domenica 19 agosto 2012

I torni contano: le verità di Eugenio Scalfari

Finalmente, era ora. L'editoriale di oggi su "Repubblica" a opera del suo Fondatore è illuminante. Non solo perché rivela il vero volto e pensiero di un personaggio che ho imparato col tempo a disprezzare profondamente, ma perché chiarisce una volta per tutte quello che c'è da sapere sui rapporti tra Stato e Mafia. Il punto di partenza è che lo Stato sarebbe (il condizionale è mio) in guerra con la mafia. In una guerra, per definizione, si riconosce al nemico lo stato di belligerante. "La trattativa tra le parti, è pressoché inevitabile per limitare i danni" scrive Scalfari. Sempre secondo il Fondatore sarebbe stato "criminale", e comunque poco intelligente, trattare con un nemico che, negli anni '92 e '93 fosse stato alle corde (valutazione che sembra attribuire al PM Ingroia), mentre sarebbe stato lecito e opportuno farlo con una nemico che all'epoca non sembra "fosse ridotto al lumicino" (anzi, aggiungo io: era probabilmente più forte dello Stato, come ha ampiamente dimostrato a Capaci, Via d'Amelio, Firenze, Milano e Roma). Traggo la conclusione che essendo a quei tempi la mafia "non ridotta al lumicino", la trattava ci fu, lo Stato riconobbe nella Mafia un interlocutore e al tempo stesso fu da essa riconosciuto come tale, come del resto avviene tra belligeranti superiorem non recognoscentes, ossia tra Stato e Stato. In sostanza la Repubblica Italiana riconosce un rango assimilabile a uno Stato a un'organizzazione che le stese leggi penali in vigore definiscono criminale. Se fosse vero che siamo in guerra contro la Mafia, come suggerisce il Barbudo, del resto bisognerebbe applicare il codice penale di guerra, che da quel che mi risulta prevede un reato chiamato alto tradimento. Scalfari stesso ricorda come il "partito della fermezza" non volle trattare con le Brigate Rosse all'epoca del rapimento Moro non riconoscendo loro quello status di nemico e di belligerante che esse rivendicavano, nonostante una dichiarazione di guerra in piena regola da parte del "partito combattente", la cui ragion d'essere era, senza tanti giri di parole, la distruzione dello Stato borghese*. Ne consegue, stando a Scalfari, che siccome ai tempi non sono stati "tradotti in giudizio Craxi, Pannella, Martelli e Sciascia e altri intellettuali favorevoli alla trattativa", nemmeno andrebbero inquisiti i protagonisti della trattativa con la Mafia. L'ormai poco prestigioso e credibile giornale "fondarolo", pubblica oggi un titolo nell'edizione on line così redatto: Ingroia, nuovo attacco a Monti  (il presidente del Consiglio aveva denunciato "abusi" nell'uso delle intercettazioni relative all'inchiesta sui rapporti tra Stato e Mafia) "Le sue parole sono ingenerose" aveva osato dichiarare il magistrato siciliano in un'intervista a Klaus Davi. Secondo il giornale scalfariano si tratta di un attacco, termine usato anche nel titolo dell'articolessa del Fondatore. Perché Ingroia è un eversivo. Come Marco Travaglio, Antonio Padellaro e l'intera redazione de "Il Fatto Quotidiano", Roberto Scarpinato, i 320 magistrati italiani che hanno firmato un documento diretto al CSM in sostegno del procuratore generale di Caltanissetta, Antonio Di Pietro, Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Maurizio Landini, il GIP di Taranto Patrizia Todisco, e naturalmente Gustavo Zagrebelsky, che ha dato lo spunto alla confessione-delirio del trombone terrazzato che di seguito riporto integralmente. Sono in buona, anzi ottima compagnia di altri eversivi che si rifiutano di unirsi al coro di laudatori e scherani di Napolitano & Co.
* che si abbatte e non si cambia, come da narrazione d'epoca

"Perché attaccano il capo dello Stato
di Eugenio "Fondatore" Scalfari

Eterogenesi dei fini. Con queste due parole comincia l'articolo di Gustavo Zagrebelsky 1 da noi pubblicato venerdì. E prosegue: "È molto difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, avesse previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per diventare il perno di un'intera operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati".



