sabato 31 marzo 2012

Il mio migliore incubo!

“Il mio migliore incubo!” (Mon pire cauchemar) di Anne Fontaine. Con Isabelle Huppert, Benoît Poelvoorde, André Dussollier, Virginie Efira. Francia, Belgio 2010 ★★
Il cinema francese non è propriamente la mia passione, e non è stata  corroborata dalla visione di questo film, ma la curiosità di vedere Isabelle Huppert in un ruolo brillante è stata più forte della mia diffidenza verso le commedie d'Oltralpe, inoltre la presenza di un altro mostro sacro come André Dussollier era una garanzia. In realtà Isabelle Huppert fa la caricatura di sé stessa, o almeno dei ruoli in cui dimostra al massimo la sua bravura: quella di una donna nevrotica, snob, distante, spocchiosa. Qui è un'insopportabile e saccente gallerista d'arte moderna parigina, madre anaffettiva di un adolescente e moglie frigida di un editore à la page, che per una serie di vicissitudini assai poco credibili diventa l'amante di Patrick, padre del miglior amico del figlio, un alcolizzato dai mille mestieri, volgare, fissato con il sesso, ignorante: una specie di buon selvaggio, il tutto mentre l'anziano e bistrattato marito si  innamora di una giovane new age. In sostanza la classica storia della signora borghese e dell'idraulico (Patrick lo è, all'occorrenza) con un tocco di lotta di classe però sexy, dove più che la storia funzionano gli interpreti dei tre personaggi principali (bravo anche Poelvoorde), e la cosa più spassosa è la presa per i fondelli dell'ambiente artistico e letterario. Si esce dal cinema con un sorriso, niente di più, per un film gradevole quanto innocuo e, tutto sommato, modesto.

venerdì 30 marzo 2012

Cesare deve morire


"Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani. Con Salvatore Striano, Cosimo Rega, Giovanni Arcuri, Antonio Fraschi, Juan Dário Bonetti, Vincenzo Gallo, Fabio Cavalli. Italia, 2012 ★★★½
Non ho mai amato particolarmente l'opera dei fratelli Taviani ma questa "docu-fiction" con cui hanno vinto l'Orso d'oro all'ultima Berlinale è davvero potente. Si tratta delle gestazione del Giulio Cesare di Shkespeare da parte della compagnia di detenuti allestita da Fabio Cavalli, referente artistico del progetto "Teatro in carcere" del carcere romano di Rebibbia, a cominciare dai provini, in cui gli aspiranti attori, tutti ospiti della sezione di massima sicurezza, sono invitati a declamare le proprie generalità in due situazioni diverse, all'assegnazione delle parti, da recitare nei loro dialetti d'origine, e alle prove, che spesso avvengono durante le ore d'aria, il tutto inframmezzato con momenti in cui i detenuti sono sé stessi, fuori dai loro personaggi e sono proprio quelli in cui cui affiora un'artificiosità tipica dei Taviani, e gli attori risultano meno credibili. Lo sono invece in modo estremamente efficace quando interpretano i personaggi della tragedia shakespeariana, che è fin troppo banale definire "attuale". I temi affrontati da Shekespeare sono universali perché riguardano l'essenza dell'uomo; nel caso particolare del "Giulio Cesare", che parla di tradimento e lealtà, ambizione, omicidio, vendetta e onore, si tratta di tematiche che un recluso non fatica a trovare familiari, con ciò rimangono stupefacente l'intensità, la naturalezza, l'espressività e l'adeguatezza ai rispettivi personaggi con cui tutti i protagonisti recitano la loro parte, con una serietà e bravura che a buona parte degli attori professionisti, specie cinematografici o televisivi, manca.

giovedì 29 marzo 2012

Miracolo all'Avana: resuscitato il Figliol Prodigo

L'AVANA/CUBA - San Padre Pio Castro, redivivo, in udienza da Sua Santità Benedetto XVI. Alla fine, il rivoluzionario comunista torna alla casa madre. Come volevasi dimostrare. Ma quando mai se n'era allontanato?

martedì 27 marzo 2012

Le caramelle del ministro Lafornero

                      Il ministro Elsa Lafornero (e ci ha pure da ridere)
“Siamo stati chiamati a far parte di un governo tecnico perché c’era una lavoro sgradevole da fare. Non perché c’erano da distribuire caramelle”. Così il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Lafornero. Più o meno la linea di difesa degli aguzzini dei campi di concentramento nazisti, dei militari golpisti cileni e argentini, dei poliziotti entrati alla scuola "Diaz"di Genova nel luglio 2001, degli esportatori di democrazia a stelle e strisce prima in Vietnam e in America Centrale, poi in Irak e in Afghanistan insieme ai loro vassalli membri della NATO, salvo piangere calde lacrime per la morte di qualche decina di militari in missione da quelle parti, "poveri giovani che facevano il loro dovere", che hanno scelto la divisa perché "tenevano famiglia" (e nel contempo alto l'onore della patria) e il "mercato del lavoro" questo e non altro offriva. La responsabilità è sempre di chi ha dato gli ordini, o conferito l'incarico. Quello di cui i liberaloidi da strapazzo che governano le sedicenti democrazie "avanzate" e le schiere di loro servi che gli fanno da megafono o da esecutori evitano di ricordare, è che la responsabilità delle scelte, di ogni decisione, è individuale. Se una persona non intende, come dice il ministro Lafornero, fare "il lavoro sporco", ha la libertà di dire no. Se lo accetta ne risponde alla sua coscienza. Se ne ha una. E si prende le responsabilità delle proprie azioni: almeno i delinquenti mettono in conto di finire in galera. Per essere chiaro e conseguente, questo vale anche per chi accetta di lavorare in una fabbrica di armi, o su una nave cisterna che scarica prodotti tossici in mare, o per i body guard palestrati, possibilmente glabri, quasi sempre tatuati, con auricolare e occhiali neri d'ordinanza che proteggono schiere di politici sputtanati o altri farabutti che non si azzarderebbero a circolare per strada senza scorta. Posso anche capire che lo fanno perché, sotto sostanziale ricatto, non possono o sanno fare altro, ma non chiedano la mia solidarietà e approvazione.

sabato 24 marzo 2012

E' ora di cambiare...


