mercoledì 30 novembre 2011

L'addio di Lucio Magri con dignità e coerenza

Lucio Magri se ne è andato due giorni fa per sua scelta, in Svizzera, in una struttura dove si pratica il suicidio assistito, non consentito in Italia. In silenzio, con grande compostezza e una coerenza che gli fa onore. Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che non l'ho mai amato. Come politico rappresentava quanto di più lontano potesse esserci da me all'interno di qualcosa che un tempo si chiamava sinistra: cattolico di formazione, con esordi nella DC negli anni Cinquanta, aderì al PCI nei primi anni Sessanta diventandone, con la fondazione della rivista "Il manifesto" nel 1969, l'eretico, prontamente radiato insieme al suo gruppo, tra cui Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli,  Luciana Castellina, Valentino Parlato. Più comunisti dei comunisti, che più rosso non si può, però di lusso. Una vera casta braminica, l'aristocrazia della intellettualità à la page, beninteso in nome della classe operaia, insopportabilmente spocchiosa e arrogante, elitaria, in preda a un incessante delirio narcisista: a testimonianza di ciò gli inarrivabili onanismi degli editoriali sul manifesto, di cui lui e la Rossanda erano maestri insuperabili. Anche se, contestando il PCI dall'interno, dopo la repressione della Primavera di Praga, avevano fatto la cosa giusta. Così come quando avevano aperto gli occhi su realtà che il Moloch burocratizzato e fedele a Mosca non percepiva nemmeno. Sempre però con le lenti deformanti dell'ideologia. Lo chiamavano "'l'abbronzato" (lo era spesso) e "lo sciatore"; era un bon vivant e un "terrazzato", indefesso frequentatore degli attici ben frequentati che sovrastano i palazzi romani, e dalla capitale non si è più mosso dopo essere planato in Parlamento nel 1976 come segretario del PdUP. La scelta di togliersi la vita, e il modo in cui l'ha fatto, lo riscatta ampiamente ai miei occhi. Ci vuole coraggio, in un Paese come il nostro, che rifugge ogni discorso serio sul fine vita (e anche il denaro: pare 3000 €, sempre meno che un servizio di pompe funebri in Italia), e una grande coerenza. Mentre vanno di moda conversioni al penultimo momento e imperversano i laici devoti, così numerosi nel governo appena caduto e i devoti laici in quello da poco in carica, quello di Lucio Magri è stato un percorso in controtendenza, dal fideismo catto-comunista a una visione illuministica, forse con un'eccessiva fiducia nella capacità di cambiamento dell'uomo-massa. Giù il cappello. 

Belli e pronti

Mentre l'Uomo che piace prende, sobriamente e con tutta calma, le misure, cominciamo a posizionarci ad angolo retto.

