lunedì 30 gennaio 2012

Da Bagan al Lago Inle, nella terra degli shan


Il glorioso Nissan-UD

Nyaungshwe / Lago Inle - La tratta da Bagan alla regione del Lago Inle non supera, secondo me, i duecentocinquanta chilometri ma, considerati mezzi di trasporto e soprattutto lo stato delle strade, costituisce un’avventura nel viaggio. Vero che il primo tratto è uno saliscendi sterrato sconnesso che corre a Sud del Monte Popa e che diventa decentemente transitabile soltanto nei pressi di Meiktila, crocevia tra le direttrici Nord-Sud, Mandalay-Yangon, ed Ovest-Est, Bagan - Lago Inle, a sua volta situata sull’omonimo lago; che dopo Thazi si procede su una tortuosa strada in salita sul lato occidentale dell’Altopiano Shan, attraversando paesaggi mozzafiato fino a Kalaw, stazione di villeggiatura per funzionari inglesi fondata in epoca coloniale, dall’aria frizzante e famosa come base per il trekking, per poi scendere in direzione di Tangguyi; che sono comprese due soste per colazione e pranzo e altre due per sgranchirsi le gambe e fare il pieno di gasolio, ma ci si impiegano 11 ore (invece che delle 12 previste), con partenza-shock alle 5 e arrivo alle 16 pressati come le sardine, un clamoroso overbooking che, dopo una delirante fase di controllo dei biglietti e di ripetute conte, quasi a non volersi capacitare di aver venduto un numero doppio di biglietti rispetto ai posti disponibili, si risolve come sempre in Asia, utilizzando sgabelli di plastica da piazzare strategicamente lungo i corridoio e cercando volontari per il “posto ponte”, leggi tetto, dello scalcagnato veicolo Nissan-UD in dotazione: i più astuti, perché se non altro hanno potuto adagiarsi tra i bagagli, in buona parte zaini, sicuramente più comodi e morbidi dei sedili di sotto, anche  se le prime ore di viaggio devono essere state sgradevoli per vie del freddo intenso. Non che al piano inferiore facesse caldo: la portiera era spalancata per consentire al copilota di sporgersi, chiedere la precedenza a urli e gesti e fare scansare cani e soprattutto bovini vaganti dalla carreggiata con appositi comandi vocali. Questo personaggio ha altresì il compito di comunicare coi passeggeri, per la quasi totalità stranieri, in un inglese azzardato, e di eseguire la conta ad ogni sosta; con l’autista, che è rimasto lo stesso per tutta il viaggio, fanno due; poi c’è l’”accompagnatore”, altro personaggio immancabile, che ha il compito, presumo, di tener compagnia all’autista chiacchierando con lui e passandogli del betel da masticare per tenersi sveglio e concentrato: questi ha l’onore di sedersi a suo fianco su uno strapuntino. Il posto n° 1, al finestrino, è immancabilmente riservato alla belloccia di turno, vestita in modo vistoso e con tanto di rossetto catarifrangente, l’amica del cuore di uno dei tre caporioni o forse di tutti e tre e infine l’addetto ai bagagli, il “ragazzo di bottega” oppure paria, che viaggia sul tetto per assicurarsi che le corde reggano, e che tiene d’occhio i volontari di cui sopra. Di riffa o di raffa, tra una fermata imprevista, una coda, un sorpasso azzardato, arrancando sulle montagne si arriva in vista della larga vallata nel cui cuore è situato il Lago Inle, da sempre tra le mete turistiche principali del Myanmar, uno specchio d’acqua di 22 chilometri di lunghezza per 11 di larghezza, anche se è difficile stabilirne i contorni perché manca una vera e propria linea costiera (non può si chiamare tale la strada che ne segue, a grandi linee, la sponda occidentale) dato che è difficile stabilire dove finisca il lago e inizino le paludi, con l’acqua che man mano diventa sempre meno profonda mentre si infittisce l’intrico di canneti a piante acquatiche. A una mezz’ora da Shwenyaung, situata all’incrocio con la strada che porta a Nyaunghshwe, sulla riva Nord del lago e sua porta d’ingresso, dove è previsto che si scenda e si prendano dei pick up o dei mototaxi, il copilota e interprete, ammiccante e con la collaborazione fattiva del pollo di turno, questa volta un canadese, spara ai passeggeri, ormai intronati dallo sballottamento, dalla stanchezza e dal desidero di raggiungere l’agognata meta, l’allettante e furbesca proposta di deviare “appositamente” dalla strada per Tanggguyi (ecco spiegato il netto anticipo sulla tabella di marcia) per portarci direttamente alla meta, senza bisogno di cambiare mezzo. “2500 kyat (circa tre dollari) a testa invece degli 8000 che vi chiedono per un taxi condiviso”, dice, tralasciando di spiegare che ne chiedono sì 8000 ma per 4 passeggeri, ossia 2000 a testa. Il tutto per gli ultimi 7 chilometri a fronte di 10000 kyat pagati per l’intera tratta fino a Tangguyi (e che nessuno sfrutta fino all’arrivo). E la proposta vale solo se almeno la metà dei passeggeri accetta. Una sorta di autodirottamento che avrebbe fruttato ai cinque furbacchioni un extra di almeno 50000 kyat a fronte di 14 chilometri in più (che nessuno avrebbe verificato sul contachilometri, probabilmente inesistente o taroccato). Non avevano fatto i conti con due svizzeri e una famiglia di cinesi che hanno fatto in un baleno quattro conti della serva: “2500? Non se ne parla neanche. Se la maggioranza accetta, si fa 1000 a cranio e vi va già di lusso. Se accetta tutto il pullman, e siamo in 40, facciamo un forfeit di 25000. Altrimenti faremo finta di non aver sentito la proposta”. Una logica ferrea che spiega perché gli svizzeri sono gli gnomi che conservano e lucrano sui capitali loro affidati a tutto il mondo, e sul perché, commercialmente, i cinesi sodomizzino l’intero pianeta a loro piacimento. I cinque presunti furbacchioni sono rimasti così sbalorditi che nel frattempo si era arrivati al bivio di Shwenyaung, con un’ora di anticipo nonché l’impossibilità di andare avanti a barare visto il comitato di accoglienza di taxi, furgoni, pick up, mototaxi in attesa, tutti pronti a farsi concorrenza, per cui nessuno ha pagato più di 2000 kyat per il transfer e in più ognuno è stato recapitato direttamente all’albergo o guesthouse prenotati oppure in quello a cui lo avrebbe condotto, in cambio della congrua commissione, l’autista del mezzo. Per la serie: quando si fanno i conti senza l’oste. In questo caso lo gnomo rossocrociato e il pericolo giallo. Intanto sono al secondo giorno in questo delizioso paesino dall’atmosfera lagunare così tipica che mi è subito sembrata estremamente familiare, ricordandomi da vicino alcune parti di Burano, Torcello e soprattutto Sant’Erasmo, da sempre l’orto di Venezia che rifornisce i mercati di Rialto, Cannaregio, Santa Margherita e San Barnaba. Non a caso anche qui si usano barche dal fondo piatto e anche qui si voga: con una delle due gambe anziché a braccia, ma la tecnica è identica. E la cosa più bella è che i turisti, anche se ce ne sono, non si vedono o quasi. Quelli dei gruppi sono rinchiusi nei loro recinti plastificati ai margini della cittadina e vengono portati direttamente dai pullman al punto di imbarco per la gita d’ordinanza sul lago; i viaggiatori indipendenti entrano a far parte del panorama e vengono assimilati e coinvolti dalle attività locali fino a non notarsi più e quasi a sparire, tanto che tra le 9 e le 10 di sera scatta una sorta di coprifuoco vale per tutti e si va a nanna nelle proprie camere, adeguandosi al ritmo degli indigeni, senza che venga il minimo desiderio di alterarlo. E questo è impagabile. Per esplorare in lungo e il largo il lago c’è ancora tutto il tempo che ci vuole.