Infatti è molto difficile immaginarlo, tanto più che è stato lo stesso Presidente a fugare questo dubbio dichiarando più volte pubblicamente e scrivendo una lettera al Csm, alla Procura di Palermo e ai familiari di Borsellino (la moglie e il figlio) con cui ribadiva ed esortava all'impegno di fare piena luce sui fatti relativi alle inchieste in corso, con le quali il conflitto di attribuzione da lui sollevato non aveva alcun rapporto.



L'eterogenesi dei fini opera invece, anche se Zagrebelsky mostra di non rendersene conto, sulle opinioni da lui espresse nell'articolo in questione il quale rafforza e conforta col prestigio giudiziario del suo autore la campagna in corso da tempo contro il Quirinale. Una campagna in corso prima ancora che le inchieste palermitane fornissero un'ulteriore occasione e che ha poi acquistato una virulenza che va molto al di là del sacrosanto diritto di informazione e di critica.



Ho molta stima per l'esperienza giuridica di Zagrebelsky e l'invito perciò a porsi il problema dell'uso che verrà fatto da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni. Ma mi coglie il dubbio che Zagrebelsky ne sia già perfettamente consapevole e che quindi, nel suo caso, non si tratti di eterogenesi dei fini ma d'un esito consapevole come dimostra la dichiarazione rilasciata qualche giorno fa al "Fatto Quotidiano" e altri suoi articoli e interventi sul medesimo argomento. Mi piacerebbe che il mio dubbio fosse fugato ma temo che questa mia speranza si risolva in una delusione.



Ricerca di intenzioni a parte, restano le tesi esposte da Zagrebelsky, che meritano qualche commento.



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Al primo posto campeggia una certezza dell'autore dell'articolo: l'esito del conflitto è scontato. "Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la Corte desse torto al presidente della Repubblica, così nel momento stesso in cui il ricorso è stato sollevato, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari ma la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se desse torto al Presidente, sarà accusata di irresponsabilità; dandogli ragione sarà accusata di cortigianeria".

Poche righe dopo queste affermazioni, è lo stesso autore a scrivere: "Sulla fondatezza d'un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi". Infatti. Ma sconcerta constatare che un suo ex presidente si è già espresso poche righe prima e continua nelle tre colonne successive. Segno che l'eccezionalità del caso gli impone una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave.

Nel merito, ricordo che la Corte si è più volte espressa, in varie occasioni e con vari presidenti della Repubblica, con sentenze e giudizi contrastanti con decisioni del Capo dello Stato. Ha bocciato atti da lui firmati, iniziative da lui prese, perfino leggi elettorali da lui promulgate.

Nel caso in questione Zagrebelsky ha caricato il ricorso di significati che esso non ha, quasi che fosse un tentativo surrettizio di forzare la Corte ad una trasformazione dello spirito e della lettera della Costituzione introducendovi un contenuto "più monarchico che repubblicano".

Dove si annidi questa forzatura ultronea di cui sarebbe reo Giorgio Napolitano e succube la Corte non esiste traccia alcuna. Il ricorso, anche ad esaminarlo con il microscopio, chiede soltanto che sulla base dell'articolo 90 della Costituzione venga chiarito se l'irresponsabilità politica del Presidente per atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni contempli anche l'inconoscibilità di quegli atti qualora essi siano ritenuti processualmente irrilevanti.

La Corte, quando emetterà la sentenza, potrà benissimo dar ragione al Quirinale senza incorrere nell'accusa di cortigianeria o dargli torto senza provocare alcuna crisi costituzionalmente drammatica. Salvo che nella testa di quei politici e dei loro riecheggiatori che palpitano nella speranza che la Corte dia ragione al Capo dello Stato per poter accrescere i loro attacchi eversivi contro entrambi, preparandosi invece ad attribuirsi il merito d'una sconfitta di Napolitano del quale a quel punto reclamerebbero le immediate e infamanti dimissioni.

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Ma c'è dell'altro, come lo stesso Zagrebelsky scrive. C'è che il ricorso, secondo l'autore dell'articolo, non è affatto una difesa delle prerogative presidenziali da trasmettere ai successori seguendo l'indicazione ("monarchica") di Luigi Einaudi, ma una vera e propria innovazione del dettato costituzionale che la Corte non ha assolutamente i poteri di effettuare e che comunque costituirebbe un pericolosissimo precedente e un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità.