martedì 29 novembre 2011

Miracolo a Le Havre

"Miracolo a Le Havre" (Le Havre) di Aki Kaurisimäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo. Finlandia, Francia, 2011 ★★★★ 
In trasferta in Normandia, Kaurisimäki confeziona un piccolo grande capolavoro, una favola realistica che non a caso cita "Miracolo a Milano" e al contempo surreale, in forma di parabola. Marcel Marx, lustrascarpe letterato con passato da bohèmien a Parigi, si è trasferito a Le Havre dove esercita con dignità la sua professione, vivendo tra la stazione e il suo quartiere malandato a ridosso del porto, in un mondo di poveri ma non di vinti, una comunità dove la parola solidarietà ha ancora un senso, perché è vissuta e non proclamata. Marcel si trova a praticarla perché è nella sua natura quando offre rifugio a Idrissa, un ragazzo del Gabon sfuggito a una retata di clandestini giunti per caso in Francia all'interno di un container. E lo fa con l'aiuto dei suoi vicini: i negozianti, la barista, perfino il commissario di polizia, che sa ma lascia correre, e con cui si stabilisce una bellissima complicità basata sul rispetto del rispettivo ruolo formale, ossia sul ricononoscimento dell'umanità dell'altro, in un momento per lui difficile come il ricovero dell'amata moglie Arletty, anche lei straniera, per un tumore da cui inaspettatamente guarisce, così come "miracolosamente" Idrissa riesce a raggiungere Londra grazie all'aiuto di Marcel e della comunità che lo ha accolto, e altrettanto "miracolosamente" fiorisce un ciliegio nel cortile della catapecchia della coppia quando Arletty torna dall'ospedale. Se i personaggi sono meno stralunati del solito, uno dei marchi di fabbrica del cinema di Kaurisimäki rimane il Rock & Roll che non manca in quest'occasione. Una storia che sarebbe piaciuta a Fabrizio De André, con personaggi e vicende che si potrebbero trovare nei bar della Boca a Buenos Aires (non a caso un tango di Gardel viene suonato dal juke box) come a Sankt Pauli ad Amburgo o, appunto, a Le Havre. Dove c'è ancora umanità. Almeno nei film di Aki, se non nella realtà, almeno per come ci viene propinata. Segnalo la recensione apparsa sull'ultimo numero di MicroMega e il notevole e opportuno post, sull'argomento solidarietà in senso lato, dell'amica e collega di Pavo japonensis. Forse il miglior film uscito quest'anno. 

lunedì 28 novembre 2011

Riserva di caccia

SIENA-INTER 0-1 - Campo propizio la "Montepaschi Arena", alias stadio Artemio Franchi, dove la Beneamata ha raccolto ieri il quinto successo su sette confronti in casa del Siena, festeggiandovi anche la conquista degli scudetti del 2007 e dell'anno dei "Triplete", il 2010. Un successo assolutamente immeritato arrivato all'89'con una girata di destro su passaggio perfetto di Motta dal peggiore in campo, Luc Castaignos, che nella ripresa aveva rilevato uno Zarate non pervenuto nel corso dei primi 45'. La prima rete in nerazzurro del giovane olandese, "venduto" dai due geni del mercato Branca e Paolillo come una sorta di fenomeno al pari di Jonathan ("il nuovo Maicon", opportunamente indisponibile per la trasferta toscana), non mi fa ricredere sul suo conto: è un pippone non all'altezza, così come Álvarez, spompato dopo un tempo contro il Cagliari e le prodezze di Trebisonda, si conferma una mezza sega e non un atleta decente. Un'Inter inguardabile, lenta, senza una parvenza di gioco, tra le più penose viste in campo dall'inizio della stagione, ha trafugato due punti contro un Siena che ha avuto il torto di essere inesistente davanti e di andare in bambola fisicamente nei 10' finali: temendo la beffa, che puntualmente è arrivata, ha rinunciato a pungere cercando di contenere la pressione scoordinata dei nerazzurri: avesse avuto più birra e osato di più in precedenza (e con qualcuno in grado di inquadrare la porta: ho contato sette conclusioni, tutte a lato), almeno un pareggio sarebbe stato alla sua portata. Il buon Ranieri, rinfrancato dalla seconda vittoria consecutiva, ricorda che per lo scudetto siamo da prendere in considerazione anche noialtri: con una classifica così corta nulla è impossibile, ma non per questa Inter. Perché altri numeri parlano chiaro: 14 punti in 11 partite, di cui 4 rubacchiati nelle ultime due con Cagliari e Siena, fotografano una media sulla linea di galleggiamento, appena sopra la zona retrocessione; 17 reti subite su 14 fatte lo confermano ampiamente; mentre l'impressionante sequela di infortuni è rivelatrice di una squadra logora (che fosse anziana era evidente) e di una preparazione atletica che si può definire, come minimo, inadeguata, e di cui dobbiamo ringraziare il signor Gasperini e, prima ancora di lui, chi lo ha scelto l'estate scorsa come allenatore. Il migliore in campo, ancora una volta, è stato Javier Zanetti, 38 anni suonati, e anche questo vorrà pur dire qualcosa, senza voler nulla togliere, anzi, all'inarrivabile capitano.

