lunedì 30 aprile 2012

Hunger

"Hunger" di Steve McQueen. Con Michael Fassbender, Liam Cunningham, Stuart Graham, Brian Milligan, Liam McMahon. Gram Bretagna, Irlanda 2008 ★★★★
Un film duro, intenso, bello, necessario: per ricordare la bestialità del governo britannico, tanto democratico in casa sua quanto repressivo in quella altrui, in primis di quella belva che fu Margaret Thatcher; e il sacrificio di Bobby Sands, che portò alle estreme conseguenze uno sciopero della fame a oltranza indetto il 1° marzo del 1981 dai detenuti per "terrorismo" nel carcere nordirlandese di Maze, a cui non veniva riconosciuto lo status di prigionieri politici. Alla sua morte, avvenuta dopo 66 giorni dall'inizio dello sciopero, ne seguì quella di altri 9 compagni di prigionia, dal maggio all'agosto dello stesso anno, nella totale sordità del governo Thatcher. Il film si divide in due parti: la prima descrive, prevalentemente per immagini e con scarsissimi dialoghi, i precedenti, ossia la "protesta della coperta", coi i detenuti che si rifiutavano di vestire l'uniforme della prigione coprendosi solo con una coperta, e la "protesta dello sporco", durante la quale vivevano nei propri escrementi; le angherie da parte delle guardie, la violenza del sistema, il fallimento di un primo sciopero della fame, interrotto dopo vaghi impegni mai mantenuti da parte del governo; e la seconda in cui, quasi senza parole, è mostrato il calvario di Sands, interpretato da uno strepitoso Michael Fassbender, fortemente calato di peso durante la lavorazione della pellicola e immedesimatosi nella parte in maniera stupefacente (del resto è d'origine irlandese). In mezzo il dialogo tra Bobby Sands e il sacerdote cattolico che fa chiamare per comunicargli la sua decisione, interpretato da un sontuoso Liam Cunningham: tutto quanto c'è da dire sul disporre del proprio corpo, ultima risorsa inalienabile rimasta per affermare i propri principi di libertà, e dunque sull'utilizzo del libero arbitrio, è in questo lungo, magistrale piano-sequenza che dura una ventina di minuti. Un film destinato a rimane scolpito nella memoria, di cui non si riesce a capire l'arrivo in Italia  ben quattro anni dopo la sua uscita in patria. 

sabato 28 aprile 2012

Cosa piove dal cielo? (Un cuento chino)

Cosa piove dal cielo? (Un cuento chino) di Sebastián Borensztein. Con Ricardo Darín, Huang Sheng Huang, Muriel Santa Ana, Iván Romanelli, Javier Pinto. Argentina, Spagna 2011 ★★★½  
So che è una battaglia persa, ma mi ostino a incazzarmi per l'abitudine di titolare all'italiana i film stranieri. In questo caso il semplice "Un racconto cinese" è diventata una domanda che richiama alla mente blockbuster hollywoodiani per decerebrati con protagonisti poppanti che perdono l'aereo. Comunque in questo film, che nella sua semplicità per decerebrati non è, le mucche capita che precipitino dal cielo (in maniera più verosimile di quanto si possa pensare) e cambino la vita di un 25 enne cinese che, colpito da una sciagura che ha ucciso la sua fidanzata, arriva in Argentina alla ricerca di uno zio e viene scaraventato da un taxi, su cui è stato derubato, ai piedi di Roberto De Cesare, un burbero e scontroso ferramenta affetto da misantropia che lo raccoglie, letteralmente, e lo accoglie in casa in attesa che l'ambasciata della Repubblica Popolare rintracci il parente che nel frattempo ha venduto il suo negozio di Buenos Aires per trasferirsi altrove. Il cinese non parla una parola di castigliano e la convivenza della "strana coppia" ha alcuni tratti esilaranti. La figura centrale rimane comunque Roberto, un uomo scontroso, rimasto orfano di madre dalla nascita, pieno di manie, tra cui la raccolta maniacale di oggetti assurdi da mettere in una vetrina che è una sorta di altarino alla madre mai conosciuta e di notizie inverosimili ritagliate dai giornali e archiviate scrupolosamente. Roberto si difende così dalle assurdità della vita e dai clienti imbecilli, evitando anche le avances dell'amica Maria, da sempre innamorata di lui. La scoperta che il ragazzo è a sua volta vittima di vicende assurde apre fa emergere del tutto un'umanità che Maria aveva sempre intuito: tra le assurdità, quella del padre, italiano emigrato in Argentina per sfuggire al fascismo e alla guerra che li ritrova entrambi nella nuova patria, fino a trovare la foto del figlio in guerra contro gli inglesi (Malvinas, 1982) sulla prima pagina dell'Unità che si fa mandare settimanalmente dall'Italia e morire di crepacuore. Curiosamente, una visione "camusiana", con la solidarietà tra individui che combatte e vince le assurdità dell'esistenza, appena dopo aver visto "Il primo uomo". Ricardo Darín è l'icona maschile del cinema argentino e dà corpo in maniera perfetta a tutti i personaggi, bravi anche il cinese a gli altri interpreti, atmosfera tipicamente porteña, tra Palermo Viejo, la Chacarita e l'Aeroparque Newbery e dintorni per chi conosce la Capital Federal, una pellicola semplice, serena, con tratti surrealistici, anche questi abbastanza porteñi, una piccola favola istruttiva e non banale. Aria fresca.

