martedì 5 giugno 2012

La guerra è dichiarata

"La guerra è dichiarata" (La guerre est declaré) di Valérie Donzelli. Con Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, Gabriel Elkaïm, Brigitte Sy, Elina Lowensohn. Francia, 2011 
Raramente mi è capitato di uscire da una sala cinematografica così indispettito come ieri sera, tentato di abbandonarla già a metà film: inguardabile, stupido, banale, "La guerra è dichiarata", accolto con peana a Cannes l'anno scorso dalla critica militonta, riesce a rendere irritante anche un tema serio come un tumore particolarmente aggressivo che colpisce un bambino di 18 mesi e i riflessi che i tentativi di curare il male hanno sui genitori. Il film affronta in maniera diaristica la disavventura capitata nella realtà alla regista e al suo ex compagno, che sono tali anche sullo schermo, con l'unica variante del nome: Romeo e Juliette (e cominciamo bene). Il messaggio vuol essere che bisogna crederci sempre, e infatti c'è lo happy end della guarigione in un caso difficilissimo con una prognosi di remissione del 10%, e che il dolore fortifica, anche se distrugge (la coppia nel frattempo è scoppiata ma i due, presi singolarmente, sono incommensurabilmente più forti, oh yeah, come da autodiagnosi), e mi compiaccio per come è finita nella realtà; ciò non toglie che il film sia improponibile. Meno di zero da un punto di vista cinematografico, sembra girato da un amatore con videocamera a mano, con inopportuni commenti fuori campo e una colonna sonora pietosa, con tanto di canzoncine melense in stile pop francese, che è tutto dire: un videoclip per decerebrati, da MTV; linguaggio per l'appunto televisivo usato a profusione; abbondanza di ralenti fuori luogo e scene alla ridolini patetiche: per il resto sembra un racconto puerile con la supervisione di un Ozpetek fuori forma e la sceneggiatura curata da Fabio Volo insieme a Federico Moccia. Il livello è questo. Non mancano degli aspetti morbosi: sicuramente questa coppia di gggiovani squinternati e immaturi nonostante l'età non più verde ha dei problemi e non sembra mai uscita dalla fase preadolescenziale (lei, "ragazza" che ormai veleggia verso i 40, si ostina a portare inguardabili calze bianche tipo infermiera). Tutto si spiegherebbe se anche coloro che interpretano i nonni del povero bambino sono gli originali, come si propongono nel film, perché in tal caso si ha la certezza che possono solo aver generato due deficienti: i genitori di Juliette sono dei borghesi da macchietta, la famiglia di Romeo è composta dalla madre femminista obesa e dalla sua compagna isterica: perfetti stereotipi sociologizzanti. In questa saga del luogocomunismo pseudo-progressista (non manca il carillon che suona l'Internazionale), l'impostura sta proprio nell'ammiccare con ampie dosi di mélo, però brillante e giovanilista, al cuore tenero del pubblico raccontando una storia tragicamente vera che ha colpito in prima persona i protagonisti che, come detto, recitano sé stessi, facendo trasparire un elemento documentaristico che ha la forma, e lo spessore, di un reality televisivo. Se la ragion d'essere profonda di questa robaccia era una seduta di autoterapia aperta al pubblico, sarebbe stato il caso di avvertire prima e non lo si chiami cinema. Vedendo questa boiata invereconda, ho rivalutato prontamente un film, sempre francese, come il recente "Tutti i nostri desideri", che a sua volta tratta di un tumore al cervello ma con ben altra qualità e misura: in confronto un capolavoro; così come lo era un altro film che mi è subito tornato in mente: quel "Love Story" che per un stagione nei primi anni Settanta ha rimbecillito l'intera generazione di mie coetanee.

2 commenti:

  1. Dì la verità: ti eri fatto influenzare dal cognome della regista sperando nella proprietà transitiva delle omonimie.
    il segretario

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  2. Me l'aspettavo. Confermi di essere un Grande, Segretario. Zidane!

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