venerdì 31 agosto 2012

The Rum Diary / Cronache di una passione

"The Rum Diary" di Bruce Robinson. Con Johnny Depp, Michael Rispoli, Aaron Eckhard, Amber Heard, Richard Jenkins, Giovanni ribisi. USA 2011 ★★★ ½
Un film allegro, vitale, energetico, dove la comicità sta nelle battute e nelle situazioni paradossali in cui finiscono a trovarsi i vari personaggi in seguito ai diversi gradi di intossicazione etilica: siamo a Puerto Rico, nel 1960, territorio "non incorporato" degli Stati Uniti ma oggetto delle mire di speculatori edilizi dal continente che vi vedono una fonte inesauribile di denaro grazie allo sfruttamento di persone e risorse, e vi sbarca Paul Kemp, free lance newyorkese assunto dal giornale per dargli nuova linfa. In realtà è uno scrittore e romanziere senza editore che si adatta a "scrivere per mangiare" e affoga nell'alcol le sue frustrazioni: sull'isola del rum, e con un sodale come Sala,  il fotografo del giornale, oltre a  un ex collega come lo svedese Moburg, un relitto umano col culto dei discorsi di Hitler, trova l'ambiente ideale per continuare a farlo, pur tenendo l'occhio aperto sul processo di colonizzazione dell'isola da parte degli affaristi yankee. Incappa così in uno di loro, Sanderson, attraverso la sua bellissima fidanzata Chenou, che gli appare come una sirena che spunta dal mare in fianco al pattino su cui sta "tirando il collo" all'ennesima bottiglia. Sanderson, che sta progettando la costruzione di una serie di alberghi su un'isola incontaminata, cerca di lusinsgare Kemp e di guadagnarlo dalla sua parte e  lo ingaggia per scrivere delle brochure per magnifichino il progetto, ma Kemp, che nel frattempo si è innamorato di Chenou, cede solo per farsi un'idea migliore dei meccanismi ma non cede. In realtà questa bella storia, che nel sottotitolo italiano recita "Cronache di una passione", è la "Storia della nascita di una passione", quella per un giornalismo che per definizione è "contro": i potenti, gli impostori, gli arroganti; Kemp, scrittore, sceneggiatore, in una parola "artista" frustrato si redime (ma non dall'alcol!) attraverso il giornalismo: diventerà un cronista di razza, un segugio di notizie e un implacabile avversario del potere. Ossia l'esatto  contrario del pennivendolo, figura che caratterizza l'informazione nostrana. La storia, collocata in un'epoca e in un ambiente che ricorda la Giamaica di "007 Licenza di uccidere" (che è del 1962), in un'isola caraibica che è "un'Inghilterra con frutti esotici", non ha niente di moralistico, e in questo è molto poco americana (infatti il regista, ma noto soprattutto come sceneggiatore, Bruce Robinson, è inglese); convincenti e divertiti sono gli attori, a loro agio nel lasciarsi guidare nelle strampalate avventure ad alto tasso alcolico che costellano la vicenda, e il film godibile e ben girato. A mio parere molto sottovalutato: lo consiglio.

martedì 28 agosto 2012

Asinistra della destra

Eugenio Scalfari "giovane, fascista e felice" con la mamma 
Marco Travaglio ha fatto bene a concludere il fondo del "Fatto Quotidiano" di oggi a proposito dell'appassionante e soprattutto attuale dibattito a colpi di "fascista" e di "destro" in corso in questi giorni, innescato dall'attacco del direttore di Repubblica al "Fatto Quotidiano" e dalle intemerate di Bersani contro Grillo, con queste parole: "dopo vent'anni, tutti possono vedere cos'è davvero la sinistra italiana. E capire chi ha regalato all'Italia 20 anni di fascismo, 40 di Democrazia Cristiana e 20 di berlusconismo". Andrei oltre, precisando che sia il fascismo, creazione originale italiana, sia il movimento comunista nel nostro Paese, nascono dai lombi del Partito Socialista, principale espressione della "sinistra" italiana a partire dal 1892. Le due ideologie totalitarie che ne derivano, nel Belpaese, sono geneticamente affini il che spiega la disinvoltura nell'operare un subitaneo cambio di casacca di milioni di connazionali a cavallo del 25 aprile 1945. Nel caso dei comunisti, il totalitarismo è mascherato, dalla nascita della Repubblica in poi, dall'uso tanto ossessivo quanto rivelatore dell'aggettivo "democratico" come sinonimo di progressista e quindi di comunista (anche la DDR di Ulbricht aveva nella propria ragione sociale il termine "repubblica democratica"), creando ossimori quali "centralismo democratico" degni delle "convergenze parallele" teorizzate dal democristiano Aldo Moro, che puntualmente mistificano la realtà manipolando le parole. L'altra ideologia che domina l'Italia è, come sappiamo, quella cattolica, che si può definire altrettanto totalitaria in quanto integralista. In comune fascismo, comunismo e cattolicesimo hanno il conformismo, la massificazione e il culto dell'autorità: dello Stato nazionale, del Partito-Stato, del capo di uno Stato Teologico peraltro estero. Il risultato non cambia ed è sotto gli occhi: l'italiano post unitario non sa pensare con la propria testa. O perché non può, non avendone gli strumenti (chi doveva non glieli ha forniti), o perché non vuole, preferendo appaltarla a una classe intellettuale scadente e codarda che raramente si eleva a voce critica: la quindicina di docenti universitari che durante il ventennio si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo sono storia, così come la prossimità opportunista al "campo progressista" dal '68 in poi una realtà innegabile. Questo lo stato dell'arte, che determina l'afasia sugli abusi di Napolitano e le scelte mai così chiaramente classiste da parte di un governo come quello in carica che, col pretesto dell'emergenza e forte di una maggioranza parlamentare mai vista, è il più politico degli ultimi quarant'anni. Altro che parlare di destra e sinistra, termini che non hanno alcun senso ai tempi di un'ammucchiata che altro non è che la perfetta espressione di un non-pensiero unico che è il comune denominatore dell'Italia di oggi.

domenica 26 agosto 2012

Sì: sono un populista e un fascista del web

Pier Luigi Bersani, segretario, e Luciano Violante esponente di punta del PD; il direttore di Repubblica Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari, suo fondatore: se sono questi personaggi a stabilire chi è democratico e quali siano i "recinti" della "sinistra", e a dare la patente di populista giudiziario e di fascista ebbene sì, mi dichiaro e sono onorato di essere un populista antidemocratico e un fascista della rete. Grazie per avermi dato un'identità di cui da ora in poi sarò orgoglioso. So una volta per tutte che il nemico non è soltanto Berlusconi. Anzi.