... e non soltanto cambiare l'ora: per chi non se lo ricordasse, domani scatta l'orario legale e alle due di notte le lancette degli orologi vanno portate avanti di un giro. E' da quando ho raggiunto l'età della ragione che sento parlare di crisi e di emergenza. Perfino a metà dei felici anni Sessanta: allora la chiamavano "congiuntura". Ossessivamente. Si viene bombardati, condizionati, impauriti. Per uscirne, l'invariabile ricetta è tirare la cinghia e produrre di più e meglio, di fatto lavorare di più, ma in meno: questo per tornare sulla strada maestra del progresso. Questo vale per chi ha un lavoro: nonostante le innovazioni tecnologiche tanto decantate gli viene chiesto di sgobbare di più; nel contempo sempre più persone rimangono disoccupate e senza retribuzione e, nel medio-lungo periodo, ridotte alla fame. Bel progresso. Ma la parola crisi presuppone che qualcosa, in un meccanismo che funzionava, si sia inceppato; così come emergenza significa una drastica e imprevista deviazione da una situazione di normalità. Ora, per esempio, siamo in piena recessione economica. Nel linguaggio dei tecnocrati, significa una diminuzione del PIL reale per due trimestri consecutivi. A nessuno di Lorsignori passa per l'anticamera del cervello che il meccanismo, per l'appunto, non funzionava per niente e che la situazione tanto normale non era. Solo qualche mente dotata di sano senso critico o semplicemente buon senso  arriva a specificare che la crisi non è dell'economia in quanto tale ma del vigente e generalizzato, anzi: globalizzato modello economico basato unicamente  sul mercato, e quindi sistemica. E che definire lo sviluppo unicamente in termini di incrementi di produzione porta inevitabilmente a crisi cicliche sempre più gravi e ricorrenti, fino all'implosione del sistema su cui si regge. Chi ne è alla guida lo chiama progresso, così come chiama democrazia (rappresentativa) il metodo con cui riceve la delega a decidere "in nome del popolo sovrano". Cosa ci sia di rappresentativo nella composizione dell'attuale Parlamento italiano (ma questo vale anche per i sindacati che vanno a fare trattative che coinvolgono tutti i cittadini), per rimanere nel nostro miserabile orticello, con la legge elettorale in vigore, e con una classe politica che sistematicamente ignora e anzi stravolge la volontà della stragrande maggioranza dei votanti, come hanno dimostrato più di una consultazione referendaria, quella sul finanziamento pubblico dei partiti e sull'acqua bene comune della scorsa primavera su tutte, lo lascio giudicare a chi legge. Io rimango del parere che sia il caso di darsi una sveglia, e in fretta.

venerdì 23 marzo 2012

A Simple Life


“A Simple Life” (Táo Jie) di Ann Hui, Con Andy Lau, Deanie Ip, Wang Fuli, Qin Hailu, Paul Chiang. Hong Kong 2011 ★★★★½ 
Un film bellissimo, rigoroso, intenso, commovente, diretto con mano sicura da Ann Hui, senza alcun sentimentalismo furbesco, e un'interpretazione sensazionale da parte dei due protagonisti principali, distribuito in Italia dalla benemerita Tucker Film friulana, espressione della Collaborazione tra il CEC di Udine (che organizza il Far East Festival, alla 14ª edizione, che si tiene dal 20 al 28 aprile prossimi) e Cinemazero di Pordenone.  E' il racconto del legame tra Ah Tao (Deanie Ip, vincitrice della Coppa Volpi all'ultimo Festival di Venezia), un'anziana governante che ha accudito quattro generazioni di una famiglia di Hong Kong, e il rampollo Roger, noto produttore cinematografico (Andy Lau, un mito del cinema made in Hong Kong e una superstar nel panorama del cinema dell'Estremo Oriente) che diventa qualcosa di perfino più intenso e rispettoso di un rapporto madre-figlio, in cui la dedizione della vecchia "tata", che si protrae negli anni    fino ai postumi di un infarto che colpisce Roger, viene ricompensata da un'identica dedizione quando i medesimi problemi cardiaci colpiscono l'anziana, meticolosa e premurosa domestica, che vorrà trascorrere la convalescenza in una casa di cura per anziani ma non verrà mai abbandonata dal famoso "figlioccio", che la presenta a tutti come madrina, l'accudisce con amore, le tiene compagnia, la porta a cena e perfino alle "prime" dei suoi film. Non l'abbandonerà mai, fino e oltre la simple life di questa simple woman. La pellicola è ambientata a Hong Kong, quella "vera" che ho riconosciuto in tanti dettagli, non quella luccicante che viene propalata dai media, una delle mie città del cuore. Tutti i personaggi di contorno sono tratteggiati con una accuratezza e una partecipazione tali che alla fine ne esce un quadro di una generale "condizione umana" nella quale si inserisce una bella storia di autentico amore. 

