampalate, in un mondo avventuroso e apparentemente surreale ma invece molto vicino al vero, anzi: all'essenza delle cose e delle persone. Perché la Patagonia è questo, una terra magica quanto povera che fa emergere l'anima. E la cattura. Sarà proprio una diga a cedere e a sommergere tutto, compreso lo stadio eretto per l'occasione, dopo un temporale che si era scatenato proprio nel corso della finale tra Germania e Principato di Patagonia, il 19 dicembre del 1942. Per la cronaca, vinse 2-1 quest'ultimo, composta esclusivamente da mapuches araucani, gli abitanti originari della regione. Un grazie di cuore ai due autori, alla Verdeoro che ha prodotto il film e a Rodrigo Díaz, direttore del Festival del Cinema Latino Americano di Trieste, che ha presentato il film arricchendolo di aneddoti. 

mercoledì 19 dicembre 2012

Tutto tutto niente niente

"Tutto tutto niente niente" di Giulio Manfredonia. Con Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Lorenza Indovina, Nicola Rignanese, Lunetta Savino, Paolo Villaggio. Italia 2012 ★★★
Per compensare l'insopportabile agiografia di San Roberto "Prezzemolo" Benigni dopo l'esibizione di lunedì sera su RaiUno Costituzione alla mano, che ha fatto seguito al finto pandemonio sulle pseudo intemperanze verbali di madamìn Littizzetto di una settimana fa (oggetto dei lazzi dei due ex comici decotti sempre e comunque l'omuncolo di Arcore, di cui per riflesso condizionato sono i primi sponsor, perché a forza di evocarne la presenza lo riportano al centro di un'attenzione ormai svanita), sono andato sul sicuro con il sequel di "Qualunquemente", certo di non sbagliare. In realtà non si tratta nemmeno di un seguito, perché Cetto è solo uno dei tre personaggi che il sempre bravo Antonio Albanese immagina catapultati in Parlamento dal mefistofelico sottosegretario, splendidamente interpretato da un robotizzato Fabrizio Bentivoglio in versione simil-Morgan, per tappare i buchi creatisi nella maggioranza e votare all'occorrenza come ordinato dal partito. Vengono così fatti uscire di galera con provvedimenti ad hoc non soltanto il calabrese Cetto Laqualunque, imprigionato per mafia insieme a tutto il consiglio comunale, ma anche il nordista Rodolfo Favaretto, trafficante di clandestini nonché secessionista filo-austriaco e Frengo Stoppato, il santone  new age pugliese apostolo della "canna libera", richiamato in patria dalla madre bigotta che intende beatificarlo in vita e che lo denuncia per possesso di droga pur di tenerlo sotto controllo. Rispetto al film precedente, ho trovato geniale la ricostruzione della "Città della politica" in un'EUR metafisica, con il parlamento ambientato in un palazzetto dello sport, in un'atmosfera completamente artefatta che in qualche modo richiamava alla mente l'antica Roma. Nell'emiciclo, i tre neodeputati sembrano quasi normali in mezzo a una platea di onorevoli mostruosi, a loro volta mai come quelli reali, che sono infinitamente più ributtanti delle loro caricature. Siccome nulla può essere detto sul mondo politico italiota che superi la "fantasia" del reale, le due battute più fulminanti del film, e che da sole valgono il biglietto, sono riservate alla chiesa cattolica: la prima quando Frengo per richiamare l'attenzione del pontefice impegnato in un'udienza in una stanza adiacente dice ad alta voce di essere quel deputato che proporrà la revisione dell'8 per mille per portarlo all'8 per cento, venendo immediatamente convocato al cospetto di Sua Santità da essa medesima; l'altra in cui fa notare a un monsignore come sia autolesionistica la posizione della chiesa cattolica sulla fecondazione sostenendo al contempo il dogma dell'immacolata concezione. Ovvio che non sia un capolavoro, ma in mezzo ai cinepanettoni e alle altre puttanate natalizie ammannite in questo periodo, questo  film tristemente allegro, colorato e bene interpretato da tutto il cast, vale il prezzo dell'ingresso e l'ora e mezzo di amaro spasso. Paolo Villaggio nei panni di un muto presidente del consiglio perennemente intento a ingollare schifezze è inquietante quanto efficace: l'immagine stessa non richiede né una parola da parte sua né un commento. Emblematico.