sabato 28 gennaio 2012

Appunti birmani

Gatto al tamarindo
Tra gli articoli sportivi, oltre ai moderni strumenti di autoabbrutimento come tapis roulant e macchine da pesi riciclati dall’Occidente, va forte lo hula hop, oltre al chinlon, una palla di rattan di circa 12 cm di diametro che dà il nome anche al relativo sport. Che consiste in sostanza nel mettersi in circolo e passarsela toccandola principalmente coi piedi e la testa. Una variante è giocare con le regole della pallavolo, con tanto di rete in mezzo al campo, col divieto di toccarla con mani e braccia.  
I birmani parlano di politica, e lo fanno più che volentieri anche con gli stranieri. Con la dovuta prudenza, ma lo fanno. Come i cubani. A differenza di cinesi, thailandesi, vietnamiti, laotiani. Già di più lo fanno i cambogiani. L’ultima volta che sono stato in Cile, nel 2004, e presidente era la socialista Bachelet, quelli che votavano a sinistra si guardavano bene dal farlo. Parlavano soltanto, e troppo, quelli che erano dalla parte degli eredi politici di Pinochet.
Attorno a Mandalay la paga giornaliera delle contadine a giornata in una piantagione di pomodori era di 5000 kyat al giorno, all’incirca 6 €. Tra Bagan e il Monte Popa gli stradini prendono poco più della metà, 3 € al giorno. Povertà, sì, ma non ho visto nessuno fare la fame tanto da morirne in Myanmar. Nella tanto decantata India dal formidabile progresso, sì. 
Non ho mai mangiato tanti bagigi o spagnolette, insomma: arachidi come in Birmania. Ottime, in quantità industriali. Servite a ripetizione, già sgusciate, da sgranocchiare con una “Myanmar” ghiacciata, alla spina o in bottiglia (ci sono anche la “Mandalay” e la “Dagon”: ma la Myanmar è senza dubbio la birra migliore). Una tira l’altra: vale sia per le arachidi sia per la birra. 
Uno degli inconvenienti è la massiccia presenza di francesi, almeno il 50% del totale degli stranieri in visita nel Myanmar. Salvo le dovute eccezioni, infinitamente petulanti e fastidiosi come un foruncolo sul culo, tanto da far diventare gradevole perfino l’allegra ciarlataneria dei rari connazionali che si avventurano da questa parti.
Il Myanmar è il primo Paese asiatico in cui ho visto cartelli con scritto “no plastic bags, please” oppure “Plastic bags free city” (o site). Il problema dei rifiuti sussiste eccome, ma è già un passo avanti rendersi conto del problema. Da altre parti ho visto distese di sacchetti di plastica in luoghi impensabili, che sarebbero magari stati incantevoli, trasportati da venti o correnti imprevedibili. Involucri di plastica vengono usati perfino per contenere delle bibite: come in Cina, Vietnam o Thailandia e ve li rifilano ad ogni possibile acquisto. 
Col passare dei giorni mi sono accorto che generalmente i birmani hanno una voce molto bella, profonda, particolarmente le donne, il che rende piacevole da ascoltare e spesso sensuale una lingua già musicale di suo. 
Più di un ristorante, specialmente a Bagan, ha un teatrino dei pupi e offre come accompagnamento alla cena uno spettacolo di marionette, che sono splendide, al livello di quelle siciliane. I birmani adorano le storie, e considerata la carenza di libri, quelle tradizionali tramandate per generazioni dai pupari, talvolta raccontate dal vivo, altre registrate, suscitano l’interesse di un pubblico attento e competente e godono di un grande successo.
Come di regola, costituisco una calamita per matti, ubriachi e gente strana in genere, attirandone come un magnete l’affettuoso interesse e scatenandone la loquela. Immagino si sentano in buona compagnia di un potenziale omologo. 
Sono arrivato qui ben fornito di Autan, piastrine insetticide e zampironi ma finora non ho dovuto usufruirne: è stupafacente quanti pochi insetti fastidiosi ci siano in un Paese dove anche in città è campagna e c’è sempre un corsi d’acqua, una laguna o una risaia a portata di mano. 
Penso di non aver mai visto tanti cani e gatti come in Birmania. Domestici. Soprattutto gatti. E mai li ho visto baruffare. Che il Buddha abbia illuminato anche loro? 

giovedì 26 gennaio 2012

Monte Popa: il rifugio dei “37 nat” sull’Olimpo birmano



NYAUNG U / BAGAN - Di tutti i siti buddhisti meta di pellegrinaggio, che in Birmania sono un'infinità, quello che finora ho visto visitato con più entusiasmo da parte della popolazione locale, preso quasi d’assalto dagli stati più umili, è il Monte Popa. A un’ora e mezzo di viaggio dall’area di Bagan, attraversando la pianura di Myingyan resa fertilissima dalla cenere vulcanica e dalle frequenti piogge (vi cresce di tutto e non a caso il termine “popa” è di origine sanscrita e significa fiore) si giunge in una zona di rilievi tra cu spicca questo isolato picco roccioso alto 737 metri in cima al quale sorge un fatato complesso di monasteri, stupa e templi che mi ha fatto venire immediatamente in mente il castello di Neuschwanstein in Baviera, costruito da Ludovico il Pazzo. Secondo la tradizione, il Monte Popa è la dimora dei 37 nat, o spiriti, il culto dei quali è un residuo dell’animismo pre-buddhista che il re Anawrahta nell'XI Secolo in un primo momento proibì, ordinando la demolizione dei templi loro dedicati nonché i sacrifici di animali che si facevano proprio sul Monte Popa; in seguito, resosi conto che così facendo avrebbe allontanato la popolazione dal buddhismo theravada, si ravvide e ammise il culto di 36 nat ufficiali, di cui fece un elenco (in realtà erano molti di più: il termine nat, anch’esso di origine sanscrita, significa “guardiano” o “signore” ed era associato a un luogo, una persona specifica o a un settore di attività umana su cui era in grado di esercitare un'influenza o un potere: né più né meno che le divinità, dai tratti estremamente umani, che ne amplificavano vizi e virtù, che affollavano l’Olimpo dei greci e che vennero adottate dai romani, i quali, molto più concreti, a loro volta vi affiancarono quelle latine legate principalmente alla terra), aggiungendone un 37°, che venne nominato “re dei nat”: Thagyamin, divinità hindù derivante da Indra. Il quale, secondo la mitologia hindù, aveva reso omaggio al Buddha e così tutto quanto si sistemava. Da questo punto di vista, le analogie con il culto degli Orixás africani che sopravvive e anzi prospera in Brasile, soprattutto nella sua “capitale nera”, Salvador da Bahía, e il sincretismo tra divinità africane e santi cattolici, è evidente. Tornando alla salita, peccato non aver avuto modo di ingaggiare una guida, ma le informazioni ricevute dalla “Lonely Planet” sono risultate esaustive. Un tipico passaggio coperto, in alcuni tratti ripido e disagevole, ma perlopiù dotato di corrimano, porta alla cima passando per una serie di templi dedicati ai nat, sorta di stazioni dove i locali si fermano per omaggiarli e lasciare offerte. Per neutralizzare una qualsiasi loro reazione negativa, nell’ascesa non bisogna indossare nulla di rosso o di nero (colori maledetti, quando associati: capito, amici milanisti? E foggiani), portare della carne con sé, specie se di maiale, sparlare di qualcuno o bestemmiare: su quest’ultimo punto ero in difficoltà, perché detesto le salite, quando non sono assistite da strumenti meccanici. Ma mi sono trattenuto, e non ho tirato sacramenti nemmeno quando ho avuto che fare con le irascibili scimmie che infestano il luogo: sono loro che fanno da guardia pretoriana al rifugio dei nat, molto efficaciemente delle statue di elefanti, tigri, serpenti che presidiano gli ingressi dei due camminamenti che portano in cima al monte. I macachi in questione, vivi e vegeti a differenza dei loro più massicci colleghi in legno o terracotta laccata, sono perniciosi in due modi: smerdando la scalinata, danno il destro ai provvidi “pulitori” di avere un motivo per chiedere una contribution for cleaning a ogni pie' sospinto, dato che nei siti buddhisti si entra a piedi rigorosamente nudi, e molestando chiunque in una spasmodica ricerca di cibo. A qualche sprovveduto è capitato che aprissero fulmineamente lo zainetto per cercare qualche prelibatezza gastronomica: trovandosi un portafoglio in mano, non commestibile, a qualcuno (un giapponese) è pure successo che l’abbiano gettato nel vuoto. La soluzione è starne alla larga, non prodursi in carinerie ai piccoli scimmiotti “tanto teneri” perché se no la madre si incazza di brutto, e ricorrere ai mezzi che utilizzano i locali: comprare a poco prezzo una dozzina di tubi di carta con inseriti semi di girasole, sesamo  o altro, e concedergliene uno alla volta, con superiore magnanimità. Perché, come sostengo da anni e ne sono sempre più convinto, sono le scimmie a discendere dall’uomo e non viceversa. Oltre a essere infinitamente più intelligenti di noi, sono perfino più stronze, e questo dimostra l’origine comune al di là di ogni prova del DNA. Alla fine l’ascesa, che per quanto faticosa non impegna più di mezz’ora, viene premiata non tanto per il panorama, magnifico, che si gode dalla cima, quanto per il misto di magia a concreta devozione, sacro e profano, dopo il succedersi di siti in cui non è il Buddha, l’Illuminato, per quanto supremo, a essere protagonista quanto, per una volta, questi suoi accompagnatori avventizi, malevoli o benevoli e mutevoli quanto la natura umana, che vengono molto, ma molto prima di lui. E a cui i birmani si rivolgono come divinità familiari, oggi come sempre, pur essendo buddhisti nel profondo. 