mercoledì 21 marzo 2012

Hysteria

"Hysteria" di Tanya Wexler. Con Maggie Gyllenhaal, Hugh Dancy, Jonathan Pryce, Rupert Everett, Ashley Jensen. Gran Bretagna, Francia, Germania 2011 ★★★
Come fare un film divertente, intelligente, garbato, trattando con leggerezza, e in maniera romanzata, un fatto vero, ossia l'invenzione del vibratore, e questo nella società più pudica e ipocrita che si possa immaginare: quella inglese vittoriana di fine Ottocento. Siamo nel 1880 quando Mortimer Granville (Hugh Dancy), giovane medico che cerca di fare penetrare le recenti scoperte scientifiche tra i dinosauri che reggono la sanità dell'epoca a forza di salassi e pillole miracolose e che viene quindi regolarmente espulso dagli ospedali, trova accoglienza presso il dottor Dalrymple (Jonathan Pryce), che nel suo studio cura "manualmente" l'isteria che pare colpire metà della popolazione londinese dell'epoca e ne diviene l'aiutante e poi la "manina d'oro" nonché probabile successore ed erede nonché genero, perché parallelamente nasce una storia d'amore, in verità alquanto piatta, con la figlia minore Emily, che porta avanti il ménage domestico dopo la morte della madre. Ben altro tipo Charlotte Darlymple (Maggie Gyllenhaal), la sorella maggiore, suffragette e socialista, che dirige una casa per poveri e sollecita Mortimer a occuparsi di qualcosa di più serio, quando questi si ritrova letteralmente tra le mani la scoperta del secolo: un arnese meccanico azionato dall'energia elettrica, originalmente pensato come una sorta di piumino per la polvere dal suo amico e mecenate Edmund (Everett), un vero fanatico delle nuove tecnologie: con questo riesce a quadruplicare   i trattamenti (e il fatturato) che erano andati in crisi a causa dei suoi continui crampi alla mano. L'invenzione avrà un successo incredibile e la storia si conclude con il giusto happy end, perché l'amore vero nasce dopo un processo a Charlotte in cui Mortimer si trova a testimoniare come medico a favore dell'isteria della donna, finita in arrestata per aver steso un poliziotto con un cazzotto alla festa di fidanzamento della sorella, e dichiara invece che l'isteria non esiste. Tutti bravi gli interpreti, Everett e Price su tutti, convincente la Gyllenhaal, regia attenta ai dettagli e ricostruzione d'ambiente credibile. Aria fresca sugli schermi!

martedì 20 marzo 2012

Posti in piedi in paradiso

"Posti in piedi in paradiso" di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Micaela Ramazzotti, Diane Fleri. Italia, 2012 ★★¾
Carlo Verdone si colloca diverse spanne sopra i tristi emuli dei maestri della "Commedia all'italiana", e pur non essendo un capolavoro a mio parere "Posti in paradiso"  è il più convincente tra i suoi film più recenti. La storia, che ruota sulla forzata convivenza di tre uomini divorziati che faticano a sbarcare il lunario e decidono di condividere uno squallido appartamento della periferia romana, sui loro rapporti con le ex consorti e i loro figli, è banale ma verosimile, così come il ritratto che Verdone fa, con un'autoironia amarognola, di tre esponenti di una generazione, la sua e mia, generosa quanto velleitaria e sostanzialmente infantile: non stupisce che i figli si dimostrino più maturi dei loro genitori (madri comprese). Ma il punto forte del film non sta nella trama quanto negli attori: Pierfrancesco Favino nei panni di un ex critico cinematografico retrocesso a cronista di cronaca rosa a seguito della relazione con la moglie del suo capoedattore; Marco Giallini, tardiva scoperta del cinema italiano, che interpreta un agente immobiliare ludopatico e pieno di debiti che si presta a fare da prostituto per vecchie carampane assumendo dosi da cavallo di "Viagra", a Verdone stesso, nella parte di un ex produttore discografico andato definitivamente in rovina per aver prodotto il disco della ex moglie francese, un clamoroso flop. 



Ma la sorpresa più bella, secondo me una conferma, la splendida interpretazione di Micaela Ramazzotti, moglie e musa di Paolo Virzì, che interpretò la Sandrelli da giovane nella migliore pellicola del regista livornese, "La prima cosa bella", ispirato alla madre di Virzì stesso. Se c'è un'erede della grande Monica Vitti, a mio parere la più grande attrice cinematografica italiana, è lei, che qui troviamo come una cardiologa che viene chiamata a soccorrere Giallini vittima di overdose da "Viagra", e che si rivela emotivamente instabile e sentimentalmente disastrata ma rappresenterà alla fine il punto di equilibrio per Verdone, andato in tilt per la inattesa maternità della figlia diciassettenne. Non solo per una certa somiglianza fisica: bionda, occhi verdi, apparentemente stralunata ma intensa, capace di esprimere nel giro di un attimo stati d'animo contrapposti, dall'euforia alle lacrime ed essere sempre credibile. Bravissima. Non un grande film, ma capace di far trascorrere un paio d'ore gradevoli.

domenica 18 marzo 2012

C'è buso e Buso

C'è la voragine del debito pubblico italiano, salito alla cifra record di 1935,8 miliardi di euro a gennaio, in crescita di 37,9 miliardi rispetto a dicembre, notizia dell'altroieri a cui è stata messa opportunamente la sordina da parte dei media conniventi che preferiscono innalzare peana e prodursi in lodi sperticate  del governo di tecnocrati e banchieri in carica; ma per fortuna c'è anche il "Buso", per la precisamente "Al Buso", storica osteria splilmberghese, dove come da tradizione ieri sera si è celebrato con fiumi di birra, musica di una band furlano-irlandese nonché ricchi premi e cotillons a estrazione il Saint Patrick's Day 2012. Alla faccia della sobrietà di Super Mario Monti.

