martedì 31 luglio 2012

Il vento caldo dell'estate...

...è quello che si è portato via l'edizione numero 34 del Folkest, in tono forse un po' dimesso  rispetto al passato, perché risente anch'esso dell'andazzo generale: diciamo in versione "sobria", ma che ha contribuito comunque a portare un po' di buona musica e di vita nelle piazze del Friuli e della vicina Istria durante il mese di luglio e che, come sempre, ha chiuso in festa con gli ultimi cinque giorni di programmazione a Spilimbergo. Quello decisamente frizzante di ieri sera, bora in piena regola che raggiunge a folate anche il Medio Tagliamento, rischiava di portarsi via la esile Carla Bissi da Forlì, conosciuta come Alice, e le sue corde vocali possenti come la sua chioma leonina. E' lei, in forma smagliante che, come 9 anni fa, ha chiuso la kermesse con un concerto di ottimo livello che ha mischiato passato e futuro prossimo (il suo nuovo album, di cui ha anticipato alcuni brani, uscirà a settembre). Qui il brano del titolo di questo post, sempre che il link funzioni, in attesa della prossima. Rimane la malinconia dei palchi che vengono smontati in tutta fretta e che rimandano all'anno prossimo, per rendere alla splendida cittadina dove vivo la sua dimensione forse più vera.

lunedì 30 luglio 2012

La fratellanza olimpica nel segno di McDonald's

Perfetta arma di distrazione di massa, quanto mai opportuna in un'estate di recessione economica di cui non si intravedono sbocchi, gli sfarzosi e ultratecnologici giochi olimpici di Londra 2012, che stanno ipnotizzando e imbesuendo davanti ai teleschermi centinaia di milioni spettatori ignari o volutamente rincoglioniti di tutto il globo, sono un'altrettanto perfetta rappresentazione del mondo attuale. Soltanto a voler leggere l'avvenimento per quello che è, provare a fare mente locale e premurare di collegare il cervello prima di assorbire acriticamente milioni di immagini coloratissime e in altissima definizione, perfino tridimensionali, veicolo di pubblicità e messaggi espliciti quanto subliminali e di disinformazione sistematica. Laurie Perry, giornalista britannica, ha provato a spiegarlo con questo articolo pubblicato su The Independent e uscito tradotto in italiano sul numero 959 di Internazionale in edicola col titolo "Le Olimpiadi dell'ansia", che lancia uno sguardo dietro le quinte di questo raccapricciante baraccone mediatico, ennesimo esempio del pensiero unico dominante.


All’inizio di luglio, mentre ero ad Atene per un articolo, ho visto un fascista che spaccava la testa a un giovane pachistano. Da anni la retorica dell’estrema destra contro l’immigrazione risuona in tutta l’Europa. Il partito greco Alba d’oro ha equivalenti in tutto il continente, compresa la Gran Bretagna. Ed è in questo clima di violenta ostilità verso immigrati e stranieri che cominciano le Olimpiadi, in teoria un appuntamento che dovrebbe esaltare lo spirito sportivo senza frontiere. In questi tempi inquieti la solidarietà internazionale arriva solo fino a un certo punto. C’è un bel capitale politico da guadagnare sfruttando l’istintiva ostilità verso gli immigrati, e mentre i più grandi atleti del mondo e i loro fan sbarcano sul suolo britannico, già si stanno facendo i preparativi per essere sicuri che tutti vadano via. Dieci anni fa, quando Manchester ospitò le Olimpiadi del Commonwealth, il giorno del ritorno a casa quasi nessuno della squadra di atletica della Sierra Leone si presentò all’aeroporto. Molti di quegli atleti, si spera, ormai vivono felici in Gran Bretagna. Ma stavolta il paese è più preparato. Le frontiere, come tutta la zona Est di Londra, sono a tenuta stagna. A nessun componente della “famiglia” olimpica – funzionari, atleti e accompagnatori compresi – sarà permesso di sposarsi mentre si trova in Gran Bretagna. Questo, presumibilmente, è stato deciso per impedire che vicende amorose legate alla concessione di un visto rovinino il divertimento ufficiale all’interno della barriera d’acciaio. Quale spirito internazionale celebriamo in questo modo? Le Olimpiadi non sono mai state solo una questione di sport. Non ho voglia di fare la solita polemica, anche se polemizzare sui giochi è forse lo sport in cui la Gran Bretagna vincerebbe la medaglia d’oro. In teoria una tregua simbolica ogni quattro anni per un po’ di sana competizione non violenta tra i Paesi è una buona idea. I giochi dovrebbero esaltare la fratellanza mondiale e il senso della comunità senza confini. La domanda è: quale comunità e quali confini? Il sistema di accrediti è rigidissimo. Gli atleti e gli spettatori saranno passati ai raggi x, perquisiti, ripresi e osservati dal giorno del loro arrivo a Heathrow al momento della partenza. Inoltre dovranno rispettare uno stretto codice di comportamento e di abbigliamento che, tra l’altro, vieta di indossare indumenti di marche che non siano gli sponsor ufficiali della manifestazione. Grossi bestioni armati saranno sempre presenti per rimuovere dagli stadi le eventuali magliette della Pepsi e i sacchetti di Burger King, insieme ai loro proprietari, se sarà necessario. Alle multinazionali che sponsorizzano i giochi, come McDonald’s e Lloyds, è stata promessa una “città pulita”, questo significa che avranno il monopolio estetico dell’Olympic Park e dell’area circostante. Anche gli slogan politici sono vietati – comprese le magliette con Che Guevara – e a chiunque sia trovato in possesso di un cartone, di una bomboletta spray o di qualsiasi cosa utile per costruire un cartello sarà rifiutato l’accesso. Al di là dei posti di controllo e della barriera d’acciaio protetta da missili e piena di agenti di sicurezza privati, il parco sarà una zona totalmente apolitica. Questa, ovviamente, è una delle più sonore e costose dichiarazioni politiche mai fatte. L’intera faccenda sarà la rappresentazione più perfetta di quelli che sono i valori della comunità internazionale nel 2012. Molte persone si sono viste demolire le case per far posto alla celebrazione, finanziata per lo più con denaro pubblico, dell’egemonia delle multinazionali in un’enorme fortezza scintillante dentro cui, ci dicono, ci si divertirà molto in modo pulito. Gli spettatori saranno incanalati attraverso un enorme centro commerciale costruito per l’occasione, incoraggiati a visitare il più grande McDonald’s del mondo, e tutte le loro spese saranno controllate. E naturalmente ci saranno gli immigrati sfruttati che faranno il lavoro sporco. Questa settimana abbiamo saputo che il personale delle pulizie proveniente da vari paesi è stato sistemato in alloggi provvisori, dove ognuno pagherà 550 sterline al mese per il privilegio di dormire in un prefabbricato con altre nove persone. Se le Olimpiadi sono il microcosmo che rilette il macrocosmo della ricchezza mondiale, lo sono davvero fino all’ultimo perverso dettaglio. Questo è il grande segreto del capitalismo contemporaneo: anche se gli stati si vantano dell’impermeabilità delle loro frontiere e si scagliano contro l’immigrazione, le economie moderne non funzionano senza questo spostamento attraverso i confini di manodopera a basso costo, spesso illegale. Viviamo in un’epoca di ansia, e le Olimpiadi del 2012 sono diventate, forse involontariamente, la quintessenza di quest’età dell’ansia: armate, pattugliate da agenti della sicurezza privati che non devono render conto delle loro azioni, e diffidenti verso gli immigrati di cui hanno bisogno. Le terrificanti mascotte vestite da guardie di palazzo e agenti di polizia, che osservano il divertimento irreggimentato con sguardo impassibile, sono la scelta migliore per questa grande fiera della paranoia internazionale. 

venerdì 27 luglio 2012

Addio Cesare

E' morto nella notte tra mercoledì e ieri Cesare Scoccimarro. Era mio cugino, aveva 50 anni compiuti in autunno e da 18 anni conviveva con la SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica, conosciuta anche come Morbo di Goehrig, 14 dei quali costretto all'immobilità, a letto. Non ha mai smesso di lottare. Lo ha fatto tramite il blog che ha tenuto in questi anni e con altre iniziative a sostegno della sua battaglia per una vita dignitosa per quei malati gravi che, come lui, desiderano continuare a vivere, con l'assistenza amorevole e costante della moglie Stefania e dei genitori Mimmo e Virginia. Ai tempi della discussione sul testamento biologico Bruno Vespa lo volle presentare come una sorte di anti-Welby, banalizzandone il pensiero e strumentalizzandolo con la consueta malafede. Cesare a modo suo precisò la sua posizione pubblicando il testamento biologico che riporto qui di seguito. Mi sembra la cosa più giusta in questo momento. 