mercoledì 25 gennaio 2012

Tra la magia di migliaia stupa e la storia dell'antica Bagan


BAGAN / NYAUNG U – L’area su cui sorgeva Bagan si trova su un’ansa del fiume Ayayarwadhi abitata già duemila anni fa e che attorno all’850 era sede di una città-stato pyu (una delle prima etnie giunte nella pianura dall’altopiano tibeto-birmano): il nome Bagan (o Pagan) entrò in uso soltanto nel corso del XIX Secolo e deriva con ogni probabilità da Pyugan. La sua epoca di maggior splendore, di cui sono vestigia qualcosa come gli almeno 4400 templi visibili oggi in un’area di pochi chilometri quadrati, a spanne tra i venti e i trenta (tranquillamente visitabile prendendo in affitto una bicicletta), ebbe inizio soltanto dopo la conquista di Tathon da parte del re bamar (birmano) Anawratha. Le cose andarono così: il re mon (altra etnia) di Tathon, Manuha, inviò il monaco Shin Arahan presso Anawratha allo scopo di convertirlo al buddhismo theravada. Il monaco fu così convincente, e tale fu l’entusiasmo con cui questi abbracciò la nuova fede, che Anawratha chiese a Manuha di fargli avere i testi sacri e le reliquie. Al rifiuto di questi, mosse guerra mosse guerra contro il regno mon, nel 1057 conquistò Tathon e portò come bottino a Bagan ben 32 serie del “Tripitaka” (le scritture buddhiste classiche), eruditi, monaci e già che c’era anche il re Manuha. Da quel momento esplose quel furore costruttivo che portò, nell’arco di duecento anni, tanto durò il periodo aureo della città, che coincise con primo impero birmano, all’edificazione di questa distesa di tempi di tutte le dimensioni che impregna la pianura circostante: Anawratha iniziò l’opera, dando incarico ai suoi architetti di progettare edifici grandiosi a maggior gloria del Buddha, e a quel primo periodo risalgono le opere più spettacolari, tra cui la Swezigon Paya che si trova nella parte settentrionale della pianura, a Nyaung U: che è anche il centro più abitato e fulcro dei trasporti anche se più defilato, sicuramente il più dotato di strutture per i visitatori: che non sono pochi, perché Bagan è meta di pellegrinaggio, assieme al Monte Popa, che dista un’ora e mezzo di bus, per i buddhisti di tutto il Sud-Est Asiatico, oltre ai cinesi, che sempre di più si danno al turismo, i giovani anche in modo indipendente. Da notare che la popolazione di Old Bagan, che è il fulcro della zona archeologica, pochi chilometri più a Sud, fu trasferita a New Bagan, ancora più a Sud, nel 1990 per volontà del governo, e ora ci abitano funzionari statali e personali degli alberghi, tra cui l’esagerato Aureum Palace, in presunto stile-Bagan, in realtà di chiara influenza sino-comunista, così come il Museo Archelogico e il sito palaziale, regolarmente chuso (è lì che si sospetta finiscano i 10 dollari che si pagano cumulativamente per la visita dell’area archeologica di Bagan, una gabella a cui non sfugge nessun nuovo arrivato. Si distinguono un periodo antico, legato alle influenze mon e pyu, con ambienti in penombra e finestre traforate, fin verso il 1100, uno medio, con un ampliamento delle finestre e una propensione alla verticalità, che va fino attorno al 1170, e uno tardo, in cui l’influenza indiana prende il sopravvento, con una profusione di guglie e pinnacoli sempre più elaborati e decorazioni con formelle ornamentali, fino al 1287, quando ebbe fine il primo impero Birmano a causa dell’invasione dei mongoli di Kublai Kan. Pare che a quel tempo il declino di Bagan fosse già iniziato perché l’ultimo re, Narathihapati, terrorizzato dall’invasione mongola, avesse cominciato a demolire alcuni templi per costruire fortificazioni di difesa provocando lo spopolamento della città, ragione per cui al loro arrivo la trovarono già in gran parte abbandonata. Se si pensa che soltanto gli edifici religiosi furono costruiti con materiali resistenti all’usura del tempo, e che perfino i palazzi reali della città birmane erano in legno, così come i monasteri (ancora nell’800), non si riesce nemmeno vagamente a immaginarsi come potesse essere Bagan al momento del suo massimo splendore, se ancora adesso la vista, specie dall’alto e in particolare alle prime luci dell’alba o verso il tramonto, è da togliere il fiato. Per più di un motivo, a cominciare dall’epoca in cui si svilupparono, per proseguire con la netta influenza indiana, oltre che per il buddismo che ne è elemento comune, Bagan la si può paragonare al sito, ancora più esteso, di Angkor, l’antica e maestosa capitale dell’impero khmer in Cambogia, e l’emozione che ho provato a immergermi nella magia che emanano per me è stata simile.  E del resto nell’area sono, insieme al Laos, che rimane nel profondo del mio cuore, i Paesi che nell’area si assomigliano di più, anche per le fattezze e il carattere di chi li abita. Sicuramente quelli in cui mi sono trovato meglio. 

lunedì 23 gennaio 2012

Da Mandalay a Bagan sull'Ayeyarwadhi


L'Ava Bridge all'alba

BAGAN/NYAUNG U – Quando si tratta di un’alternativa praticabile, ho sempre privilegiato il trasporto via acqua, in particolare quello fluviale. Quest’ultimo, meno praticato di un tempo, è un modo senza uguali per entrare in contatto con i diversi aspetti della realtà di un Paese e di una popolazione, più che mai in Birmania, che è n mosaico di etnie. Sempre che non si vada in crociera ma si prendano i mezzi che usa abitualmente la gente del posto. Reno, Danubio, Rio de la Plata e Paraná, Orinoco, Nilo e, in Asia, Mekong: in attesa di affrontare un giorno il Rio delle Amazzoni e il Volga non potevo lasciarmi sfuggire di discendere l’Ayeyarwadhi nel tratto, lungo a occhio tra i 150 e i 180 chilometri, tra Mandalay e Bagan. O meglio: l’area su cui sorgeva l’antica Bagan, capitale del primo e più splendido impero birmano, che vide il re Anawratha farsi paladino del buddhismo theravada introducendolo nel Paese al posto di quello mahayana e del credo induista: siamo nel XI secolo D.C., e da allora è la religione del Myanmar. Il battello, chiamati slow boat a differenza di quello per turisti che effettua lo stesso percorso tutti i giorni in direttissima in metà tempo e con tutti i comfort, alla non modica cifra di 40 dollari, parte da Mandalay due volte a settimana, la domenica e il mercoledì, per risalire da Bagan il giorno successivo. Al costo di 10 dollari (per gli stranieri), in 15 ore circa, ma non c’è paragone. La partenza è alle 5.30 ma bisogna essere al molo tre quarti d’ora prima, quando apre la biglietteria, e a quell’ora fa decisamente freddo. Che diventa più pungente quando vengono mollati gli ormeggi, perché si sta sul ponte e all’aperto: gli ospiti stranieri col privilegio (dubbio) di una sedia di plastica, sul ponte superiore e a ridosso del parapetto. Non è un caso che alla prima fermata, dopo un’oretta di viaggio, all’altezza di Sagaing, dove tra la nebbia dell’alba si intravedono le centinaia di stupa dorati che sembrano spuntare come funghi sulle colline circostanti, salgano delle donne che vendono coperte di pile, e fanno buoni affari. L’alternativa è individuare la cucina di bordo, che non può mancare, e che ho immediatamente localizzato, ed essere tra i primi clienti per una sapida chicken noodle soup con generosa aggiunta di balachaung, condimento a base di peperoncino, tamarindo e gamberetti essiccati per renderla ancora più caliente. Accompagnata da un boccale di tè al latte dolce, alla maniera indiana. Sul battello c’è di tutto: chi si sposta col motorino o la bicicletta da una parte all’altra del fiume, chi è andato nel capoluogo a fare provviste di prodotti che non troverebbe facilmente nel villaggio, chi trasporta da una tappa all’altra riso, che poi viene scaricato per essere sostituito dalle banane, e a un certo punto da fiori, con una logica che c’è ma sfugge. Commercianti, quindi, ma anche contadini, la maggioranza; ciarliere donne che salgono a proporre frutta e cibarie varie, dai pezzi di pollo arrostito ai samosa fritti e ripieni di verdure (la Cina è vicina ma l’India anche), alle pannocchie bollite o passate al barbecue; gli immancabili monaci. E una sparuta gallina. Una decina le tappe prima di arrivare a destinazione, dopo “sole” 14 ore, con una di anticipo sull’orario previsto. Sarà che ieri era domenica e che forse c’era meno movimento, ma mi aspettavo più affollamento e più frenesia, e così anche sul fiume. Piuttosto scarsi i battelli in circolazione: qualche chiatta che trasportava legname o carburante, qualche pescatore, qualche traghetto privato tra una sponda e l’altra che, ad ogni buon conto in nessun punto distano meno di 500 metri anche durante la stagione secca che è per l’appunto in corso. Scarsa l’attività anche lungo le rive, anche perché i villaggi sorgono sempre a distanza di sicurezza da esse: perfino a Mandalay i lungofiume (e tutti i moli) si trovano in periferia, così come a Yangon, anche se vi si trova lo Strand e una serie di uffici coloniali, non sono certo il cuore del centro: immagino che sia così a causa delle  regolari esondazioni che hanno luogo durante la stagione delle piogge (a differenza che nella Terra dei Cachi, dove si costruisce, abusivamente o con autorizzazione pubblica, negli alvei dei fiumi, salvo frignare e chiedere risarcimenti quando le case vengono spazzate via).  In questa placidità ho notato una grande differenza col Mekong che scorre praticamente in parallelo poche centinaia di chilometri a Est, e che ho disceso nella parte sia laotiana (dove nel primo tratto scorre tra le montagne), sia cambogiana (quella più simile a qui), sia in quella vietnamita, dove l’animazione lungo le rive è infinitamente maggiore, ma anche la quiete dell’Ayeyarwadhi ha i suoi pregi: è una dimensione diversa, con un ritmo che ti entra dentro e ti dà un senso di pace. Nemmeno gli “stagionali” che “cavano” e commerciano sabbia sulle isole che si formano in mezzo al fiume durante la stagione secca, e che vi si trasferiscono costruendo piccoli villaggi di bambù che abbandonano con l’arrivo del monsone, si fanno prendere dalla frenesia, e fanno bene. Peccato che non ci sia modo, almeno per gli stranieri, di proseguire oltre, ma anche per i locali i trasporti sono estremamente carenti. Evidentemente dare alle persone la possibilità di muoversi non rientra tra le priorità di chi governa il Paese. Salvo trasferirle da una località all’altra, come racconterò più avanti facendo l’esempio proprio di Bagan.