mercoledì 14 marzo 2012

Fine corsa / Bauscia Don't Cry

Poco prima che iniziasse la stagione calcistica, con la sana perfidia che caratterizza i rapporti con la cuginanza rossonera, Il Segretario, amico di vecchia data e rivale nell'eterno derby tra le tifoserie milanesi (e tra due modi di intendere il gioco del pallone), mi fece il premuroso omaggio di un'intera confezione di 10 pacchetti di fazzoletti di carta di marca "Inter", per avere di che detergere le lacrime che mi avrebbero procurato le prestazioni della mia squadra del cuore nel corso dell'annata. Era agosto ed erano i tempi di Gasp: tre pacchetti li ho fatti fuori durante la sua sciagurata avventura nerazzurra conclusasi il 21 settembre dopo la debâcle in casa del Novara, l'altro durante le prime altalenanti giornate della gestione Ranieri, fino a quando l'aggiustatore non ha rimesso la squadra in carreggiata, facendola uscire dalle sabbie mobili della zona-retrocessione e tenendola a portata di qualificazione anche nel gironcino di Champions League, che poi avrebbe addirittura vinto, mentre in campionato da novembre al 22 gennaio (vittoria in casa con la Lazio) era risalita a ridosso di Milan e Juve infilando una serie di 9 vittorie su 10 partite. Da lì in poi si era tornati ai livelli settembrini, con prestazioni squallide, un attacco sterile e troppi gol subiti. Dopo l'improvvida sconfitta con un gol nel recupero con l'Olympique Marsiglia, senz'altro la squadra più scarsa e quindi abbordabile che potesse capitarci agli ottavi di Champions, segnali di risveglio si erano visti nell'imminenza della partita di ritorno, col Catania in casa, pareggiando orgogliosamente uno 0-2, e venerdì scorso sconfiggendo a Verona il Chievo. Ieri sera, a San Siro, eliminazione dall'unica competizione in cui l'Inter era rimasta in corsa (almeno in linea teorica) proprio a opera di un OM disastrato, reduce da quattro sconfitte consecutive in un campionato di scarso livello come quello francese. Come all'andata, uccellati da un gol al 2' di recupero che pareggiava un sudato e pressoché casuale vantaggio raggiunto solo al 75' da Milito: l'inutile 2-1 siglato da Pazzini su rigore al 95' vale una vittoria che conta soltanto per le statistiche. Non ho usato alcun fazzoletto di quella scorta perché non c'è stata alcuna lacrima da asciugare: come per molti altri beneamanti, l'eliminazione (a testa alta, perché non è stata il frutto di una disfatta e i resti della squadra che ha dominato dal 2006 al 2010 in Italia e poi nel mondo ieri hanno dato fondo a quel che avevano dentro e non si sono risparmiati) è stata perfino un sollievo: un passaggio di turno, per quanto meritato e impedito dalla malasorte, avrebbe portato soltanto altre illusioni, come la vittoria nel derby di andata, che si sarebbero andate certamente a infrangere al prossimo ostacolo, con batoste di proporzioni probabilmente epiche (immaginatevi un quarto di finale con Barcellona, Bayern, Milan o, peggio, uno scontro "fratricida" col Real di Mourinho) e umilianti per una squadra a cui tutti dobbiamo essere riconoscenti per quello che ha fatto in questi ultimi anni. 
E' la fine di un ciclo, e lo ha capito per primo un pubblico difficile ed ipercritico come quello interista, che ieri ha applaudito a lungo i giocatori alla fine dell'incontro. Come dire: grazie a tutti per quello che avete dato, ma ora è giunto il momento di voltare pagina e programmare il futuro. Raggiunta la quota-salvezza, ritengo sia il caso di provare i giovani, anche qualcuno della Primavera, da qui a fine campionato: sono perfino incerto se cercare di puntare a tutti i costi a un posto-UEFA. Nel frattempo è il caso che la società faccia chiarezza su come intenda proseguire e quali obiettivi darsi: l'attuale gestione, dalla notte del 22 maggio 2010 a Madrid in poi, è stata costellata da errori macroscopici e incertezze; allontanare Oriali per affidarsi al duo Branca-Paolillo quantomeno azzardato, e continuare di questo passo sarebbe esiziale. Io sono del parere che nessuno della squadra titolare del "Triplete" debba trovare più spazio, se non come riserva, nella prossima Inter. Salvo, forse, Snejder, se si decidesse di puntare su di lui come perno attorno al quale costruire una squadra giovane, valida e determinata (ipotesi che non mi convince). E a proposito di giovani, sono molto perplesso sugli innesti più recenti. A parte Obi, che anche ieri sera si è dimostrato tra i più positivi pur non essendo un fenomeno, e Faraoni, forse il migliore della schiera, tutti gli altri sembrano molto gracili fisicamente e poco dotati di cojones caratteriamente: da Álvarez a Coutinho, da Ranocchia a Guarin, preso già "rotto", a Poli: ieri sera, quando al 29' della ripresa è uscito per Cambiasso, sembrava un cadavere, eppure aveva giocato un primo tempo al ralenti e ha solo 22 anni e un fisico prestante. Se è questo il centrocampista "che fa del dinamismo la sua caratteristica principale", come recita il sito della società, qualcuno ha qualche problema: o chi lo ha scelto, o lo staff medico che lo segue. O entrambi. Staremo a vedere: da adesso in poi, e definitivamente dal prossimo luglio, comincia un altro giro di giostra. E comunque: ora e sempre Forza Inter!

