lunedì 6 febbraio 2012

Il Myanmar, a una possibile svolta



Yangon – Quattro settimane trascorse nel Myanmar, lungo un itinerario classico e procedendo senza fretta, non sono certo sufficienti per conoscere un Paese, a maggior ragione complesso come questo e con l’ostacolo della lingua, ma sufficienti per farsene un’idea, suscitare delle sensazioni e perfino spingersi a fare alcune previsioni. Da 50 anni esatti il Myanmar vive sotto la cappa di un regime militare che non ha esitato a usare metodi brutali per reprimere le manifestazioni di dissenso, che pure ci sono state, a ondate, come nel 1974, nel 1988 e, più di recente, nel settembre del 2007 quando arrivò a usare violenza contro le decine di migliaia di monaci che in tutto il Paese avevano guidato la protesta, alienandosi definitivamente ogni possibile residuo di rispetto da parte di una popolazione che vede nei clero buddhista l’unica vera autorità riconosciuta. Della situazione si è venuto a sapere, e qualcuno ha cominciato a interessarsene, dopo il conferimento del premio Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi nel 1991. Questa donna, dall’aspetto dolce e  fragile ma dotata di una determinazione e coerenza d’acciaio, è da più di vent’anni la spina nel fianco della giunta, da quando, dopo i moti dell’88, attorno a lei l’opposizione si è coagulata nella NLD  (Lega nazionale per la democrazia), partito che ottenne alle elezioni del 1990 qualcosa come 392 dei 485 seggi disponibili in Parlamento e ai cui deputati fu impedito di assumere la carica. Figlia del generale Bogyoke Aung San, che guidò la Birmania all’indipendenza dagli inglesi, ottenuta nel 1947, ed è considerato un eroe nonché padre della patria dagli stessi militari (fu ucciso pochi mesi dopo a soli 32 anni in un complotto probabilmente organizzato dagli stessi perché intendeva smilitarizzare il governo al più presto),  e chiamata perlopiù semplicemente The Lady, la sua immagine, assieme a quella del padre, campeggia in quasi tutte le case e botteghe del Paese, così come nelle beer station e nelle sale da tè, spesso su calendari: una specie di santino laico, o di nat protettivo, un po’ come accadeva nella ex Jugoslavia col ritratto di Tito, che era riuscito a tenere insieme un Paese che si sarebbe disgregato, alla sua morte, in preda alla demenza etnica e separatista (ed ecco un altro aspetto in comune con la Birmania e i suoi conflitti con le minoranze, in buona parte indotti proprio dal regime militare). In ogni caso, la stima e l’affetto di cui è circondata Aung San Suu Kyi non hanno nulla a che fare con una cieca devozione da parte di fedeli acriticamentemente adoranti, ma sono ancor più commoventi per come sono autentici. Le recenti aperture da parte della giunta, simboleggiate della visita del segretario di Stato USA Hillary Clinton avvenuta qualche mese fa; la maggiore integrazione del Paese nell’ASEAN; la stessa estensione del visto turistico a 28 giorni (erano 14 l’ultima volta che avevo provato, inutilmente, a ottenerlo, qualche anno fa) hanno contribuito a rasserenare il clima e a prima vista non si direbbe che il Paese sia governato da una dittatura, anche perché, come ho già notato, la gente (e non solo i monaci) tende a parlare di politica, lo fa volentieri e non ha alcuna remora a dicuterne anche con gli stranieri. Poi ci si accorge di alcuni particolari: le stazioni di polizia, soprattutto a Yangon, sono circondate, a protezione, da sacchetti di sabbia, filo spinato e cavalli di frisia; le caserme e basi militari protette da occhi indiscreti e ove possibile mimetizzate: lungo il percorso della Circle Line ne avevo notate parecchie nella cinta esterna della città, e il primo pensiero era stato di gente asserragliata, pronta a decretare e mettere in atto uno stato d’assedio perché si sente a sua volta sotto assedio da parte di una popolazione che la ignora e cerca di vivere come se non esistesse, e che nutre disprezzo non tanto per l’esercito in sé quanto per chi ne è a capo. Un esempio lampante l’ho avuto a Mandalay, dove nel pieno