venerdì 25 novembre 2011

Vent'anni dopo

Secondo una visione disincantata e realistica, dall'istante della nostra nascita parte il cronografo che ci accompagna inesorabilmente verso la fine della nostra avventura su questa Terra, e dal momento in cui ne se prende pienamente coscienza scatta anche il momento in cui si rielabora e si rivede con altri occhi, più indulgenti e talvolta velati di malinconia, il proprio passato, o curriculum vitae. A livello sociale, questo coincide con i ricorrenti revival, in occasione di qualche anniversario: lo fu quello del '68 tre anni fa e già pavento il 2018, quando la generazione che ne fu protagonista sarà ancora saldamente avvitata sulle poltrone di quel potere così concretamente immaginato in gioventù; lo è nel campo della moda, con le periodiche rivisitazioni dei "mitici" Cinquanta, degli "irripetibili Sessanta", degli intensi Settanta e dei ruggenti Ottanta e di parte di essi: la Swinging London, il Glam e così via: tutte occasioni per stimolare una nuova ondata di consumi in nome della nostalgia e del giovanilismo, come ben sa la pubblicità che cita sé stessa strizzando l'occhio agli adolescenti di allora. A livello personale, invece, si comincia a procedere a una sorta di ripassi selettivi: si cominciano a rileggere i libri che si erano più apprezzati in passato, trovandoci sempre qualcosa di nuovo e di diverso; così come a rivedere luoghi amati, a riassaporarne odori e sapori associati (ed è sempre sorprendente notare quanto siano potenti,  proposito di memoria, i sensi del gusto e dell'olfatto); inevitabile poi, per chi si è musicalmente cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, rimanere ancorati a quell'incredibilmente fertile periodo creativo. E' quel che mi è venuto in mente ieri visitando, a vent'anni esatti di distanza e nella stessa stagione (periodo ottimale, con pochissimi visitatori: non più di un centinaio al giorno rispetto a una media di 4000 nel periodo estivo), le celebri Grotte di Frasassi, nelle Marche, lungo la Statale della Val D'Esino che da Ancona porta in Umbria. Proprio qui, dopo averle viste le prima volta, forse suggestionato dalla loro stupefacente bellezza, avevo avuto la sciagurata idea di proporre il matrimonio alla mia ex moglie: un esperimento fallito miseramente così come purtroppo era abortita l'idea, che non era niente male e aveva precorso i tempi di un decennio buono, di avviare un bed and breakfast sulle colline del Montefeltro dalle parti di Barchi, dove per un quinquennio fui anche comproprietario di un rustico con annesso podere di sette ettari coltivati a olivi e viti. Erano quindici anni che non mi capitava più di ripassare da queste parti, in quella provincia di Pesaro che, almeno nella sua parte più settentrionale, non si distingue dalla Romagna se non per la crescia, che nel proprio impasto contempla le uova a differenza della piadina, e le targhe delle automobili. Ci sono ritornato in questi giorni, su invito di una carissima amica dei tempi del liceo in occasione del suo compleanno, e sono stato contento di rivedere questi posti, riandando al passato senza rimpianti ma anche senza alcun rancore, e ripromettendomi di tornarci non troppo in là col tempo. Quello atmosferico non è stato ottimale per gustarsi gli splendidi paesaggi dell'interno, dolcemente ondulati fino a diventare montagnosi e boscosi, simili ma più sfumati di quelli toscani, così come meno aggressiva la cucina, e più pacata la parlata e l'indole degli abitanti, ma la nebbia e la pioggerellina persistente di questi giorni li hanno resi ugualmente suggestivi sfumandoli e donando loro soffusa indeterminatezza; la presenza del mare la si apprezza per l'aria salubre e profumata, di salmastro oltre che della variegata vegetazione locale, più che per i monotoni spiaggioni che dominano ininterrottamente il versante occidentale dell'Adriatico per quasi un migliaio di chilometri dell'Adriatico a eccezione dei promontori del vicino Conero e del Gargano, in Puglia, fino al Salento. Le orride costruzioni a fronte mare, un osceno ammasso di edilizia "da geometri" (con tutti il rispetto per la categoria, ofelé fa il to mesté, come si dice a Milano), è compensata dalle città e dai borghi dell'interno che, se non sono rimasti intatti, conservano in buona parte le caratteristiche di quando furono costruiti e custodiscono tesori quali, a solo titolo di esempio, il Palazzo Ducale di Urbino. Altro aspetto non trascurabile, l'offerta gastronomica è variegata e invitante ed è a buon livello anche quella enologica, i prezzi sono più che accettabili rispetto ad altri luoghi della Penisola e la gente ospitale, civile e tranquilla, senza troppe fregole. Dopo questa sviolinata in forma di amarcord, un invito a un pranzo tipico da parte dell'ente di promozione turistica mi pare il minimo.