martedì 13 marzo 2012

Italian intelligence

Questo il personaggio che presiede il COPASIR, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, istituito con la funzione di controllare l'attività dei servizi segreti. Indubbiamente per competenza, come testimonia lo sguardo vigile. "Operazione non ragionevole. Necessario chiarire con Londra" ha detto Massimo D'Alema a conclusione della riunione di ieri sul caso dell'uccisione dell'ingegner Franco Lamolinara giovedì scorso durante l'improvvida operazione di un commando anglo-nigeriano. Occasione per il "chiarimento", l'imminente visita a Roma del ministro degli Esteri britannico William Hague, in cui il presidente del COPASIR potrà sfoggiare il suo inglese oxfordiano.  l'Italia si farà rispettare, per dio!

sabato 10 marzo 2012

Nel limbo di China Town

KUALA LUMPUR - Ritorno alla base operativa di questo viaggio nel Sud Est Asiatico, questa volta definitivo, prima del rientro nella Terra dei Cachi. Da dove nel frattempo mi giunge la notizia, prevedibile conoscendo l'Italia, dell'annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione della sentenza di appello che aveva condannato a sette anni di galera Marcello Dell'Utri. Ora si terrà un nuovo appello, ma il rischio prescrizione, grazie alle leggi salva-Berlusconi, è altissimo. Ciò che fa più vergogna, sono le affermazioni del PG della Cassazione Francesco Iacoviello, conosciuto anche come lo "smonta-prove" (qui i suoi illuminanti precedenti), secondo il quale il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ideato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per colpire i "colletti bianchi" conniventi, è diventato un reato "autonomo, indefinito, a cui non crede più nessuno". Come dire: è desueto lo strumento dei giudici antimafia, inutile. In sostanza, la mafia non esiste: teoria non nuova in un Paese come il nostro. Nell'imminenza dal rientro in patria, la tentazione di chiedere asilo politico in Malaysia è forte. Perché 'a nuttata, con simili premesse, come se non bastasse il governo Monti, formato dai personaggi più arroganti e fuori dalla realtà quotidiana che abbiano mai guidato l'Italia, promette di essere infinita. Intanto sfrutto le ultime ore nella vivace China Town di Kuala Lumpur per fare il pieno di corroboranti zuppe di noodles con gli ingredienti più diversi e di acquisti di spezie, tè e curiosi oggetti usciti dalla fervida fantasia dei figli del Celeste Impero, e mi sembra di essere in una sorta di limbo, in attesa di rientrare in una realtà sempre più squallida da cui non riesco a intravedere vie d'uscita. Poi ci si chiede perché chi appena può tagli la corda...

giovedì 8 marzo 2012

Presenze "lanke"

Tre protagonisti immancabili durante un viaggio in Sri Lanka:


il cricket, pure nella versione da spiaggia, un'autentica fissazione nazionale;




i corvi, che sono ovunque e sostituiscono gli avvoltoi, ormai pressoché scomparsi dal Subcontinente Indiano, avvelenati dai farmaci che trovano nelle carcasse di animali (e uomini): cfr un interessante pezzo uscito su Internazionale qualche settimana; infine le palme, onnipresenti.

mercoledì 7 marzo 2012

La porta dell'isola



NEGOMBO - Città di quasi 150 mila abitanti situata una sessantina di chilometri a Nord di Colombo, grazie alla sua vicinanza con il “Bandaranaike International Airoprt” e alla buona scelta di sistemazioni e ristoranti, più della capitale Negombo può considerarsi la porta dell’Isola: d’entrata per coloro che la scelgono come primo impatto col Paese, d’uscita per chi, come me, ha iniziato il giro dell’isola a Colombo e si guarda bene dal ripassarci alla scadenza del visto. L’impronta europea di Negombo è più marcata che altrove: portoghesi e olandesi se la sono palleggiata prima dell’arrivo degli inglesi nel 1796. 
Di marca lusitana è l’influenza della chiesa cattolica: Negombo è un’enclave cristiana nello Sri Lanka, e cattolica è la maggioranza della popolazione, e non a caso è l’Italia il Pese più frequentemente meta dell’emigrazione locale; quella batava si nota in ciò che rimane del Forte, in più di una costruzione tuttora in uso nonché nei canali che partono dalla laguna, alcuni dei quali attraversano la città e altri so dirigono verso Sud, fino a Colombo, e altri a Nord, fino a Pattalam, in tutto per oltre 120 chilometri. 
Da sempre centro famoso per il commercio della cannella, Negombo lo è anche per a pesca e i suoi due mercati del pesce sono tra i i più grandi del Paese: al mattino presto, quando rientrano i pescherecci, tra cui le tipiche “oruvas” con bilanciere e vela quadrata, le aste si svolgono sulla spiaggia, che poi viene coperta di teli e usata per una rapida, prima essiccazione del prodotto; la vendita al minuto, invece, si svolge al mercato del pesca adiacente.
Ma non tutto il pescato proviene dal mare aperto: Negombo è si trova all’estremità settentrionale di una laguna rinomata per ostriche, granchi e gamberi, che hanno un proprio mercato la di là del ponte che collega la città alla laguna stessa. Appena a Nord del mercato del pesce principale, sempre sul lungomare, si svolge l’altro mercato, diciamo ordinario, prevalentemente ortofrutticolo, animatissimo come si conviene e un’orgia di colori di, profumi e di suono. In sottofondo il frangere delle onde, l'odore di salsedine portato da una brezza costante che rende sopportabile la calura. 
Il mare, non protetto dalla barriera corallina, non è un granché dal punto di vista della balneazione: onde oceaniche, mare spesso mosso e correnti pericolose, così come come non lo è la spiaggia, sebbene gli alberghi si impegnino a tenerla pulita. Sarà per l’influenza portoghese e la dedizione alla pesca, a me ha ricordato Nazaré, sulla costa atlantica tra Lisbona e Porti, famosa per le donne vestite di nero in attesa del rientro delle barche multicolori dei loro uomini: stesse onde lunghe poco rassicuranti, sebbene la temperatura dell’acqua qui sia di almeno dieci gradi superiore. Insomma: a mio parere non la meta ideale per una vacanza, ma un luogo piacevole dove trascorrere l’ultima giornata sull’isola splendente: Serendib. 

