giovedì 29 ottobre 2009

Samay Huasy Chilecito

ChilecitoCHILECITO - Pubblico questa bella foto tratta da Wikipedia anziché una scattata da me perché rende appieno la luminosità dell'aria in questo angolo del Nord-Ovest argentino che è diventato il mio buen ritiro in questi ultimi giorni. E si vede molto meglio che in questi giorni di canicola la Sierra de Famatina innevata, mentre ora lo sono soltanto le vette più alte (6250 metri). Dopo tre settimane di moto perpetuo, evidentemente avevo bisogno di fermarmi a riposare e a rilassarmi e questo si è rivelato il luogo ideale per farlo. Non era programmato: qui ci ero venuto essenzialmente perché la cittadina è più vicina che non La Rioja al Parco Nazionale di Talampaya e alla celebre Valle de la Luna, ma siccome sono pressoché l'unico turista in zona non dotato di mezzi propri, non è stato possibile partecipare ad alcuna escursione per mancanza del numero minimo necessario, a meno di non accollarmi un centinaio di euro di spesa, che da queste parti sarebbero uno sproposito: l'equivalente del soggiorno per quattro giorni nel migliore albergo del posto, anche una questione di buon gusto, per cui vi ho rinunciato.Samay HuasiSenza grossi rimpianti: perché da un lato è un'ottima scusa per tornare a transitare da queste parti la prossima volta che verrò in Argentina, in una stagione più "movimentata", dall'altro perché mi è piaciuto e mi ha ritemprato farmi avvolgere dall'atmosfera sonnolenta di Chilecito e adeguarmi ai suoi ritmi rilassati. Che sono anche una necessità, con le temperature abituali in questi paraggi: ieri si sono raggiunti i 45 °C all'ombra e, alle 9 di sera, nella piazza centrale, sotto le fronde degli alberi, se ne registravano ancora 38. Ho centellinato, quindi, le attività da intraprendere in loco,  rigorosamente al mattino. L'altroieri, come raccontato, visita al Museo e alla stazione di partenza del Cable Carril (integrata da una visita alla seconda stazione, chiamata Durazno, a quasi dieci chilometri di distanza, già a quota 1539 metri, effettuata però in taxi), ieri alla Casa-Museo Samay Huasi e oggi alla Cooperativa Vitivinicola La Riojana. Samay Huasi in quechua significa casa di riposo, e si trova in una splendida posizione ai piedi delle colline riarse che stanno ad arco sul lato Est di Chilecito, e lo è tutt'ora, per "scrittori ed artisti", di proprietà dell'Università Nazionale de La Plata, fondata dall'eminente giurista, scrittore e politico Joaquín Victor González, ai tempi in cui era ministro dell'Istruzione, nel 1897. Nato a Nonogasta, nei pressi di Chilecito, nel 1863, a 26 anni fu il più giovane governatore della provincia de La Rioja, in seguito si trasferì nella capitale federale, ma nel 1913 stabilì qui, guarda caso, il suo buen retiro: evidentemente il luogo ispira a questo. Comprò una "casona" coloniale, circondata da 17 ettari, chiamata ai tempi "La Carrera", da un amico inglese che si occupava di estrazione mineraria ed era appassionato di cavalli e la convertì in un una finca coltivata a vigne e roseti, la sua passione, ribattezzandola appunto Samay Huasi. Se la godette solo per una decina di anni, perché morì di cancro nel 1923, ma restò di proprietà dell'Università, che ancora oggi la utilizza come foresteria per soggiorni di docenti e studenti, nazionali e stranieri, nonché di chi faccia richiesta (direttamente a La Plata e non qui, per chi fosse interessato).Vigneti Samai HuasiUn incanto: garantisco che dopo una camminata sotto il sole cocente per raggiungerla, circondata da alberi esotici e vigne, stato come entrare in una specie di Eden. Oltre alle stanze abitate dal fondatore, con l'arredamento d'epoca, le camere ricavate nelle ex stalle, sotto un'ombreggiato porticato, e un museo con esposizioni sia permanenti sia temporanee: un'oasi di pace. Questa mattina invece non potevo mancare all'ennesima visita di una bodegavinicola, in questo mio percorso, ma questa volta si trattava di una orgogliosa e rinomata cooperativa, che raccoglie oltre l'80% dei viticoltori della provincia (quelli medio-piccoli), La Riojana, che vinifica anche per alcuni produttori di Mendoza, Catamarca e San Juan. Fondata nel 1940, i suoi enormi tini di cemento risalgono all'epoca, e ad essi si sono aggiunti alcuni più piccoli per le produzioni di punta. Orgoglio della Rioja, il torrontés, il più tipico vino bianco argentino, fruttato ed erbaceo, aromatico e al contempo secco, a mio parere insuperabile con le le meravigliose empanadas criollastipiche del Nord-Ovest argentino. Ha fatto seguito una soddisfacente degustazione. Dopo una doverosa siesta, e con in mano un bicchiere del suddetto, un salut a tutti e vado a predispormi per l'ultima cena ai piedi delle Ande. Domani si torna verso il litorale, a Buenos Aires!Barriques La Riojana