centro della città, circondata da un fossato lungo 2 chilometri per lato, si erge la fortezza circondata da mura del Mandalay Palace, ricostruita negli anni Novanta utilizzando il lavoro forzato dei detenuti, spesso politici. Su una delle quattro entrate campeggia un cartello con la scritta: “Il Tatmadaw (l’esercito) è sempre stato e sempre sarà al servizio del popolo birmano”. Il Mandalay Palace non lo visita nessuno, a parte i gruppi di turisti dei viaggi organizzati (da agenzie controllate dal governo). La gente ci passa davanti e lo ignora. Se si chiede com’è, ne sconsiglia la visita, specificando il perché. In quattro settimane, oltre ai 25 € per il visto, ho calcolato di essermi limitato a versare nelle tasse statali al massimo 50 dollari USA, tra ingressi ad aree archeologiche e musei e compresi due viaggi in battello con compagnie pubbliche (quantomeno il prezzo del biglietto è destinato in parte a coprire lo stipendio degli addetti), incoraggiato e indotto dagli stessi locali, prodighi di consigli su come evitare le gabelle, e dal personale stesso, che spesso evita di controllare i biglietti. Un regime, per quanto brutale, non può sopravvivere in eterno circondato da un discredito così generalizzato, e gli scricchiolii si percepiscono eccome. Sembra che sia intenzionato a consentire finalmente delle elezioni regolari il prossimo aprile: foto della “Lady” e il simbolo della NLD nel frattempo si moltiplicano. E il Paese non può rimanere isolato, e difatti lo è sempre di meno: quantomeno il corridoio verso la Cina è sempre più aperto, e non soltanto alle merci. A questo proposito, negli ultimi anni ho notato un numero sempre crescente di giovani cinesi (e sudcoreani), appartenenti a quella che si può definire “generazione internet”, viaggiare, cominciando naturalmente dai Paesi più vicini, come per l’appunto il Myanmar, e farlo alla maniera dei loro omologhi occidentali, anche se in modo più timido e impacciato. Ragazzi normali, non i figli degli alti papaveri di partito o dei dirigenti delle imprese turbocapitaliste, che sono di casa nelle migliori università USA ed europee: giovani che si aprono al mondo, curiosi di conoscere situazioni diverse da quelle in cui si trovano a vivere, e come già da tempo fanno quelli giapponesi. A differenza dei loro coetanei russi o indiani. E qui vengo al contributo che a uno sbocco positivo delle aperture che si intravedono in questa fase politica, e allo sviluppo in generale del Myanmar, possono dare i Paesi che hanno i maggiori contatti commerciali, e non solo, con esso. Come avevo già accennato, a essere decisiva è la Cina. Il Myanmar è un Paese ricco. Potenzialmente è un esportatore netto, autosufficiente dal punto di vista alimentare, che abbonda di materie prime ambite, comprese le fonti energetiche. Un Paese ricco che vive in povertà; con una immensa dignità, l’arretratezza a cui l’ha costretto una classe dirigente ingorda, paranoica e irrimediabilmente stupida. E anche un Paese terribilmente arretrato a livello di infrastrutture, se si pensa alla rete stradale, a quella idrica, a quella delle telecomunicazioni (funziona meglio la neonata rete mobile  che quella fissa). Stando così le cose, la Russia, che è potenziale concorrente del Myanmar per quanto riguarda l’export di gas e petrolio, non ha niente da offrire, se non armi; l’India forse nel campo delle  telecomunicazioni: ma sconta la diffidenza e la scarsa simpatia che gli indiani, visti come trafficatori inaffidabili e spesso truffaldini, suscitano nella popolazione. Non che i thailandesi  (nemici storici dei birmani) e i cinesi, che sono i maggiori investitori nel Paese, siano particolarmente amati, ma certamente sono considerati più affidabili ed efficienti, soprattutto i figli del Celeste Impero, che a mio parere hanno l’asso nella manica ora che il Myanmar non è più uno Stato socialista. Perché, dal 1964 al 1988, ha seguito anche questa utopia, che la storia ha dimostrato non percorribile (e la cosa non mi stupisce, dato che prende il via dalle medesime premesse del sistema