sabato 25 agosto 2012

L'arte di vincere

"L'arte di vincere" (Moneyball) di Bennett Miller. Con Brad Pitt, Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman, Chris Pratt. USA 2011 ★★★½
Racconta una storia vera, questo film, che pur essendo ambientato nel mondo del baseball (gioco che continua a rimanermi assolutamente estraneo e incomprensibile) ha un significato molto più politico che sportivo. Racconta la scommessa di Billy Beane, ex giocatore di grandi promesse non mantenute e in seguito general manager degli Oakland Athletics che, alle prese con problemi di bilancio e costretto a cedere i tre giocatori di maggior spicco, dopo l'incontro con un giovane laureato in economia e specializzato in statistica, decide di rifondare la squadra abbracciando una filosofia basata più sulle dinamiche di gruppo e sulle specialità di giocatori in declino o sottovalutati che sull'apporto delle star: una sorta di "socialismo" che mi ha fatto venire in mente José Mourinho quando ha preso in mano una società "perdente"per definizione come l'Inter, costruita per anni affastellando "figurine" e calciatori di grido che però non facevano gruppo né integravano le proprie migliori caratteristiche; Don José, che all'Inter nel 2010 fece vincere tutto, trasformandola, purtroppo per una sola, ma splendida stagione, nella squadra più forte del mondo, lavora per l'appunto con un approccio e un metodo diverso da quello imperante nel mondo del calcio, assumendo su di sé tutti i ruoli, e le relative responsabilità, riuscendo a convincere gli uomini da lui allenati perfino a rinunciare alle proprie caratteristiche per il bene comune. Quasi sempre ha ragione, i suoi uomini lo seguono e alla fine lo adorano perché li fa vincere. Così Billy Beane, ex giocatore di baseball dalle grandissime qualità potenziali e che aveva rinunciato a una borsa di studio presso una prestigiosa università per diventare professionista, e fallito come giocatore. Cerca di rifarsi, e ci riesce, come manager, prendendosi la rivincita sugli "scouts" di giocatori, quelli che gli avevano pronosticato una carriera mirabolante. Lo interpreta magnificamente, cogliendo tutte le sfumature e le contraddizioni di un personaggio estremamente complesso, Brad Pitt. Ha ancora la sindrome del perdente, Billy Beane, e istruttivo è al riguardo il rapporto che instaura coi giocatori scelti da lui e dal suo collaboratore, un bravissimo Jonah Hill nei panni di un nerd, li che non segue mai, per scaramanzia, gli incontri, e al contempo con la figlia adolescente, rincuorandola e rassicurandola anche quando agli inizi della stagione le cose prendono una cattiva piega, e perfetto Philip Seympur Hoffman nella parte dell'allenatore di lungo corso, scettico sul "metodo" del suo manager. Poi però infilano, gli Oakland Athletics, una "striscia" di 20 vittorie di fila nella stagione 2002 eguagliando, se ben ricordo, i New York Mets ed entrando così nella storia. Perdono però, per la seconda volta, la partita finale del campionato: secondo Billy Beane, al momento del dunque, si sono trovato con nulla in mano e tutto è stato invano. Perdente ma onesto quanto testardo, rifiuterà una offerta favolosa dei Boston Red Socks, probabilmente la più prestigiosa società di baseball americana, e un trasferimento sulla East Coast, preferendo rimanere in California e nella sua un po' scalcagnata società. Un bel film con uno sguardo inconsueto sullo sport made in USA, sorprendente quanto profondo.

giovedì 23 agosto 2012

Lafornero: giovani, adesso tocca a voi. E saranno cazzi acidi

Rieccola. E' tornata Lafornero. Pimpante, ciarliera come sempre a sproposito, sfoggia un'abbronzatura in linea con la sua faccia di palta e che traspare anche dai microfoni della radio. La storica "Radio anch'io", trasmissione che esiste da quando la RAI si chiamava ancora EIAR, è diventata la "stanza del caminetto" in cui esibirsi e "comunicare con il popolo" per questo esecutivo golpista, perfetta espressione del mondo di cui rappresenta e amministra gli interessi: quello degli affari (a spese della collettività), della finanza, delle banche, degli evasori fiscali, di cui un rettore di lungo corso della Bocconi, luogo di formazione per eccellenza di una classe digerente più che dirigente per quanto è famelica, ottusa, imbecille, incompetente e criminale è il perfetto leader, una classe che mostra finalmente il suo volto esponendosi in prima persona naturalmente per "salvare il Paese" e "perché ce lo chiede l'Europa" (dei colleghi banchieri). Peggio di Berlusconi, a ben vedere sono ancora più esibizionisti e vanesi del nano brianzolo, straparlano senza tregua, non c'è giorno senza un annuncio e una predica, per di più con tono professorale: il predecessore di Monti se non altro non si prendeva sul serio. Comunque è tornata, questa arpia col vestitino firmato e la pettinatura da sgarzola, questa Vispa Teresa indisponente quanto arrogante, per dire la sua sulle tasse ("troppo fisco sugli stipendi": ci voleva una docente universitaria per fare questa clamorosa scoperta, che per questo fa il ministro del Lavoro e delle politiche sociali nel governo più nefasto per lavoratori e pensionati dall'inizio della Repubblica) e per annunciare un Piano giovani: "saranno misure mirate", ha detto Lafornero, e uscite dalla sue labbra contratte e avvizzite le parole suonano come una minaccia. Ragazzi, adesso tocca a voi. Dopo pensionati, esodati, occupati e precari, adesso nel mirino di questa Befana prêt-à-porter ci siete entrati voi. Auguri.

mercoledì 22 agosto 2012

Istria


Stranieri a casa o a casa fra stranieri? Davvero stranieri? Non lo so. Ma mi piace. Lo trovo "domace". Montona d'Istria, Croazia.