Chilecito e il Cable Carril Famatina



Cablecarril 1ª stazioneCHILECITO - Fondata nel 1715 da Domingo de Castro y Bazán col nome di Villa Santa Rita, la seconda città della provincia de La Rioja per numero d'abitanti, 30 mila, era rimasta poco più di un villaggio fino a che all'inizio del secolo scorso non si sviluppò l'industria estrattiva, e da qui anche suo nome odierno, letteralmente "Piccolo Cile", per il gran numero di cileni che attraversarono le Ande per lavorare nelle miniere locali. La presenza di minerali pregiati come oro, argento e rame nella zona di El Famatina era già nota alle popolazioni locali dai tempi dell'impero degli Inca (Fama deriva dawama che significa madre, ossia produttore e Tina da tinac, metallo), ma furono gli spagnoli a dare un primo impulso a una rudimentale forma di attività mineraria, fino al suo decollo con l'arrivo della ferrovia da Córdoba nel 1899, che permise alla popolazione locale dedita principalmente alla produzione ortofrutticola e vinicola, di collocare i propri prodotti sul mercato nazionale. Rimanevano però lontane dallo sfruttamento ottimale i giacimenti del Famatina, che distanti 35 chilometri e a 4600 metri d'altezza, in una zona dov'era impossibile far passare la rotaie. Fu così che si pensò di superare l'ostacolo grazie grazie a una funivia che superasse i 3500 metri di dislivello tra Chilecito e le miniere e venne promossa una gara d'appalto che fu vinta dalla ditta tedesca Adolfo Bleichert & Co di Lipsia, che iniziò i lavori nel febbraio del 1903. Ed ecco il Cable Carril Famatina.Cablecarril e miniera FamatinaAlcune cifre: 35 chilometri, come detto, 3510 di dislivello, 9 stazioni di cui l'ultima, "la Mejicana", a 4603 metri d'altezza, 9 stazioni, 262 torri per sostenere i doppi cavi (uno "portatore", con un contrappeso di 20 mila kg, il secondo "trattore", a velocità costante, azionato da un motore a vapore con caldaia a legna) che trasportavano vagoncini del peso di 250 kg, con altrettanto di portata. Questa fenomenale opera ingegneristica, unica nel suo genere, fu inaugurata neanche un anno e mezzo più tardi, il 29 luglio del 1904. Merci, minatori e scorte impiegavano 4 ore per compiere il percorso.L'impresa che aveva in concessione lo sfruttamento della miniera era l'inglese "Famatina Development", e con lo scoppio della Grande Guerra la collaborazione anglo-tedesca ebbe termine e la linea cominciò a cadere in declino. Divenuta proprietà dello stato argentino, finì in disuso nel 1927. Oggi a Chilecito rimane un museo, interessantissimo, che si trova presso la stazione di partenza, dove venivano "lanciati" i vagoni.CablecarrilNonostante si tratti di un sito dichiarato con enfasi Monumento Nazionale, né a livello federale né provinciale arriva un peso, o meglio se ci sono si perdono nei rivoli della "mangiatoia", mi hanno assicurato i ragazzi che tengono in perfetto ordine i cimeli, che vengono pagati dal municipio locale. Reperti tra cui una splendida cassaforte in legno massiccio, scrivanie, documenti, un telefono portatile dell'epoca e perfino la prima macchina per scrivere elettrica, sempre di quegli anni, una Remington se non ricordo male. L'ex presidente Menem, per giunta riojano, dopo aver svenduto e dismesso il patrimonio ferroviario nazionale, unico nel Continente, aveva anche pensato di rottamare questo splendore, che sarebbe ancora perfettamente in grado di funzionare, con un motore a scoppio o elettrico, vendendo il tutto come ferraglia. Il demenziale intento è stato scongiurato in tempo. Una visita a 38 gradi all'ombra, alle 10 del mattino, ma che da sola valeva quasi il viaggio fino a qui. Dove, come mi ha suggerito una persona che mi è particolarmente cara dopo aver visto una foto che le avevo inviato, potrei vedere spuntare da un momento all'altro Quentin Tarantino, spuntando dalla scena di un film di Sergio Leone che lui puntualmente cita, o anche i fratelli Coen dell'ultimo, geniale "Non è un Paese per vecchi".Stazione d