La ricerca della verità da parte della Procura di Palermo e di qualsiasi altro ufficio giudiziario è fuori questione. Nel caso specifico poi la richiesta di rinvio a giudizio è già stata depositata e spetta ora al Gip di dare il via libera al processo. A quel punto i titolari dell'accusa adempiranno al loro compito di pubblici ministeri e saranno i giudici ad accertare la verità attraverso il dibattimento.

Quanto ai poteri della Corte in merito alla lettera della Costituzione, non dovrei aver bisogno d'esser io a ricordare ad un ex presidente della medesima che esistono sentenze "addittive" della Corte e sentenze "interpretative" queste ultime di particolare importanza e più volte emesse su questioni di grande rilevanza.
Quanto ai "precedenti" è vero che essi rappresentano uno strumento importante in diritto pubblico. Importante, ma non cogente. Tra i poteri interpretativi della Corte c'è anche quello di stabilire un principio, un criterio, una visione giuridica che confligge con quel precedente o gli si affianca. Il tutto per la ricchezza del materiale giurisprudenziale del quale si varranno gli studiosi e gli stessi collegi giudicanti nelle loro motivazioni.

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C'è dall'altro ancora? Sì, ci sarebbe, ma qui entriamo in una sfera più politica che giuridica. Zagrebelsky invita Napolitano ad arrivare ad un compromesso con la Procura palermitana. Essa ha già dichiarato che le sue conversazioni con Mancino non sono processualmente rilevanti. Dia seguito a quella dichiarazione - esorta Zagrebelsky - distrugga quei nastri in un'udienza "secretata" e Napolitano ritiri il ricorso alla Corte. E così vissero tutti felici e contenti. Sennonché...

Sennonché la parola "secretato" ha due diverse interpretazioni. Per gli uni significa un'udienza con la partecipazione degli avvocati che difendono le parti; per altri la pura e semplice decisione del gip di procedere alla distruzione dei materiali in questione. E questo è appunto il merito del ricorso di cui si discute.
L'Avvocatura dello Stato, prima che il ricorso presidenziale fosse stato redatto, era andata in visita alla Procura di Palermo ed aveva appunto proposto la distruzione delle registrazioni in questione. Ne aveva ricevuto un rifiuto. E dunque il ricorso. Forse Zagrebelsky non era al corrente di questo interessante dettaglio.

Ci sarebbero molte altre considerazioni da fare, pertinenti anche se non inerenti. Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro.

Ci sarebbe anche da distinguere tra trattativa e trattativa. Quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai tempi degli anni di piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare con le Br, e quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare; socialisti, radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa. A nessuno però sarebbe venuto in mente di tradurre in giudizio Craxi, Martelli, Pannella, ed anche Sciascia e molti altri intellettuali che volevano trattare.

Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si vuole conoscere? Deve essere un'altra e non questa. Deve essere - come alcune frasi d'una delle innumerevoli interviste di Ingroia fa pensare - una trattativa svoltasi in una fase in cui la mafia era ridotta al lumicino e per tenerla in vita si invocava l'aiuto dello Stato. Questo sì, se fosse provato, sarebbe un crimine. Un crimine di enormi proporzioni. È di questo che si tratta? E quand'è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel '92-'93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi.

Un ultimo ricordo a proposito dei magistrati che invocano il favor popolare e gli intellettuali che ritengono necessario darglielo.

Falcone aveva accertato quale fosse la struttura mafiosa e aveva mandato a processo la "cupola" di allora o perlomeno la sua parte emersa. Andò in Usa per interrogare il "soldato" Buscetta che era lì detenuto. Dopo l'interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle sue domande ed altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino. Buscetta riferì alla Commissione antimafia quanto sopra. Falcone non era un magistrato che rilasciasse facilmente interviste a destra e a manca. Prima d'arrivare alla "zona grigia" di cui conosceva benissimo l'esistenza saltò in aria sulla bomba di Capaci.

1 commento:

  1. Interessante ragionamento...
    Notavo come, nel paragrafo appena prima delle "trattative", scriva che in fondo 17 anni di lavoro delle due Procure in questione non siano arrivate, che a condannare un "innocente".
    "Ci sarebbero molte altre considerazioni da fare, pertinenti anche se non inerenti. Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro.

    Come a dire che sono inutili, non sanno fare il lavoro per cui sono pagate, e quindi...devono stare zitti?
    Ma ...e Falcone? Borsellino? Si onorano - come sempre - solo dopo (e giusto perché) morti?

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