che vorrebbe contestare e che, a mio parere, è entrato a sua volta in una crisi irreversibile: quello capitalista, in preda a un’agonia che durerà ancora a lungo, almeno svariati decenni, salvo un collasso improvviso e attualmente non prevedibile a breve termine ma a mio parere pienamente in atto) e in seguito ha provato a seguire lo schema cinese. Con esiti penosi. Perché la Cina è il più grande mercato, sempre meno potenziale e più effettivo, al mondo, nella duplice veste di cliente e di venditore, e questo in un sistema globalizzato: pur di farci affari insieme, anche chi si autoproclama portatore di valori a suo dire universali, passa allegramente sopra ogni questione etico-politica, sempre ammesso e non concesso che i Paesi occidentali, a cominciare dagli USA, abbiano alcunché da insegnare a chicchessia. La Birmania non è certo in queste condizioni, tanto è vero che da essi è oggetto di un embargo piuttosto stretto. E mentre in Cina è stato il governo, nelle salde mani di quel complesso comitato d’affari e di potere che è il Partito comunista, a creare, attraverso una forzata e rapida accumulazione primitiva del capitale e la costruzione a ritmo serrato di infrastrutture finanziate dallo Stato, le condizioni per uno sviluppo vorticoso, in Birmania un regime al potere da troppo tempo e con inclinazioni psicopatiche, oltre che avido nei suoi esponenti di più alto livello, i mezzi per una “start up” in termini di sviluppo capitalistico se li è divorati a causa della sua stessa voracia e corruzione senza fondo. Un esempio da manuale è stato l’improvviso spostamento, nel 2005, della capitale da Yangon a Nay Pyi Taw, una città perfettamente inutile, creata dal nulla e abitata soltanto da funzionari governativi e statali, iniziativa delirante che ha suscitato perplessità perfino da parte dei cinesi. Che comunque sentitamente ringraziano, innanzitutto perché le loro imprese costruttrici, a cui si deve la costosa opera, hanno fatto affari d’oro e poi perché ancora una volta “tengono per le palle” un Myanmar indebitato. E comunque legato mani e piedi alle potenze confinanti con cui ha rapporti commerciali, fornendo loro materie prime a prezzi competitivi: Cina innanzitutto e poi Thailandia, India e, sul versante delle forniture militari, Russia e Corea del Nord. Un panorama di soci alquanto inquietanti. Eppure sono abbastanza fiducioso nell’evoluzione della situazione. Non prevedo un passaggio immediato del potere nelle mani dei civili, ma uno graduale, alla cui base sono le trattative in corso da mesi tra la giunta e Aung San Su Kyi, propiziato da una vittoria dei candidati della NLD alle elezioni di aprile, sempre che si  tengano come previsto. Col rientro in gioco anche di altri possibili partner commerciali, tra cui vedo con ottime chance il Giappone, a cui nel 1941 si rivolse con fiducia e successo suo padre Bogyoke per liberarsi dagli inglesi, salvo combatterli  non appena si accorse che da parte loro ai birmani toccava subire un trattamento anche peggiore che dagli antichi padroni coloniali. Ma quello era l’Impero del Sol Levante in piena espansione e al massimo della sua capacità bellica, e non il Giappone di oggi. Un tempo era la Thailandia, l’antico SIAM, a essere chiamata la “terra del sorriso”. Aggredita da uno sviluppo, se così vogliamo definirlo, tumultuoso e irrefrenabile; spesso deturpata e violentata da una corsa alla modernità senza limiti e da un turismo in buona parte invasivo e corrotto,  non è più tale . Trovo che la stessa lusinghiera espressione di terra del sorriso, oltre che Paese dell’oro, spetti oggi a pieno titolo alla Birmania, con l’augurio che un progresso auspicato da tutti e necessario venga tenuto sotto controllo nei suoi aspetti perversi e che non stravolga il carattere dei suoi abitanti. L’indole caparbia e orgogliosa della sua gente, la cui mitezza è l‘opposto della rassegnazione, la più amichevole, gentile e aperta che abbia trovato in tutto l’Oriente, ancora più che nel Laos, mi fa ben sperare.

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