martedì 6 marzo 2012

Kandy: una Lugano tropicale


Lungolago

KANDY - Di una cosa sono certo: non sono le città l’asso nella manica dello Sri Lanka, anche se Kandy, ultima capitale del regno singalese prima che cadesse nelle mani inglesi nel 1815, è incomparabilmente meglio di Colombo. A cominciare dalla “location”, a 500 metri d’altezza, e quindi dal clima. La città mi ha immediatamente richiamato alla mente Lugano: molto più popolata, 150 mila abitanti, disseminati sulle colline che dominano un lago molto più piccolo del Ceresio e, a differenza di questo, un bacino artificiale. Uguale la supponenza degli abitanti, l’affollamento di banche e luoghi pseudo-esclusivi, il demenziale su-e-giù per le colline, e la ferma convinzione di trovarsi in un posto speciale. A questo si aggiunge il fatto che Kandy è una città “santa”, in quanto sede del tempio del “Sacro Dente”, che custodisce la più preziosa reliquia buddhista dello Sri Lanka. Dente sottratto alla pira funebre dell’Illuminato nel 483 A.C e trasportata otto secoli dopo dal Nord dell’India sull’isola nascosto tra i capelli di una principessa ad Anuradhapura, ai tempi capitale del regno singalese. Da lì in poi la reliquia fu palleggiata tra i detentori del potere succedutisi sull’isola, compresi i portoghesi che, in preda a delirio da Santa Inquisizione, avevano tentato di polverizzare a martellate il dente in quanto “empio”, per finire qui. Dove divenne alla fine simbolo di sovranità, tanto da ritenere che chiunque custodisse la reliquia avesse diritto di governare l’isola. Come fosse una corona. 
Tempio del "Sacro dente"
Di questo è testimone il tempio attuale, ricostruito in varie fasi a seconda delle dinastie che si sono succedute sul trono: niente di che, da un punto di vista architettonico. Una bomba collocata da appartenenti al LTTE (il Fronte di liberazione delle Tigri Tamil) lo danneggiò in buona parte nel 1998, ma francamente non è che sia andato distrutto qualcosa di imperdibile. Nonostante ciò, il tempio è meta di peregrinazioni non soltanto dei buddhisti dell’isola ma anche di quelli thailandesi, cinesi, perfino giapponesi, che hanno contribuito con donazioni a costruire e dopo l'attentato restaurare parti del tempio. E’ difficile giudicare, ma l’impressione, dopo essere stato per un mese in Birmania, è che qui il buddhismo, almeno nelle città, sia qualcosa che abbia più a che fare con il potere che con qualcosa di realmente sentito. I templi sono rari, scarsamente frequentati; i “vihara”, o monasteri, chiusi in sé stessi: anche fisicamente sembrano dei mondi a parte, con una accessibilità da Grand Hotel. Insomma, distanti dalla gente comune. Per non parlare della banalità architettonica, della nessuna rilevanza artistica dei templi quando non si cada nel kitsch più plateale. 
Kandy Lake
Rassicuro che mi conosce che non sono in preda a crisi mistica, ma l’atmosfera che respiravo in Birmania poche settimane fa, ma anche in passato in Cambogia, Laos, Thailandia, perfino nel Vietnam e nella “miscredente” Cina era un’altra cosa. E’ sufficiente osservare come si comportano le persone che visitano i templi e le modalità della loro frequentazione. Qui, quando va bene, per un namasté e una rapida preghiera, come atto dovuto e in presenza di testimoni, per farsi vedere nelle occasioni sociali. Là perché fa parte della vita di ogni giorno, e perché al tempio ci si va anche, se non soprattutto, per ritrovare sé stessi, chiacchierare con un monaco, con dei conoscenti, mangiare, rilassarsi. Staccare, insomma dalla quotidianità: se non è possibile meditare, almeno ritrovarsi con sé stessi; a al contempo inserire nella propria vita di tutti i giorni la visita al tempio. Eppure il buddhismo theravada ha le sue radici proprio su quest’isola: non si direbbe. Quest’impressione è rafforzata da altri aspetti di Kandy: che sarà una città santa, con le sue brave restrizioni perfino sull'orario di vendita della birra, ma dove tutto ruota attorno al denaro. Tutto costa, anche l’uso dei cessi, e per gli stranieri un prezzo decuplicato per il biglietto di ingresso a qualsiasi cosa. Non essendo un Paese di miserabili, non ce ne sarebbe bisogno, ma va da sé, come fosse scontato. E' l’unico posto, anche nello Sri Lanka, in cui si debba pagare per la custodia delle scarpe lasciate fuori dal tempio, perché, come mi è stato detto “altrimenti non possiamo garantire che le ritrovi”: considerando che per buddhisti e induisti i piedi sono la parte più infima del corpo, l’ultima cosa che verrebbe in mente a chiunque è di rubare sono le scarpe altrui. E’ anche l’unica città in tutto il Paese, insieme Colombo, dove i tassisti fanno da lenoni e ti avvicinano per proporti “massase” con compiacenti signorine e dove, per altro canto, non è sano per le donne in viaggio da sole, avventurarsi in giro dopo il tramonto. Una città vivace, senz’altro, e più omogenea di Colombo: per quanto dispersa sulle colline, ha un suo perché, e il centro urbanisticamente ha una struttura e un senso, e anche dei bei palazzi di epoca coloniale, e rispetto alla capitale Kandy è più ordinata. Ma inquinata e rumorosa quasi uguale. Insomma, non esattamente la perla che viene dipinta. 
Tramonto a Kandy

