sabato 23 luglio 2011

Il figlio khmer


Don DetQuando uno è tal punto disgustato da rifiutarsi di fare un commento sulle ultime esibizioni di un ceto politico che chiamare “casta” sembra ormai perfino un complimento, e di cui Berlusconi, Bossi e D’Alema sono i tre esponenti più ripugnanti, infestando la vita dell’Italia negli ultimi vent’anni (l’ultimo perfino 40), e in più dopo aver scostato le imposte guardando fuori in una mattina di mezza estate vede brume da autunno avanzato, e adeguato è anche il clima, basta che si sposti lontano col pensiero e può farlo con la fantasia o coi ricordi, di quelli che rimangono nel cuore, perché questo significa viaggiare. E come prima cosa mi è tornato alla mente di avere un “figlio” khmer. Sothy è il suo nome, e questo è il racconto di come mi è giunto. Inizio del 2006: mi trovavo a Don Det, una delle “4000 isole” (Si Phan Don in lingua indigena), in un punto, quasi a ridosso del confine tra Laos e Cambogia, in cui il Mekong raggiunge la sua massima larghezza: circa 15 chilometri, e lì in mezzo si trova questo groviglio di isole, di cui solo alcune, le più grosse e stabilmente emerse, sono abitate: le altre vanno e vengono a seconda della portata del fiume, e quindi della stagione. L’inverno è quella secca, ed è il miglior momento per fare quella discesa del fiume che avevo immaginato da anni. L’avevo iniziata a Chiang Kong, un paio di settimane prima, al confine tra Thailandia, e Laos, nel cuore del “Triangolo d’oro” della produzione di oppio, la frontiera birmana a pochi chilometri e non molto più lontano quella cinese. Ancora non molto tempo fa  la navigazione era il mezzo più rapido di spostamento possibile, ora i tratti effettivamente percorsi da barche che trasportano persone sono rimasti pochi, e in alcuni casi avevo contrattato dei passaggi verso Sud a bordo di piccole lance di pescatori, unico passeggero.Chiang KongAvevo comunque lasciato alle spalle la mistica Louangphrabang, Vientiane, la capitale (dove mi ero procurato il visto per la Cambogia), Pakxé, Champasak e il vicino tempio di Vat Phu (primo assaggio di cultura khmer, un anticipo di Angkor). Si Phan Don era ilrelax, per qualche giorno, in un’atmosfera idilliaca, con persone che vivono di agricoltura e pesca, dove si alloggia (a parte qualche soluzione più strutturata) in spartani bungalow lungo il fiume, la corrente (scarsa) era data dai generatori e veniva staccata alle 22 (in compenso la connessione internet avveniva via satellite ed era veloce quanto la nostra ADSL attuale) e tiravo le conclusioni sul Laos: il Paese non solo dell’area, ma in assoluto tra quelli che ho visitato finora, che più mi è piaciuto, proprio per la sua gente. Povera ma dignitosa, gentile nell’animo e non per convenienza, con cui è pressoché impossibile entrare in contatto parlando una qualche lingua ma estremamente facile con un sorriso e un lieve inchino a mani giunte: il namasté, il saluto buddista. Poi si procede a gesti e la cosa riesce sempre bene. In Laos mi sono sempre sentito a mio agio e veramente ospite. Quasi sempre un viandante, raramente un turista. La Cambogia era a pochi chilometri e proprio dove passa il confine c’era un punto in cui ero riuscito a scorgere il delfino d’acqua dolce, detto dell’Irrawaddy (il grande fiume della Birmania): in questa zona è davvero diventato un mammifero d’acqua dolce, mentre sul fiume che gli dà il nome staziona occasionalmente, diciamo che ci va in vacanza, dall’habitat naturale dell’Oceano Indiano. Mi chiedevo cosa avrei trovato nella terra dei khmer, sottoposta per 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, dal 1975 al 1978, al regime più paranoico, osceno e genocida apparso sulla Terra: i “Khmer Rossi” di Pol Pot che hanno sterminato tra il 20 e il 30% di cambogiani, dal milione e mezzo ai due milioni e mezzo di morti, che avevano già subìto una guerra civile dopo quella, non