venerdì 27 aprile 2012

Il primo uomo

"Il primo uomo" (Le premier homme) di Gianni Amelio. Con Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès, Nino Jouglet e altri. Italia, Francia, Algeria 2001 ★★★★+
Nessuno meglio di Gianni Amelio avrebbe potuto rendere in immagini il libro postumo di Albert Camus, a cui il grande scrittore, saggista e filosofo francese, uno di più importanti, e indipendenti, intellettuali del secolo passato, stava lavorando al momento della prematura morte, nel 1960, a soli 47 anni. Un romanzo fortemente autobiografico che racconta del ritorno nella natìa Algeria di Jacquest Colmery, alter ego di Camus, alla vigilia della guerra d'indipendenza, dalla Francia, dove è al culmine del successo, per cercare di convincere gli studenti che lo avevano invitato a tenere delle conferenze che una convivenza, tra arabi e francesi, non solo è possibile, ma auspicabile. Invano, come dimostreranno gli eventi storici. Ma non si tratta soltanto di questo, perché il viaggio in Algeria diventa anche l'occasione della riappropriazione delle proprie radici, rivisitando i luoghi e le persone della propria infanzia, dalla nonna dittatoriale alla madre rimasta vedova allo zio minorato ma affettuoso, fondamentale per il suo equilibrio;  dal maestro che gli ha consentito di proseguire gli studi ai vicini e compagni di scuola arabi, il tutto alla ricerca di ricordi della figura del padre, morto sulla Marna nel 1914, appena iniziata la Grande Guerra, che lo lasciò orfano a pochi mesi. Perché in ogni bambino si trovano i germogli dell'uomo che sarà. Ed è sempre un unico, quindi un "primo" uomo, nella visione di Camus, che sempre ha parlato dell'uomo e della sua rivolta contro l'assurdità della vita, più che dell'umanità in generale, e della solidarietà tra individui come modo per darle un senso. Colmery la praticherà, spendendo tutta la sua influenza per far liberare il figlio di un suo vecchio compagno di scuola arabo, che pure non accettò mai la sua amicizia, figlio diventato membro del FLN e condannato a morte, ma invano: come invano cercherà di convincere sua madre a seguirlo in Francia ora che la situazione in Algeria si sta facendo più pericolosa, ma la anziana donna gli risponde che "la Francia è bella, però non ci sono gli arabi", e quindi resterà dov'è nata e sempre vissuta e lui non insisterà: la capisce. Perché l'Algeria è anche il suo Paese, col suo sole, il suo mare, i suoi colori e odori e la sua gente. Che Amelio, calabrese e con un'infanzia per certi aspetti simile a quella del protagonista, rende come meglio non si potrebbe, assieme all'ambientazione d'epoca, non dissimile da quella dell'Italia meridionale di 60 anni fa. Un gran bel film, con bravissimi attori, da non perdere. 

mercoledì 25 aprile 2012

Abril em Portugal

Fu la trasmissione, durante il programma notturno di "Radio Renascença" poco dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974 di "Grândola vila morena", canzone scritta da José "Zeca" Afonso, allora proibita nel modo più assoluto, il segnale del via alla Rivoluzione dei garofani  che abbattè il più vecchio regime fascista europeo, instaurato nel 1933 da António de Oliveira Salazar. Un giorno e un'emozione indimenticabili per chi ha vissuto quegli intensi anni Settanta. 38 anni dopo, il suo protagonista più popolare, e stratega della rivolta, il colonnello Otelo Saraiva de Carvalho, per me un personaggio mitico, a quei tempi, è di nuovo sul piede di guerra, non escludendo un intervento dell'esercito di fronte alla perdita di sovranità in atto su pressioni dell'Europa e in particolare della Germania della cancelliera Angela Merkel. Tempi cupi: ma almeno il Portogallo ha un esercito serio, che non è il caso dell'Italia, e su cui è impossibile contare in caso di necessità. Questa la versione in italiano del testo della canzone: 



GRÂNDOLA CITTA' DEI MORI

Grândola, città dei Mori
terra di fratellanza
è il popolo che più comanda
dentro di te, o città.
Dentro di te, o città
è il popolo che più comanda
terra di fratellanza,
Grândola città dei Mori.

A ogni angolo un amico,
su ogni volto l'uguaglianza
Grândola città dei Mori
terra di fratellanza
terra di fratellanza,
Grândola città dei Mori
su ogni volto l'uguaglianza,
è il popolo che più comanda.

Ed all'ombra d'una sughera
che non sa più quanti anni ha
giurai d'aver per compagna,
Grândola, la tua volontà.
Grândola, la tua volontà
giurai d'aver per compagna
all'ombra d'una sughera
che non sa più quanti anni ha.

giovedì 19 aprile 2012

Dalle parole ai fatti: perché non rifiutarsi di pagare l'IMU?