sabato 21 gennaio 2012

Attorno a Mandalay, scuole per poveri e acque purificate


Scorcio del complesso monastico-scolastico Pahung daw Oo

MANDALAY - Il pezzo forte di Mandalay sono i suoi magnifici dintorni, alla cui perlustrazione mi sono dedicato a fondo durante i sei giorni che ho trascorso qui. L’ho fatto a bordo della moto di Zawzaw (pronunciato all’inglese Sawsaw), guida preziosa e, in questi giorni, amico sincero. La città, sul corso dell’Ayeyarwadhi, si trova non solo al centro del Paese, di cui è crocevia, ma di una pianura vasta e fertile quanto quella Padana il cui panorama piatto, come quest’ultima viene ogni tanto interrotto da paesaggi collinari o anche montagnosi sullo sfondo. Lungo il corso del fiume si trovano le aree in cui sorgevano altre ex capitali birmane: Sagaing, cui si giunge attraverso un ardito ponte inaugurato nel 2005 che ha rilevato la funzione di quello costruito dagli inglesi negli anni Trenta del secolo scorso, una pletora di pagode che punteggiano a centinaia le colline circostanti, ben visibili per via delle cupole dorate; Amarapura, la più vicina a Mandalay e sulla stessa sponda del fiume, famosa per il Maha Ganayon Kyaung, prestigioso centro di studi monastiche ospita fino a 6000 giovani bonzi, noto per la sua rigida disciplina, e per l’U Bein’s Bridge, una cartolina della Birmania conosciuta in tutto il mondo (campeggia sulla copertina della Lonely Planet): il ponte di tek vecchio di due secoli lungo 1,2 chilometri e che collega le due sponde del lago Taungthaman; Inwa, che fu capitale per 400 anni, più delle sue rivali, e oggi è un’area rurale con ruderi pagode diroccate e perfino un forte sul fiume, ultimo di un sistema di tre congegnato da un ingegnere italiano a metà dell’Ottocento come ultimo sistema di difesa contro gli inglesi. Inwa è anche una sorta di trappola per turisti: isolata com’è da fiumi e canali, a meno di non venirci in moto con uno che conosce la strada si rimane vittima di un accordo di cartello fra i traghettatori da una sponda all’altra dell’Ayeyarwadhi e i barrocciai locali che  scarrozzano i turisti tra i siti lungo un percorso che impiega dalle tre alle quattro ore. Altro e più fastidioso trappolone è Mingun, a un’ora di distanza, verso cui parte un solo traghetto ufficiale al giorno, alle 9 del mattino per tornare alle 14, prezzo 5 dollari (l’affitto di barche private è improponibile a meno di essere un gruppo nutrito, e per andarci in moto si impiegherebbero 5 ore tra andata e ritorno), dove le attrazioni sono la seconda campana più grande del mondo (la prima si trova in Russia) e la Mingun Paya, quella che sarebbe stata la più grande pagoda del mondo (per la serie “caccia ai record”), se il re Bodawpaya non fosse morto prima che fosse portata a termine, nel 1819: dalla sua cima pianeggiante pare che si goda una magnifica vista del fiume: non posso confermarlo perché mi sono rifiutato di scucire altri tre dollari la governo per salirvi in cima. Qui ho trovato le gente più sgradevole da quando sono in Birmania, scostante e petulante insieme oltre che avida, del cibo immangiabile e perfino dei monaci stronzi. Un'eccezione alla regola, come conferma la mia istruttiva visita di ieri alla “Phaung Daw Oo”, ovvero la “Intergated Monastic Education High School” che si trova nel quartiere di Nanshe, nella parte NordEst di Mandalay. Si tratta di una scuola, fondata nel 1994 da due monaci, U Nayaka e U Zawtika B.Se, che accoglie qualcosa come oltre settemila allievi, femmine e maschi, provenienti da famiglie disagiate o problematiche, urbane e rurali, che hanno abbandonato la scuola quasi sempre per l’impossibilità economica di mantenerli agli studi, totalmente gratuita, autosufficiente e i cui corsi, di istruzione primaria e secondaria, sono riconosciuti dallo Stato. 900 sono al momento i ragazzi che usufruiscono dell’internato, 50 sono alloggiati nell’orfanotrofio, oltre a un centinaio di profughi del catastrofico ciclone “Nargis” che il 3 maggio del 2008 si è abbattuto sul Myanmar mietendo almeno 140 mila vittime, secondo le prudenti stime ONU e ASEAN, 300 mila secondo altre più realistiche. Da notare che vengono accolti ragazzi senza distinzioni etniche, e questo in un Paese dove gli scontri fra le minoranze e le forze governative, appartenenti in prevalenza alla maggioranza “bamar” (birmana) sono all’ordine del giorno e intere aree sono isolate e considerate zone di guerra (e pertanto non raggiungibili dai viaggiatori stranieri) e che l’educazione non si basa su alcuna religione. Quasi 200 sono gli insegnanti, regolarmente stipendiati (ne ho visti alcuni stranieri, per lezioni in lingua madre), è sostenuta dall’UNICEF e si basa su donazioni. Generose quelle di Germania, Francia e Svizzera, che hanno fornito la scuola di dormitori, laboratori (oltre che di falegnameria e tessitura anche di informatica, con decine di computer) oltre ad ambulatori che sono aperti anche per gli abitanti indigenti della zona (ieri era il turni dei dentisti, un altro giorno quello degli oculisti, e così via). L’Italia è splendidamente assente, tanto per cambiare: alla cooperazione allo sviluppo da sempre è assegnata una cifra ridicola, molto inferiore a quella a cui i vari governi si sono impegnati a mettere a disposizione nei trattati internazionali, e buona parte della quale è assorbita nel mantenimento di una burocrazia idiota che non sa nemmeno dove si trovi il Myanmar, nel sovvenzionamento di ONG “amiche” e il resto di fatto, in una forma di surrettizio sostegno all’esportazione (cosiddetto “aiuto legato”). Al termine della visita, avvenuta con l’accompagnamento di due allievi (uno dei quali, avendo appena visto il film “Romeo e Giulietta”, mi ha posto il quesito non banale del perché Shakespeare, che era inglese, abbia ambientato la vicenda proprio a Verona), sono stato gradevolmente intrattenuto  dal corresponsabile e fratello del fondatore, anch’esso monaco e puottosto avanti con l’età, e il discorso è planato sulle elezioni generali che, a quanto è dato sapere, dovrebbero tenersi in aprile. Secondo il monaco le cose stanno muovendosi e comunque cambieranno: se il momento sarà fra tre mesi, questo rimane un punto di domanda. Un’esperienza, la visita di cquesto complesso scolastico, che da sola vale più di un cantinaio di pur splendide pagodel. Per chi volesse saperne di più, ed eventualmente dare un contributo l’indirizzo è www.phaungdawoo.org. E a proposito di pagode e monasteri, non poteva mancare, già verso le colline a Nord della città, quello in cui un monaco, nell'estate del 1998, sognò il Buddha che gli disse di perforare il terreno in un punto ben preciso del complesso e che lì avrebbe trovato dell’acqua pura. Si procedette e il 3 luglio dello stesso anno, in effetti, a 117 piedi di profondità, poco meno di 40 metri, sgorgava l’acqua, costantemente fresca e purificata naturalmente come quella che viene stillata dalle pietre, come avrebbero confermato le analisi, effettuate a Singapore (dove è stata adottata dall’ospedale statale) e negli USA e qualificata come minerale con effetti curativi. Dicono che migliori il QI: che non devono aver stimato molto alto se i monaci me ne hanno prontamente omaggiato due bottiglie, e che Zawzaw (non io) si è ricordato che avevo nello zainetto quando, salendo su una collina da cui sembrava scendere una teoria di 500 monaci in terracotta, mi aveva visto pressoché disidratato. 
I "550 monaci"