domenica 19 agosto 2012

I torni contano: le verità di Eugenio Scalfari

Finalmente, era ora. L'editoriale di oggi su "Repubblica" a opera del suo Fondatore è illuminante. Non solo perché rivela il vero volto e pensiero di un personaggio che ho imparato col tempo a disprezzare profondamente, ma perché chiarisce una volta per tutte quello che c'è da sapere sui rapporti tra Stato e Mafia. Il punto di partenza è che lo Stato sarebbe (il condizionale è mio) in guerra con la mafia. In una guerra, per definizione, si riconosce al nemico lo stato di belligerante. "La trattativa tra le parti, è pressoché inevitabile per limitare i danni" scrive Scalfari. Sempre secondo il Fondatore sarebbe stato "criminale", e comunque poco intelligente, trattare con un nemico che, negli anni '92 e '93 fosse stato alle corde (valutazione che sembra attribuire al PM Ingroia), mentre sarebbe stato lecito e opportuno farlo con una nemico che all'epoca non sembra "fosse ridotto al lumicino" (anzi, aggiungo io: era probabilmente più forte dello Stato, come ha ampiamente dimostrato a Capaci, Via d'Amelio, Firenze, Milano e Roma). Traggo la conclusione che essendo a quei tempi la mafia "non ridotta al lumicino", la trattava ci fu, lo Stato riconobbe nella Mafia un interlocutore e al tempo stesso fu da essa riconosciuto come tale, come del resto avviene tra belligeranti superiorem non recognoscentes, ossia tra Stato e Stato. In sostanza la Repubblica Italiana riconosce un rango assimilabile a uno Stato a un'organizzazione che le stese leggi penali in vigore definiscono criminale. Se fosse vero che siamo in guerra contro la Mafia, come suggerisce il Barbudo, del resto bisognerebbe applicare il codice penale di guerra, che da quel che mi risulta prevede un reato chiamato alto tradimento. Scalfari stesso ricorda come il "partito della fermezza" non volle trattare con le Brigate Rosse all'epoca del rapimento Moro non riconoscendo loro quello status di nemico e di belligerante che esse rivendicavano, nonostante una dichiarazione di guerra in piena regola da parte del "partito combattente", la cui ragion d'essere era, senza tanti giri di parole, la distruzione dello Stato borghese*. Ne consegue, stando a Scalfari, che siccome ai tempi non sono stati "tradotti in giudizio Craxi, Pannella, Martelli e Sciascia e altri intellettuali favorevoli alla trattativa", nemmeno andrebbero inquisiti i protagonisti della trattativa con la Mafia. L'ormai poco prestigioso e credibile giornale "fondarolo", pubblica oggi un titolo nell'edizione on line così redatto: Ingroia, nuovo attacco a Monti  (il presidente del Consiglio aveva denunciato "abusi" nell'uso delle intercettazioni relative all'inchiesta sui rapporti tra Stato e Mafia) "Le sue parole sono ingenerose" aveva osato dichiarare il magistrato siciliano in un'intervista a Klaus Davi. Secondo il giornale scalfariano si tratta di un attacco, termine usato anche nel titolo dell'articolessa del Fondatore. Perché Ingroia è un eversivo. Come Marco Travaglio, Antonio Padellaro e l'intera redazione de "Il Fatto Quotidiano", Roberto Scarpinato, i 320 magistrati italiani che hanno firmato un documento diretto al CSM in sostegno del procuratore generale di Caltanissetta, Antonio Di Pietro, Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Maurizio Landini, il GIP di Taranto Patrizia Todisco, e naturalmente Gustavo Zagrebelsky, che ha dato lo spunto alla confessione-delirio del trombone terrazzato che di seguito riporto integralmente. Sono in buona, anzi ottima compagnia di altri eversivi che si rifiutano di unirsi al coro di laudatori e scherani di Napolitano & Co.
* che si abbatte e non si cambia, come da narrazione d'epoca

"Perché attaccano il capo dello Stato
di Eugenio "Fondatore" Scalfari

Eterogenesi dei fini. Con queste due parole comincia l'articolo di Gustavo Zagrebelsky 1 da noi pubblicato venerdì. E prosegue: "È molto difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, avesse previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per diventare il perno di un'intera operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati".



Infatti è molto difficile immaginarlo, tanto più che è stato lo stesso Presidente a fugare questo dubbio dichiarando più volte pubblicamente e scrivendo una lettera al Csm, alla Procura di Palermo e ai familiari di Borsellino (la moglie e il figlio) con cui ribadiva ed esortava all'impegno di fare piena luce sui fatti relativi alle inchieste in corso, con le quali il conflitto di attribuzione da lui sollevato non aveva alcun rapporto.



L'eterogenesi dei fini opera invece, anche se Zagrebelsky mostra di non rendersene conto, sulle opinioni da lui espresse nell'articolo in questione il quale rafforza e conforta col prestigio giudiziario del suo autore la campagna in corso da tempo contro il Quirinale. Una campagna in corso prima ancora che le inchieste palermitane fornissero un'ulteriore occasione e che ha poi acquistato una virulenza che va molto al di là del sacrosanto diritto di informazione e di critica.



Ho molta stima per l'esperienza giuridica di Zagrebelsky e l'invito perciò a porsi il problema dell'uso che verrà fatto da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni. Ma mi coglie il dubbio che Zagrebelsky ne sia già perfettamente consapevole e che quindi, nel suo caso, non si tratti di eterogenesi dei fini ma d'un esito consapevole come dimostra la dichiarazione rilasciata qualche giorno fa al "Fatto Quotidiano" e altri suoi articoli e interventi sul medesimo argomento. Mi piacerebbe che il mio dubbio fosse fugato ma temo che questa mia speranza si risolva in una delusione.



Ricerca di intenzioni a parte, restano le tesi esposte da Zagrebelsky, che meritano qualche commento.



***

Al primo posto campeggia una certezza dell'autore dell'articolo: l'esito del conflitto è scontato. "Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la Corte desse torto al presidente della Repubblica, così nel momento stesso in cui il ricorso è stato sollevato, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari ma la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se desse torto al Presidente, sarà accusata di irresponsabilità; dandogli ragione sarà accusata di cortigianeria".

Poche righe dopo queste affermazioni, è lo stesso autore a scrivere: "Sulla fondatezza d'un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi". Infatti. Ma sconcerta constatare che un suo ex presidente si è già espresso poche righe prima e continua nelle tre colonne successive. Segno che l'eccezionalità del caso gli impone una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave.

Nel merito, ricordo che la Corte si è più volte espressa, in varie occasioni e con vari presidenti della Repubblica, con sentenze e giudizi contrastanti con decisioni del Capo dello Stato. Ha bocciato atti da lui firmati, iniziative da lui prese, perfino leggi elettorali da lui promulgate.

Nel caso in questione Zagrebelsky ha caricato il ricorso di significati che esso non ha, quasi che fosse un tentativo surrettizio di forzare la Corte ad una trasformazione dello spirito e della lettera della Costituzione introducendovi un contenuto "più monarchico che repubblicano".