martedì 22 novembre 2011

Vola basso l'uccello padulo

E' impossibile non condividere quanto scrive Marco Travaglio nell'editoriale di oggi sul "Fatto" sulla "giulebbosa ondata di servilismo e conformismo che, come sempre in Italia, circonda e schizza chiunque vada al potere". Le citazioni tratte dai mielosi nonché ossequiosi ritrattini dedicati negli ultimi giorni da Repubblica e Stampa  al neopremier  tutto studi-casa-e-chiesa e alla sua consorte sono esemplari. E per l'occasione non è stato citato il Corriere della Sera, che dopo il pompieraggio, del lecchinaggio sistematico  a mezzo stampa di chiunque sieda su una poltrona ha fatto la ragion d'essere da un secolo a questa parte, salvo rarissime eccezioni: non contento degli incensamenti al bocconiano Monti, il giornalone di Via Solferino domenica non ha voluto far torto al precedente inquilino di Palazzo Chigi, che potrebbe pur sempre tornare in sella e comunque è nella maggioranza di governo, dedicandogli un'intera pagina di intervista domenicale affidata a quello stesso Aldo Cazzullo che aveva stigmatizzato con dure parole di rimprovero i festeggiamenti avvenuti attorno ai palazzi romani la sera delle sue dimissioni, il 12 novembre scorso. Come se Berlusconi non avesse esternato già abbastanza negli ultimi vent'anni e non avesse a disposizione megafoni a sufficienza pronti a propalare le sue balle sesquipedali e a venderle per buone. La consueta intervista all'italiana, apparentemente super partes, in realtà in ginocchio e a microfono aperto, registrando la sua versione dei fatti, anche quando non stanno in piedi, senza sognarsi di confutarli: l'indipendenza di codesti pennivendoli è credibile quanto il supposto liberalismo dei "liberaloidi" del Corriere, a cominciare dagli Ostellino, dai Battista, dai Panebianco e dai Romano, per non parlare del direttore De Bortoli, che conoscevo come un liberaldemocratico autentico ma che ha evidentemente subito una mutazione antropologica a forza di stare inchiodato sulla poltrona direttoriale che fu di Albertini. Repubblica, che del CorSera è il concorrente principale, costituendo, nel penoso panorama della stampa italiana, l'altra faccia della stessa medaglia, per meglio dire brodaglia informativa, fa lo stesso con i personaggi più screditati dello schieramento centrosinistrato, ossia quelli del partito di riferimento, quello comunistiano. E' vero che l'affidarsi a improbabili uomini della provvidenza così come saltare sul carro del vincitore è un vizio tipicamente italiano, ma non di tutti gli italiani: una parte di essi preferisce pensare con la propria testa, però ha scarsa fortuna. Senz'altro è una pessima abitudine di cui è affetta la stragrande maggioranza degli intellettuali nostrani e segnatamente di chi si occupa di informazione, la cui piaggeria è imbarazzante, e a ribadirlo è uno dei pochi giornalisti di casa nostra, Travaglio, che scrive le cose come stanno e dice quello che pensa. La responsabilità della categoria nel degrado del Paese è ancora maggiore, a mio parere, di quella dei personaggi che hanno dato vita negli anni più recenti al berlusconismo, a suo tempo agli invasamenti filocomunisti, prima ancora al fascismo e, come costante storica, al servilismo nei confronti del Vaticano. Opportunisti sempre, liberi mai: ancora una volta si stanno riposizionando e, per non sbagliare, qualsiasi sia il loro orientamento intonano peana all'uomo del momento, nella fattispecie il professor Monti, incarnazione di un nuovo che così antico non si può, ma pronti a impallinarlo non appena ne spuntasse un altro all'orizzonte. Faccia attenzione, caro primo ministro. 