Da molti anni combatto per la vita, ma con un limite, quello della dignità. E fondamento della dignità, per me che da 10 anni sono completamente immobile, che posso muovere solo gli occhi, per me che vivo in simbiosi con una macchina che mi fa respirare e una che mi nutre ed idrata, dignità significa poter comunicare, esprimere i miei bisogni, i miei pensieri e le mie emozioni. Su questa logica poggia la mia decisione di redigere le mie Direttive Anticipate, che recitano: "Io sottoscritto Cesare Scoccimarro, sono affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica in stato avanzato e inguaribile. [...] Consapevole che la malattia potrà ulteriormente evolvere compromettendo anche la muscolatura oculare, DESIDERO, nel caso non potessi più in alcun modo comunicare con il mondo esterno ed esprimere pertanto le mie volontà che venga interrotta la ventilazione meccanica previa sadazione per evitare inutile sofferenza".
Sono, dunque, assolutamente favorevole alle Direttive Anticipate, purché vengano intese come uno strumento all'interno di un complesso sistema composto prima di tutto dall'informazione e consapevolezza (sulla propria malattia, sui rischi di un eventuale intervento chirurgico, su cosa significa, a fronte di un trauma o di una trombosi, essere in Stato Vegetativo Persistente, ecc).
L'ignoranza è sempre una pessima guida, e ritengo che, nel mare magnum del dibattito su Testamento Biologico, Eutanasia, Sospensione delle cure, ecc, purtroppo molte opinioni siano dettate da una profonda ignoranza sul tema. All'informazione va aggiunta l'importanza della reale alleanza terapeutica tra medico, e paziente; e non da ultimo ritengo fondamentale la condivisione (che non significa accettazione) di eventuali scelte con la propria famiglia.
Detto ciò, va forse meglio precisato ai cittadini Italiani che eventuali Direttive Anticipate vanno interpretate come un'opportunità, non come un'obbligo (al pari del Divorzio, per intenderci), e che, in ogni momento, esse possono essere modificate - purché coscientemente e consapevolmente - mentre rappresentano la volontà espressa dal pensiero lucido qualora la lucidità dovesse abbandonarci.
Addirittura proporrei che ciascuno potesse inserire le proprie Direttive Anticipate nella Carta Regionale dei Servizi, che conterrà i nostri dati, la nostra storia clinica e le nostre decisioni di fine vita.
O preferiamo che della nostra vita decida il primo medico di pronto soccorso, che neppure ci conosce? A questo proposito riporto i numerosissimi casi di pazienti SLA giunti in ospedale in insufficienza respiratoria acuta che sono stati intubati contro la loro volontà o fatti morire quando avrebbero voluto essere intubati....
Ecco un altro tema interessante, Sacralità della vita e decisioni di fine vita, che vengono spesso assunte come dicotomiche, ma non lo sono affatto, come sostiene anche il pensiero cattolico.
Parlo di me: la Chiesa avrebbe accettato la mia morte come "naturale" se, quando non fossi stato più in grado di deglutire, avessi rifiutato la sonda; non sarebbe stata questa una Direttiva Anticipata che mi avrebbe portato alla morte obbligata?
Tuttavia è accettato ora che io venga nutrito da una sonda, e la mia vita è Sacra.
Ma se io decidessi di staccare questa benedetta sonda (senza la quale sarei morto 10 anni fa), perché ritengo inaccettabile continuare a vivere in queste condizioni, si urlerebbe all'Eutanasia! Ma insomma, se ho potuto decidere 10 anni fa, perché non posso farlo ora? Chi mi esautora? Allora la mia vita 10 anni fa non era così sacra....
Scusate le provocazioni, assolutamente volute, ma rifletto sul fatto che in materie così delicate e personali, non possiamo aspettarci che esistano il bianco e il nero, ma una infinità di toni di grigio. E ciascuno - e non un sacerdote, un giudice, un medico - sceglie il tono che gli è proprio, perché ciò che per me è accettabile può non esserlo per moltissimi altri uomini e viceversa.
E allora vorrei che non si trasformasse il Diritto di vivere con il Dovere di vivere, magari in condizioni di pura sopravvivenza tecnica, oppure in atroci sofferenze, ma che si guardasse all'uomo come espressione di libertà, scelta critica e autodeterminazione.
Ultima considerazione sulla conoscenza, la peggior nemica della sopra menzionata ignoranza, ma la miglior amica della ragionevolezza. Ripeterò finchè avrò energie, e per combattare ogni falsa opinione dogmatica o ideologica, la mia frase "storica": conoscere prima di giudicare, sempre e comunque.
E conoscere significa molto spesso dolore, fatica, sacrificio, ma credo sia l'unica via.

Mercoledì 1° settembre 2008

giovedì 26 luglio 2012

L'estate di Giacomo

"L'estate di Giacomo" di Alessandro Comodin. Con Giacomo Zulian, Stefania Comodin, Barbara Colombo. Italia, Francia, Belgio 2011 ★★★★
Seconda bellissima sorpresa (a stretto giro di post, verrebbe da dire) da parte del giovane autore friulano di scuola franco-belga Alessandro Comodin (ora cittadino transalpino), con questo film a cavallo tra il documentario e la fiction che racconta attraverso le immagini di un'escursione sulle rive del Tagliamento e i dialoghi con la sua coetanea Stefania un'estate cruciale per il diciottenne Giacomo, che segna non solo il passaggio dall'adolescenza alla maturità ma anche quella da sordo a udente, in seguito a un'operazione che viene lasciata soltanto intendere, preferendo far parlare, letteralmente, il personaggio, alle prese con i conseguenti, comprensibili problemi di espressione conseguenti al nuovo stato. La pellicola è allegra, densa di colori e vitalità, attenta alle sfumature, dalle quali si intuisce che quella tra i due ragazzi è una profonda amicizia che risale all'infanzia, fatta di complicità e affetto, in cui il lato intrinsecamente erotico è nelle cose, naturale, e si esprime negli imbarazzi e nelle timidezze di entrambi. E' Stafania e incoraggiarlo all'amore verso una ragazza, Barbara, nelle sue stesse condizioni di ex non udente dall'infanzia, ricordandogli che la felicità sta nelle piccole cose, come ad esempio quelle loro scampagnate sul fiume in piena libertà. Anche questo film, come "I giorni della vendemmia", potrebbe sembrare il solito racconto di formazione ma non lo è, così come non è un documentario sulla diversità e l'handicap; è la descrizione poetica di un attimo, che sarà cruciale per il protagonista: un attimo lungo un'estate e breve come questa pellicola di soli 78' in cui però c'è dentro tutto quel che c'è da dire, con le immagini e le parole. Viene spontaneo il richiamo a Truffaut e Rohmer ,sicuramente è un film anomalo nella produzione italiana, un grazie quindi alla sempre coraggiosa Tucker Film di Udine, che non perde un colpo nel distribuire autentiche chicche. Come questa che dopo aver vinto il Pardo d'Oro per  Cineasti del Presente a Locarno sta facendo il giro dei festival di mezzo mondo riscuotendo un meritato successo.