Dove si annidi questa forzatura ultronea di cui sarebbe reo Giorgio Napolitano e succube la Corte non esiste traccia alcuna. Il ricorso, anche ad esaminarlo con il microscopio, chiede soltanto che sulla base dell'articolo 90 della Costituzione venga chiarito se l'irresponsabilità politica del Presidente per atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni contempli anche l'inconoscibilità di quegli atti qualora essi siano ritenuti processualmente irrilevanti.

La Corte, quando emetterà la sentenza, potrà benissimo dar ragione al Quirinale senza incorrere nell'accusa di cortigianeria o dargli torto senza provocare alcuna crisi costituzionalmente drammatica. Salvo che nella testa di quei politici e dei loro riecheggiatori che palpitano nella speranza che la Corte dia ragione al Capo dello Stato per poter accrescere i loro attacchi eversivi contro entrambi, preparandosi invece ad attribuirsi il merito d'una sconfitta di Napolitano del quale a quel punto reclamerebbero le immediate e infamanti dimissioni.

***
Ma c'è dell'altro, come lo stesso Zagrebelsky scrive. C'è che il ricorso, secondo l'autore dell'articolo, non è affatto una difesa delle prerogative presidenziali da trasmettere ai successori seguendo l'indicazione ("monarchica") di Luigi Einaudi, ma una vera e propria innovazione del dettato costituzionale che la Corte non ha assolutamente i poteri di effettuare e che comunque costituirebbe un pericolosissimo precedente e un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità.

La ricerca della verità da parte della Procura di Palermo e di qualsiasi altro ufficio giudiziario è fuori questione. Nel caso specifico poi la richiesta di rinvio a giudizio è già stata depositata e spetta ora al Gip di dare il via libera al processo. A quel punto i titolari dell'accusa adempiranno al loro compito di pubblici ministeri e saranno i giudici ad accertare la verità attraverso il dibattimento.

Quanto ai poteri della Corte in merito alla lettera della Costituzione, non dovrei aver bisogno d'esser io a ricordare ad un ex presidente della medesima che esistono sentenze "addittive" della Corte e sentenze "interpretative" queste ultime di particolare importanza e più volte emesse su questioni di grande rilevanza.
Quanto ai "precedenti" è vero che essi rappresentano uno strumento importante in diritto pubblico. Importante, ma non cogente. Tra i poteri interpretativi della Corte c'è anche quello di stabilire un principio, un criterio, una visione giuridica che confligge con quel precedente o gli si affianca. Il tutto per la ricchezza del materiale giurisprudenziale del quale si varranno gli studiosi e gli stessi collegi giudicanti nelle loro motivazioni.

***
C'è dall'altro ancora? Sì, ci sarebbe, ma qui entriamo in una sfera più politica che giuridica. Zagrebelsky invita Napolitano ad arrivare ad un compromesso con la Procura palermitana. Essa ha già dichiarato che le sue conversazioni con Mancino non sono processualmente rilevanti. Dia seguito a quella dichiarazione - esorta Zagrebelsky - distrugga quei nastri in un'udienza "secretata" e Napolitano ritiri il ricorso alla Corte. E così vissero tutti felici e contenti. Sennonché...

Sennonché la parola "secretato" ha due diverse interpretazioni. Per gli uni significa un'udienza con la partecipazione degli avvocati che difendono le parti; per altri la pura e semplice decisione del gip di procedere alla distruzione dei materiali in questione. E questo è appunto il merito del ricorso di cui si discute.
L'Avvocatura dello Stato, prima che il ricorso presidenziale fosse stato redatto, era andata in visita alla Procura di Palermo ed aveva appunto proposto la distruzione delle registrazioni in questione. Ne aveva ricevuto un rifiuto. E dunque il ricorso. Forse Zagrebelsky non era al corrente di questo interessante dettaglio.

Ci sarebbero molte altre considerazioni da fare, pertinenti anche se non inerenti. Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent'anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati tranne quello - a Caltanissetta - d'aver fatto condannare a 17 anni di reclusione un mafioso accusato dell'omicidio di Borsellino, poi rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro.

Ci sarebbe anche da distinguere tra trattativa e trattativa. Quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai tempi degli anni di piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare con le Br, e quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare; socialisti, radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa. A nessuno però sarebbe venuto in mente di tradurre in giudizio Craxi, Martelli, Pannella, ed anche Sciascia e molti altri intellettuali che volevano trattare.

Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si vuole conoscere? Deve essere un'altra e non questa. Deve essere - come alcune frasi d'una delle innumerevoli interviste di Ingroia fa pensare - una trattativa svoltasi in una fase in cui la mafia era ridotta al lumicino e per tenerla in vita si invocava l'aiuto dello Stato. Questo sì, se fosse provato, sarebbe un crimine. Un crimine di enormi proporzioni. È di questo che si tratta? E quand'è che la mafia sarebbe stata ridotta al lumicino e costretta ad invocare il sostegno dello Stato? Nel '92-'93? Quando i Corleonesi presero il sopravvento sul clan di Badalamenti? Non sembra che in quegli anni fossero ridotti al lumicino, anzi.

Un ultimo ricordo a proposito dei magistrati che invocano il favor popolare e gli intellettuali che ritengono necessario darglielo.

Falcone aveva accertato quale fosse la struttura mafiosa e aveva mandato a processo la "cupola" di allora o perlomeno la sua parte emersa. Andò in Usa per interrogare il "soldato" Buscetta che era lì detenuto. Dopo l'interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle sue domande ed altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino. Buscetta riferì alla Commissione antimafia quanto sopra. Falcone non era un magistrato che rilasciasse facilmente interviste a destra e a manca. Prima d'arrivare alla "zona grigia" di cui conosceva benissimo l'esistenza saltò in aria sulla bomba di Capaci.