sabato 19 novembre 2011

Fedeli a San Siro

Fedeli a San SiroUna gradevolissima rimpatriata  ieri alla FNAC di Milano alla presentazione del libro di cui al titolo del post scritto dal mio ex "quasi cognato" Tiziano Marelli, milanese, vecchio amico e fratello nerazzurro perso di vista e ritrovato, trasferitosi a Roma, giornalista che si è fatto le ossa tra "Canale 96" e il "Quotidiano dei lavoratori", e Claudio Sanfilippo, anche lui milanese, ma di sponda rossonera, musicista ma non solo, con cui ho scoperto di avere in comuna la data di nascita (ma non l'anno, che è lo stesso di Tiziano, di cui sono quasi gemello). A condurre questo derby dialettico tra Inter e Milan un'altra vecchia conoscenza, la brava e sempre graziosa Gabriella Mancini, giornalista della Gazzetta dello Sport e volto televisivo abbastanza noto: un arbitro non del tutto parziale, perché lei stessa ha confessato di essere milanista, così come era di parte il "quarto uomo", nell'occasione Fabio Treves, personaggio conosciuto a chiunque nella Milano degli anni Settanta, fondatore della omonima e vitaminica Blues Band, anche lui di fede rossonera, e che con Sanfilippo aveva a suo tempo composto un inno del Milan, eseguito per l'occasione a cui per fortuna, lo dico da interista, Galliani e Berlusconi hanno preferito quello abbastanza insulso che è diventato ufficiale. Perché è strepitoso e glielo invidio. Più equilibrata la platea, composta in buona parte da "grey panthers" o quasi come il sottoscritto. Una carrellata di aneddoti, storie di calcio, di manie, di derby, ma soprattutto una storia di amicizia (Claudio e Tiziano si sono conosciuti, anzi: "snasati", cose si dice tra meneghini, trent'anni fa sulle scale del condominio dove vivevano, a Città Studi, e non si sono mai persi di vista) sullo sfondo di una Milano che non c'è più, e quando sopravvive, bisogna cercarla tra le pieghe di una città che è diventata estranea. Non perché sia cambiata più di tanto la sua fisionomia, ma chi la abita: i milanesi di quei tempi, e mi riferisco anche agli immigrati del periodo del boom, che lo sono diventati, ben presto, a tutti gli affetti, sono scomparsi, come lo è il loro mondo, la vita dei quartieri, i bar, i ritrovi. Perfino San Siro non è più quello, con un campo indecente per colpa della copertura aggiunta insieme al terzo anello per i Mondiali del 1990. I personaggi che abitavano quella città sono scomparsi, ma sono tornati vivi ieri sera, nei ricordi dei due autori, che li citano nel loro libro "Fedeli a San Siro" (uscito per la collana "Strade blu" di, ahimé, Mondadori) e del pubblico. Uno del quale, un distinto e forbito signore di fede rossonera, ha sottolineato quanto "casciavìt" e "baüscia" siano antropologicamente diversi. Verissimo ma, aggiungo, per questo complementari. E quindi necessari l'uno all'altro. Motivo per cui Milano è l'unica città in Italia e probabilmente al mondo ad avere un derby dove non è mai successo un incidente, anzi: la stracittadina è l'unica partita che non prevede alcun "settore degli ospiti" inteso come ghetto (a parte le due "curve", che si scambiano sfottò così come gli abbonamenti e i favori). Biscioni nerazzurri e diavoli rossoneri, uguali ma diversi, o diversamente uguali. Le due facce della stessa medaglia, o i due aspetti della stessa fede: quella in San Siro, appunto, a cui entrambi sono devoti.