mercoledì 25 luglio 2012

I giorni della vendemmia

"I giorni della vendemmia" di Marco Righi. Con Marco D'Agostin, Lavinia Longhi, Gian Marco Tabani, Maurizio Tabani, Claudia Botti. ITA  2010 ★★
Ecco la dimostrazione di come il cinema italiano sia ancora capace di sfornare talenti, specialmente lontano dal circuito paratelevisivo romanesco e milanese (leggi RAI e Merdaset). Questo è un piccolo film prodotto con quattro soldi e una sola attrice professionista: la brava Lavinia Longhi che interpreta Emilia, una universitaria in visita ai nonni che va dare una mano ai vicini durante la vendemmia per raggranellare qualche quattrino da investire in un viaggio a Parigi e sconvolge la calma piatta dell'estate di Samuele, un adolescente che vive in un casolare della Bassa Reggiana insieme alla madre in pieno trip religioso e il padre comunista, che legge l'Unità di nascosto per non aver rotture di scatole dalla moglie: Samuele è interpretato dal giovane danzatore e coreografo Marco D'Agostin. All'apparenza un racconto di formazione, ma in realtà protagonisti non sono i due ragazzi e i meccanismi per cui nonostante la differenza di età e di ambiente di provenienza entrano in sintonia dando ognuno qualcosa all'altro, il tutto mostrato senza alcuna forzatura, con una naturalezza tale che si può avere l'impressione di assistere alla loro interazione e ai loro dialoghi con una candid camera, quanto la corposità, la lentezza che confina con l'immobilità che caratterizza l'Emilia profonda, il particolare modo di essere dei suoi abitanti, col cattocomunismo di cui sono imbevuti i più anziani ma che lascia tracce anche nei giovani che sembrano uscire dalle pagine dei romanzi di Piervittorio Tondelli; quell'aria e quei colori spessi accentuati dalla luce di una tarda estate torrida. E' la provincia reggiana protagonista del film, colta nel 1984, nei giorni della morte di Enrico Berlinguer, ed è stupefacente come il regista, nato proprio in quell'anno, riesca a renderla così perfettamente: vera prima ancora che credibile, e lo dico con cognizione di causa perché proprio in quegli anni frequentavo piuttosto assiduamente quelle parti. Mi chiedevo, alla fine del film, quale effetto potesse fare sui giovani di oggi, quanto potessero capire di quei tempi, ma il modo di raccontare, lieve e al contempo intenso di Righi, attraverso la parole dei personaggi a cui le riprese di panorami e oggetti fanno da contrappunto, credo possa coinvolgere chiunque e trasmettere l'atmosfera, quasi gli odori. Sicuramente capiscono i giovani emiliani, che quel mondo lo hanno nei geni, e come dimostra Marco Righi.

martedì 24 luglio 2012

L'economia reale e quella virtuale del contabile Mario Monti


A dispetto della tono monocorde e robotico della voce, Mario Monti si sta rivelando un propalatore di balle e venditore di fumo che il suo predecessore a Palazzo Chigi gli fa un baffo: in più ha un talento per la battuta strepitoso perché involontario, intrisa di uno spirito surreale a cui ha attinto nel suo lungo soggiorno meneghino, che gli garantisce un futuro nel caso in cui riuscissimo clamorosamente a liberarcene, invece di ritrovarcelo da qui ad libitum a capo di un governo di emergenza a tempo indeterminato o al Quirinale per un settennato o forse due, eventi che ci sta preparando la casta tutta intera, in un'unità d'intenti che non ha precedenti nella storia Repubblicana. L'ultima gag ieri, all'altezza del Peter Sellers che interpretava Chance in "Oltre il giardino", mentre era in visita, cappello in mano, al duo Putin-Medvedev, la coppia intercambiabile alla guida della cleptocrazia russa post sovietica. Davanti al crollo delle borse, del tasso di cambio dell'euro e al divaricarsi del differenziale di rendimento tra titoli di stato italiani e tedeschi, il Magnifico ha ammesso che "la situazione è difficile, e per uscirne bisogna puntare sull'economia reale". Come se ce ne fosse una virtuale. O forse si riferiva a quella non produttiva ma puramente speculativa, che però è l'unica di cui abbia conoscenza, avendo dedicato una vita alle banche d'affari, prima teorizzandole come docente e poi rettore della Bocconi, l'ateneo milanese che ha prodotto generazioni di commercialisti, raider finanziari, broker e manager che hanno trascinato il Paese allo stato in cui si trova, e poi offrendo i propri servigi alla più nefasta tra esse, la Goldman Sachs. Esperienza che ha condiviso con il governatore della BCE Mario Draghi, per cui erano e rimangono ampiamente prevedibili le "medicine" per contrastare la crisi, ossia i "compiti a casa", come usa chiamarli Angela Merkel usando una locuzione puerile e di una banalità sconcertante, immediatamente adottata dai media più compiacenti e lecchini di tutto il Continente. "In questo senso - dell'economia reale -  per l'Italia la Russia è un punto di ancoraggio di importanza strategica": così Mario Monti. Andiamo bene: sembra di riascoltare le sperticate dichiarazioni d'amore di Berlusconi all'amico Putin, campione di democrazia e socio d'affari "affidabile" quant'altri mai. Intanto EuroStat comunica che il debito pubblico italiano nel primo trimestre dell'anno si è attestato al 123,3% sul PIL, un record storico (quello precedente nel 1995, al 120,9%) secondo, nell'UE, soltanto alla Grecia (132,4, in lieve calo). Da notare che l'aumento del debito non è solo in rapporto al PIL che, con un Paese impantanato in una recessione senza precedenti dal Dopoguerra, è facilmente spiegabile, ma anche in termini assoluti. L'ultimo dato disponibile, fonte la Banca d'Italia, risale a soli 9 giorni fa: a fine maggio era a quota 1966,303 miliardi di euro, con un aumento di 17,061 milioni sul mese precedenti. Come mai? Questa è una domanda che nessuno si sogna di fare all'illustre tecnico nonché professore che dal novembre scorso governa l'Italia, con la missione di "salvarla". Tutta o quasi allineata e coperta a lodare questo mediocre contabile dalle battute paradossali e agghiaccianti, la pseudo-informazione italiana insieme a tutta la combriccola dei cosiddetti intellettuali, così come  nella difesa a oltranza del Capo dello Stato, anche quando si avventa contro il potere giudiziario. E siamo soltanto all'inizio: il peggio deve ancora venire.
Evoluzione storica del rapporto debito/PIL italiano dal 1969 al 2009. A fine marzo, 123,3% è stato superato il precedente record del 1995: 120,9%