mercoledì 15 agosto 2012

Oachkatzlschwoaf


Ferragosto, come Natale, Capodanno e Pasqua è il periodo perfetto per un accidente: un parabrezza in frantumi; una gomma della bicicletta esplosa; il frigorifero che si guasta e non solo addio bevande fredde in giorni di canicola, ma anche le provviste amorevolmente stivate nel reparto surgelati cha vanno a puttane; un fulmine che passando per l'antenna del televisore ve lo fa secco oltre a segarvi la linea telefonica e quindi anche la connessione alla rete (mi è successo sette o otto anni fa e da allora non solo sono provvisto di chiavetta internet ma anche di adeguata copertura assicurativa per danni da eventi naturali). Niente di tutto ciò, quest'anno: in compenso sono riuscito a farmi mordere l'indice da uno scoiattolo che girava allegramente per casa. Non tanto allegramente, in realtà: gli stava facendo la posta da giorni Filli, l'adorata gatta nera, implacabile cacciatrice  nonostante le sue 15 primavere. Me ne sono reso conto dopo l'incontro ravvicinato col roditore, ieri mattina. Filli sembrava stranita, era ansiosa, si bloccava per ore nella posizione della sfinge, lo sguardo apparentemente perso, in luoghi che normalmente sono di passaggio e che solitamente si guarda bene dal presidiare. In realtà una settimana fa la signora che mi dà una mano nelle faccende di casa mi aveva detto che le era sembrato di aver visto un topo correre a rotta di collo nel corridoio inseguito dalla gatta e rifugiarsi in un buco del pavimento (che è a liste di legno). Era di colore grigio, ha detto, con una coda piuttosto grossa. Una pantegana? Addirittura? Mi sembrava strano che girassero topi in una parte della casa sotto lo stretto controllo di Filli, in perlustrazione continua nel suo territorio. Nelle ultime notti l'avevo sentita scorrazzare nel corridoio e compiere balzi, ma sono abituato a certi suoi momenti di mattana e di crisi ipercinetica, e non ci avevo fatto caso. Ieri mattina, uscito dal bagno, e vedendola immobile ma pronta al balzo (va da sé, felino), che ipnotizzava qualcosa sul tratto di parete sopra il telaio della porta in corridoio, l'ho visto. Ero senza occhiali e lui mi osservava puntandomi addosso gli occhietti. Vedevo solo quelli e mi sembrava un topo. Una volta inforcati gli occhiali ho verificato che si trattava di uno scoiattolo. Non potendo rimanere a lungo attaccato alla parete, è caduto e fuggito, subito bloccato dalla fulminea reazione della gatta che lo serrava tra le grinfie: l'amata felina nient'altro faceva che il suo mestiere (l'ho sempre lodata quando mi depositava sul cuscino i suoi trofei: ci mancherebbe altro), ma stavolta mi sono fatto prendere dalla compassione e le ho tolto la preda prima che la seccasse spezzandole il collo o, peggio, le squarciasse la gola, sgozzandola, come aveva fatto qualche giorno prima ai piedi della finestra che dà sulla terrazza Leo, l'altro gatto di casa, tigrato e chiamato anche Brombolone perché, sottovalutandolo, lo avevo sempre ritenuto inetto alla caccia, con un altro scoiattolo uguale a questo. Ce ne deve essere una colonia, nel gelso che ho in giardino, di scoiattoli grigi, che hanno sostituito quelli nostrani, che chiamavo Cip e Ciop, rossi, minuti, che per anni mi hanno tenuto compagnia ma mai erano stati così spavaldi da entrare in casa. Insomma la bestia, come ringraziamento per averla salvata da morte certa, mi ha azzannato, facendomi un male cane e per fortuna era a portata di voce la mia guru in questioni di salute e alimentazione, nonché naturopata di fiducia, che mi ha suggerito di fare scorrere il sangue a dovere, lavare la ferita sotto l'acqua e disinfettarla, e informarmi in rete sulla pericolosità del morso dello scoiattolo prima di correre al Pronto Soccorso, che era stata la mia prima tentazione pensando alle conseguenze del morso di un animale selvatico. Scarsissimo rischio di trasmissione di malattia nel caso di morso di scoiattolo, ho scoperto: lasciar passare 48 ore e se non si infetta la ferita, va bene così. 

Sono così anche venuto a sapere che questa specie, di origine nordamericana (come quasi tutte le nostre sciagure), è stata inopportunamente introdotta in Italia nel 1948, in Piemonte, da dove si è diffusa a scapito di quella nostrana, di formato più ridotto, come ben ricordavo. E meno aggressiva e contundente. Morale di questa avventura ferragostana, come sentenziava buddhisticamente l'amica naturopata nonché guida spirituale: mai intervenire nelle dinamiche tra animali. Per cui devo le mie più sentite scuse a Filli per averle impedito di portare a termine il suo lavoro (ma ha un buon carattere, per cui mi ha già perdonato). In compenso, oltre a essere in grado da sempre di pronunciare correttamente e fluidamente la parola "oachkatzlschwoaf", termine austro-bavarese che viene da Eichkätzchenschweif, in "Hochdeutsch" Eichhörnchenschwanz, che significa coda di scoiattolo, usato come test per distinguere i nativi (bavaresi, austriaci e tirolesi) dai "foresti", ossia tutti gli altri a cominciare dai prussiani, termine, questo, usato per tutti le genti tedesche a Nord della Franconia (del resto l'austro-bavarese è la mia lingua-madre così come l'italiano è il mio idioma-padre), posso dire anche di averne toccato una, di oachkatzlschwoaf. Dal vivo. E per di più di un oachkatzl yankee. That's Ferragosto. 

lunedì 13 agosto 2012

Margin Call

"Margin Call" di J. C. Chandor. Con Kevin Spacey, Paul Bettany, Jeremy Irons, Zachary Quinto, Penn Badgley, Demi Moore, Simon Baker, Stanley Tucci. USA 2011 ★★
Giunge nelle sale friulane giusto per allietare il Ferragosto questo ottimo esordio alla regia di J. C. Chandor, finora autore di spot pubblicitari. Il film racconta, come già "Il denaro non dorme mai" di Oliver Stone, il crack di una banca d'affari statunitense nel settembre del 2008, ossia l'inizio della crisi che non è solo finanziaria, ma anche di sistema, tutt'ora in pieno svolgimento (e che ebbe origine negli USA, e non in Europa, e sarebbe opportuno ricordarlo anche a Barack Obama). Senza preavviso viene "segato" un buon terzo degli analisti, e tra essi il capo del settore vendite. Accompagnati sollecitamente alla porta dagli addetti alla sicurezza nel giro di un'ora (con le scatole di cartine colme degli effetti personali, immagini che hanno fatto il giro del mondo: una scena agghiacciante per la disumanità), riesce a passare una chiavetta a un giovane analista che ha invece salvato il posto, e appena in tempo a dirgli di completare il suo lavoro ma di stare attento. Questi scopre che sta stanno letteralmente esplodendo i mercati: tutta la strategia della banca era basata su parametri che si sono rilevati balordi, non solo in senso matematico ma sostanziale. E' la crisi dei subprime, come ben sappiamo. La pellicola racconta in maniera esemplare il come e il perché delle decisioni che vengono prese in frenetiche e illuminati riunioni notturne, con il coinvolgimento via via che passano le ore delle più alte sfere: il responsabile del trading, interpretato da un sempre immenso Kevin Spacey, fino al capo dei capi, un John Tuld a cui dà volto, demoniaco, e voce, un altrettanto grande Jeremy Irons. Alla loro altezza Paul Bettany, Stanley Tucci e Simon Baker, eccezionali. Bravi gli altri, perfino Demi Moore riesce ad essere dignitosa (benché non esattamente credibile). E sono decisioni che avranno conseguenze per miliardi di persone, un intero pianeta le cui sorti sono state letteralmente finanziarizzate da questa orripilante genia gretta, paranoide, così profondamente corrotta dentro da essere capace di esprimere un minimo di umanità, è il caso di dirlo, solo nei confronti degli animali (viene in mente Hitler) e di compassione soltanto, in piena paranoia egolatrica, verso sé stessi. Il film ha il pregio di mostrare questa "American Way of Life", che considera comunque la Company, e il suo boss, qualcosa a cui sacrificare non solo sé stessi ma anche il resto dell'umanità perché, alla fine, si è ha già venduto da un pezzo la propria anima, ammesso e non concesso che gente che sceglie di operare nel campo della finanza ne abbia una. 