E’ tutto un allarmato coro sui pericoli dell’antipolitica, in questi giorni. Ha cominciato il Trio Lescano dell’inciucio che, compatto più che mai  nell’intento di difendere il finanziamento pubblico dei propri apparati mascherato da rimborso elettorale, afferma che una sua cancellazione sarebbe un “favore alle lobby”, come se quella politicante  di cui sono espressione non fosse la prima e più pericolosa, e come se in Parlamento non fossero da sempre più che rappresentate quelle di tutti gli ordini professionali di questo Paese corporativo, a cominciare da quella dei legulei, dei pennivendoli, dei commercialisti; Bersani in particolare, riferendosi al Movimento Cinque Stelle, avverte che se non si contrasta il “vento dell’antipolitica” questo spazzerà via tutti; rincarano la dose D’Alema e Vendola, uniti nell’invettiva: il primo definendo Beppe Grillo un incrocio tra il primo Bossi ed il Gabibbo, non prendendo in considerazione quanti italiani preferirebbero essere governati da un pupazzo tutto sommato umano che ha il polso della situazione piuttosto che da un banchiere robotico teleguidato dalla finanza internazionale, il secondo paventando l’apparizione di un demiurgo dotato di poteri salvifici per risolvere tutti i mali. In questo coro non poteva mancare il monito proveniente dal “colle più alto”, come con scontata perifrasi l’informazione lecchina definisce il presidente della Repubblica, il quale invita a fare le riforme, oggi, per estirpare il marcio ma senza demonizzare i partiti, che “non sono il regno del male, del calcolo particolaristico e della corruzione”.  Sarà, anche se a leggere le cronache di tutti i giorni sembra il contrario, e comunque la stragrande maggioranza degli italiani la pensa diversamente da Napolitano, che di un sistema partitocratrico putrefatto è l’esponente di livello più alto. Ciò che il custode assai a singhiozzo della Costituzione dimentica è che questa, all’articolo 49, si limita a regolare la libertà (e non l’obbligo) di associazione dei cittadini in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per concorrere, per l’appunto, non per sequestrarla. Con metodi democratici, che dovrebbero valere anche per il loro funzionamento interno. In altre parole, la Carta tuttora in vigore non prevede che i partiti abbiano un’esclusiva sulla politica, ma solo che siano una delle componenti della vita pubblica. A maggior ragione sono fuori luogo leggi elettorali che contemplino premi di maggioranza o sbarramenti ad hoc. Siccome però da questo orecchio l’intera casta dedita alla politica politicante e alla devastazione dello Stato e dell’economia nazionale non ci sente, e che scendere in piazza non serve a niente, salvo a essere massacrati appena si comincia a diventare in troppi e pericolosi per il potere costituito, vedi Genova 2001, mi convinco sempre di più che l’unica soluzione è mettere politici e amministratori l’uno contro l’altro a massacrarsi tra loro, in una resa dei conti epocale, e per questo abbiamo in mano un’occasione d’oro e un’arma micidiale: l’IMU, una tassa di cui si sa tutto, tranne i parametri precisi e l’importo, su cui il governo "tecnico" sta facendo peraltro una figura grottesca. Sì, una rivolta, o sciopero fiscale. A differenza delle ritenute IRPEF, che vengono prelevate alla fonte, qui si tratta di andare a pagare di persona, in banca o in Posta. Basterebbe rifiutarsi, in massa, di farlo. La strada l’ha indicata proprio il capo degli zombie, Bersani, quando ha protestato contro la previsione della sua rateizzazione in tre scadenze diverse perché i Comuni rischierebbero di non pagare gli stipendi: una parte della tassa, infatti, è versata alle amministrazioni locali che hanno anche la possibilità di modificarne l’aliquota. Magnifico: essendo “quelli di  Roma” inarrivabili, planati come sono in un universo parallelo da cui non si smuovono, la prima istanza politica tangibile che ci troviamo davanti è quella locale, ossia il sindaco, la giunta comunale e i consiglieri che, a differenza dei parlamentari, abbiamo scelto ed eletto. Quando si trovassero con le casse completamente vuote, e non riuscissero più a fornire i servizi di base alla popolazione né a pagare gli stipendi, anche i più cauti, timorosi o rassegnati comincerebbero a incazzarsi sul serio e a reagire, e a quel punto saranno gli amministratori locali a chiedere il conto ai referenti nazionali delle loro azioni e omissioni, tanto sordi dinanzi a qualsiasi riforma vera (un esempio tra tanti: quella sul sistema radiotelevisivo o, per l’appunto, il finanziamento dei partiti) quanto solerti a introdurre in Costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio, secondo i voleri dei potentati euro-comunitari, tutti insieme appassionatamente con una maggioranza di oltre due terzi che scippa il referendum confermativo. Questa gentaglia va spazzata via, senza remissione e senza idugio, prima che faccia altri danni. Perché oltre a essere disonesta e incapace, potrebbe diventare perfino  pericolosa, quando cominciasse a sentirsi in pericolo. E prima che possa trovare la maniera di difendersi (tipicamente: inventandosi qualche altra situazione d’emergenza, magari con qualche bomba qua o là oppure un attentato clamoroso, tanto per metterla sull’ordine pubblico che va salvaguardato sopra ogni cosa) va colpita, e duramente, proprio dove fa più male: nel portafoglo. Non pagare l’IMU:  se lo si facesse in massa si toglierebbe l’ossigeno a questa classe politica oscena. Finirebbero per scannarsi tra di loro,  a livello locale e nazionale, e sparirebbero nel giro di pochi mesi. Potrebbe fare qualcosa Equitalia contro alcuni milioni di ribelli fiscali? Pignorarli tutti? In un clima di rivolta e con le gente sempre più esasperata? Non credo proprio. Un’utopia? Forse, ma sarebbe fattibile. Più facilmente di quel che si pensa. In fondo basta poco: un rifiuto. Sacrosanto.