domenica 22 luglio 2012

La leggenda del Paròn


E' una mostra emozionante quella che Trieste ha dedicato nel centenario della nascita (20 maggio 1912) a Nereo Rocco, uno dei suoi figli più conosciuti e amati, instancabile ambasciatore della sua città ovunque abbia lasciato il suo segno, prima come uomo e poi come allenatore. Treviso, Padova, Milano (sponda rossonera), Torino, ancora Milano e infine Firenze le tappe della sua gloriosa carriera in panchina, cominciata nell'Union a Trieste, dove iniziò come calciatore, mezzala di ottimo livello, per giocare anche con Napoli e Padova, vantando anche un'apparizione nella nazionale azzurra di Vittorio Pozzo bicampione del Mondo. "A Milàn son el comendator Rocco, ma a Trieste resto quel mona del bècher", diceva fingendo autcommiserazione, ma a Trieste aveva continuato ad abitare, in Rion del Re, a costo di passarci soltanto il lunedì, e a Trieste era tornato l'ultima volta per morire, il 20 febbraio del 1979: l'omaggio era doveroso ed è riuscito a meraviglia, proponendo un percorso multimediale e interattivo (grazie ai preziosi filmati d'epoca di RAI Teche), con cimeli, fotografie, pannelli che raccontano la vicenda di un uomo nato ancora sotto l'Impero Absburgico quando il cognome di famiglia, stirpe di macellai di origine viennese, faceva ancora Roch ("mi son de Cecco Beppe", ricordava spesso) e che è stato l'allenatore di calcio italiano più noto, discusso ma anche vincente, benvoluto da tutti. "Mister te sarà ti, muso de mona", diceva a quelli tra i suoi giocatori che lo chiamavano all'inglese: ora il termine è inflazionato, così come sono invalsi altri neologismi insopportabilmente stupidi e vuoti macinati senza sosta dal tritacarne mediatico che ha trasformato il calcio in una sorta di variante del Pensiero Unico (come scrive oggi in un bell'articolo sulla Stampa Massimo Raffaelli, purtroppo non rintracciabile sull'edizione on line) da quella "ultima rappresentazione sacra", come la definiva Pierpaolo Pasolini, che era ancora fino all'inizio dei famigerati anni Ottanta, che per sua fortuna Rocco si è risparmiato di dover affrontare. "Mi te digo cossa far, ma in campo te va ti"; "Tuto quel che se movi su l'erba, daghe. Se xe la bala, pasiensa": queste le direttive che, tra i serio e il faceto forniva, con sano buonsenso, ai suoi giocatori, con cui condivideva tutto e curando l'aspetto psicologico del "gruppo" come nessun altro prima di lui. Pure in questo era un precursore, anche se già negli anni Cinquanta, ai tempi del Padova, gli davano del "passatista". "Mi fazo catenaccio, loro xe prudenti", celiava. Era un maestro nel far rendere al meglio le sue squadre con quel che passava il convento: dopo il Padova il suo capolavoro fu il suo "secondo Milan", quello che tra il 1968 e il 1969 vinse scudetto, Coppe delle Coppe, Coppa dei Campioni (impartendo una memorabile lezione di gioco all'emergente Ajax di Cruijf, paladino del "calcio totale") e Coppa Intercontinentale inserendo giocatori dati per finiti come Cudicini, Malatrasi e Hamrin su un telaio solido senza rinunciare a dare spazio a giovani speranze come Pierino Prati: il "difensivista" Rocco, senza che i critici glie ne dessero atto, giocava costantemente con tre punte (c'era anche Sormani), orchestrate da una mezza punta com'era un genio del calcio quale Gianni Rivera, di cui il "Paròn" fu il padre putativo. "Scopo del zogo, ostrega, xe de meter el balòn dentro la porta", ribatteva Rocco ai soloni che discettavano di schemi e teorie astruse già allora e gli davano dell'antiquato. E vinceva. Così come, seguendo sotto ogni aspetto il suo insegnamento, il suo allievo Enzo Bearzot vinse il più entusiasmante dei quattro Mondiali conquistati dalla nazionale italiana, quello del 1982 in Spagna. "Ma no i ga altri mone de darghe premi, 'sti italiani?", esclamò quando venne nominato cavaliere del lavoro per meriti sportivi già nel 1958: chissà cosa avrebbe pensato di un altro cavaliere che avrebbe involgarito in maniera quasi irrimediabile lo "Stile-Milan" liquidando, come prima mossa da presidente, proprio quel Gianni Rivera che di Rocco era il pupillo e della società era rimasto una bandiera anche nei tempi bui in cui rischiò il fallimento. Era un uomo saggio, Nereo Rocco, e il suo calcio era sano, così come sostanzialmente lo era, nonostante le crisi ricorrenti, il Paese dei suoi tempi, che ho avuto la fortuna, in parte, di aver vissuto. A cui voleva bene, oltre a rispettarlo, chiunque amasse il calcio. E che è rimasto nel ricordi di tutti, avversari compresi. Se passate a NordEst, non mancate di andare a visitare questa bella mostra, che chiuderà i battenti il 31 prossimo. 