venerdì 20 gennaio 2012

Roberto Baggio e il linguaggio universale del pallone

MANDALAY - Dotato dalla natura della scienza infusa del calcio, Roberto Baggio, classe 1967, è stato sui campi di gioco un “illuminato”. Giocatore che aveva col pallone un rapporto di dialettica hegeliana accompagnata  a una fantasia picassiana e a un senso geometrico pitagorico, è stato il calciatore buddhista più famoso al mondo, uno dei più amati in assoluto. Perfino in Italia, patria dei mille campanili, con qualsiasi maglia giocasse: dopo quella biancorossa dei “lanieri” della natìa Vicenza, quella che gli stava meglio, anche esteticamente, era quella viola della Fiorentina; poi quella azzurra della nazionale, che condusse praticamente da solo alla soglia della vittoria del Mondiale di USA 1994, che le fu negata, vedi gli scherzi del destino, proprio per un calcio di rigore decisivo sbagliato in maniera incredibile proprio da lui, il “Divin Codino”. Mi piace però ricordare che il suo cuore è sempre stato nerazzurro. A lui si attagliava alla perfezione dal definizione di uno capace di “pensare con i piedi”, oltre che con la testa (cosa non scontata, questa, perché bisogna averci un cervello dentro e farlo funzionare) e può sembrare un paradosso che la sua fama sia dovuta a ciò che sapeva inventare con la parte meno nobile del corpo umano, nella visione buddhista. Qui in Birmania, Paese che buddhista lo è profondamente, è ancora oggi nella memoria di tutti, a quasi otto anni dal suo ritiro, una via di mezzo tra un “nat” (spirito) e un guru e la sua fama oscura perfino quella di Maradona. E i birmani di pallone se ne intendono: seguono quello internazionale con passione, sono informatissimi su tutti i tornei nazionali e le competizioni di coppa europei, ne vedono in diretta le partite più importanti delle “beer station” e nelle “tea house” coi televisori sintonizzati sui canali satellitari sportivi; entra in tutti i discorsi con gli stranieri (di sesso maschile e non USA), un ottimo veicolo di comunicazione, un minimo comun denominatore utile a farci rendere conto di quanto simili, nelle nostre pulsioni primarie, a tutte le latitudini, e sempre capaci di tornare bambini quando c’è da correre dietro a una palla da prendere a pedate. E non è un caso che gli statunitensi, salvo rare eccezioni, questo linguaggio non lo sappiano parlare e non lo capiscano: infatti faticano a comprendere ciò che è fuori dai loro confini, che sono in realtà molto limitati. Che il calcio sia un linguaggio universale lo sanno anche i giovani monaci che due giorni fa in un monastero ai piedi della Sagaing Hill, a una ventina di chilometri da Mandalay, sull’altra sponda dell’Ayeyarwady, ho visto togliersi le tonache, appenderle a un cancello, agghindarsi con ciò che rimaneva arrivare a condividere lo stesso paio di scarpe, quella destra a uno e quella sinistra all’altro, e darci dentro con un entusiasmo incontenibile: ho fatto in tempo a salire in cima alla collina, visitare tutte le pagode sul percorso, ammirare lo splendido panorama delle migliaia di stupa disseminati sulle colline circostanti e, sullo sfondo, il corso maestoso e placido dell’Ayeyarwady, imponente anche in questo periodo di “secca”.  Grazie Robi, dunque, per aver insegnato calcio su tutti i campi del mondo: scene come queste sono il migliore omaggio alle magie che hai saputo regalarci.