sabato 11 agosto 2012

Il PIL dei pirla e quello secondo Bob Kennedy

Mentre i dati ufficiali diramati dall'ISTAT confermano che l'Italia è in piena recessione, con il PIL in calo del quarto trimestre consecutivo, -2,5% rispetto al secondo trimestre del 2011, quest'oggi il "Fatto Quotidiano" opportunamente ripubblica il discorso che Robert Kennedy tenne Il 18 marzo del 1968 all'Università del Kansas, in cui evidenziava l'inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere. Tre mesi dopo veniva assassinato. Il discorso è ancora assolutamente attuale, così come la necessità di uscire dalla logica di misurare ogni cosa sulla base alla produzione di beni e servizi nel nome di una crescita esponenziale quanto demenziale,  per la semplice ragione che è impossibile all'infinito. Da noi un partito che si chiama "democratico" come quello a cui apparteneva Robert Kennedy, e che se ne riempie all'occasione la bocca, ne ignora il pensiero, come del resto altri presidenti "democratici" come Carter e Clinton per non parlare dell'attuale venditore di fumo Barack Obama. Rileggere quanto diceva 44 anni è salutare: una boccata d'aria. Se non l'avessero eliminato, e fosse stato eletto presidente, oggi il mondo sarebbe probabilmente diverso. 

Come popolo... come popolo siamo abbastanza forti; siamo coraggiosi abbastanza da affrontare la verità su come stiamo. Questo paese necessita di onestà e sincerità nella vita politica e dal Presidente degli Stati Uniti. Ma non voglio competere per la presidenza, non voglio che l'America faccia la critica scelta di direzione e leadership quest'anno, senza che si confronti con quella verità. Non voglio ottenere il supporto dei voti nascondendo la condizione dell'America con false speranze o illusioni. Io voglio che noi si scopra le promesse del futuro, ciò che possiamo ottenere qui negli Stati Uniti, ciò per cui questo paese deve agire e ciò che ci si attende da noi negli anni a venire. E voglio anche che noi si conosca e si esamini dove abbiamo sbagliato. Voglio che tutti noi, giovani e vecchi, abbiamo una chance di costruire un paese migliore e mutare la direzione degli Stati Uniti d'America.
La paralisi e la rabbia
Stamattina ho parlato della guerra del Vietnam, e ne parlerò brevemente fra poco. Ma c'è molto di più, in questo critico anno elettorale, della guerra nel Vietnam. È, alla radice, la radice di tutto, l'anima nazionale degli Stati Uniti d'America. Il Presidente la chiama “inquietudine”. I nostri ministri ci dicono che l'America è sprofondata in una malattia dello spirito: scarsa iniziativa, paralisi della volontà e azione, divisione degli americani l'uno dall'altro, per via delle loro età, punti di vista, e colore della loro pelle, e non penso dobbiamo accettare questo negli Stati Uniti d'America. Dimostranti protestano contro i rappresentanti del governo e il governo risponde arrestando i dimostranti. Anarchici minacciano di bruciare il paese, e alcuni hanno cominciato a provarci, mentre carriarmati pattugliano le strade americane e mitragliatrici hanno sparato a bambini americani. (...) Tutto attorno a noi, tutto attorno noi non solo la questione del Vietnam, non solo la questione dellecittà,nonsololaquestionedellapovertà, non solo i problemi delle relazioni tra razze, ma tutto attorno noi – ed è la ragione per cui voi siete così preoccupati e perché voi siete così angustiati – il fatto è che gli uomini hanno perso la fiducia in se stessi, l'uno nell'altro. (...) E se sembriamo senza il potere di fermare questa crescente divisione fra Americani, ci sono ancora milioni che vivono in invisibili luoghi i cui nomi e le cui facce sono completamente ignoti.
I bimbi del Mississippi
Ma io ho visto questi altri Americani. Ho visto bambini nel Mississippi, qui negli Stati Uniti, paese con un Pil di 800 miliardi di dollari, ho visto bambini nell'area del Delta del Mississippi con pance rigonfie, le facce ricoperte di rughe da inedia, e non abbiamo una politica tale per procurare abbastanza cibo da farli sopravvivere, affinché i loro bambini, le loro vite, non vengano annientati. (...) Ho visto Indiani vivere nelle loro spoglie e misere riserve senza lavoro, con un tasso di disoccupazione dell'80 per cento, e con una così scarsa speranza nel futuro – una così ridotta speranza per il futuro dei giovani – che per giovani uomini e donne minorenni la maggior causa di morte è il suicidio. Essi terminano la loro vita sparandosi. (...) Competo per la presidenza perché ho visto gli orgogliosi uomini delle colline dell'Appalachia, desiderosi solo di lavorare nella dignità, non poterlo fare, perché le miniere sono chiuse e il loro lavoro se n'è andato con esse, senza che l'industria, i sindacati o il governo se ne curino abbastanza per aiutare. (...) Ho visto persone del ghetto nero, ascoltare sempre maggiori promesse di eguaglianza e di giustizia, mentre sedevano nelle stesse scuole fatiscenti e ammucchiati nelle stesse schifose aule, senza riscaldamento, guardarsi dal freddo e dai ratti. (...)
Armi sì, gioia no
Ma anche se agiamo contro la povertà materiale, c'è un compito ancora più grande: è il confronto con la povertà di soddisfazioni, di scopi, di dignità che ci affligge tutti. Per troppo e troppo a lungo, abbiamo fatto soccombere l'eccellenza personale e i valori della comunità nella mera accumulazione di beni materiali. Il nostro Prodotto interno lordo è ora superiore a 800 miliardi di dollari annui. Ma quel Prodotto interno lordo – se giudichiamo gli Stati Uniti d'America da esso – quel Prodotto interno lordo significa inquinamento e pubblicità delle sigarette e ambulanze che ripuliscano le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Significa serrature speciali per le nostre porte e celle per la gente che le forzano. Significa la distruzione delle sequoie e la perdita delle nostre meraviglie naturali in una crescita disordinata. Significa napalm e testate nucleari e autoblindo per la polizia perché combattano le rivolte nelle nostre città. Significano fucili Whitman e coltelli Speck e programmi televisivi che glorificano la violenza allo scopo di vendere giocattoli ai nostri bambini. Ancora, il Prodotto interno lordo non descrive la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione o la gioia dei loro momenti di svago. Non include la bellezza della nostra poesia o la forza dei nostri legami familiari, l'intelligenza del nostro dibattito pubblico o l'integrità dei nostri pubblici ufficiali. Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza o il nostro apprendimento, né la nostra compassione o la nostra devozione al paese. Misura tutto, in breve, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta. E ci può dire tutto dell'America eccetto il perché siamo orgogliosi di essere Americani.
di Robert F. Kennedy

