mercoledì 1 febbraio 2012

Il Lago Inle, il Titicaca e le loro insospettabili fonti

Nyaungshwe / Lago Inle - Qualcuno tra coloro che mi leggono che appartiene alla mia generazione si ricorderà l’Enciclopedia per ragazzi “Conoscere”, uscita per i tipi della “Arnoldo Mondadori, Verona”, che tra l’altro editava anche “Topolino”, molto prima che queste meritoria azienda finisse, truffaldinamente, nelle grinfie del disgustoso individuo che da oltre vent’anni è l’ombelico in cui si rimira e in parte rispecchia ciò che una volta era l’Italia, e della sua degna famiglia. Mi è tornata in mente ieri, quando dopo aver percorso qualche chilometro verso Sud a bordo di una delle tipiche lunghe lance dai potenti motori fuoribordo che lo attraversano incessantemente in lungo e in largo, sono entrato nel Lago Inle e ho subito incrociato un pescatore che si esibiva nella tipica voga, che è del tutto simile a quella veneziana, con la differenza che la spinta viene effettuata con la gamba e la rotazione con il piede, mentre con l’altra si mantiene in equilibrio. In realtà in condizioni normali la barca, dal fondo piatto come le gondole vista la scarsa profondità, viene condotta a pagaiate, ma questa caratteristica posizione viene assunta quando essa è pressoché ferma o deve fare piccoli spostamenti mentre chi la conduce ha le mani impegnate nelle reti, perché l’operazione principale a cui si dedica, e gli dà di che vivere, è la pesca. Intendo dire che devo a “Conoscere”, che io possedevo in una edizione in soli quattro grossi volumi in brossura (ciascuno dei quali ne raccoglieva quattro o cinque dell’edizione normale) ancora prevalentemente disegnata e con rare fotografie, buona parte delle mie basi culturali, mentre l’influenza della televisione è stata sostanzialmente inesistente almeno fino all’età della ragione, se non per qualche film che passava a Natale, Stanlio e Ollio, Charlot, i cartoni animati e le partite di calcio (un tempo di quella più importante del campionato), lo sci e il tennis, questi ultimi soltanto perché Giorgio Bellani, il telecronista di allora per questi due sport, che trovo tra i più stupidi almeno da guardare, era un mio zio acquisito. Non che le nozioni fornite dall’insegnamento delle elementari fosse insufficiente: ma i maestri di allora dovevano stare dietro a classi di 30 o 35 allievi di cui neanche un terzo si sognava di avere a disposizione né un apparecchio televisivo e ancor meno “Conoscere”. La qualità dell’insegnamento sarebbe poi precipitata alle medie inferiori, infestate di insegnati frustrati vittime colpevoli e condiscendenti delle tirannie di una preside psicotica figlia di un gerarca fascista che pretendeva che uscissimo dalla scuola in fila per due come dei burattini e in silenzio sull’attenti a tributarle il saluto. E non faceva dare il via libera (al bidello), con uno sdegnoso segno del capo, finché non era soddisfatta dell’allineamento e del perfetto silenzio: questo in una scuola pubblica nel pieno centro di Milano, dal 1966 al 1969, la Luigi Majno, in fianco al Berchet che nel frattempo, dal ’68 in poi, veniva ripetutamente occupato da quelli del Movimento Studentesco, e che avrei frequentato una volta uscito da quell’incubo durato tre anni. Anna Pettinari, si chiamava questa disgraziata, soprannominata “Puttanari” dai più irriverenti tra gli allievi di allora, tra cui mi distinguevo. E lei me la faceva pagare in tutti i modi, finendo per farmi “licenziare”, perché bocciarmi non poteva, con un doppio e misero “sufficiente” e il consiglio di seguire l’indirizzo professionale o tutt’al più azzardarmi a tentare la strada dell’istituto tecnico per ragioneria e geometra. Proprio io, con le solide basi ricevute in dote da quell’imbecille del suo degno vice, di cui dirò dopo. In questa fase scolasticamente infelice, ”Conoscere” fu sostituita da un’altra enciclopedia, per ragazzi del Littorio ereditata da una cugina di 20 anni più vecchia di me, a sua volta figliastra di un altro fascistone (col risultato che a 18 anni è fuggita di casa per sposarsi col primo che passava, tre mesi dopo scappava anche dal marito e sei mesi dopo era volata in Brasile a fare la cantante dell’orchestra del Maestro Enrico Simonetti - forse qualcuno se lo ricorda - finché nel 1964 il regime militare dei Gorilla che avrebbe detenuto il potere per altri vent’anni espellesse alcuni stranieri presi nel mirino, tra cui lei, confiscandone i beni) che gliel’aveva propinata. Riconosco che, presa con le dovute pinze, era fatta molto bene: a posteriori mi è stata utile per capire come le cose fossero viste e raccontate dalla prospettiva del regime; inoltre, sulle materie che più mi interessavano, storia ma soprattutto geografia, aveva ancora quel sapore di esplorazione e avventura già allora un po’ rétro che me le rendeva affascinanti: altro che il nozionismo stupido degli insegnati ignoranti, incapaci e svogliati che avevo a scuola. Del resto gente adulta che accetta di farsi trattare comune uno zerbino dimostra da sé quanto vale: niente. Tra questa manica di imbecilli spiccava il vicepreside, che era anche mio professore di matematica e scienze (col risultato da farmele odiare per tutta la vita), che integrava la paga di giornalista da strapazzo con lo stipendio statale da insegnante, altrettanto da strapazzo. Questo perfetto idiota, che non sapeva un accidente, si piccava di essere il nipote di Guglielmo Marconi, ne portava il cognome e gli somigliava pure: la stessa faccia bovina e intronata. Non vuole essere, questa, una lunga introduzione al racconto di una intensa, emozionante escursione su questo specchio d’acqua fatato, tra i mercati galleggianti che si tengono ogni 5 giorni a rotazione secondo un calendario prefissato nei villaggi più importanti; tra orti e giardini anch’essi galleggianti, come avevo visto sul Titicaca e anche vicino a Città del Messico, dove si usano i medesimi sistemi di coltivazione; tra manifatture di tabacchi e aziende tessili che lavorano artigianalmente con telai di legno e bambù e filano a mano perfino la fibra del loto (più preziosa della seta); monasteri dall’atmosfera incantata e tranquilla, dove i monaci allevano gatti acrobati: tutto questo non ci sarebbe, e io non sarei qui, senza questi occhi e il loro modo di vedere le cose, se non ci fossero stati “Conoscere”, l’enciclopedia “Littoria”, le “Spigolature” e “Strano, ma vero” della “Settimana Enigmistica”, lo spirito d’avventura di mio padre, a sua volta eredità famigliare, e i suoi racconti di viaggio oltre al suo modo di visitare i luoghi, ossia “viverli” per osservarli e capirli, da cui ho assorbito come una spugna. E’ stato questo, a parte ciò che hanno registrato i miei occhi più ancora delle fotografie che ho scattato e quello che rimarrà nella mia memoria, che ho pensato nelle ore successive all’escursione che ripeterò domani. Da quelle fonti avevo appreso che il Titicaca è il lago più alto del mondo e che vi galleggiano delle coltivazioni e che su quello di Inle si voga a forza di gambe; quelle fonti, di cui mi sono abbeverato allo spasimo grazie anche, per paradosso, alla meschinità e alla pochezza dei miei insegnati delle medie, hanno plasmato il mio substrato cognitivo e la mia impronta culturale, che è per l’appunto di tipo enciclopedico a scapito della specializzazione, che ha caratterizzato tra l’altro anche il mio percorso lavorativo e che ha stimolato la mia curiosità inesauribile verso alcune materie e alcuni aspetti dell’esistenza: conoscere persone e luoghi, soprattutto la dimensione del viaggio in sé, nel suo svolgimento tappa per tappa, dove porta l’ispirazione  del momento più che un programma preciso (che non ho mai se non a sommi capi). Sempre grazie a quelle fonti, e di conseguenza, avrei imparato a stabilire dei collegamenti, a capire come la popolazione che vive sul Titicaca, di cui non ricordo il nome ma che è imparentata con gli Aymara, e che ha una complessione fisica del tutto diversa dai Quechua (gambe lunghe, toraci meno possenti) per via della sua attività di agricoltori lacustri  e pescatori, vive in una condizione simile (anche climatica) e usa gli stessi metodi degli Intha che vivono sul lago Inle, che sono una minoranza di origina Bamar, ossia birmana, insediatasi qui dal Sud del Myanmar cicra 700 anni fa, probabilmente in fuga dalle guerre, in una zona a stragrande maggioranza Shan (il cui nome viene da Siam, e che è simile, anche per la lingua, a quella che vive nella Thailandia del Nord, nel Laos e nello Yunnan cinese) che a sua volta è la più grande minoranza del Paese (il 10% circa dei 45 milioni di abitanti del Myanmar). Per non parlare dei recenti studi, basati anche sulla genetica, che hanno confermato, come scriveva ancora anni fa Luigi Cavalli Sforza, che le popolazioni andine, come quelle degli “indiani nativi” e quelli dell’America centrale come i Maya hanno origine nell’altopiano tibetano-himalayano. Anche, se non soprattutto questo è, per me, il viaggio. Una dimensione, quella mia, dove tutto quello che sono si tiene insieme, in una fusione di passato e presente che forma un tutto unico, che solo in questa forma riesce a essere in armonia con il flusso del tempo, con le persone e con le cose e a proiettarsi in un futuro che non mi interessa definire e nemmeno delineare, ma vivere.  

1 commento:

  1. .... Vedrai che atmosfera quando rientrerai in Italia !! Scherzo, ma pensare alle medie e a " Conoscere " in Birmania, vuol dire che ti sei fumato qualcosa e non vuoi dirlo ! Buona continuazione!!!

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