mercoledì 18 gennaio 2012

Big Brother


MANDALAY - Non  si viene a Mandalay per la città in sé ma per i suoi dintorni, per raggiungere  i quali è la base di partenza obbligata. Viaggiando da solo il mototaxi è la soluzione ideale, e Soso il mio chaperon: l’ho conosciuto in una tea house il pomeriggio di domenica, giorno del mio arrivo, e lo spunto era stata una chiacchierata sulla “cinesizzazione” della città di cui parlavo nel post precedente. Non si è proposto lui: sono stato io a chiedergli se sarebbe stato disposto a fare servizio anche fuori città. Questo per spiegare quanto la gente di qua sia solitamente poco invadente e pressante. Affare fatto, e da allora è la mia guida di fiducia. Molto valide e informata. Ha subito capito le mie preferenze, e mi propone sempre delle alternative ai luoghi frequentati dai turisti intruppati nei viaggi di gruppo (quelli che per pigrizia mentale non si fanno problemi a riempire le tasche di chi  governa questo Paese da qualcosa come 50 anni) e anche per le visite “obbligate” trova il modo di non farmi pagare l’assurdo biglietto cumulativo per i “Siti archeologici dell’area Mandalay”, dieci dollari in valuta che vanno a rimpinguare le casse governative e di cui non un solo cent si tramuta in finanziamenti per restauri conservativi e attività di scavo; non ci pagano neanche il personale, che infatti di regola non chiede il biglietto all’interno delle pagode: il trucco sta nel fatto di passare dalle entrate secondarie, e Soso sa alla perfezione quali sono. Altro esempio: esistono in città due monasteri di legno, della stessa epoca (150 anni fa) e pressoché identici. I turisti vengono convogliati in quello che rientra nel circuito dei “Siti archeologici governativi”, mentre i clienti di Soso e della maggior parte dei suoi colleghi vengono portati in quell’altro, dove ieri, in perfetta solitudine e in un’atmosfera idilliaca, ho assistito alle attività mattutine dei monaci, oggi alloggiati in bungalow attorno a quel prodigio di intarsi in tek dei loro predecessori che è stato abbandonato per prudenza, ma che viene accuratamente accudito con oli impregnati che ribollono in calderoni, tinteggiature costanti e attenzioni di ogni genere. Per conto mio, invece, ho deciso di andare a vedere la “Snake Pagoda” a Paleik, dove alle 11 vengono lavati e nutriti i pitoni da cui deriva il nome, piuttosto che il  monastero di Aramapura dove folle (relative) di turisti maleducati vanno a sbattere in faccia ai monaci foto e videocamere mentre fanno la fila per ricevere il loro cibo quotidiano e le regalie (spazzolini da denti, paste dentifricie, saponi) prima di entrare in refettorio (ai donatori è concesso il "privilegio" di porgerli ai monaci di persona, per cui parenti e amici si improvvisano distributori di vivande e di “beni di conforto”). Narra la leggenda che un uomo sognò che tre serpenti si fossero accoccolati attorno alla statua del Buddha e che lì sarebbe dovuta sorgere una pagoda: al risveglio davvero tre pitoni erano lì a tenere placidamente compagnia all’Illuminato, e la “paya” venne effettivamente costruita, ed è una delle più vecchie dell’area, oltre che popolari tra la gente del luogo: di stranieri oltre a me c’era solo una coppia di tedeschi. Peccato che quest’anno (e da alcuni anni) in questo periodo la temperatura sia un po’ più fresca del solito, circostanza che rallenta il metabolismo dei rettili, animali a sangue freddo, in più sono in fase di muta, per cui niente bagnetto nella vasca appositamente agghindata con erbe profumate; infine, uno dei tre pitoni è ammalato, però lo spettacolo si è tenuto stato lo stesso. Alle 11 precise, accompagnate dal suono del gong, i due pitoni, alquanto intorpiditi, arrotolati uno a destra e l’altro alla sinistra della statua del Buddha, vengono presi in consegna da due anziani addetti che li trattano come dei nipotini (sono dei rispettabili bestioni di quattro metri di lunghezza) che, aiutati da alcuni volontari (tra cui io, che ho una predilezione per i pitoni), li “srotolano” per portarli all’esterno attorno a una strana torre dell’orologio in stile inglese, in pieno sole. Lì i due serpenti, alla maniera delle batterie solari, prendono energia e vita, cominciano a muoversi, vengono accarezzati dagli astanti, presi in braccio, si scattano foto per immortalare i coraggiosi, spesso bambini, che sono quelli che ne hanno meno paura (il pitone ha una forza formidabile ma non è aggressivo). Li si lascia “ricaricare” per un po’ e alla fine, senza pranzo (rinviato alla sera: un pastone a base di uova e latte, alimenti per cui qualsiasi serpente va pazzo), li si ritrasporta all’interno e, lasciati alla base della statua del Buddha (in candido marmo levigato, mi pare), vanno a ritrovare la loro postazione preferita. Appena fuori della pagoda c’è una serie di “tea house”, ossia una serie di baracchini di bambù dove un iniziale tè (con latte, dolce, delizioso, tipo quello indiano) è diventato un pasto a base di  “mounti” (ogni riferimento all’attuale premier per caso è, per l’appunto, casuale), tagliolini di riso freddi con verdure e anacardi, seguito da una insalata locale: foglie di diverse piante, tra cui tè, pressate e condite con olio e altri ingredienti croccanti, che fanno pensare a dei piccoli crostini, questa omaggio della cuoca lusingata dalla velocità e accuratezza con cui ho ripulito il piatto precedente; come dessert un frutto chiamato “squat apple”, mai visto prima, una piccola mela rugosa fatta a scaglie, con un interno cremoso e dolcissimo, anche se pieno di semi. Sono stati i proprietari della “tea house” a propiziare l’incontro che avrebbe coronato la giornata ma che mi farà rimanere comunque impresso questo viaggio: visto che con Soso stavamo andando alla ricerca di siti abbandonati e in taluni casi diroccati, ci hanno segnalato una pagoda che non si trovava esattamente nelle vicinanze e che nemmeno il mio conducente conosceva: la Mat Kayar. E siamo partiti alla ricerca. A oltre un’ora da Mandalay, per strade sterrate, passando per villaggi rurali, chiedendo informazioni a ogni incrocio, ci siamo arrivati. Un monastero semplice, rurale: qualche bungalow, una costruzione più grande, con un paio di tavoli all’esterno, poteva sembrare un’osteria di paese, a uno dei quali sedevano due monaci, uno più anziano e quasi imponente, l’altro più giovane, ma almeno sulla trentina. Ci si fa accomodare, immediatamente ci viene servito del tè, e senza alcuna richiesta dell’anguria tagliata a pezzettini, poi un’altra porzione, delle arachidi, di nuovo dell’insalata ma di sole foglie di tè, giusto per piluccare e chiacchierare. Sono affascinato dall’uomo che ho davanti, dal suo sorriso sincero, forte; dal suo sguardo forte e dolce al contempo, dal portamento, dai lineamenti nobili, dalla risata aperta, dalla voce profonda. Quest’uomo emana carisma, non un’aura di santità: di umanità. Percepisco che è un capo. Lui probabilmente, per un qualche motivo, prova una simpatia immediata per me: si comunica attraverso Soso, che gli dice che vengo dall’Italia. Si accenna a Roberto Baggio, buddhista dichiarato, amato da queste parti  tranne che dal governo, ma lo capisco anche senza interprete, e lui capisce me,  dal tono di voce e dallo scambio di sguardi, dall’unisono delle risate, dalla mimica. Alla nostra età, mi fa capire a gesti, i capelli diventano bianchi e cadono, i denti si guastano, gli occhi  smettono di vedere però la mente è lucida. Mi chiede quanti anni ho: 57 a maggio, gli dico. 62, mi fa lui. Eravamo tre fratelli, il più giovane ha la tua età. E allora tu sei il mio “Big Brother”, gli rispondo. E voglio una foto con te. Concessa, sempre che io ne faccia una con lui dopo aver visitato il sito (per quello eravamo venuti) di pagode fatiscenti, rinvenute sotto terra e arbusto come all’Angkor Wat in Cambogia, e ora riparate soltanto attraverso le donazioni di privati, nessun contributo pubblico, in più il bonzo è responsabile del piccolo monastero locale (oltre a insegnare in quello più grande, ad Aramapura), per ora solo sette monaci, ma si farà. Tra una foto e l’altra, una visita del sito, con una trentina di stupa di diversa epoche, immersi in un panorama meraviglioso, le colline del vicino Shan sullo sfondo, nel mezzo di una campagna fertile e coltivata fino all’ultimo ettaro, in uno spazio curato, pieno di fiori, perfino con una sorta di tunnel in mezzo a delle bougainvillee rosa e rosso sangue. E un’emozione profonda, ma serena, me l’ha data il girovagare nell’area attorno al monastero, un villaggio rurale dove fervevano le attività quotidiane; semplici case di bambù, qualche volta rinforzate da elementi in legno o muratura; aie piene di animali e con la gente dedita ad attività, e con strumenti, che da noi vengono nel migliore dei casi ricordate nei musei dedicati alla civiltà contadina. Povertà: può chiamarsi tale? Comunque non indigenza. In campagna si sopravvive. Ma nelle vicinanze di luoghi dove sono presenti monaci come Big Brother si percepisce un’aura diversa. Qui c’è un’autorità, che parla alla gente perché vive tra la gente e ha gli strumenti per farsene interprete. E’ quest’autorità morale che può parlare a nome di tutti. 

lunedì 16 gennaio 2012

A Mandalay la Cina è vicina


MANDALAY – Mandalay, pronunciata, all’inglese, “Mandalee”, è la seconda città del Myanmar e capitale della “Division”, o regione, che ne è il cuore. Città fondata solo nel 1857 da Mindon Min, penultimo sovrano del regno birmano, ne fu la capitale fino alla definitiva conquista da parte degli inglesi nel 1885, dopo essere stata trasferita qui da Amapura nel 1861. Abitudine, quella di spostare la capitale da un posto all’altro di quest’area attraversata dall’imponente e placido Irrawaddy, l’arteria pulsante del Paese, a maggior gloria al sovrano di turno: Amapura, Inwa, Sagaing, Shwebo ne sono degli esempi. Un milione di abitanti, moderna, vibante, l’influenza cinese si coglie a prima vista, e le differenze con Yangon saltano all’occhio: maggiore ricchezza, che si nota immediatamente dal parco macchine più aggiornato, dai negozi e magazzini e dalla quasi inesistente attività commerciale da strada; marciapiedi e manto stradale in condizioni più che accettabili; l’invasione di motorini  e conducenti che non rispettano mai le strisce pedonali e suonano sempre il clacson (ma mai ossessivamente come in India); orrida architettura sino-comunista, di cui risparmio la documentazione fotografica a chi legge, che vede le sue vette nella faraonica e pletorica stazione ferroviaria e nello zeygo, i due palazzoni che ospitano il mercato centrale che è stato trasferito qui dopo che nel 1990 fu smantellato, con grande sconcerto della popolazione, quello “storico”, progettato dall’italiano Calvari (che fu anche primo segretario del Comune di Mandalay): la pianta ortogonale e gli ampi viali, che ricordano da vicino le città argentine; l'esistenza di targhette sulle vie e di indicazioni stradali decifrabili; la minore presenza sia di “beer stations”, sia di cani e di gatti (che vengano requisiti, soprattutto i primi, a scopo gastronomico, secondo i gusti alimentari cinesi?). Il boom economico si è verificato con la riapertura della Burma Road che via Lashio, capitale dello Stato Shan, porta in Cina, negli anni Novanta, alimentato dai proventi dei lucrosi traffici di pietre preziose ed eroina, e ha “messo il turbo” con la progressiva liberalizzazione del commercio col potente vicino, ottimo cliente tra l’altro per il petrolio e il gas birmano, e che si presenta qui con progetti chiavi in mano per la costruzione di infrastrutture: lo si nota dalla quantità di alberghi cinesi in città ma anche dal recente completamento a tambur battente dell’autostrada tra Yangon e Mandalay (messa in cantiere forse perché passa dalla nuova capitale Nay Pyi Taw, anch’essa edificata dai cinesi) che consente il dimezzamento di tempi di percorrenza (il bus, partito alle 8 di sabato sera da Yangon, è giunto a Mandalay alle 4 del mattino di ieri, con quattro ore di anticipo su ciò che riportavano le edizioni più aggiornate delle guide). Dell’”invasione cinese” e dei timori che suscita, ho parlato con più di una persona, tra cui Soso, il mototaxista che è già diventato la mia guida sipirituale di Mandalay, che ho conosciuto in una “tea house” all’aperto davanti a una scodella di mohinga, la deliziosa zuppa di pesce e noodles che può considerarsi il piatto nazionale. Uno degli aspetti più belli di questo Paese è la facilità con cui si entra in contatto con la gente del posto, che nella maggior parte possiede una sufficiente infarinatura della lingua inglese (uno dei rari lasciti positivi del colonialismo britannico), e che per natura ama chiacchierare, in particolar modo scambiare idee e impressioni con chi viene da lontano, curiosa com’è di sapere come vanno le cose dalle altre parti. Aspetto che viene confermato dalla fame di notizie: con una buona istruzione di base garantita per tutti (che si ferma però al primo livello, verso i 12 anni: poi diviene privata e più costosa), l’analfabetismo è pressoché debellato da tempo, e appena possibile tutti si gettano su giornali, riviste, manuali e libri (che spesso consistono soltanto in fotocopie): l’editoria da queste parti è sicuramente un settore promettente in vista di una prossima possibile apertura in senso democratico. Il primo approccio con la città si è concluso con la salita alla Mandalay Hill, altura di 230 metri da cui si gode di una vista spettacolosa al tramonto, propiziata da una giornata tersissima,  sulla città, con al centro il Mandalay Palace un’area quadrata circondata da due chilometri di mura e da un fossato ricostruita negli anni Novanta,  le colline dello Shan e il corso dell’Irrawaddy, lungo una scalinata che passa da uno stupa, o zedi (che contiene generalmente una reliquia) a un pahto (più propriamente un santuario: i termini si confondono) fino a un Buddha eretto quasi sulla sommità. Ai prossimi giorni la perlustrazione dei dintorni. 