martedì 27 ottobre 2009

La Rioja, fra chivitos, vino, Tinkunaco e siesta di rito

LA RIOJA - Nella lenta marcia di riavvicinamento alla sponda atlantica, anche in questa occasione non poteva mancare una puntata nel Nord-Ovest argentino, nel cuore di quella parte andina dove si comincia a respirare un'atmosfera più coloniale e indigena al contempo. Oltre che dal paesaggio, che qui ricorda decisamente quello degli spaghetti western di Sergio Leone, lo si nota dai tratti sempre più indiani della gente nonché dai ritmi di vita e dai cibi stessi. Il manzo delle pampas è sostituito dalla capra, l'onnipresentechivito (nella foto in alto, ecco come si presentava l'autogrill o, meglio, laauto-parrilla lungo la Ruta Nacional 141 ieri durante la pausa-pranzo del bus che collega San Juan e La Rioja), tamaleshumitas ed empanadas prendono il posto delle paste d'origne italiana, e il piatto regionale è una squisita zuppa, il locro, dall'aymara luxro, che si trova da qui fino in Ecuador, là dove è nata e permane la cultura, e la coltura, del mais, come del fagiolo e della patata. Comune con la confinante regione del Cuyo la dedizione alla viticoltura: nonostante non raggiunga i livelli di produzione della zona di Mendoza, la qualità è in compenso sorprendentemente alta. Dopo 8 ore e 45 minuti di viaggio (è incredibile quanto riescano a essere efficienti e puntuali i trasporti su gomma in questo Paese) sono dunque giunto a La Rioja, la capitale della provincia omonimaConvento de San Domingo(quella che disgraziatamente diede i natali all'ex presidente Carlos Menem), 150 mila abitanti, una città molto piacevole, dall'aspetto in buona parte coloniale, circondata dalle cime della Sierra de Velasco, dal nome delhidalgo che la fondò, nel 1591, con il nome di Todos los Santos de la Nueva Rioja. In questa zona la conquista spagnola non fu violenta, perché la tribùdiaguita, che abitava la zona, si conciliò presto con gli europei che stavano occupando le terre che coltivavano da sempre. Si evitò il conflitto grazie alla mediazione di Francisco Solano, un frate, e i diaguita deposero le armi a patto che si dimettesse l'alcalde (sindaco) spagnolo, per essere sostituito da Gesù Bambino. E il Niño Jesus Alcalde, la cui riproduzione si trova tutt'ora nella chiesa del convento di San Francisco, divenne il primo sindaco della città e ancora oggi gli è riconosciuta, simbolicamente, la carica. Pressoché da allora, si rinnova la cerimonia del Tinkunaco (in quechua: incontro), che si tiene il 31 dicembre di ogni anno: due processioni, di spagnoli e diaguita, i primi abbigliati con abiti religiosi e uniformi, i secondi con fasce nei capelli eponcho, che al momento dell'incontro cadono simultaneamente in ginocchio davanti all'effigie del Niño Jesus Alcalde e poi si abbracciano. Il che dimostra che qualche volta il buon senso, e anche un po' di superstizione, evitano inutili spargimenti di sangue e risolvono le contese, insegnando che a questo mondo, volendo, c'è spazio per tutti. Siesta d'obbligo, da queste parti, durante le ore pomeridiane, dove già ora, in primavera, le temperature superano i 35 gradi e tra le 13 alle 17 non c'è un negozio aperto e si bloccano quasi tutte le attività. La città possiede anche il più antico monastero di tutta l'Argentina, quello di San Domingo (nella foto sopra, il patio), l'imponente cattedrale di San Nicolás de Bari (sì, il "nostro", oggetto di particolare devozione da parte dei riojani), costruita in uno strano stile "bizantino", e alcuni bei musei, tra cui spiccano quello Folklórico (foto qui sotto) e quello di arte sacra e lo Inca Huasi, gestito dai monaci e che accoglie una ricca raccolta di ceramiche precolombianePatio Museo Folklorico La RiojaFlorida la produzione artigianale: i tessuti in particolare, con tecniche indigene e influssi spagnoli negli accostamenti cromatici e nei motivi, così come l'argenteria, dove la tradizione iberica è più marcata, mentre al contrario sono di impronta nettamente indigena le ceramiche. E, analogamente a quella spagnola, anche la Rioja dell'emisfero australe, è rinomata per la sua vocazione vinicola, con risultati eccellenti, per la mia gioia. 