martedì 17 aprile 2012

The Lady - L'amore per la libertà

"The Lady - L'amore per la libertà" (The Lady) di Luc Besson. Con Michelle Yeoh, David Thewlis, William Hope, Martin John King, Susan Woolridge, Sahajak Boonthanakit, Nay Myo Thant, Marian Yu, Guy Barwell. Francia, Gran Bretagna 2001 ★★
Ovvero: la storia di Aung San Suu Kyi adattata e filmata per "Vanity Fair". Un film patinato, ben girato senza dubbio, con un'ambientazione ricostruita in maniera eccellente (sicuramente le riprese non sono avvenute in Myanmar, di cui però il regista non ci fa mancare stucchevoli immagini da cartolina come la pianura di Bagan e il Lago Inle anche quando non sono per niente attinenti al racconto), a tratti emozionante ma che non convince.  Mentre in una visione melodrammatica ha un senso soffermarsi sulle vicende personali di Aung San Suu Kyi, che si intrecciano a quelle politiche in modo esemplare, è però la seconda dimensione che ne viene sminuita e non si fa un gran servizio alla causa. Non solo: la straordinara interpretazione di Michelle Yeoh, che rende in modo estremamente verosimile la ieratica figura della "Orchidea di ferro", al punto da confondersi con l'immagine che si ha di Aung San Suu Kyi in pelle e ossa, viene sminuita dal gigionismo eccessivo di David Thewlis nel ruolo del marito Michael Aris, che nella visione di Besson diventa di fatto la figura principale della pellicola. Una sovraesposizione che penalizza anche gli altri eccellenti interpreti del film. Peccato: con un taglio diverso, poteva essere un gran bel film.

lunedì 16 aprile 2012

The History Boys

The History Boys" di Alan Bennett. Traduzione di Salvatore Cabras e Maggie Rose, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Con Elio De Capitani, Ida Marinelli, Gabriele Calindri, Marco Cacciola, Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Angeli Di Genio, Loris Fabiani, Andrea Germani, Andrea Macchi, Alessandro Rugnone, Vincenzo Zampa. Luci di Nando Frigerio. Produzione Teatridithalia. Al Teatro Verdi di Padova
Da vecchio frequentatore degli "Elfi", mi fa ha fatto un certo effetto assistere a un loro spettacolo in trasferta, per di più in un delizioso teatro-bomboniera come il "Verdi" di Padova, ma non volevo assolutamente perdermi De Capitani&Co alle prese con la messa in scena di questa commedia di Alan Bennett che già aveva spopolato a Milano nella stagione passata e in quella in corso, registrando una serie di "Tutto esaurito" ad opera soprattutto di un pubblico giovane. Fenomeno che ha ricordato quanto accadde trent'anni fa con "Nemico di classe", altro testo inglese che tratta della scuola e del ruolo dell'educazione, prima regia di De Capitani, uno dei primi grandi successi dell'Elfo in un periodo in cui il teatro italiano era refrattario ai testi contemporanei (vi recitavano, tra gli altri, Paolo Rossi, Clausi Bisio e Antonio Catania). Protagonisti sono otto ragazzi diplomati in una scuola superiore di provincia che sostengono dei corsi preparatori all'ammissione alle università di Cambridge Oxford, tenuti dalla rigorosa insegnante di storia Lintott (Ida Marinelli) e dall'estroso, anarcoide, geniale, omossessuale e a tratti cialtronesco Hector (un De Capitani sontuoso), ma questo non basta al gretto ma megalomane preside della scuola (un perfetto Gabriele Calindri) che ingaggia un ulteriore insegnante, il giovane cinico e ambizioso Irwin (un bravissimo Marco Cacciola) per sgrezzare i ragazzi e renderne o stile più "giornalistico" e spendibile al "supermercato del sapere": un'ammissione con borsa di studio alle due più prestigiose università del darebbe lustro alla scuola di Sheffield (tipica città industriale dell'Inghilterra del Nord, da cui proviene Bennett). Non è solo il senso dell'istruzione al centro della pièce ma anche la funzione degli educatori e le loro relazioni con gli studenti, le loro contraddizioni: una sola scena, un'aula, otto sedie, gli armadietti dello spogliatoio e la scrivania del preside sono più che sufficienti per la rappresentazione del testo. A dare ritmo a uno spettacolo intenso, brioso, ironico, pieno di battute caustiche e precise, mai banali, ma anche di citazioni e riflessioni sempre puntuali e mai noiose, ci pensa una compagnia di giovani ben assortita guidata dagli "Elfi" più anziani in carriera, che ha riscosso i convinti applausi anche dal non più giovane pubblico padovano che ha gremito la platea e i palchi del "Verdi".