sabato 3 marzo 2012

Little England

NUWARA ELIYA - Città della luce, questo il significato del suo nome in singalese, Nuwara Eliya è un'invenzione degli inglesi. "Scoperta" da un ufficiale britannico John Davy nel 1819 in una zona disabitata dell'altopiano centrale, dominata dalla montagna più alta dell'isola, il Pidurutalagala, detto anche Mount Pedro (2524 metri), divenne sede, per il suo clima ideale e la sua altezza, 1889 metri sul livello del mare, di un sanatorio qualche anno dopo ma fu fondata ufficialmente nel 1846 da un altro ufficiale, Sir Samuel Baker, esploratore delle sorgenti del Nilo e scopritore del Lago Albert, tra Uganda e Congo, che vi introdusse anche l'infinita varietà di verdure e frutta di origine europea che vengono tuttora coltivate e consumate dagli abitanti locali. 


Divenne presto il luogo di villeggiatura per i funzionari dell'amministrazione imperiale e per i pionieri dell'industria del tè (di cui oggi è il centro più importante della Hill Country) e l'impronta inglese è rimasta pressoché intatta, per cui il soprannome di "Little England" è perfettamente consono. Lo si nota da una serie di costruzioni pubbliche, dall'ufficio postale al Grand Hotel, Dal Queen's Cottage al General's House, per non parlare dello splendido Victoria Park, un vero e proprio giardino botanico nel centro ella cittadina (25 mila abitanti) e di una quantità di cottage disseminati sulla colline, in parte trasformati in amabili guesthouse dall'impronta estremamente famigliare. Non mancano nemmeno, sempre in centro, un campo da golf e un ippodromo che si riempie fino all'inverosimile in aprile, durante le festività del capodanno singalese, quando la città viene invasa dai turisti locali e i prezzi salgono vertiginosamente. 


Quello omonimo è anche l'unico distretto del Paese in cui  Tamil indiani (quello cosiddetti "della piantagioni" di cui parlavo nel post di ieri, per distinguerli da quelli indigeni che abitano nel Nord), sono la maggioranza della popolazione superando il 50%. E' un luogo ideale per rilassarsi, fare escursioni nella zona e ossigenarsi, e non stupisce che sia un'attrazione per i viaggiatori stranieri così come per quelli nazionali. Sulle cime delle montagne circostanti pinete e foreste di eucalipiti, nei dintorni, ovunque piantagioni di tè a perdita d'occhio: una specie di Eden. 

venerdì 2 marzo 2012

Tea Land

La tratta ferroviaria fra Ella e Nanu Oya, sulla linea che collega Badulla, estremità Sud-Orientale della Hill Country, a Kandy e Colombo nell'Est dell'isola, non supera gli ottanta chilometri e il treno impiega due ore e mezzo a percorrerla. Il tempo equivalente a un film di spessore. Qui però lo spettacolo è dal vero: credo di avere visto una terra altrettanto fertile, con una tale varietà di tonalità di verde intenso e dei cieli altrettanto vasti e luminosi soltanto nel Brasile meridionale. 

Cresce di tutto, ma è nel tè che la Hill Country ha trovato la sua vocazione. Introdotto dagli inglesi soltanto a partire dal 1867 come sostituto del caffè, le cui coltivazioni erano andate perse a causa di una malattia che ne aveva decimato le piantagioni (tra i pionieri lo scozzese  Thomas Lipton, nome famoso ancor oggi), questo arbusto viene cimato delle foglie e dei germogli quando raggiunge il metro d'altezza esclusivamente da donne tamil (riconoscibili per il pottu, o bindi, che ne decora la fronte, tra le sopracciglia) e ha trovato nell'interno collinare dell'isola le sue condizioni ideali: clima caldo, altezza adeguata (tra i 1000 e i 1500 metri) e terreni inclinati, tant'è vero che lo Sri Lanka a livello quantitativo ne è il secondo produttore mondiale dopo il Kenia, e per qualità supera perfino quella del suo principale concorrente, l'India, dato che il prezzo del "Ceylon Tea" nelle aste internazionali supera del 50% quello indiano. Dall'India, come accennato, proviene il personale che per la quasi totalità se ne occupa: i cosiddetti "tamil delle piantagioni", così chiamati per distinguerli da quelli "indigeni" e che vivono nella parte settentrionale e orientale dell'isola, la più numerosa minoranza dello Sri Lanka, induista, un buon 18% della popolazione, coinvolta sua malgrado in una guerra civile cruenta durata 25 anni e che ha avuto fine 
soltanto nel 2009. 