Fedeli a San Siro

Una gradevolissima rimpatriata  ieri alla FNAC di Milano alla presentazione del libro di cui al titolo del post scritto dal mio ex "quasi cognato" Tiziano Marelli, milanese, vecchio amico e fratello nerazzurro perso di vista e ritrovato, trasferitosi a Roma, giornalista che si è fatto le ossa tra "Canale 96" e il "Quotidiano dei lavoratori", e Claudio Sanfilippo, anche lui milanese, ma di sponda rossonera, musicista ma non solo, con cui ho scoperto di avere in comuna la data di nascita (ma non l'anno, che è lo stesso di Tiziano, di cui sono quasi gemello). A condurre questo derby dialettico tra Inter e Milan un'altra vecchia conoscenza, la brava e sempre graziosa Gabriella Mancini, giornalista della Gazzetta dello Sport e volto televisivo abbastanza noto: un arbitro non del tutto parziale, perché lei stessa ha confessato di essere milanista, così come era di parte il "quarto uomo", nell'occasione Fabio Treves, personaggio conosciuto a chiunque nella Milano degli anni Settanta, fondatore della omonima e vitaminica Blues Band, anche lui di fede rossonera, e che con Sanfilippo aveva a suo tempo composto un inno del Milan, eseguito per l'occasione a cui per fortuna, lo dico da interista, Galliani e Berlusconi hanno preferito quello abbastanza insulso che è diventato ufficiale. Perché è strepitoso e glielo invidio. Più equilibrata la platea, composta in buona parte da "grey panthers" o quasi come il sottoscritto. Una carrellata di aneddoti, storie di calcio, di manie, di derby, ma soprattutto una storia di amicizia (Claudio e Tiziano si sono conosciuti, anzi: "snasati", cose si dice tra meneghini, trent'anni fa sulle scale del condominio dove vivevano, a Città Studi, e non si sono mai persi di vista) sullo sfondo di una Milano che non c'è più, e quando sopravvive, bisogna cercarla tra le pieghe di una città che è diventata estranea. Non perché sia cambiata più di tanto la sua fisionomia, ma chi la abita: i milanesi di quei tempi, e mi riferisco anche agli immigrati del periodo del boom, che lo sono diventati, ben presto, a tutti gli affetti, sono scomparsi, come lo è il loro mondo, la vita dei quartieri, i bar, i ritrovi. Perfino San Siro non è più quello, con un campo indecente per colpa della copertura aggiunta insieme al terzo anello per i Mondiali del 1990. I personaggi che abitavano quella città sono scomparsi, ma sono tornati vivi ieri sera, nei ricordi dei due autori, che li citano nel loro libro "Fedeli a San Siro" (uscito per la collana "Strade blu" di, ahimé, Mondadori) e del pubblico. Uno del quale, un distinto e forbito signore di fede rossonera, ha sottolineato quanto "casciavìt" e "baüscia" siano antropologicamente diversi. Verissimo ma, aggiungo, per questo complementari. E quindi necessari l'uno all'altro. Motivo per cui Milano è l'unica città in Italia e probabilmente al mondo ad avere un derby dove non è mai successo un incidente, anzi: la stracittadina è l'unica partita che non prevede alcun "settore degli ospiti" inteso come ghetto (a parte le due "curve", che si scambiano sfottò così come gli abbonamenti e i favori). Biscioni nerazzurri e diavoli rossoneri, uguali ma diversi, o diversamente uguali. Le due facce della stessa medaglia, o i due aspetti della stessa fede: quella in San Siro, appunto, a cui entrambi sono devoti.