dichiarata, dagli USA, che bombardavano e avvelenavano il loro territorio lungo la linea del “Sentiero di Ho Chi Minh”, da cui passavano i rifornimenti dal Vietnam del Nord a quello del Sud in cui agivano i viet-kong, passando, per l’appunto, da Laos e Cambogia. Il progetto criminale di Pol Pot e della sua ghenga era però lucido e conseguenza estrema ma coerente di una ideologia intrinsecamente malata come quella comunista: come del resto Hitler, egli voleva forgiare l'uomo nuovo, senza più alcun legame col passato; ma a differenza del tedesco, gli ideologi gauchiste formatisi nelle migliori università francesi cominciarono dal proprio popolo. Ma i khmer erano anche gli eredi dell’omonimo impero che, dall’800 al 1400, fu il più grande e di gran lunga più evoluto che ebbe tutto il Sud Est Asiatico continentale. Angkor ne fu la splendida capitale, in pratica una città-tempio, che raggiunse un milione di abitanti nel momento del suo massimo fulgore, e fu “scoperta” (letteralmente) a metà del 19° secolo dai francesi dopo essere stata inghiottita per secoli dalla foresta.Verso Stung TrênL’avrei visto, cos’era diventata la Cambogia, a poche decine di minuti da quel paradiso, dopo essere tornato sulla terraferma a bordo di una chiatta che trasportava di tutto, e un breve percorso in minivan, altrettanto stracarico, guidato da Mr. Mo in persona, con cui avevo concordato un passaggio a Siem Reap, la base per i templi di Angkor, con uno stop-over a Kâmpong Cham, sia perché volevo dare un’occhiata a una città il cui nome mi era diventato familiare negli anni della Guerra del Vietnam (coi suoi bollettini quotidiani sia in radio sia in TV), sia perché non ritenevo credibile poterci arrivare in una tirata per mezzanotte (e avevo avuto perfettamente ragione, come mi confermarono la stragrande maggioranza dei compagni di viaggio che avrei ritrovato a destinazione: affranti, s’erano dovuti accampare in una qualche guesthouse a Phnom Penh, la capitale). Il primo impatto è stato il posto di frontiera di Dom Kralor: una baracca in mezzo a una foresta desolata con un paio di stanchi, accaldati ma gentili funzionari, che registravano il visto con una procedura alquanto elaborata (nulla in confronto a quello che avrei sperimentato alla frontiera vietnamita qualche settimana dopo: lì la demenza burocratica si sarebbe elevata a rito, nell’usare sei timbri diversi su un singolo visto). Nell’attesa che la procedura si completasse, due ore per 17 persone (tante eravamo stivate in un pullmino da 14 posti, autista compreso e bagaglio pure. In genere si aggiunge qualche non meglio specificato “aiutante” di famiglia o della merce da scaricare lungo il tragitto, e in un modo o nell’altro ci si sta sempre lo stesso. La ciccia si comprime, no?), avevo fatto conoscenza con Euro, un italo-croato del Quarnaro che sarebbe diventato mio compagno di viaggio per un breve tratto ma anche un amico con cui sono tuttora in contatto. Girava con un cappellino rossocrociato e l’avevo preso per svizzero: non c’ero andato lontano dato che vive vicino a Varese, a ridosso del confine. Con lui e Julie, una studentessa ebrea del New Jersey con cui ci divertivamo a intrattenerci lei parlando in yiddish e io nel dialetto austro-tedesco più estremo: praticamente identici, dopo una sosta fisiologica e alimentare a Stung Trên e un’altra nella più piacevole e coloniale Kratje, abbiamo abbandonato al loro destino gli altri 14 compagni di viaggio a Kâmpong Chang trascorrendo una gradevolissima serata assieme, cena compresa.Bassorilievi 1E il primo impatto era stato non di povertà, ma di miseria, di infrastrutture in rovina (la strada, un inferno), una campagna squallida e ridotta allo stremo in un Paese che per per clima e condizioni idrogeologiche possiede terre tra le più fertili al mondo. Insomma, si sentiva ancora aleggiare l’ombra macabra di Pol Pot e non sembrava esserci, almeno in quella