venerdì 10 agosto 2012

La congiura della pietra nera

"La congiura della pietra nera" (Jianyu Jiangu) di Chao-Bin Su e John Woo. Con Michelle Yeoh, Woo-Sung Yung, Barbie Su, Xueqy Wang, Shawn Yue, Yiyang Jiang, Xiadong Xuo, Kelly Lin. Cina, 2010 ★★★
Per allietare la canicola estive niente di meglio di questo appassionante, colorato, intenso film wuxiapan, ossia una sorta di "cappa e spada"della tradizione cinese, che affonda le radici nella letteratura, proposto dalla friulana Tucker Film, specializzata nel proporre e distribuire pellicole dell'Estremo Oriente oltre che notevoli produzioni locali. A mettere la sua firma assieme al taiwanese Chao-Bin Su il maestro di Hong Kong John Woo, attivo anche a Hollywood e famoso anche in Occidente per Face/Off, autore quattro anni fa del bellissimo La battaglia dei tre regni dopo il suo rientro in patria: una garanzia e un marchio di fabbrica, come quello sulla confusione d'identità, che si ripropone in questo film. Che narra della caccia che la setta di assassini de La pietra nera dà ai resti di Bodhi, un principe indiano che ha contribnuito alla diffusione del buddhismo in Cina (il nome significa illuminazione), il cui corpo fu diviso in due parti. Una volta ricomposta nella sua interezza la reliquia, questa conferisce a chi la possiede poteri straordinari, tra cui quello di rigenerare gli organi. Una componente della setta, interpretata magnificamente dall'affascinante Michelle Yeoh, trova la parte mancante, ma vuole tornare dare una svolta alla sua esistenza con l'aiuto di un monaco buddhista e di un chirurgo che le procura un nuovo volto e la porta con sé nella capitale dove inizia una nuova vita. Lì trova un marito che ama e da cui è riamato (ma che si rivelerà essere il figlio di un ministro che aveva assassinato) e finisce per attirare su di sé e sui di lui le attenzioni dei componenti della dei suoi ex compagni di setta. L'aspetto feuilleton in versione medievale-orientale non poteva mancare, e così il wuxiapan è perfetto. Per chi apprezza il genere, un film da non perdere. 

mercoledì 8 agosto 2012

Un programma politico di lungo termine e largo respiro


"L'obiettivo del futuro è la piena disoccupazione, così che tutti possano giocare. Ecco perché è necessario distruggere l'attuale sistema politico-economico": lo sosteneva Arthur C. Clarke, scienziato e scrittore, famoso per aver scritto "2001 Odissea nello spazio" e sceneggiato l'omonimo film di Stanley Kubrick. Possibile che non ci sia un movimento politico capace di uscire dalla prospettiva del pensiero unico liberista e mercatista in auge a livello planetario  e che metta al centro del proprio interesse, e dunque della sua azione l'uomo in quanto tale, nella veste di cittadino e non in quella di suddito o ingranaggio, in sostanza schiavo di un sistema demenziale? Che io sappia solo quello Umanista, attivo a livello internazionale,  e che agisce anche come partito, peraltro ampiamente snobbato e, all'occorrenza, diffamato. Chissà che a qualcuno venga voglia di informarsi in proposito: potrebbe valerne la pena. 

sabato 4 agosto 2012

Mercati e mercanti sull'ottovolante



Lunedì l'indice Ftse/Mib segnava +2,8% e lo spread BTP/Bund era fissato a 464 punti, martedì -0,69 (470), mercoledì +0,27 (456), giovedì -4,67% (506), ieri +6,4% (466). I mercati, anzi il Dio Mercato che tutto regola, a sentire i suoi zelanti sacerdoti che ci guidano, sono in altalena più che mai in questo mese d'agosto, dove le oscillazioni sono ancora più accentuate per via del minore numero di scambi, esposti quindi più che mai alle scorribande della speculazione finanziaria. Tutto lascia presagire che ne vedremo delle belle da qui a settembre: insomma su e giù per le montagne russe come la settimana appena trascorsa.  Il tecnico che guida il governo in carica, uomo della provvidenza imposto dalla grande finanza via Unione Europea, Angela Merkel e, giù per li rami, il presidente golpista Giorgio Napolitano, martedì scorso, in una telefonata a "Radio anch'io" prima di partire per il suo ennesimo tour promozionale, col cappello in mano, tra Parigi e Helsinki, con sosta finale a Madrid, ha così provato a rassicurare i suoi sudditi con queste accorate parole: "E' un tunnel, ma la fine sta cominciando a illuminarsi, e noi e il resto d'Europa ci stiamo avvicinando alla fine del tunnel". Come dire quattro passi nel delirio: eppure non sembrava né bevuto, né fumato e nemmeno in preda all'acido. Gli tiene compagnia quell'altro genio che è il presidente della BCE Mario Draghi, che risulta aver affermato, mentre viene ascoltato come persona informata sui fatti il 24 gennaio del 2011 dal PM della procura di Trani Ruggiero, titolare di un'indagine su Moody's: "Bisogna fare a meno delle agenzie di rating, sono altamente carenti e discreditate". Pare di sognare: ma questo signore, allora governatore della Banca d'Italia, non è stato dal 2002 al 2005 vicepresidente di Goldman Sachs per l'Europa? E in quanto tale non aveva forse qualche familiarità con le più note agenzie di rating? Non se ne serviva, forse? E come vorrebbe provvedere, chiudendole con un atto di autorità? Con una legge? Ma non ci hanno raccontato in tutte le salse, lui tra i primi,  il dogma liberista? In fondo si tratta di previsioni, o se vogliamo recensioni, o anche"consigli per gli acquisti", basati su analisi tecniche. Cosa vorrebbe l'illustre dottor Draghi, abolire o fare a meno anche della matematica e della statistica in base alle quali le valutazioni delle agenzie di rating vengono fatte? Un'altra applicazione del dominante Pensiero Unico? Queste corbellerie non le dico io, sulla base di un sudato ma meritato 28 preso in un esame di Economia di quasi quarant'anni fa (però preparato sul Samuelson) e nemmeno un sedicente esperto di economia, così come di diritto, quale Eugenio Scalfari, per il solo fatto di aver fatto il bancario prima di dedicarsi alla fondazione di giornali e riviste, ma due luminari come l'ex rettore della "prestigiosa" università Bocconi nonché ex dipendente della Goldman Sachs e il suo collega Mario Draghi. 