mercoledì 18 luglio 2012

lunedì 16 luglio 2012

Quel che è lesivo e quel che è nocivo: il vero spread che fa la differenza

Buco nero
Per l'informazione cloroformizzata di questo tragicomico Paese  rischia di passare per notizia la decisione del capo dello Stato Giorgio Napolitano di sollevare il conflitto di  attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale in merito alla mancata distruzione delle intercettazioni delle sue telefonate con Mancino a proposito della "presunta" trattativa tra Stato e Mafia negli anni Novanta. In sostanza la più alta carica dello Stato va all'attacco della procura di Palermo, che già aveva risposto per bocca del procuratore capo Francesco Messineo e del sostituto Antonio Ingroia alle strampalate obiezioni del ventriloquio e  autentico consigliere politico e giuridico di Napolitano, Eugenio Scalfari. Un altro ex fascista come Napolitano, che al momento opportuno ha operato un provvidenziale salto della quaglia, e che si vanta di una "laurea di guerra" presa nel 1946 con 110 e lode in giurisprudenza, quando la legge fondamentale dello Stato era ancora lo Statuto Albertino, promulgato un secolo prima. Una scelta scontata da parte dell'inquilino del Quirinale, tipico esempio di italiano forte con i deboli e debole con i forti, che segue alla lettera i consigli di quell'altro egolatra, il "fondatore" di quel centro di interessi e di potere che è il Gruppo Repubblica/L'Espresso. Considerando che un terzo dei giudici della Consulta è di nomina presidenziale, un altro terzo parlamentare e solo un altro terzo eletto dalla magistratura, non ho molti dubbi che i giudici costituzionali riusciranno a escogitare qualche cavillo per dare soddisfazione al ricorrente. Che a mio parere, per come ha operato nei finora 6 anni di presidenza, dalle controfirme alle leggi berlusconiane al sostanziale golpe che ha portato alla nomina del Governo Monti nel novembre dell'anno scorso, andrebbe processato per attentato alla Costituzione. Eppure nessun politico, intellettuale o organo di stampa, nemmeno il "Fatto Quotidiano", ne ha mai chiesto le dimissioni: nel 1978 Giovanni Leone vi fu costretto per molto meno. Una "non notizia", insomma, che rischia di oscurare quella dell'ennesimo superamento di ogni record da parte del debito pubblico italiano che, secondo le rilevazioni  della Banca d'Italia, ha raggiunto a fine maggio i 1966,3 miliardi di euro, con un aumento di 17 miliardi sul mese precedente, mentre al contempo le entrate tributarie (leggi tasse) sono aumentate di 1,4 miliardi, con un incremento del 4,6% sul mese precedente, +1,1% nei primi 5 mesi dell'anno rispetto al 2011. Tutto questo con il PIL in calo ben oltre le ottimistiche previsioni previsioni dell'1,9% nel 2012 da parte del governo, già riviste dal FMI. Eppure solo quattro giorni fa il neo ministro dell'Economia Vittorio Grilli, che ha da poco rilevato l'interim dal suo collega bocconiano Mario Monti, in una torrenziale quanto inconcludente intervista al direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, aveva incautamente affermato: "I mercati non riconoscono ancora la bontà degli sforzi compiuti dal nostro Paese per mettere in ordine i conti, il pareggio di bilancio è a portata di mano, le riforme strutturali sono avviate. Nessun altro Paese ha fatto tanto, in così poco tempo".  Di oggi le rilevazioni della Banca d'Italia, e il differenziale tra Bund tedesco e BTP italiano, il famigerato spread, che ha di nuovo sfiorato quota 500. Questi i mirabolanti risultati dei primi otto mesi del Governo Monti, voluto a costo di sfasciare il dettato costituzionale dall'attuale Capo dello Stato e, tra gli altri, dal suo consigliori Eugenio Barbagianni Scalfari. Tutt'altra musica nella vicina Francia, a due mesi dall'insediamento alla presidenza di François Hollande al posto di Nicolas Sarkozy. Ecco quanto scrive il bene informato e fonte affidabile Alberto Pugnetti, che per la metà del suo tempo vive in Francia: "Ecco cosa ha fatto Hollande (non parole, fatti) in 56 giorni di governo: ha abolito il 100% delle auto blu e le ha messe all’asta; il ricavato va al fondo welfare da distribuire alle regioni con il più alto numero di centri urbani con periferie dissestate. Ha fatto inviare un documento (dodici righe) a tutti gli enti statali dipendenti dall’amministrazione centrale in cui comunicava l’abolizione delle 'vetture aziendali' sfidando e insultando provocatoriamente gli alti funzionari, con frasi del tipo 'un dirigente che guadagna 650.000 euro all’anno, se non può permettersi il lusso di acquistare una bella vettura con il proprio guadagno meritato, vuol dire che è troppo avaro, o è stupido, o è disonesto. La nazione non ha bisogno di nessuna di queste tre figure'. Touché. Via con le Peugeot e le Citroën. 345 milioni di euro risparmiati subito, spostati per creare (apertura il 15 agosto 2012) 175 istituti di ricerca scientifica avanzata ad alta tecnologia assumendo 2.560 giovani scienziati disoccupati 'per aumentare la competitività e la produttività della nazione'. Ha abolito il concetto di scudo fiscale (definito “socialmente immorale”) e ha emanato un urgente decreto presidenziale stabilendo un’aliquota del 75% di aumento nella tassazione per tutte le famiglie che, al netto, guadagnano più di 1 milione di euro all’anno. Con quei soldi (rispettando quindi il fiscal compact) senza intaccare il bilancio di un euro ha assunto 59.870 laureati disoccupati, di cui 6.900 dal 1 luglio del 2012, e poi altri 12.500 dal 1 settembre come insegnanti nella pubblica istruzione. Ha sottratto alla Chiesa sovvenzioni statali per il valore di 2,3 miliardi di euro che finanziavano licei privati esclusivi, e ha varato (con quei soldi) un piano per la costruzione di 4.500 asili nido e 3.700 scuole elementari avviando un piano di rilancio degli investimenti nelle infrastrutture nazionali. Ha istituito il “bonus cultura” presidenziale, un dispositivo che consente di pagare tasse zero a chiunque si costituisca come cooperativa e apra una libreria indipendente assumendo almeno due laureati disoccupati iscritti alla lista dei disoccupati oppure cassintegrati, in modo tale da far risparmiare soldi della spesa pubblica, dare un minimo contributo all’occupazione e rilanciare dei nuovi status sociale. Ha abolito tutti i sussidi governativi a riviste, rivistucole, fondazioni, e case editrici, sostituite da comitati di 'imprenditori statali' che finanziano aziende culturali sulla base di presentazione di piani business legati a strategie di mercato avanzate. Ha varato un provvedimento molto complesso nel quale si offre alle banche una scelta (non imposizione): chi offre crediti agevolati ad aziende che producono merci francesi riceve agevolazioni fiscali, chi offre strumenti finanziari paga una tassa supplementare: prendere o lasciare. Ha decurtato del 25% lo stipendio di tutti i funzionari governativi, del 32% di tutti i parlamentari, e del 40% di tutti gli alti dirigenti statali che guadagnano più di 800 mila euro all’anno. Con quella cifra (circa 4 miliardi di euro) ha istituito un fondo garanzia welfare che attribuisce a 'donne mamme singole' in condizioni finanziarie disagiate uno stipendio garantito mensile per la durata di cinque anni, finché il bambino non va alle scuole elementari, e per tre anni se il bambino è più grande. Il tutto senza toccare il pareggio di bilancio. Risultato: ma guarda un po’ SURPRISE!! Lo spread con i bund tedeschi è sceso, per magia. E’ arrivato a 101 (da noi viaggia intorno a 470). L’inflazione non è salita. La competitività e la produttività nazionale è aumentata nel mese di giugno per la prima volta da tre anni a questa parte. Hollande è un genio dell'economia?" No, ma è un socialista onesto che mantiene la parola data, mentre i nostri luminari sono degli degli inetti e pure in malafede. C'est la difference: tel chi lo spread!

venerdì 13 luglio 2012

ACAB

"ACAB - All Cops Are Bastards" di Stefano Sollima. Con Pierfarcesco Favino, Domenico Diele, Marco Giallini, Filippo Nigro, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo. Italia, 2011 ★★★★
Molto incoraggiante il debutto sul grande schermo di Stefano Sollima, che per SKY aveva girato in due parti la versione televisiva di Romanzo Criminale, che a sua volta aveva reso ancora meglio la già ottima versione cinematografica di Michele Placido. Incentrato su un manipolo di celerini in servizio presso il Reparto Mobile della PS di Roma, e basato sull'omonimo libro-indagine di Carlo Bonini che ne indaga dall'interno le dinamiche malate, ACAB è ben più di un film "di genere", anche se descrive in modo estremamente efficace la mentalità distorta di questi veri e propri guerrieri, mal pagati, peggio ancora addestrati e istruiti (60 anni di storia di un "repubblica nata dalla Resistenza" non hanno impedito che continuasse a regnarvi quasi incontrastata una mentalità profondamente fascista), mandati allo sbaraglio nelle strade, tra ultras calcistici scatenati, periferie degradate, sfratti da eseguire, sgomberi di campi nomadi e proteste operaie, che sono uniti da un vincolo di "fratellanza" che si traduce in omertà, sostanzialmente tollerata da chi dirige le forze dell'ordine, e che li incoraggia a farsi giustizia da soli. Per essere degli autentici guerrieri, bisogna anche avere una predisposizione innata alla violenza, che spesso trova nella realtà quotidiana, personale e famigliare degli stessi agenti, il carburante necessario per moltiplicarsi e non trovare più limiti, come nel caso del G8 di Genova del 2001, citato un paio di volte a metà e sul finire della pellicola in situazioni quanto mai adeguate. E proprio sulle vicende della Diaz questo film dice, indirettamente e in maniera assai più convincente, molto più dell'omonimo film di Vicari, che pure avevo trovato positvo. Film notturno, cupo, pervasivo, girato con grande sicurezza e interpretato benissimo (Marco Giallini su tutti), ACAB non si limita a descrivere il mondo chiuso delle "guardie", ma lo inserisce in un concreto scenario di precarietà e disagio, nella fattispecie le periferie romane da cui gli stessi celerini provengono, lasciate a sé stesse da un potere politico incapace, menefreghista e corrotto, di cui questi pretoriani del nulla, ossia di uno Stato assente, sono gli unici rappresentanti fisicamente presenti.

giovedì 12 luglio 2012

Happy Birthday Rolling Stones

Era la sera del 12 luglio del 1962 quando il nucleo base delle Greatest Rock'n Roll Band in the World, composto da Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones, esordì allo storico Marquee Club di Oxford Street a Londra, salendo sul palco per sostituire la Blues Incorporated di Alexis Korner, impegnata a registrare, su raccomandazione di quest'ultimo, il padre del blues britannico. 50 anni fa. Completavano la formazione Ian Stewart, che sarebbe sempre stato il sesto rolling stone, anche se non incluso nella formazione ufficiale, Mick Ivory, il futuro batterista dei Kinsks e Dick Taylor, prossimo all'esordio con i Pretty Things al basso. La base ritmica, con Charlie Watts (che già suonava con Alexis Korner) e Bill Wyman si sarebbe aggiunta l'anno successivo: lo stesso Keith Richards preferisce post-datare di un anno la data di nascita del gruppo, con la prima line up ufficiale, ma tant'è: i ragazzacci cattivi sono in pista da allora e sembra che non vogliano smettere finché hanno birra in corpo e per l'anno prossimo è previsto un nuovo tour, non si sa ancora in che forma (magari soltanto teatri), che come tutti quelli che l'hanno preceduto dal 1970 in poi è già stato battezzato come l'ultimo. Non credeteci: piuttosto di ritirarsi moriranno sul palco. It's Only Rock and Roll but We Like It!