zona, ancora un vero segno di ripresa. Rispetto al Laos la mitezza innata della gente era uguale, veniva meno la serenità. Anche nei tratti delle persone, rispetto ai vicini, poco si notava in comune coi laotiani, e nulla con vietnamiti, thailandesi e cinesi. Più scuri di pelle (le donne fino a vergognarsene ossessivamente), nelle fattezze qualcosa di indeciso e dei tratti che ricordano da un lato i malesi e dall’altro gli indiani: e sicuramente nella Grande Madre India affondano le radici della cultura khmer, come si capisce subito dalla scrittura. Trascorsa la notte in stanze di raro squallore, dotate di sfiatatoi al posto delle finestre ma in compenso fornite di TV, a 4 U$D, ed erano abbastanza in alto nella scala dell’offerta) avevamo anche finalmente in mano un documento cartaceo di viaggio: saremmo partiti alle 7.30 dalla locale stazione dei bus, raggiunta a bordo di “motò”, il mezzo più rapido ed efficiente in tutta quella parte di mondo. Viaggio che ricordo piacevole (almeno rispetto a quello del giorno precedente), con due stop. L’arrivo a Siem Reap è stato memorabile, con la polizia che teneva a bada orde di postulanti che parevano in preda al delirio con lunghe canne di bambù e sembravano in preda a raptus anche gli agenti: un casino infernale, in mezzo al quale adocchiammo subito l’emissario della Guesthouse Smiley: proprio quella che cercavo, perché me l’aveva segnalata un giovane fotoreporter inglese, Tim Draper, che avevo conosciuto a Si Phan Don, ed era incazzato nero con "National Geographic" che lo aveva mandato lì nella stagione sbagliata per fotografare le famose risaie verde smeraldo: erano per la maggior parte riarse. Quell’emissario della “Smiley”, a cui mi aveva indirizzato il consiglio del fotografo londinese giramondo, che pareva lì apposta ad attendere Euro e me a bordo del suo moto-riksciò, con aria timida e al contempo amichevole, nel giro di tre giorni sarebbe diventato mio figlio e di nome fa Sothy.AngkorCominciò con l'essere il driver (così lo chiamavo) del nostro primo giro ai templi di Angkor il giorno successivo. Che avremmo fatto in due scarrozzati sul comodo moto-riksciò, con tanto di tettuccio, attaccato alla moto (esistono tre possibilità di biglietto: 1 giorno, 3, oppure une settimana: Euro scelse di vedere solo le cose imperdibili e proseguire alla volta di Kampot-Sihanoukville). Non sto a raccontare dei singoli siti, ma Sothy decise di attaccare da quello più lontano in programma, il “Banteay Srei” (Cittadella delle donne), tra i più vecchi, a 35 chilometri da Siem Reap, famoso per i bassorilievi su pietre rosate, tra quelli tenuti quasi perfettamente: da subito il legame con l’India (avevo visitato il Rajastan a tappeto giusto l’inverno precedente) si manifestava in tutta la possibile evidenza: si tratta della raffigurazione di episodi del Ramayana, eseguiti con tale precisione e maestria da renderli intelligibili a chiunque: i fumetti del tempo, mi venne subito da osservare. Questo l’esordio, per poi convergere verso il “centro”, quello che ha per cuore il celeberrimo Angkor Wat. Con Sothy ci si intendeva in un inglese estremamente elementare oltre che, come di consueto, a gesti, e il ragazzo (24 anni ma 18 d’aspetto) era desideroso di migliorare e imparare, sicuramente intelligente, e lo confermò come congegnò le cose in modo di portarci nei luoghi nel momento di “minima” (si fa per dire, ad Angkor, in quella stagione) affluenza. In più, pur non essendo una guida, faceva in modo di passare per tale in modo da tenere lontani quelle vere, spaventosamente petulanti. Oltre che, con discrezione, gli importuni. E non mancava di darci anche delucidazioni e spiegazioni: poche, semplici e precise. Naturalmente beveva con noi durante le soste nelle aree di ristoro e a pranzo fu nostro ospite mangiando con noi al tavolo, e mi spiace dire che sono assai pochi gli occidentali che ho vostro comportarsi così: per Euro e per me era dovuto oltre che del tutto naturale, e ho notato che molto ci guardavano storto.On The RoadIl meglio però lo ebbi io, visitatore solitario, nei due giorni successivi: la mattina presto del giorno dopo si presento con la “motò” desnuda, e via in due, lui un fuscello, io che sono un peso massimo, sul sellino posteriore. Ma andò alla grande. Per arrivare al Beng Mealea, uno dei siti più diroccati e letteralmente inglobati dalla foresta, che in compenso ne ha conservato perfettamente molti particolari, bisogna fare 80 chilometri verso Nord su una statale asfaltata, dove circola qualsiasi mezzo di locomozione immaginabile, oltre naturalmente ai pedoni (studenti in grande quantità: tutti rigorosamente in divisa), e già questo è uno spettacolo impagabile. Attorno una campagna finalmente fertile. Al tempio, poi, un’avventura da Indiana Jones, non priva di pericolosità (bisogna sapere dove mettere i piedi perché qualcosa potrebbe crollare, oppure incappare in un serpente), che feci in totale solitudine, con Sothy, finché non si aggiunse una coppia di francesi. Emozionante. In seguito un altro centinaio di chilometri per arrivare ai siti di Roluos, con tappe qui e là, prima del Bakong, sede di un monastero buddista, quello che ricordo meglio, formato da una piramide centrale su cinque livelli, circondato da una triplice cinta muraria concentrica e infine da un fossato: circa dell’850, è considerato il modello generale del tempio-montagna, in questo caso la rappresentazione del monte Meru.BakongIl giorno successivo via verso il celebre villaggio galleggiante di Chong Kneas, sul lago Tonle Sap (da dove partono anche i battelli per Phnom Penh: ne avrei preso uno l’indomani), e anche lì Sothy fu abile nel sottrarmi alle trappole per turisti: pagando appena il doppio, invece che partecipare a un tour classico di un’ora intruppato tra dieci persone, me ne arrangiò uno con barcaiolo personale per tutta la mattinata. Ne ho un ricordo splendido. Pranzo, altri templi nella zona “centrale” nel pomeriggio, quando fu sull’imbrunire, e prima di riportarmi definitivamente alla “Smiley Guesthouse” per l’ultima notte prima di lasciare Siem Reap, Sothy mi chiese “l’onore” di una visita alla sua “umile dimora”. Cosa che mi riempì di gioia. Una sorta di palafitta, come usa lì, in legno su due piani, con tetto di lamiera. Acqua in bidoni e legno al posto del gas, troppo caro. Ma una pulizia impeccabile. Lì conobbi la moglie, 17 anni, molto graziosa, intimidita e che non si tolse mai una specie di passamontagna, e il bimbo, di appena un mese (quando me ne parlò avevo capito che doveva ancora nascere) che dormiva beatamente (lì mi ricordai ancora una volta della regola di non toccare mai, nemmeno per una carezza, un buddista “vero” sulla testa). Presente anche la sorella di Sothy, decisamente bella e al 7° mese di gravidanza (come indovinai, suscitando una certa sorpresa). A dimostrazione della sua accortezza, mi raccontò che preferiva stare defilato rispetto alla città, avere per ora una casa spartana ma grande, con lo spazio per ricoverare anche il rimorchio del “motò”, pagando 20 U$D al mese, quando in centro gli avrebbero chiesto come minimo il doppio per una sola stanza, e lui riusciva a guadagnarne circa cento al mese. Infine, era più vicino ai suoi, che vivevano in campagna. Fu raccontandomi come aveva organizzato l’esistenza sua e della sua piccola famiglia che mi disse che da allora in poi in Cambogia avrei avuto un figlio, e che questo non sarebbe mai cambiato. Da loro si usa così, la famiglia è la cosa più importante ed è un concetto piuttosto allargato, diverso da quello occidentale. E io divenni padre di un khmer. Non me ne sono mai dimenticato, pensando a quel viaggio, e a quel Paese. Ma quest’oggi il ricordo è stato particolarmente intenso e ha preso vita, e forma, da sé. 

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