domenica 16 dicembre 2012

sabato 15 dicembre 2012

La festa appena cominciata è già finita

Roma, 2 dicembre 2012: la gioia di Massimo D'Alema per la vittoria di Pierluigi Bersani alle primarie del PD 
E' risaputo che nulla è più mutevole del quadro politico, campo in cui un anno, talvolta un mese, possono sembrare un'era geologica. Mutano con rapidità stupefacente non soltanto scenari, alleanze e talvolta, repentinamente, anche protagonisti che sembravano inamovibili; cambiano perfino, e soprattutto, le interpretazioni della realtà, nella cui mistificazione, come nella sistematica falsificazione di dati che essi spesso nemmeno conoscono, gli attori della politica dei nostri giorni sono maestri inarrivabili. Stella polare e variabile divenuta indipendente della vita politica italiana è l'immutabile, tetragona stupidità delle dirigenza del PD. Fate caso a cos'è successo agli zombie: non sono passate nemmeno due settimane dal "trionfo" alle primarie, con Bersani che diceva di non vedere l'ora di sfidare Berlusconi che questi, evocato, si è immediatamente ricandidato, creando lo sconcerto non tanto in Italia, abituata alle riapparizioni del misirizzi brianzolo, quanto in quell'Europa che è il datore di lavoro dell'attuale capo di governo. Accecata dalla propria imbecillità congenita, l'eterna "gioiosa macchina da guerra" si era già inceppata prima ancora di mettersi in moto, alla ricerca del "dialogo preventivo" col fantomatico "centro", fino a che D'Alema, il professionista dell'inciucio a cui il ritorno al potere preme più che a chiunque altro, ha avvertito puzzo di bruciato e, in un'intervista apparsa ieri sul CorSera (per una volta sottratta alle amorevoli cure della sua ventriloqua di fiducia, M.T. Meli, e affidata a Zuccolini), ha dato l'"alto là" alla candidatura dell'attuale premier, affermando, proprio lui,  che sarebbe "moralmente riprovevole" che facesse campagna elettorale contro chi l'ha fedelmente sostenuto. E non solo: ma si è già impegnato a seguirne la famosa agenda nel caso in cui fosse chiamato a dirigere il governo nella prossima legislatura. A prescindere  dalle considerazioni sul pulpito da cui proviene la predica, considerato che costui a suo tempo era diventato presidente del Consiglio mediante l'impostura più indecente, il monito è giunto fuori tempo massimo perché a Bruxelles, sempre ieri mattina, lo stato maggiore del PPE, in primis Angela Merkel, ha di fatto lanciato la candidatura di Mario Monti, giunto in visita al gruppo dei Popolari prima che si tenesse il Consiglio Europeo, e affermato di non supportare quella di Berlusconi che, a differenza di Monti, del PPE fa parte. Panico nel PD: strasicuri di aver già vinto la prossima tornata elettorale, con tanto di premio di maggioranza di coalizione da "porcellum" che si era pensato bene non dico di mandare in soffitta, ma almeno di modificare, gli zombie hanno ottime probabilità di dover fronteggiare  in campagna elettorale l'attuale premier destinato a compattare, com'è naturale, tutti gli orfani meno impresentabili del centrodestra attualmente deflagrato, il centro "casiniano" che altrimenti stenterebbe a ottenere una rappresentanza parlamentare, qualche new entry che a forza di annunciare il proprio arrivo sulla scena si è ormai mummificata come Montescemolo, e alle spalle i vari Marchionne, i Caltagironi, i Della Valle, la Confindustria, che avrebbero trovato il loro esponente ideale e, va da sé, la finanza e le banche al gran completo nonché, last but not at least, il Vaticano. Col sostegno della stampa quasi intera: sarà divertente osservare le contorsioni del Gruppo Repubblica-L'Espresso, che è al contempo potentato imprenditoriale e politico,  bersaniano DOC e montiano con il patrocinio del presidente della Repubblica, nume tutelare di tutta la geniale operazione che ha portato a rinviare di quindici mesi dal siluramento di Berlusconi il doveroso ritorno alle urne. Potrebbe scapparci da ridere, a patto di osservare con la dovuta distanza l'agitarsi di tutto il caravanserraglio, specie nel settore degli zombie, con tutti gli alti papaveri vecchi e nuovi convinti di avere i propri deretani già adagiati sulle cadreghe da cui gratificare le rispettive clientele, e destinati invece a essersi sodomizzati da soli. Perché mai un elettore dovrebbe scegliere di fare applicare l'Agenda Monti, che poi è quella intestata BCE/FMI, da Bersani e dalla sua Armata Brancaleone se si candida a esserne esecutore testamentario il suo autore medesimo? Io un'idea per il prossimo candidato alla guida del PD ce l'avrei, e forse qualcuno ricorda le sue imprese calcistiche: Comunardo Niccolai, che ha anche un bel nome combattivo quanto evocativo. E che a suo modo è un mito. Non me ne voglia: sto scherzando. So che non riuscirebbe in altre dieci carriere a fare tanti autogol quanti questi fenomeni da baraccone. Sicuramente meno danni, oltre che a sé stessi e al prossimo, come stabilisce inesorabilmente la terza legge fondamentale della stupidità umana.