sabato 14 gennaio 2012

Station to Station


Sulla Circle Line
YANGON – A Yangon esiste una pletora di Railway Stations, che fanno capo a quella faraonica, in stile vittoriano, situata subito a Nord del centro storico, fra la Sule e la Shwedagon Paya, e un numero imprecisato ma tendente all’infinito di Beer Stations. Quasi superfluo ricordare, a chi mi conosce, che al 3° giorno in città abbia già creato un mio circuito preferenziale e personalizzato di queste ultime. Il birromane è un animale estremamente abitudinario: metodico e meticoloso, incline alla ritualità: ha bisogno di sicurezze. Sfatata la leggenda per cui in Birmania la birra venga servita a temperatura ambiente, perché nel frattempo i frigoriferi sono giunti anche qui mentre il ghiaccio era conosciuto già da prima, e che quando viene spillata alla spina è comunque a temperatura adeguata, e una volta stabilito che la “Myanmar”, la casa di gran lunga più diffusa, è più che potabile (in una scala di valori la colloco all’altezza della “Tiger” di Singapore, la birra che gode della distribuzione più capillare in tutta l’Asia, della tailandese “Chang” e appena un gradino sotto la mitica “Lao”, che come suggerisce il nome viene prodotta nel Laos), viene meno il problema della ricerca del luogo di spaccio della marca preferita: l’itinerario, station-to-station, per concludere degnamente la giornata, viene stabilito in base al feeling che si crea tra fruitore, gestore, camerieri e clientela abituale; il che, con l’aggiunta delle variabili date dalla posizione e dall’ambiente, crea quella miscela che, se è quella giusta, fa scoccare la scintilla. Come l’amore, quello vero. Poiché quella di ieri era l’ultima serata nella capitale prima di spostarmi verso Nord, a Mandalay, ho pensato bene di santificare, in un certo qual modo, l’ultimo “giro” birresco facendo in modo di meritarmelo. Come premio per qualcosa che desse un senso compiuto alla giornata. Qualcosa in tema di stations e che pochi viaggiatori stranieri sperimentano dal vivo: l’intero tracciato della Circe Line: quello che, per l’appunto station-to-station, compie la linea ferroviaria ereditata dalla Corona Britannica percorrendo il perimetro esterno alla città, partendo dalla stazione principale e completandovi il circuito. Più che un’avventura (niente di pericoloso: la gente di qui è estremamente civile ed educata, amichevole, ben disposta e mai invadente con lo straniero.), un “viaggio nel viaggio”, che fa prendere un contatto concreto con la realtà del luogo. Viaggio che inizia a un’ora imprecisata: “quando arriva il treno”, e al binario che sarà. Fare il biglietto è un’impresa anche per i locali, perché la burocrazia da queste parti non ha limiti: occorrono montagne di scartoffie, e relativo personale per riempirle, per il rilascio di un semplice tagliando. Fortunatamente adocchio un baracchino su cui campeggia il cartello “Complaints”, e non “Informations”, eppure l’istinto mi suggerisce che è il posto giusto. E ho ragione, perché il responsabile mi prende amabilmente sotto la sua custodia e mi fa oltrepassare una serie di deliranti recinzioni metalliche, attravesare i binari (senza passerella, s’intende: da un marciapiede all’altro) fino a giungere all’ufficio che presiede i binari 5 e 6: lì vengo consegnato agli incaricati del rilascio del biglietto (completato a mano). Dietro esibizione del passaporto, s’intende, e dopo la compilazione dell’apposito, interminabile, modulo. Per uno straniero il costo è un dollaro USA: quando rispondo che non ce l’ho, rimangono dapprima disorientati, poi accettano 1000 kyat, ossia la moneta locale (che al cambio valgono comunque almeno 1,25 dollari). Alla fine sono ferrovieri, gente per definizione e storicamente aperta al mondo e al prossimo, a tutte le latitudini, e quindi solidale e disponibile nei confronti del forestiero, specie se viaggiatore: in un qualsiasi altro ambito della pubblica amministrazione, gli addetti sarebbero stati irremovibili. O dollaro o niente biglietto. Il treno arriverà non si sa quando, in un qualche orario dopo le 13.40, né a quale tra i due binari 5 o 6: infatti farà il suo trionfale ingresso in stazione al n° 3. Mi ci scorterà un altro ferroviere che mi ha preso sotto la sua tutela, guidandomi in una gincana fra un binario e l’altro, un treno in partenza e uno in arrivo: ma niente paura, perché la loro velocità massima, una volta lanciati, è di 20 KM/h. Quello preciso al minuto, sarà il tempo di percorrenza del circuito extracittadino: esattamente tre ore, durante le quali è passato il mondo, fra chi scende e chi sale, chi vende e chi compra, chi si riposa, chi traffica, chi fa il suo lavoro, chi allatta, chi conversa, chi dorme, chi pensa agli affari suoi, chi ti guarda e con cui cominci a scambiare qualche gesto, nel linguaggio universale: un segno d’intesa, uno sbadiglio a indicare noia, sete, stanchezza, oppure complicità curiosità nei confronti di qualcosa che stai condividendo. Dentro il vagone, l’umanità più varia in tutte le sue varianti di età, sfaccettature, attività, condizioni (generalmente modeste), sempre dignitosa. Fuori, oltre il finestrino (privo di vetri, così come le vetture, che risalgono se va bene agli anni Trenta, sono prive di porte, con le panche a liste di legno disposte per il lungo, come nei tram), il panorama perlopiù della miseria, specialmente a ridosso delle decine di stazioni in cui il convoglio rimaneva fermo per meno di un minuto, il tempo necessario per le rapide operazioni di carico e scarico di persone e merci le  più diverse che si effettuano anche quando si rimette in movimento, per quanto è lento. Baracche su baracche, quando va bene di compensato, altrimenti di paglia e cartoni e pallet, per tenerle sollevate dal terreno, attraversate da rigagnoli e canali maleodoranti e inquinati, con l’acqua dai colori più improbabili; qualche volta agglomerati di costruzioni in muratura, qualcuna d’epoca (in qualche rara zona residenziale periferica), perlopiù orridi caseggiati in stile sovietico; una decina almeno di vastissimi compound militari, questi sì dotati di solide e funzionali costruzioni in muratura, nonché di rimesse colme di automezzi nuovi di zecca; in mezzo, chilometri di aperta campagna coltivata, risaie, orti, alcune lagune da pesca. Tre ore in cui mi è parso di fare un viaggio nel tempo, a ritroso, prima ancora che nello spazio. Nella realtà, in carne e ossa, di questo Paese, infelice ma non disperato, paziente ma non remissivo, vessato ma non rassegnato. Oggi ho comunque raggiunto la certezza che anche Yangon è entrata a far parte di quella speciale categoria di citta, quelle "del cuore" per cui andrà in scena, prima della partenza, il rituale della nostalgia preventiva.
Beer Station sulla Mahabandoola Road