Non ho mai notato una ostilità etnica o religiosa da parte della maggioranza singalese e buddhista nei confronti degli induisti tamil, anzi: un certo disaccordo di fondo su come è stata gestita la fase finale del conflitto, facendone pagare le conseguenze alla popolazione incolpevole delle zone sottoposte al governo dell'LTTE (le "Tigri Tamil"). Una guerra che ha avuto radici nel "divide et impera" che sempre gli inglesi hanno applicato nei loro possedimenti: favorendo le minoranze (i musulmani e i parsi in India, i cinesi in Malesia, gli arabi in Palestina, i tamil a Ceylon) a scapito di maggioranze recalcitranti al loro dominio. Seminando malcontento e contrasti che sarebbero immancabilmente scoppiati una volta levate le tende e rientrati nelle isole patrie. A differenza dei francesi, che hanno lasciato alle spalle soltanto discredito e miseria ovunque hanno messo piede, i britannici hanno comunque costruito ferrovie e strade adeguate, infrastrutture solide, e lasciato in eredità un idioma che è diventato una lingua franca in cui esprimersi tra popolazioni di idiomi diversi: almeno questo va riconosciuto alla "Perfida Albione", a cui dunque brindiamo with a cup of Ceylon tea.

giovedì 1 marzo 2012

Mind the Gap. The Ella Gap


Vista dall'Ella Gap

ELLA - Sei ore di viaggio, soste comprese, con partenza in bus da Galle a un’ora antelucana, e si passa dalla verde e lussureggiante costa meridionale all’altrettanto lussureggiante, ma con diverse e più variegate tonalità di verde, fertllissima “Hill Country”, famosa soprattutto per le sue piantagioni di tè, di cui Ella è la porta d’entrata per chi proviene da Sud. 1024 metri su livello del mare (e una salita mozzafiato a velocità ridotta da Wellawaya) è un paese di poche case, specialmente graziose guesthouses, ristoranti e negozi, luogo di soggiorno con una ideale temperatura da perenne tarda primavera con serate piacevolmente fresche, un’ottima base per passeggiate ed escursioni più impegnative, inoltre nodo ferroviario sulla tratta che da Badulla porta a Kandy e Colombo. Da qui un tratto spettacolare, tra Ella e Haputale, in cui il convoglio gira tutto intorno a una collina a passo d’uomo, che conto di godermi nella mattinata di domani. Percorrendo la strada costiera meridionale fino a Hambantota, prima di prendere la via dell’interno dell’isola, mi sono reso conto del grande punto di forza di Unawatuna, il mio “luogo zen”, rispetto a tutte le altre spiagge, per la maggior parte comunque molto belle, oltre al fatto di essere defilata rispetto alla trafficata statale A2: di essere protetta dalla barriera corallina, il che la rende impagabile per nuotare tranquillamente, fare snorkeling e dedicarsi a qualsiasi attività acquatica che non sia il surf. Altrove, giungono a riva lunghe ondate oceaniche (in compenso ottime per chi è dotato di tavola e della capacità di cavalcarle) e si creano giochi di corrente che rendono alquanto pericoloso avventurarsi dove non si tocca. 
Verso la "Hill Country"
Tornando a Ella, l’entrata al paese è dominata da una curiosa montagna fatta a forma di scalino, che forma una sorta di buco (da cui il nome) o voragine, che la caratterizza e ne è il simbolo: da lì si apre un panorama grandioso e nelle giornate limpide, come quella di oggi, si scorge agevolmente la costa. Lungo la gola per arrivarci, anche la bella Rawana Ella Falls, con l’acqua che precipita per una ventina di metri lungo la parete della montagna e un tempio appartenente a un monastero e una grotta: il tutto a un’ora di salutare camminata dal centro del paese. Idem per il “Little Adam Peak” (quello originale, in singalese Sri Prada, “orma sacra” - del Buddha - alto 2243 metri e meta di pellegrinaggi da oltre mille anni, si trova nei pressi di Hatton a Sud Ovest della Hill Country), situato  a tre quarti d’ora di passeggiata in mezzo a piantagioni di tè, a cui lavorano quasi esclusivamente tamil. Per il resto dominano degli orti terrazzati così ripidi, che di simili ne ho visti soltanto in Liguria o sulle pendici della Ande. Curiosamente a Ella si trovano più parrucchieri di quanti ne abbia visti finora in tutto il Paese, compresa Colombo: alcuni assicurano un “taglio per stranieri”, per quel che voglia significare, e devono essere abbastanza seri perché a nessuno ho visto in mano una macchinetta “tosacani”, che ormai impazza a ogni latitudine, e perfino in Italia, patria di Figaro. Siccome però il barbiere non si tradisce mai (e dev’essere rigorosamente meridionale, preferibilmente siciliano, pugliese o napoletano), così come la squadra del cuore, ho rinunciato anche se avrei bisogno da tempo di una sforbiciata. In compenso non ho saputo resistere a un’altra specialità del luogo: un trattamento ayurvedico completo nel centro più prestigioso di Ella, il professionalissimo “Asha Suwamedura”, composto di tre tipi di massaggio (testa: godurriosissimo, viso e corpo) con oli essenziali autoprodotti; un bagno di vapore coperto da una specie di semibarilotto che lascia spuntare solo la testa, a mo’ di gogna; infine una sauna con 50 diversi tipi di erbe. Dietro suggerimento del mio affittacamere, ci sono andato a mezzogiorno, mentre gli altri villeggianti erano impegnati in escursioni o a tavola, per cui non c’era un’anima e sono stato coccolato per un’ora e mezzo, che mi  ha rigenerato. Sempre in maniera molto zen, naturalmente. Namasté!
The Ella Rock