giovedì 13 dicembre 2012

Il Busillis

E' con grandissima soddisfazione che stamattina ho letto la notizia dell'assoluzione e proscioglimento perché il fatto non sussiste di Aldo Busi nella causa di diffamazione intentatagli da Miriam Bartolini alias Veronica Lario, già maritata Berlusconi, per delle opinioni espresse dallo scrittore, uno dei rari intellettuali indipendenti e liberi sopravvissuti in questo Paese, durante un'intervista concessa a Lilli Gruber a "Otto e mezzo". La notizia la dava il Fatto Quotidiano con un articolo dettagliato nell'edizione in edicola oggi, ripreso dal sito on line del Corriere della Sera (che al tribunale di Monza dove ieri si svolgeva il processo si è ben guardato dal mandare anche solo un cronista praticante), mentre non ne fa cenno l'organo ufficiale del PD, Repubblica. Ma guarda un po' che caso! Eppure il giornale scalfariano è al centro della questione, giacché il 31 di gennaio del 2007 il direttore Ezio Mauro decise di mettere in prima pagina, a mo' di editoriale, la lettera con cui la consorte di Silvio Berlusconi chiedeva pubblicamente le scuse di suo marito svelando urbi te orbi le loro magagne di coppia: da quel giorno, dopo 31 anni di onorato servizio, mi sono dimesso da lettore di un giornale ormai diventato semplicemente il controcanto del Circo Barnum berlusconiano e quindi complice, col ruolo di spalla, di quel regime che imperversa ancora oggi. Sempre da quel giorno la compagna Miriam Bartolini in Lario, che già in precedenza era stata accreditata come la "parte buona del berlusconismo", diventò un'icona della asinistra di palazzo e da salotto: imperversava la "Tendenza Veronica". Ricordo perfettamente come ne tesseva le lodi e la voleva "nella sua squadra" l'allora sindaco di Roma Walter Cialtroni, in procinto di diventare il primo segretario del nascente PD: "è open minded, curiosa e ha una grande autonomia intellettuale. Mi sembra una personalità di primissimo piano", andava sviolinando il più grosso imbecille sfornato dal fiorente vivaio dell'ex PCI. Ma è proprio questo che metteva in dubbio Busi nell'intervista incriminata: gli pareva strano che una donna "con un'istruzione piuttosto vasta" come l'attrice abbia mandato una "lettera per una storia di possibili corna o tradimenti o minorenni, eccetera, e non abbia mai detto nulla sul fatto che a casa di Berlusconi c'era un tale Mangano, lo stalliere pluriomicida e mafioso di vaglia, che stava lì e probabilmente aveva preso in braccio i suoi bambini... Allora io mi sarei svegliata, forse vent'anni prima". Una semplice constatazione, prima ancora che un'opinione. Molto meno per il sottile sono andati gli avvocati difensori dello scrittore bresciano nell'udienza di ieri: "Veronica Lario è stata fidanzata e moglie di Berlusconi per 27 anni e accetta in tutto l'uomo, il suo percorso, la sua vita, i costumi. Se taci su tutto per 27 anni significa che tutto ti è andato sempre bene. Questa è una valutazione, una critica, un'opinione personale". Aggiungo che se ci ha fatto insieme tre figli non è stato un incidente di percorso, e che se una donna nel possesso delle sue facoltà mentali va con un noto puttaniere i casi sono due: o è cosciente di quel che fa (e uno potrebbe lecitamente pensare che appartenga alla categoria preferita dal personaggio) o è una sprovveduta, cosa che tendo a escludere considerata la buonuscita milionaria e la quota di mantenimento che è riuscita a farsi sganciare. Non arrivo ad affermare che Veronica Lario sia una mignotta, benché sia convinto che il matrimonio in parecchi