martedì 10 luglio 2012

Figuracce einaudite

Stavo leggendo con grande soddisfazione il bellissimo "Armi, acciaio e malattie - Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni" con cui il professor Jared Diamond vinse nel 1998 il "Premio Pulitzer" e con cui, rifuggendo da ogni pseudo spiegazione di tipo razzista, risponde alla domanda sul perché alcuni popoli sono più ricchi di altri e perché gli europei hanno conquistato buona parte del mondo, quando il libro mi si è letteralmente disfatto in mano. Ero arrivato appena a pagina 82. Su 400. E mi sono incazzato di brutto. Edizione Super ET Einaudi, da quando è passata in mani berlusconiane la fu gloriosa casa editrice torinese, di cui ho sempre apprezzato carta, impaginazione, caratteri di stampa, grafica, non ha fatto che scadere pur conservando un catalogo di alto livello. Tutto quello che passa nelle mani del teleimbonitore brianzolo si trasforma invariabilmente in merda: pitocco com'è nel suo animo gretto, risparmia sulla carta e sulla così come faceva sui materiali con cui ha iniziato la sua carriera da palazzinaro alla Edilnord e con cui ha poi fatto fortuna costruendo gli orridi condomini di cartongesso di Milano 2 e Milano 3 e sulle fatture che saldava regolarmente in ritardo e le collaborazioni che cercava fino all'ultimo di non pagare affatto, come del resto le tasse. E' così che si è fatto i dané, il ciarlatano. E va avanti a farseli. Dal malaugurato giorno in cui Berlusconi è diventato il primo editore italiano acquisendo, con l'imbroglio, la Mondadori, non ho più acquistato un libro edito da quest'ultima salvo "Fedeli a San Siro", e giusto perché l'hanno scritto due miei amici (del resto le sue edizioni economiche erano di qualità scadente anche prima di finire in mano al losco personaggio), per quelli Einaudi ho fatto qualche eccezione, tra cui quest'ultima lettura in corso. Sempre che riesca a finire un volume le cui pagine si staccano una per volta, manco si trattasse di un carciofo. Eppure ho scaffali colmi di tascabili dello "Struzzo", che trenta e anche quarant'anni dopo l'acquisto sono ancora perfetti: decine di saggi della PBE, tutto Fenoglio, Pavese, Calvino, Sciascia, Vargas LLosa, "Il maestro e Magherita" di Bulgakov, che ho letto già almeno quattro volte, una per decennio. Naturalmente una maîtresse à penser come Scalfari, così persuaso della propria bellezza e intelligenza da credere di essere dio, e quindi eterno (ed è per questo che propone un settennato bis al suo coetaneo Napolitano) e quell'altra onanista del pensiero e della prosa della Rossanda, si ostinano a pubblicare i propri memoriali con Einaudi, indifferenti a chi ne sia il proprietario e quindi coerenti con la loro scarsa credibilità. Quanto a Diamond, probabilmente non è al corrente di chi sia il suo editore italiano e comunque può farci poco. Ma mi viene la tentazione di spedirgli ilsuo  libro per fargli constatare lo squallido"packaging" e certamente cambierà idea.

lunedì 9 luglio 2012

Detachment

"Detachment" di Tony Kaye. Con Adrien Brody, James Caan, Lucy Liu, Marcia Gay Harden, Christina Hendricks, Bryan Cranston. USA 2011 ★★★★
Un film potente, intenso, doloroso, per nulla consolatorio e soprattutto sincero, una delle migliori pellicole della stagione. "Non mi sono mai sentito allo stesso tempo così distaccato da me stesso e così presente nella realtà": questa citazione di Albert Camus apre il film e la fa propria Henry Barthes, giovane insegnante di letteratura alle scuole superiori, supplente per scelta, lucidamente malinconico e sempre presente a sé stesso, e questo distacco emotivo, che è il contrario dell'indifferenza ma consiste in reale pietas umana, che gli consente di conquistare immediatamente il rispetto da parte di una scolaresca senza speranze, svogliata, persa, che trova in un istituto del New Jersey. Siamo nel 1985, in piena era reaganiana, quella che ci ha portato alla dritti alla situazione attuale, in cui anche l'istruzione doveva rispondere a criteri di "efficienza" e dare profitti agli investitori e sponsor, in buona parte immobiliaristi. Un'istruzione che badasse soltanto ai risultati che comportassero una spinta a nuove iscrizioni, indifferente sia alla qualità sia al futuro degli allievi, di cui i primi a fregarsene sono i genitori, totalmente disinteressati e assenti. Ugualmente disperati e demotivati sono gli insegnanti; non Henry, che è consapevole dell'epoca in cui stiamo vivendo, in cui il bombardamento mediatico di ciarpame e il trionfo di un "doppio linguaggio" che mistifica ogni cosa, di stampo orwelliano, travolge ogni senso ma può essere combattuto preservando uno spazio di verità e di coscienza in sé stessi, soprattutto attraverso lettura, che consente di rimanere legati a valori morali ed estetici autentici. La denuncia della situazione educativa americana (un cancro che si sarebbe presto esteso anche nel resto del mondo, come stiamo tristemente sperimentando anche in Italia ai nostri giorni) è soltanto una parte del film, incentrato sul personaggio di Henry Barthes splendidamente reso da un Adrien Brody superbo, almeno all'altezza dell'interpretazione che gli fruttò l'Oscar per "Il pianista" di Roman Polansky nel 2002, che recita a un doppio livello: oltre che come protagonista della vicenda, che si svolge durante alcune settimane della fine dell'anno scolastico, ma anche facendo considerazioni a posteriori sugli avvenimenti ripreso in magnifici primi piani che ne esaltano le qualità interpretative. Il suo personaggio non è visto solo nella sua dimensione scolastica: accudisce anche il nonno, ricoverato in una "casa di riposo" dove, come a scuola, regna l'indifferenza, uscito di senno dopo il suicidio della figlia, di cui si sente (a ragione) responsabile. Responsabilità di cui Henry è cosciente, ma non gli impedisce di assisterlo e di "assolverlo" dalla colpa, anche se questa lo ha reso orfano a nove anni. Questa "cognizione del dolore" lo porta anche a occuparsi una prostituta minorenne che ospita per un periodo a casa sua e avvia al recupero proprio attraverso un altro "distacco", distacco anche dall'infatuazione di una sua talentuosa e sensibile allieva, con animo di artista, derisa dai compagni per la sua obesità e denigrata dal padre, che ne causa il suicidio anche se Henry è l'unico a riconoscerne le qualità e la personalità. Un film che è anche un pugno nello stomaco ma che rimane dentro, girato con grande abilità e con soluzioni visive originali.

sabato 7 luglio 2012

Sunset Limited

"Sunset Limited" (The Sunset Limited) di Tommy Lee Jones. Con Samuel L. Jackson, Tommy Lee Jones. USA 2011 ★★★★
 Un sensazionale pezzo di bravura di due eccellenti attori, un vero e proprio duello dialettico tratto da un racconto del 2006 del Premio Pulitzer Corman McCarty e adattato per lo schermi dalla Pay-TV americana HBO. Una pièce che più teatrale non si potrebbe che vede fronteggiarsi il "bianco", un professore di università ateo, umanista e disilluso e il "nero", che lo ha salvato da un tentativo di suicidio nella stazione del metropolitana di New York, dove il primi stava per gettarsi sotto a un treno, un ex detenuto redento, che "ha visto la luce", e ha cambiato vita dedicandosi ai più derelitti tra il prossimo. La sua casa è sempre aperta a loro, e il serrato confronto verbale tra i due, senza esclusione di colpi, avviene lì, attorno a un tavolo dove campeggia una vecchia bibbia, dove il "nero", l'indimenticebile Jules Winnfield, il sicario-filosofo di Pulp Fiction di Quentin Tarantino, trova tutte le risposte che gli servono per vivere una vita che il "bianco", deluso come uomo di cultura da una quotidianità senza più i valori in cui ha creduto e per cui ha combattuto, non trova più degna di essere vissuta. Ognuno dei due ha buone ragioni per cercare di convincere l'altro e le utlilizza, ma l'incontro tra questi due opposti, che davanti a un piatto di zuppa sperimentano qualcosa di molto simile a un'amicizia in cui è permesso dirsi tutto, si chiude in una situazione di stallo, dove ognuno rimane sulle proprie posizioni perché, alla fine, niente è solo bianco o solo nero. Trasmesso da SKY, è un vero peccato che non sia uscito sul grande schermo.