domenica 25 ottobre 2009

Serata milonguera con Soledad



MENDOZA - Quando si dice un vero "recital", nel senso letterale del termine. E' quello a cui ho assistito ieri sera all'Auditorio Angel Bustero, protagonista Soledad Villamil, che insieme ai quattro musicisti che l'accompagnano ha presentato il suo secondo album "Morir de amor". Un excursus sul tema, in tutte le sue sfaccettature, attraverso un accurato repertorio di canzoni che raccontano come si vive, si soffre e, perfino si "muore" per amore. La poliedrica artista platense, che ho avuto modo di apprezzare di recente in "El secreto de sus ojos", nata come musicista e affermatasi come attrice di teatro, cinema e televisione, segue il cammino intrapreso nella sua prima raccolta di due anni fa (premio Carols Gardel 2008: più di un "Grammy" argentino) attraversando con Soledad Villemil disinvoltura tanghi, milonghe, valsaschacareras, boleri che, nelle sue personalissime versioni, acquistano forza e prendono nuova forma e vita. Tra gli autori, Luis Amadori, Francisco Canaro, Miguel Caló, Charlo, Azucena Maizani, Homero Manzi, Idea Villariño, Alfredo Zitarrosa oltre ad alcune composizioni proprie, tra cui quella che dà il titolo all'album, ispirata a una poesie di Jorge Luís Borges. Le qualità dell'attrice le permettono di aggiungere forza interpretativa a una voce calda e squisita, ma senza alcuna esagerazione e senza calcare i toni, anzi: come ho spesso notato da queste parti, è tale il rispetto per la propria musica nazionale, che le interpretazioni sono assolutamente sobrie e mai sopra le righe o coperte di toni melodrammatici ed esagerati, c'è una certa misura perfino nelle pagliacciate approntate per i turisti (e non era certo questo il caso), molto lontane dall'immagine a cui può indurre il luogo comune. Nessuna sceneggiata, dunque, e nessun divismo e nemmeno protagonismo fuori luogo, semplicità assoluta anche nell'abbigliamento e nel modo di interloquire col pubblico. Ad accompagnarla, un quartetto di chitarra, percussioni, contrabbasso ebandoneón, strumento immancabile in un congiunto musicale porteño. Felice di avere recuperato questa esibizione, che mi ero purtroppo perso per un pelo due settimane fa al "Torquato Tasso" di San Telmo, a Buenos Aires (e questo aveva influito non poco sulla scelta di Mendoza come prossima meta), concludo parafrasando il buzzurro, mentecatto e repellente individuo che ci governa (e nessuno ci invidia: qui dicono "parecido al inomináble", intendendo Menem. Ossia: uguale): perfino più intelligente, e brava, che bella. Ed è tutto dire, con quei magnetici occhi verdi.