casi istituzionalizzi una forma di lenocinio, sicuramente di prostituzione intellettuale (esattamente quella che evocava due anni fa il grande José Mourinho, riferendosi proprio all'informazione manipolata, e non solo nel calcio) è il caso di parlare a proposito della stragrande maggioranza dei giornalisti italiani quando si trattava di difendere non tanto Busi, quanto il diritto di critica (ultimo caso clamoroso quello sulla trattativa Stato-Mafia e il coinvolgimento, nonché gli abusi di potere, dell'attuale presidente della Repubblica). Dove erano? si chiede in un gustoso e puntuale commento all'articolo del "FQ" il lettore Vincenzo Politi, commento molto apprezzato e segnalato dallo stesso Aldo Busi. E' proprio qui che sta il Busillis...

martedì 11 dicembre 2012

Il Carnevale è una cosa seria, le elezioni no

Non uno tra gli esimi direttori di gazzette e radiotelegiornali, editorialisti di chiara fama, fini analisti politici che in questi giorni hanno discettato sulla sfiducia al governo in carica e la conseguente ricandidatura di Berlusconi (per tutti questi Soloni caduti dal pero valga il titolo del pezzo di Marco Travaglio uscito sull'edizione di ieri del Fatto Quotidiano, "I finti Monti") hanno notato che le due mosse, sorprendenti soltanto per degli sprovveduti o per gentaglia in malafede, hanno come conseguenza un fatto inaudito nella storia della Repubblica e perciò stesso sbalorditivo in un Paese abitudinario e conformista come il nostro: si andrà alle elezioni in pieno inverno. La tradizione del voto in primavera era consolidata al punto di essere entrata a far parte di quella che si suol chiamare la "Costituzione materiale", tanto da essere perfino stabilita per legge per quanto riguarda i referendum popolari, da tenersi inderogabilmente quanto inspiegabilmente tra il 15 aprile e il 15 giugno. Non solo: lo scioglimento anticipato delle camere, seppure solo di qualche mese sulla scadenza naturale, fa sì che in ogni caso la campagna elettorale si terrà in gran parte nel periodo di  Carnevale, il che denota finalmente coerenza con l'anima cialtrona e buffonesca di questa altrimenti tristissima Terra dei Cachi e permetterà ai vari protagonisti della farsa elettorale (che come volevasi dimostrare si terrà con la stessa indecente legge ideata dallo scarsamente onorevole Calderoli nell'imminenza della tornata del 2008 e firmata senza fare un plissé dal presidente golpista in carica) di esprimersi al meglio e nel clima e ambiente a loro più congeniale: naturalmente occupando manu militari ogni studio televisivo disponibile, non tralasciando sedi radio e  interviste addomesticate nelle redazioni dei maggiori quotidiani. A dimostrazione della straordinarietà dell'evento e del fatto che sia pressoché esclusivamente televisivo, le congetture che stanno prendendo piede sullo slittamento del 63° Festival di Sanremo, cosa mai avvenuta nella storia di questa manifestazione che, per quanto grottesca, esprime fino in fondo il carattere e i tic nazionali ed è inevitabile, quanto a ritualità, come la Pasqua, il Ferragosto, la festa del santo patrono e gli applausi ai funerali. Date più probabili del voto il 17 e il 24 di febbraio, ma la geniale e sottilmente perversa sortita dell'orrido pagliaccio brianzolo, che punta anche all'accorpamento delle politiche con le amministrative di Lazio e Lombardia, potrebbe consigliare la data del 10, molto più coerente con la più colossale presa per il culo che si sia pensato di organizzare in Italia: quella dell'Erection Day. Il 12, infatti, è Martedì Grasso. 