mercoledì 4 luglio 2012

C'era una volta in Anatolia

"Cera una volta in Anatolia" (Bir zamanlar Anadolu'da) di Nuri Bilge Ceylan. Con Yilmaz Erdogan, Tanar Birsel, Ahmet Mümtaz Taylan, Muhammet Uzumer, Firat Tanis. Turchia 2011 ★★★★
Gran bel film, potente, recitato in maniera superba dagli interpreti e diretto con mano sicura, e cura dei particolari da un raffinato egista già premiato a Cannes nel 2008 per "Le tre scimmie" e che l'anno scorso ha ottenuto il Gran premio speciale della giura l'anno scorso per questo lavoro. Un noir anomalo, diviso in tre parti come un "tre atti" di Cecov, ognuna con un protagonista: un commissario di polizia, un procuratore e un medico, che viaggiano nella notte sulle strade dell'Anatolia per cercare il luogo in cui è stato sepolta la vittima di un delitto, insieme ai suoi due probabili assassini. Il buio con aiuta e il reo confesso (ma sarà lui il vero assassino?) non facilita il compito, dice di non ricordare, che era ubriaco. Il gruppo, che si muove su due macchine e una camionetta, finisce per cercare rifugio dal sindaco di un paesino svuotato dall'emigrazione, dove vengono rifocillati. Questa la prima parte del film, notturna; la seconda, diurna, comincia col ritrovamento del cadavere, su cui vigila un cane pastore già visto nella scena iniziale del film, quando la vittima e i suoi assassini stavano cenando e bevendo nell'officina del primo, incaprettato non per un particolare sfregio, ma per poterlo far stare nel bagagliaio della macchina. Il giallo in realtà non ha come oggetto l'indagine sull'omicidio, ma la personalità dei tre protagonisti principali, e questo attraverso dialoghi estremamente realistici e che sembrano casuali. Soprattutto emerge la storia del procuratore, e chi scopre qualcosa, dal suo racconto sulla morte di una donna bellissima che aveva previsto il giorno della sua mortem che sarebbe avvenuta poco dopo il parto, sarà il medico, che capisce che la donna in questione era la moglie del magistrato e che la sua morte non era stata misteriosa ma che si trattava di un omicidio. Un film affascinante, che richiede l'attenzione dello spettatore la quale alla fine è ampiamente ripagata. E un ritratto molto efficace di una certa Turchia di oggi.

lunedì 2 luglio 2012

Appunti balcanici: avvisi ai naviganti

Paesaggio dell'Epiro, tra Grecia e Albania
Ero rimasto pienamente soddisfatto delle due settimane trascorse nella Grecia continentale: le mie aspettative, che erano alte, sapendo quali luoghi carichi di storia e suggestioni vi avrei trovato, non sono state disattese, anzi. In Albania, però, di cui sapevo poco, sono state ampiamente superate. Provenivo dall'Epiro ellenico, in parte abitato da popolazione albanese e slava, come da greci è in parte abitata l'Albania meridionale, attorno a Sarandë, che è stata per due giorni la mia base nella zona. 
Corfù è vicina
Per entrare in Albania è sufficiente la carta d'identità valida per l'espatrio; se si viaggia su un mezzo proprio è necessario sottoscrivere, alla frontiera, un'assicurazione temporanea per la responsabilità civile: quella minima costa 30 € per 15 giorni (stessa trafila e stessi prezzi per il Kosovo). La moneta locale è il lek (138 per un euro, con cui peraltro si può pagare ovunque). Kosovo e Montenegro non possiedono più valuta locale e adottano l'euro. 
Costiera tra Sarandë e Durazzo
In Albania la prima sorpresa, parziale, è stata la gente. Attiva, generosa, sveglia, curiosa, intelligente, laboriosa. Aspetti che avevo apprezzato nei numerosi albanesi conosciuti in Italia e che mi avevano incoraggiato a conoscere di persona il loro Paese. Li ho trovati confermati, vedendoli all'opera nel loro "ambiente naturale".
Gli albanesi non sono dei conducenti provetti. Del resto le strade, pur in via di miglioramento, sono in parte in stato precario: la peggiore che abbia percorso è quella che si dirama in direzione di Berat all'altezza di Fier, sulla SH4 che dal confine greco porta a Durazzo, ma bisogna anche considerare che hanno conosciuto le prime automobili dopo la morte di Enver Hoxha nel 1985 e la successiva caduta del suo regime, durante il quale, quelle rarissime che circolavano, appartenevano ai "papaveri" del Partito comunista. Comunque sono meno indisciplinati e spericolati dei loro vicini greci e meno imbranati e interdetti di kosovari e montenegrini e, conoscendo gli "shqiptari", con ampi margini di miglioramento. Se venite da queste parti in auto o in moto (e si può fare), tenete gli occhi aperti. Un incubo, ovunque, sono gli attraversamenti dei centri abitati. Preparatevi.
"Lavazh"
La parola d'ordine del Paese potrebbe essere "Lavazh", che sta per autolavaggio (esterno e/o interno, prezzo medio per quello della sola carrozzeria 200 lek 1,50 €) effettuato accuratamente a mano da solerti operatori. Se ne trovano a ogni passo. Credo che il motivo sia dovuto per un 50% alla polverosità delle strade, per un altro 50% a una sorta di feticismo nei confronti dell'automobile, oggetto di desiderio negato durante un tunnel lungo 45 anni di "socialismo reale". Altra peculiarietà è l'abbondanza di distributori di carburante, che vale per tutta l'area balcanica, Grecia compresa, dove c'è anche una discreta concorrenza: ci sono anche più di 10 centesimi di differenza tra una pompa e l'altra (vado a gasolio e il prezzo medio era di 1,450 € al litro, poco meno in Serbia e Macedonia, 1,250 in Albania, Kosovo, Montenegro, Croazia e Slovenia) Niente self service:  al rifornimento di carburante provvedono benzinai professionisti capaci di stillare l'ultima goccia utile  per fare un "pieno raso"a regola d'arte.
Monumento a Skanderenbeg nel centro di Tirana
La seconda sorpresa, in Albania, è stata la sua capitale. Tirana è una città incredibilmente ordinata, pulita, piacevole per essere una capitale balcanica. Ci sono andato per due giorni consecutivi, facendo base a Durazzo, sulla costa, una piccola Bari più ordinata, però, a poco più di mezz'ora di bus (al costo di un euro). Ero incuriosito dalle sue case dipinte di tinte vivaci, o dotate di ornamenti geometrici colorati, su disposizione dell'ex sindaco socialista Edi Rama, soluzioni che rendono gradevoli perfino i tristi casermoni in stile sovietico. Non sono sgradevoli nemmeno le altre grandi città, a cominciare da Valona, un po' troppo moderna per i miei gusti, a Durazzo, antica città con trascorsi romani e veneziani, dove mi sono trovato benissimo, perfino Scutari, una delle più anctiche città europee, che risente ancora degli effetti del terremoto che la colpì nel 1978 e che dei grossi centri è il più povero. 
Porto Palermo
La costa tra Sarandë e Valona è incantevole: troverete di tutto. Il mare, all'incrocio tra Ionio e Adriatico, è stupendo e pulitissimo. L'offerta è sufficiente, se vogliamo un po' spartana ma infinitamente meglio dei termitai e della volgarità che si concentrano più a Nord, nel tratto di costa che appartiene al Montenegro. Evitatelo.
Mosaici all'anfiteatro romano di Durazzo
A proposito di Kosovo. Si raggiunge agevolmente da Durazzo/Tirana sull'autostrada che gli albanesi soprannominano "Sali Berisha" (fortemente voluta dall'attuale primo ministro, punto di riferimento per le "famiglie del Nord" quanto Fatos Nano, socialista, lo è per quelle del Sud), nel tratto kosovaro è intitolato a Ibrahim Rugova, il primo presidente di questo autentico "Stato di fatto" derivato dal disfacimento dell'ex Federazione Jugoslava,  dal riconoscimento non universalmente condiviso (nemmeno da me, per la cronaca). E' popolato in maggioranza da albanesi, salvo le enclave serbe che presidiano a mo' di fortino  anche gli splendidi monasteri ortodossi di Gracanica, Decani e del Patraircato di Pec/Peja la cui visita è stata il motivo della mia breve escursione. E' un'Albania triste, il Kosovo, più povera, dai connotati post-sovietici, con aspetti deprimenti, all'insegna dell'incompiuto, esemplificato dal gran numero di casa, la maggioranza, prive di intonaco. Ma non si tratta di una precarietà "creativa", come la si può osservare in Albania: no: tendente allo squallido., senza prospettiva. Aspetto che contagia anche la popolazione, tanto da farli sembrare più montenegrini che albanesi.