sabato 14 aprile 2012

Diaz - Non pulire questo sangue

“Diaz – Non pulire questo sangue” di Daniele Vicari. Con Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Davide Jacopini, Ralph Amoussou,  Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Antonio Gerardi, Alessandro Roja. Italia 2012 ★★★
Il film funziona, gli interpreti (tutti) anche, la ricostruzione dell'atmosfera che si respirava a Genova quel sabato 21 luglio 2001, e degli avvenimenti che precedettero l'assalto da parte della polizia alla scuola Diaz, no. Il film si basa sugli atti processuali e le sentenze, che portarono alla sbarra 29 poliziotti sui 300 che parteciparono al macello e vide la condanna di 27 di loro per reati in gran parte prescritti; 44 altre condanne ci furono per i successivi fatti svoltisi a Bolzaneto (parte dei feriti e arrestati dopo l'irruzione alla "Diaz" ricevettero un secondo e ancor più sadico trattamento alla caserma di Bolzaneto), ma la versione assomiglia sempre troppo a quella fornita dagli imputati che, non dimentichiamolo, furono le forze dell'ordine, se ha un senso chiamarle così. Il cielo non era terso, nel tardo pomeriggio di quel sabato sopra Genova, ma carico di fumi che si erano trasformati un nuvole nerastre, dopo che il corteo dei 300 mila, che pure decise di manifestare il giorno successivo agli incidenti che portarono alla morte di Carlo Giuliani, era stato attaccato dalla polizia, spezzato in due tronconi, il secondo dei quali brutalizzato sul lungomare di Corso Italia, verso Albaro, con l'uso anche di elicotteri che hanno continuato a volteggiare lugubri, fino all'imbrunire. Le retate dei feriti che si recavano a farsi curare nei pronto soccorso erano già cominciate, così come quelle di singoli e gruppetti che si aggiravano sperduti alla ricerca dei pullman con cui lasciare la città. Col cazzo che si girava così tranquillamente per le strade come dà a vedere il film: la sensazione di caccia all'uomo era nell'aria, palpabile. Avrebbe avuto il suo culmine alla "Diaz", dove si erano recati, indirizzati dagli organizzatori, a passare la notte coloro che non avevano trovato altro alloggio e non avevano già lasciato Genova. Ma queste premesse nel film non ci sono, e i presupposti della spedizione alla "Diaz" sembrano  ridursi a una singolar tenzone tra "Black Bloc" (quasi tutti stranieri, nel film, e che alla fine si rendono conto, o almeno uno di loro, di esserne stati la causa) e polizia. Il pugno nello stomaco è forte: le scene dell'irruzione nella scuola sono efficaci, e do atto al film di aver mostrato senza reticenze e alibi una violenza cruda e cieca, che non trova alcuna giustificazione. Nemmeno nella supposta presenza dei "Black Bloc": che viene usata da chi ha orchestrato l'operazione per "caricare", ossia drogare psicologicamente ancor di più gente che in buona parte violenta lo è già per vocazione. E scelta. Perché è una violenza che nasce nell'individuo e viene sistematicamente (e non episodicamente) usata dal sistema quando occorre (ricordiamoci che un presidente "democratico" come Obama ha firmato il National Defense Authorisation Act che prevede una sorta di legge marziale e che il suo Paese, faro della libertà, possiede centri di detenzione come Guantanamo, che definire abusivi è il minimo, per di più fuori dal suolo nazionale). In questo senso "Diaz" è un caso eclatante, ma lo è ancora di più Bolzaneto, alla caserma dove i feriti e i fermati giungono in stato di detenzione, e questo il film lo dice. Giustamente il regista non ha avuto intenzione di fare un documentario sul G8 ma un film su un episodio di violenza che vi è accaduto, per non dimenticare, e questo va a merito di Daniele Vicari e di Domenico Procacci che lo ha prodotto; le perplessità nascono da cosa riuscirà a capire un ventenne d'oggi o chi vedrà la pellicola tra dieci anni su cosa è successo a Genova nell'estate di undici anni fa e perché. Non credo che la carenza dei film stia nel fatto di "non aver fatto nomi", come sostiene Vittorio Agnoletto, che fu portavoce e organizzatore del Genova Social Forum, che a sua volta, proprio a Genova e dintorni di castronerie ne disse e ne fece quanto basta, ma per il resto sono d'accordo con lui.

venerdì 13 aprile 2012

Padova da evitare: parcheggio con rapina

Un consiglio a chi dovesse recarsi nel centro della ridente "Città del Santo": state alla larga dal parcheggio "Autoeuropa" di via Matteotti. Qualcosa come 10 euro per un'ora e 25 minuti di sosta, 85 minuti. Un furto legalizzato. In linea del resto con i prezzi che ho visto in Piazza Erbe: 9 euro per un chilo di cicorino moscio, giusto un esempio, per non parlare di quelli sparati dalle pseudotrattorie nei dintorni, che non inducono a soste più prolungate, a prescindere da una viabilità che sembra stata progettata da un mentecatto in preda a un trip di acido. Vero, sono un cretino io che non ho dato un'occhiata preventiva alle tariffe (peraltro consultabili soltanto alla cassa automatica), ma mai avrei immaginato una sberla di oltre 7 euro l'ora, e del resto in giro non c'era un buco libero nei dintorni, poco prima del mezzogiorno di ieri, nemmeno al parcheggio di piazza dell'Insurrezione, e mi toccava per forza andare nella zona pedonale. Neanche a Milano si praticano tariffe simili: si arriva a un massimo di 4 euro l'ora nei garage al coperto del "Quadrilatero della Moda". Poi si stupiscono perché i turisti stranieri scappano a gambe levate, e non solo da Pàoa...