venerdì 7 dicembre 2012

La grande magia

"La grande magia" di Eduardo De Filippo. Regia Luca De Filippo. Scene e costumi Raimonda Gaetani, luci Stefano Stacchini. Con Luca De Filippo, Massimo De Matteo, Nicola Di Pinto e Carolina Rosi con Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Alessandra D’Ambrosio, Antonio D’Avino, Paola Fulciniti, Lydia Giordano, Daniele Marino, Giulia Pica. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Elledieffe, La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo.
Mah! Forse non ero  nella migliore disposizione d'animo per assistere a questa commedia, in un allestimento di rara noia: mi sono addormentato durante il primo, prolisso, atto e uscito di sala alla fine del secondo. Recitazione banale e irritante, birignao imperante e insopportabile  l'unico attore serio, De FIliippo, non mi pare in grado di reggere l'intero baracca. Il nome di suo padre non è che sia garanzia di capolavori. Anzi. Un'edizione particolarmente malriuscita di uno spettacolo non tra i più geniali dell'autore napoletano,  che ha avuto ieri sera il pubblico che si meritava: mezza sala vuota, in progress. Non ne valeva la pena: una grande cagata, altro che magìa.

domenica 2 dicembre 2012

Pane Benedetto. XVI

Siamo dalle parti di Marktl am Inn, luogo di nascita di Joseph Ratzinger, nella cattolicissima Baviera e oggi è la Prima domenica d'Avvento. Grandi feste e apertura dei mercatini natalizi in tutto l'Arco Alpino di lingua tedesca. A rendere tutta questa messa in scena sopportabile, nelle birrerie è arrivata la "bock" natalizia. Prosit!

sabato 1 dicembre 2012

Una lacrima sul viso. Comunistiana

"Le idee si evolvono (?), cambiano (...), però sono ancora quello lì". Non avevo nessun dubbio. Come i peronisti in Argentina, non cambieranno mai. Stessa faccia, stessa razza. Comunisti e democristiani, finalmente sotto lo stesso tetto. Casa del popolo (o sezione), e sacrestia. Lambrusco, incenso e birra. Le madonne pellegrine e le Feste dell'Unità. Le cooperative rosse e quelle bianche. Il volontariato cattolico e quello militante. Il compromesso storico e quel sottofondo di fascismo strutturale che ammorba l'Italia dall'inizio del Novecento a fare da mastice. Una pappa stucchevole e melensa che ammorba i cervelli e li cloroformizza inoculando conformismo in dosi letali e soffoca il libero pensiero. Non si tratta di un connubio contronatura, è sbagliato parlare di inciucio: sono fatti apposta gli uni per gli altri, le due facce (di merda) della stessa medaglia. E così sia. Ma quale scelta tra Renzi e Bersani, non diciamo cazzate...