Patriarcato di Pec/Peja
Sono stati i militari italiani in presidio al monasteri di Decani a confermarmi che nei giorni precedenti, dalle partii di Mitrovica, a Est, verso il confine serbo, c'erano stati incidenti e che comunque difficilmente la polizia di frontiera lascia passare chi proviene dal vicino isliziane asdicentel Kosovo: meglio passare dal Montenegro, dalla Macedonia o dall'Albania, dove non avrei avuto rogne. 
L'interno presso Valona
Già, il Montenegro. Dando corda alla "linea scaramantica" in vista della finale degli Europei di calcio di ieri sera, invariabilmente vinta, con pieno merito, dalle "Furias Rojas", la mia intenzione originaria era di vederla dall'estero, come tutte le altre precedenti partite della Nazionale italiana di questo torneo, e fin qui aveva portato buono: ero dunque intenzionato a trascorrere qui le ultime due notti di questo tour balcanico. Entrato in questo sciagurato Paese dal confine con l'Albania nei pressi di Scutari, lungo una strada perfino più indecente di quelle albanesi più degradate, mi sono diretto, con le migliori intenzioni, verso Ulcinj, dove tra l'altro si trova una spiaggia lunga ben 12 chilometri, la più estesa dell'Adriatico orientale. Ne era di fatto impedito l'accesso da una sorta di "cordone di sicurezza" costituito da una pletora di stabilimenti balneari, sedicenti resort, albergi, griglierie maleodoranti e quant'altro. Non ci sono neanche arrivato, rifiutandomi di superare lo "sbarramento" e prendendo lestamente la via del Nord, lasciandomi al più presto le spalle questa sorta di Rimini balcanica. Bar e Budva già le conoscevo: località turistiche costruite con la competenza di palazzinari brianzoli, bazar turistici in mano alle mafie locali così come a quelle russe, montenegrine, albanesi e pugliesi, che hanno deturpato oscenamente una costa che sarebbe stupenda.  
Tramonto montenegrino tra Bar e Cattaro
Rotta su Cattaro, quindi: il cui centro e il fiordo vicino sono considerati dall'UNESCO patrimonio dell'umanità: non hanno fatto ancora in tempo a distruggerlo del tutto. Avevo rimosso l'ultimo mio passaggio qui: cinque anni orsono, quando ero fuggito inorridito dai prezzi sparati senza ritegno: in uno dei rari alberghi dentro le mura cittadine, mi sono stati chiesti 115 €  per una modesta camera singola per sabato 30, mentre già per la notte di domenica 1° luglio sarebbe scattata inderogabilmente la tariffa di alta stagione, 145 €. Un albergo equivalente a un nostro "Tre Stelle", mica lo Hilton. In nessun luogo di Grecia, avevo mai speso più di 30 € per l'equivalente, con tutti i comfort, in camere private o in albergo, anche meno in Albania, 40 € però in Kosovo, a Pec/Peja. E così ho tolto il disturbo al più presto anche questa volta. bendisposto come sono per indole verso gli "esterni", avevo rimosso anche quanto i montenegrini siano in buona parte indisponenti, anche a prescindere della viabilità. Ultimo esempio, la scenata isterica di due agenti della polizia di confine che avevano pensato bene di piazzarsi nel gabbiotto sul lato-passeggero, rendendo alquanto difficoltoso lo scambio dei documenti che gli sporgevo. Sono stato ben lieto di lasciare questo Paese discompiacente, di cui consiglio soltanto l'interno e il Parco Nazionale del Durmitor, dopo aver speso in tutto soltanto i 70 centesimi di euro per un breve parcheggio a Cattaro, e ho optato per un rientro notturno a casa lungo la costiera croata con vista sulle mie amate isole della Dalmazia che, in realtà, con i Balani c'entrano poco.
Berat, ponte pedonale
Le indicazioni stradali sono carenti e approssimative in tutta la regione, tanto da far rimpiangere l'assenza di un sistema di navigazione a bordo: colpiscono in particolare in Grecia, che è pur sempre un Paese dell'UE con una rete viaria generosamente finanziata dalla stessa, così come è demenziale il traffico nelle città anche più piccole. Seguono quelle montenegrine, in linea col resto del Paese (a Cattaro non viene indicata la strada internazionale, la E65, che porta in Croazia, a poco più di 20 chilometri di distanza, tantomeno evidenziato il simbolo della dogana, ma semplicemente la località di Herceg Novi, che non è nemmeno, propriamente, il posto di frontiera. In Albania ce la si cava meglio anche perché quasi tutti capiscono bene l'italiano e lo masticano, ma soprattutto la gente che si incontra è molto più disponibile e collaborativa.

domenica 1 luglio 2012

20.45: Spagna-Italia

Mario Balotelli
Coincidenza (?) vuole che abbia iniziato questo mio tour balcanico domenica 10 giugno, e mi trovassi in transito in Serbia, tra Belgrado e Nis, mentre la nazionale italiana giocava la sua partita d'esordio agli Europei di calcio, impattando 1-1 con la Spagna, che ritroverà di fronte, in una finale su cui pochi avrebbero scommesso (ma forse ci ha pensato Buffon), tra poche ore. Avrebbe meritato di vincerlo, l'incontro di tre settimane fa, dando una lezione di gioco frizzante agli onanisti del pallone di scuola catalana supportati da rinforzi madridisti, una squadra, quella spagnola, che pur essendo campione europeo e mondiale uscente, è seconda in quanto a sopravvalutazione, per come vedo il calcio io, soltanto al Brasile. Finora ho visto tutte le partite della nazionale nella competizione in viaggio, tra Grecia e Albania, Paese dove l'Italia è supportata come la squadra di casa, e scaramanzia avrebbe voluto che assistessi all'estero anche all'incontro di stasera, ma sono fiducioso e sono tornato in tempo per piazzarmi davanti alla televisione a casa, sperando che questa decisione non porti "pegola". Non rimane che mettere la birra in fresco, con l'augurio che gli azzurri ne abbiano di più degli spagnoli, e sarebbe anche ora di riconquistare un trofeo che l'Italia ha vinto una sola volta, 44 anni fa, a Roma. Ne erano passati altrettanti dal secondo Mondiale (Roma 1938) a quello vinto a Madrid l'11 luglio del 1982. Che sia di buon auspicio. Gridare Forza Italia mi è indigesto, ma Forza Azzurri e Forza Mario (il cui cognome è l'anagramma di Altobelli, per chi ha buona memoria) ci sta tutto!