mercoledì 11 aprile 2012

Karamazov


"KARAMAZOV", liberamente tratto da I Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Adattamento e regia César Brie, scene Giancarlo Gentilucci, costumi Mia Fabbri, luci Paolo Pollo Rodighiero, musiche originali Pablo Brie. Con César Brie, Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Vavassori, pupazzi bambini Tiziano Fario. Emilia Romagna Teatro Fondazione. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano

César Brie è una vecchia conoscenza della scena milanese: giunto in Italia con la Comuna Baires, di cui fu cofondatore insieme a Renzo Casali, Liliana Duca e Antonio Llopis, vi passò gli anni dell'esilio alla testa del Collettivo teatrale Tupac Amaru, attivo al Centro Sociale Isola per fondare poi, nel 1991 in Bolivia, il Teatro de los Andes, e di questa convincente e originale riduzione teatrale del corposo romanzo di Dostoevskii è regista e attore, nella parte del dissoluto padre Fëdor. Apparentemente impossibile condensare un romanzo così complesso, intenso e profondo, ma Brie ci è riuscito puntando all'essenziale, facendo raccontare ai personaggi la loro storia e facendoli  in uno spazio scenico unico, dove anche il  "dietro le quinte" fa parte della rappresentazione. Brie è riuscito a esaltare i lati paradossali e ridicoli delle figure del romanzo, e il racconto della vicenda è fluido e divertente nonostante gli eventi narrati siano tragici, in qualche modo ineluttabili. Di sottofondo sono i bambini, esemplificati dagli inquietanti pupazzi di Tiziano Fario, a essere protagonisti, perché, dice il regista, è nell'infanzia che si fondano le personalità e nascono i conflitti, come in questo caso, col padre. E dove colpiscono le suggestioni della religione. Entusiasta e valida la giovane compagnia che accompagna Brie, che dopo tanti anni trascorsi in Italia non ha perso nulla del suo caratteristico accento porteño, sala strapiena e lunghi applausi.  

martedì 10 aprile 2012

Rivalutare Lombroso

Questo è Antonio Mastrapasqua, presidente dell'INPS, conosciuto anche con il soprannome di "Collezionista di cariche": altre 24 ne ha messe assieme, presidenze societarie di varia ragione sociale, con relativi stipendi. Solo all'INPS risulta incassare 216.711 euro l'anno: fino a qualche tempo fa si parlava di un tetto di 294 mila euro l'anno per gli stipendi dei boiardi di Stato, provvedimento che avrebbe dovuto essere inserito nel cosiddetto "decreto semplificazioni", dopodiché non se n'è saputo più nulla. Questo personaggio, cui anche l'assenza della smorfia non gioverebbe a un aspetto poco rassicurante (e poi dicono che la fisiognomica sia un'impostura) , è comprensibilmente oberato dai suoi innumerevoli impegni se finora non ha mai trovato il tempo per quantificare il numero delle cosiddette "posizioni silenti", ossia quella ci chi ha versato contributi senza raggiungere i requisiti minimi per andare in pensione (almeno 20 anni di versamenti). Sono decine di migliaia, a cominciare da quelle di moltissimi lavoratori stranieri, che hanno regolarmente versato contributi all'ente e sono rientrati nei loro Paesi prima del raggiungimento dei 20 anni di contribuzione e non possono recuperare quanto versato in Italia in assenza di specifiche convenzioni: in ogni caso si tratta di un vero e proprio furto, ma i responsabili dell'INPS non fanno una piega nemmeno davanti alle richieste di dati da parte di parlamentari, così come non risolve la incresciosa situazione di questa vergognosa appropriazione indebita la recente riforma pensionistica del ministro Lafornero, che a sua volta non è ancora stata in grado di fornire le cifre dei poveracci letteralmente fottuti del repentino innalzamento dell'età pensionabile, e che vengono definiti con l'insultante termine di esodati,subito adottato dalla stampa luogocominista. Già, Lafornero: un'altra faccia su cui il dottor Cesare Lombroso avrebbe avuto di che sbizzarrirsi: da gente con ceffi del genere è bene guardarsi indossando mutande di ghisa: questo valeva per Berlusconi, Bossi e la loro corte di miracoli ma anche per questi sobri professori arroganti, lontana dalla realtà, in malafede e incapaci quanto oggettivamente criminali.

giovedì 5 aprile 2012

Foeura di ball!