giovedì 2 agosto 2012

Cena tra amici

"Cena tra amici" (Le prénom) di Alexandre de La Patellière, Matthieu Delaporte. Con Patrick Bruel, Valérie Benguigui, Françoise Fabian, Charles Berling, Guillaume De Tonquedec. Francia, 2012 ★★★½
Erano mesi che non mi divertivo tanto al cinema e ieri ci voleva proprio, in una giornata problematica funestata da cattive notizie: ci è riuscito questo film molto francese e molto parlato, adattamento per il grande schermo di uno spettacolo teatrale che ha fatto furore e con lo stesso cast, a parte Charles Berling al posto di Jean Michel Dupuis nel ruolo di un pignolo e supponente docente di letteratura alla Sorbona, classico intellettuale di sinistra con la spocchia. Gli altri personaggi sono la moglie Elisabeth, anche lei docente, suo fratello Vincent, immobiliarista che vota Sarkozy, sua moglie Anne, che lavora nel campo della moda: la coppia aspetta il primo figlio, e Claude, orchestrale della radio di Stato. Tutto nasce dal nome (giustamente il titolo originale è Le prénom e come al solito è stato modificato a capocchia) che Vincent, per scherzo, dice di voler dare al primogenito: Adolphe. Anzi: Adolf, dopo che l'idea ha fatto prima sconcertare e poi infuriare gli altri, che sono tutti amici fin dall'infanzia. Da lì si innesta una schermaglia verbale memorabile, tra malintesi e sassolini nella scarpa che fendono come proiettili la stanza da pranzo in cui si svolge tutta la vicenda e che coinvolge tutti i protagonisti, compresa la madre di Vincent ed Elisabeth, che si scopre essere l'amante di Claude, che fa un "outing" inaspettato in tal senso dopo che scopre che tutti gli altri erano convinti da sempre che fosse omosessuale. Tutto è bene quel che finisce bene, però, e l'amicizia fra i cinque è più forte di ogni altra cosa. La pellicola per alcuni aspetti può ricordare lo splendido "Carnage" di Roman Polanski, ma io vedo più affinità con l'altrettanto divertente "La cena dei cretini" di Francis Veber, dove si rideva sì, ma con intelligenza e un pizzico di amaro. Comunque una luce in un mare di mediocrità e idiozia.

mercoledì 1 agosto 2012

Love & Secrets

"Love & Secrets " (All Good Things) di Andrew Jarecki. Con Ryan Gosling, Kirsten Dunst, Frank Langella, Kirsten Wiig, Lili Rabe. USA 2010 ★★★
Ispirato a una storia vera, la misteriosa sparizione, nel 1982, della moglie del rampollo di una famosa famiglia di immobiliaristi newyorkesi, questo film è da un lato un solido thriller, ben girato e interpretato, dall'altro un film psicologico, sull'impossibilità di "essere normale", liberandosi sia dai dolorosi fantasmi del passato, sia delle catene dei legami famigliari, da parte del protagonista, reso perfettamente dal bravo Ryan Gosling, ormai specializzato nel ruolo del paranoico che si cela dietro a un giovane uomo apparentemente tranquillo, ammodo, perfino timido. E' inizialmente una storia d'amore, la sua, con una studentessa di provincia trasferitasi nella New York degli anni Settanta in uno degli appartamenti della famiglia, che presto si concretizza in un matrimonio all'inizio perfetto, coi due che fuggono dalla confusione della metropoli in una fattoria del Vermont, dove iniziano un'attività di commercializzazione di prodotti naturali. Presto però il padre di lui, un perfido, dispotico e manipolatore Frank Langella, lo richiama ai "doveri" di famiglia e quindi a New York, a occuparsi delle attività tutt'altro che trasparenti dell'immobiliare, ed è qui che il segreto cui allude il titolo del film (cambiato come di consueto per il pubblico italiano, però in inglese: per una volta non completamente alla cazzo di cane) fa l'ingresso nella vita della coppia: il fatto che da ragazzo David abbia assistito al suicidio della madre senza che il padre intervenisse.  Da qui il rifiuto di diventare padre a sua volta, che incrina il rapporto con la moglie, le reazioni sempre più imprevedibili e violente, la follia che avanza insieme al disprezzo per sé stesso per essersi fatto coinvolgere nuovamente nella fogna che è il suo ambiente famigliare. Il tutto viene raccontato in flash back, mentre un David invecchiato risponde alle domande di un avvocato in un processo tenutosi nel 2000 in Texas, dove si è rifugiato dopo la sparizione della moglie, in cui è accusato di un oscuro omicidio in cui viene condannato a pochi mesi per occultamento di cadavere ma assolto per aver compiuto il delitto legittima difesa. Una procuratrice in carriera aveva tenuto aperto il caso della donne scomparsa e riesce a collegarlo a due omicidi all'apparenza misteriosi, ma lascerà perdere dopo un incontro con il fratello di David: il potere è facilmente corruttibile. Apparentemente c'è troppa carne al fuoco, ma a mio parere il regista è riuscito a usare tutti gli ingredienti in modo equilibrato. Ciò che rende "godibile" a suo modo, come thriller, il film, è lo stato di tensione che induce, nonostante ciò che segue sullo schermo sia ampiamente prevedibile. Insomma una pellicola che vale una visita estiva a una sala cinematografica.