venerdì 13 gennaio 2012

Autorità morale e istituzioni

Sule Paya
YANGON – Descrivere le grandi pagode di questa città risulta essere non solo difficile ma anche un esercizio inutile. A tanto dovrebbero bastare le foto, sempre che riesca a postarne qualcuna. Ciò che queste non possono esprimere è l’atmosfera di cui sono intrise e il senso che hanno per la popolazione locale, il modo in cui questa li vive. I birmani sono profondamente pervasi dal pensiero e dall’etica buddista, ed è anche noto che i monaci sono non soltanto l’autorità morale (e all’occorrenza la coscienza civile) ma anche l’unica vera istituzione riconosciuta da tutti nel Paese, ma luoghi come le pagode, che racchiudono una serie che sembra infinita di templi, sono una parte importante della loro esistenza e delle loro giornate; spazi che vivono per ritrovarsi con sé stessi, i propri pensieri, staccarsi dal quotidiano, prendendosi, per così dire, una vacanza. Ma senza dimenticarsene. Ognuno segue i suoi rituali, fa le offerte all’animale che rappresenta il proprio giorno di nascita, a uno spirito o a una reincarnazione del Buddha; oppure fa quel che crede: alcuni si dedicano alla meditazione, altri intonano litanie di gruppo, pranzano, si appisolano, leggono, chiacchierano con un monaco. Questi a loro volta si dedicano alle attività più disparate, compresa quella di attaccare  volentieri bottone coi visitatori stranieri e lasciarsi andare a lunghe disquisizioni calcistiche. Anche per chi non è buddista, l’atmosfera delle “paya” è contagiosa: anche nella strepitosa Swedagon, meta incessante di pellegrini e di turisti che domina la città ed è visibile da quasi tutti i suoi punti, dopo che si rimane stupefatti e incantati dalle decine di zedi, dalle nicchie, dalle statue, dai mille colori sfavillanti, dall’oro rilucente, si viene presto pervasi da un senso di rilassamento, di pace, e si finisce per prendere esempio dai locali, cercarsi una nicchia dove fermarsi, in un ambiente con cui ci si trova in sintonia, sistemarsi a proprio agio e perdersi, facendo vagare il pensiero. A me è pure capitato di appisolarmi, ed è stata una delle “penniche” pomeridiane più soddisfacenti di cui ho memoria. Ero in realtà reduce da una intensa giornata di scarpinamento e di visite alle diverse “paya”: avevo cominciato dalla Sule, che risale a duemila anni fa, e che funge da rotatoria nel più importante snodo di traffico del centro cittadino, con uno zedi (o stupa)  che culmina con una campana anch’essa inconsuetamente ottagonale, alta 46 metri, e nel cui perimetro si aprono una serie di negozietti del più vario tipo: un barbiere, una copisteria, un internet point, un paio di astrologi e lettori della mano. Sacro e profano si accompagnano sempre nella vita di uno zedi birmano. Al seguito di un monaco e di uno studente di architettura e restauro con cui mi ero messo a chiacchierare, sono andato a visitarne altre due: la Ngahtatgyi Paya, dove si trova un imponente Buddha seduto su un incredibile baldacchino di legno finemente intarsiato (due anni di lavoro di restauro), alto 45 metri, bianco, con vestito dorato tempestato di giade, smeraldi, rubini, diamanti, in un’area piena di monasteri, in mezzo alla giungla: in alcuni casi sempilcissimi bungalow, in altri casotti coloniali riadattati (era una zona residenziale dove vivevano gli inglesi) qui vivono, anche se non si notano, più di mille monaci; poi, appena attraversata la strada (quella che conduce dalla Swegadon all’aeroporto), la Chaukhtatgyi Paya, dove si trova invece un gigantesco e impressionante Buddha dormiente, lungo 72 metri, e custodito all’interno di un capannone col tetto di metallo. All’interno del complesso del tempio, che ricorda un villaggio campestre di un'altra epoca, si trova anche il centro Shweminwon Sesana Yeiktha, dove si riuniscono a meditare molti buddhisti birmani. E’ intuibile per quale motivo queste due “paya” non vengano per nulla pubblicizzate. In tutti i casi, e negli ultimi due in particolare, basta varcare la soglia di queste pagode per entrare in una dimensione completamente diversa da quella caotica della città circostante, eppure nessuno meglio dei monaci sa interpretarne e coglierne la realtà.

giovedì 12 gennaio 2012

Do the Strand



YANGON - Il primo impatto con l’ex capitale del Paese da qualche anno chiamato Myanmar non poteva essere migliore. L’aeroporto, forse perché dev’esserne una vetrina: lustro, luminoso, semplice, sufficientemente funzionale, a parte la facciata pomposa con decoro dorato sul lato della pista: per dare il benvenuto all’ospite nel Paese, appunto, dell’oro. Funzionari scrupolosi più che pedanti,  una certa reminiscenza di socialismo reale  - ci sono molte assonanze con l'Avana - viene temperata dalla naturale gentilezza e cortesia della gente di qua, compresa quella in divisa. Almeno con gli stranieri autorizzati. Oltre a una temperatura perfetta, 25 gradi al tramonto, con un impressionante concerto di uccelli che sembravano impazziti dopo essersi dati convegno nel viale alberato antistante l’uscita e poi via, verso il centro della città, in lieve discesa: otto chilometri circa, ma di traffico piuttosto intenso, alle 6 di sera. Si passa in fianco alla Shwegadon Paya, il più famoso monumento birmano, con l’enorme stupa coperto di lamine d’oro illuminato a giorno, e si rimane fulminati. Come non bastasse, a fare da rotatoria nel punto più nevralgico del traffico cittadino, la Sule Paya, vecchia di duemila anni. Il cuore della città. Che in birmano si chiama Yangon, e non Rangoon come l’avevano battezzata gli inglesi. Così come Myanmar non è un nome nato dalla fantasia spesso malsana dell'attuale governo, pur capace di inventarsi una nuova capitale, Nay Pyi Taw, nel 2005, immersa nel nulla, a fianco della strada che sale da Yangon a Mandalay, ma il nome birmano per “Burma” usato sempre dagli inglesi e quindi imposto. Lo preciso a scanso di equivoci, prima di attirarmi degli strali censori. Anche se mi capiterà lo stesso di usare il termine Birmania. Yangon è delimitata a Ovest e a Sud dal fiume omonimo, e a Est dal canale Pazundaung Chaung che a sua volta confluisce nel fiume: come tutto il Paese, vive sull'acqua e di acqua. Ne muore anche, talvolta. Come nel caso del ciclone Nargis del magggio 2008, che ha lasciato tracce ovunque. Quindi, dopo un primo approccio al mondo delle pagode con la visita della Botataung Paya, ai margini del centro storico e in prossimità dei moli sul fiume, a incuriosirmi sono state le visibili tracce della colonizzazione inglese e la loro convivenza con una realtà locale fatta anche di baracche e aspetti campestri proprio nello Strand, il vialone che costeggia il fiume, sede di parecchi palazzi pubblici, a cominciare dalle Poste, dall’ambasciata britannica e dall’autorità portuale, e che mi ha fatto venire in mente, come accompagnamento musicale adeguato, il famoso brano dei Roxy Music cantato da Brian Ferry (cosa c’è di più brit?). Sotto questo aspetto, come per lo stato delle strade e i marciapiedi a dir poco disconnessi, Yangon mi ricorda da un lato Phnom Penh quando la visitai la prima volta, 7 anni fa, e dall’altro le città indiane, cui le accomunano non solo lo stile di molte costruzioni ma anche i caratteri della scrittura nonché i lineamenti della gente, in cui si notano spesso tracce di caratteri indiani sia per il taglio degli occhi, sia per il colore della pelle, e anche in questo ho notato somiglianze con i khmer che abitano la Cambogia, con cui i birmani hanno in comune anche la estrema gentilezza (mai servile) e disponibilità verso il prossimo e lo straniero in particolare. Un altro Paese in cui ho lasciato il cuore e che le prime ore in Birmania mi hanno subito ricordato, per il modo di fare delle persone, e il fatto di vivere in povertà ma non proprio in miseria, e comunque dignitosamente, è il Laos. Anch’esso prevalentemente rurale e alquanto isolato, con la differenza che il Myanmar è un Paese estremamente ricco di materie prime anche strategiche (come il petrolio) e di una popolazione mediamente bene istruita. Che attende solo di decollare, come mi ha detto un monaco buddista ieri, e non riesce a capire perché non può avere un livello di vita pari almeno a quello dei vicini thailandesi. Di cui i birmani, in realtà, sanno assai poco essendo loro pressoché impedito di viaggiare all'estero, e non è detto che il tipo di sviluppo intrapreso dalle “Tigri asiatiche” piacerebbe al giovane e impegnato monaco, se lo conoscesse da vicino. Anche se quello che voleva dire è che il suo popolo merita di vivere meglio. E su questo siamo d’accordo.