Buttiglione, D'Alema e Bossi al tempo del "ribaltùn", anno 1995
Ricordate quelli che... "la Lega è una costola della sinistra"? Questo fu quanto ebbe a dire Massimo D'Alema, l'immutabile eminenza grigia del PD ex DS ex PDS ex PCI nell'ottobre  1995, dopo il "ribaltone" che portò alla caduta del primo governo Berlusconi e alla formazione di un altro governo tecnico appoggiato, come quello odierno, dal partito degli zombie, quello presieduto da Lamberto Dini: "La Lega c'entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c'è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra". E cosa fa l'attuale segretario dello stesso partito di morti viventi, Pierluigi Bersani, il giorno stesso delle dimissioni del suo equivalente padano Umberto Bossi (peraltro prontamente acclamato presidente del partito), travolto dallo scandalo che si è abbattuto sulla Lega Ladrona? Una amorevole e accorata missiva agli altri due segretari della attuale maggioranza, Alfano e Casini, in cui auspica di intervenire "in tempi brevissimi" con una legge per il "cambiamento delle normative sulla trasparenza e i controlli dei bilanci dei partiti" in relazione alle "risorse pubbliche attribuite ai partiiti". Risorse in realtà autoattribuite, dai partiti a sé stessi, sotto forma di "contributi per le spese elettorali", con una modifica della normativa che già regolava questi ultimi con legge n° 515 del 10 dicembre 1993 in seguito all'abrogazione del finanziamento pubblico ottenuta con il 90,3% dei voti favorevoli al referendum dell'aprile dello stesso anno. Di seguito altre norme che reintrodussero sostanzialmente e truffaldinamente il finanziamento pubblico ai partiti, tutte approvate dal Parlamento con maggioranze "bulgare", simili a quelle che videro trionfare i sì al referendum per la loro abolizione. Una domanda sola: cosa impedisce ai partiti di produrre bilanci pubblici, trasparentI e in ordine? Con quale faccia gente che non è evidentemente in grado di provvedervi per conto suo ma ha bisogno di prevedere per legge "l'obbligo di sottoporre i bilanci dei partiti alla verifica e alla certificazione da parte di società di revisione esterne e indipendenti; l'attribuzione del controllo alla Corte dei Conti; la pubblicazione dei bilanci sui siti internet dei partiti stessi e sul sito istituzionale della Camera dei Deputati" si candida a mettere a posto i conti dello Stato e a governare un Paese che si dibatte in una crisi, causata da loro stessi, che è sempre più tragicamente simile a quella che portò al fallimento dell'Argentina dieci anni fa? Lo fanno con la faccia che si ritrovano, a sua volta sempre più simile a un culo. Floscio e grinzoso.
Buenos Aires, gennaio 2002

mercoledì 4 aprile 2012

La resistibile ascesa di Arturo Ui


"La resistibile ascesa di Arturo Ui" di Bertolt Brecht. Traduzione di Mario Carpitella, musiche originali Hans-Dieter Hosalla.Con Umberto Orsini, Nicola Bortolotti, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Luca Micheletti, Michele Nani, Ivan Olivieri, Giorgio Sangati, Antonio Tintis. Regia di Claudio Longhi, dramaturg Luca Micheletti, scene di Antal Csaba, costumi di Gianluca Sbicca, luci di Paolo Pollo Rodighiero, altre musiche di Fryderyk Chopin, Hanns Eisler, Friedrich Hollaender, Rudolf Nelson, John Ph. Sousa, Mischa Spoliansky, Johann Strauss figlio, Kurt Weil. Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione/Teatro di Roma. Al Teatro Verdi di Pordenone.
Un bellissimo spettacolo, che ha soddisfatto tutte le mie aspettative: completo, attuale, colto e divertente al contempo, brioso, con tanto di musica: anche se questa mancava, quando Brecht scrisse il dramma, nel 1941 durante il suo esilio in Finlandia, e furono aggiunte quando il dramma fu rappresentato (postumo) per la prima volta, nel 1958, a cura di Hosalla, che riprese, a sua volta, delle canzoni di Brecht. Nella versione attuale, sono state aggiunte altre musiche proibite durante il nazismo, perché dell'ascesa di questo si tratta, in forma di parodia, raccontando la la resistibilissima ascesa di Arturo Ui, un gangster che si fa strada nel trust del commercio dei cavoli della Chicago degli anni Trenta, corrompendo e ricattando politici e rivali e usando, all'occorrenza, la violenza. Tutti i personaggi hanno i loro equivalenti  nella Germania della stessa epoca: Arturo Ui, interpretato da un bravissimo Umberto Orsini è Adolf Hitler; il suo sgherro Ernesto Roma è Ernst Röhm, Giuseppe Givola è Joseph Göbbels, Emanuele Giri è Hermann Göring, il corrotto politico Dogsborough è Hindenburg, e la farsa è accompagnata da scritte che indicano gli accadimenti di quegli anni, dalla "Notte dei lunghi coltelli" all'incendio del Reichstag, ci sono tutte le tappe della presa del potere da parte dei nazisti: insegnamenti sempre attuali, perché i meccanismi di corruzione, ricatto, violenza e  degenerazione del potere sono gli stessi di allora, ed è opportuno rimanere in guardia anche oggi.  La compagnia che accompagna il vecchio leone Orsini (magnifico quando impersona l'attore che tiene corsi di dizione e portamento a Ui/Hitler, recitando anche il discorso funebre di Antonio dal "Giulio Cesare" di Shakespeare e poi si trucca in scena trasformandosi nel gangster/dittatore) è giovane, entusiasta ed estremamente in gamba, ma due attori spiccano su tutti, anche per le doti canore: Lino Guanciale/Roma e Luca Micheletti/Givola. 

martedì 3 aprile 2012

Romanzo di una strage

“Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana. Con Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Michela Cescon, Laura Chiatti, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Giorgio Colangeli, Omero Antonutti, Giorgio Tirabassi e altri. Italia 2012 ★★★¾
E' un film importante, quello di Giordana, e necessario. Un ritorno a quel cinema civile di cui uno dei campioni fu Francesco Rosi, a cui l regista milanese si ispira, e che si spera non sia episodico nel panorama italiano, che pure abbonda di storie da sviscerare, trame oscure, vergogne che il potere in generale e la politica in particolare si rifiutano di affrontare e su cui la giustizia, come nel caso della strage di Piazza Fontana affrontata nella pellicola, non è in grado di fare chiarezza. Dopo 43 anni (titolo dell'e-book con cui Adriano Sofri contesta le tesi del saggio di Paolo Cucchiarelli a cui in parte Giordana si si ispira, non facendo a sua volta chiarezza) di sicuro rimangono una ferita aperta, i depistaggi, la giustizia denegata, i depistaggi e le devianze di intere parti dello Stato: questo dice il film, lasciando aperte alcune ipotesi su come si svolsero i fatti. Ma il nocciolo del film non consiste soltanto in una possibile ricostruzione dei fatti ma anche in quella di un'epoca cruciale per la storia del Paese, di cui ricrea l'atmosfera sia nei personaggi sia nell'ambientazione (precisa a parte alcune sbavature: clamorosa quella che fa viaggiare il commissario Calabresi verso Gorizia su una carrozza di terza classe, che le FFSS abolirono nel 1956, ma anche la manifestazione del 19 novembre 1969 in cui morì l'agente Annarumma, girata in Corso Monforte anziché in Via Larga, davanti al Teatro Lirico) che per chi come me viveva a Milano e quel 12 dicembre era a non più di 500 metri da Piazza Fontana ha riprodotto le stesse sensazioni di spaesamento, paura, tensione seguite alla strage. L'aria che tirava era quella, e la certezza che si stessero vivendo momenti cruciali. Ottimi tutti gli interpreti: Favino è un Pinelli  come era il "Pino", Michela Cescon magnifica nei panni della moglie Lidia, Mastandrea un Calabresi credibile, Antonutti un Saragat perfetto ma un monumento bisogna farlo a Fabrizio Gifuni per come ha impersonato Aldo Moro. Tutti bravissimi, anche se rimango convinto che Laura Chiatti, nella parte di Gemma Calabresi, sia più convincente come cantante che come attrice.

lunedì 2 aprile 2012

Myanmar, a piccoli passi fuori dal tunnel


La scorsa settimana, alla domanda su quanto il Myanmar fosse democratico in una scala da uno a dieci, Aung San Suu Kyi, trionfatrice delle elezioni parziali tenutesi ieri, rispose: "Siamo all'inizio del primo gradino". Il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (NLD), ha conquistato almeno 40 dei 44 seggi per cui si era presentata sui 45 in palio tra Camera bassa Camera alta e Camere regionali: i risultati definitivi si avranno nei prossimi giorni e il pronostico oscilla tra i 43 e l'en plein. Percentuali simili se non maggiori a quelle delle elezioni scippate del 1990, quando con il 60% dei voti totali ottenne l'80% dei seggi parlamentari, e puntualmente disattese dal regime militare che tormenta il Paese da 50 anni. Non cambia molto da un punto di vista pratico: anche conquistando tutti i seggi in palio la NLD avrebbe soltanto il 5% dei deputati in un parlamento dominato dai militari e dal partito che li spalleggia, l'Unione per la solidarietà e lo sviluppo, e i cui poteri sono alquanto limitati, ma l'affermazione del movimento guidato da Aung San Suu Kyi ha un'enorme significato simbolico, e non è escluso che il presidente ed ex generale Thein Sein offra alla NLD incarichi di governo, anche allo scopo di ottenere la revoca delle sanzioni economiche da parte soprattutto di USA e UE e alleggerire così l'isolamento del Paese. Le aperture avvenute nel corso dell'ultimo anno sono state sorprendenti, dalla liberazione di molti prigionieri politici alla legalizzazione della NLD, dall'allentamento della censura a una serie di accordi con gruppi armati delle minoranze etniche (quanto questo tema sia importante per il futuro del Paese lo spiega bene Léon de Riedmatten, mediatore svizzero per il Myanmar), fino alla progressiva riduzione delle restrizioni agli ingressi e alla mobilità dei visitatori stranieri (di cui io stesso ho usufruito di recente), ma non c'è da illudersi che il regime molli facilmente il potere. L'importante è che il movimento dei democratici birmani sia rientrato in gioco e possa magari sfruttare le incrinature che si manifestano in una giunta militare non più così monolitica come qualche tempo fa. Con la speranza che il saggio e squisito popolo birmano riesca a tenere a bada le smanie e le brame sia degli "esportatori di democrazia" occidentali sia dei turbocapitalisti-leninisti di Pechino.