venerdì 23 ottobre 2009

A zonzo in una giornata di zonda tra vigneti e uliveti di Mendoza

MENDOZA - Lasciata la “Banda Oriental” in traghetto e fatta sosta per mezza giornata a Buenos Aires durante una giornata di pioggia dalla parvenza molto più autunnale che primaverile, ho ripreso il cammino verso Ovest con meta una zona dal clima e dall’aspetto quanto mai diverso: Mendoza, ai piedi della precordigliera andina, appena dietro alla quale si stagliano le vette più alte d’America, clima secco, temperature pressoché estive. La regione a vocazione vinicola per eccellenza dell’Argentina: il 70% della produzione nazionale (la quarta al mondo) avviene qui, per una serie di fattori che ne fanno una zona ideale, nonostante il terreno pressoché desertico, per una serie di ragioni, a cominciare dalle caratteristiche organiche del terra stessa. Innanzitutto l’irrigazione costante, assicurata da un sistema già noto agli indios huarpe, ripresa e perfezionata dai coloni europei: ora è assicurata anche dall’invaso artificiale di Potrerillos, 12 chilometri di lunghezza per 1,5 di larghezza e 300 metri di profondità, capace di “coprire” ben cinque anni di siccità, il tutto con un’acqua di qualità eccezionale, qual è quella dei ghiacciai e nevai andini. Ultimamente, oltre al sistema tradizionale “ad allagamento”, con paratìe Bodegas Lagardemobili lungo i canali, viene usato quello computerizzato a gocciolamento con sensori di umidità, per mezzo di canaline che corrono lungo i vitigni e sgocciolatori per ogni pianta, un investimento costoso ma estremamente redditizio ed “eco-compatibile” a lungo termine. Secondo punto a favore, la diversità delle altitudini, tra i 900 e i 1800 metri, ognuna ideale per un vitigno in particolare. Il terzo, la forte escursione termica. Il caldo diurno favorisce l’accumulo di zuccheri e l’ispessimento della buccia, il freddo notturno garantisce la giusta acidità all'uva. Infine, il clima secco diminuisce l’esposizione delle viti a funghi e parassiti. La capitale, Mendoza, oltre un milione di abitanti con i suoi sobborghi, è una città elegante, vivace, ricca, ricostruita con intelligenza dopo un terremoto violentissimo che la rase al suolo nel 1861: siamo in una zona estremamente sismica. Il centro è stato spostato a Sud-Ovest rispetto alla situazione originale, il sistema urbanistico prevede vaste piazze, sempre dotate di fontane, sistemate in modo strategico, e strade ampie, in modo da poter raccogliere la popolazione in fuga dalle case, costruite in modo solido e con tutti i criteri antisismici dell’epoca di costruzione. Oltre a questo, un ulteriore polmone verde è garantito dal Parque General San Martín (el Libertador: che qui organizzò il suo esercito): 420 ettari tenuti in maniera eccezionale. Tutto ciò ne fa una città ariosa, con una bella vista sulle precordigliera e anche su alcune delle vette più alte delle Ande: l’Aconcagua, con i suoi 6962 metri la più alta cima delle Americhe non si vede, ma il vulcano Tupungato, a quota 6650 sì. Conoscevo già Mendoza, dov’ero venuto in piena estate una dozzina di anni fa, e mi era piaciuta molto: ho colto così l’occasione per fermarmi qualche giorno e approfittare di un clima più propizio per la visita delle “bodegas” di vino, escursione intrapresa quest’oggi. San Juan de Cuyo e Maipú, note anche in Europa, si trovano già a pochi chilometri dal centro: ci si arriva comodamente in bus, anche se qualche pazzo, in una giornata di “zonda” come oggi, il giro lo fa in bicicletta. Lo (o la?) zonda è simile al föhn o favonio che da entrambi i versanti delle Alpi si abbatte ad esempio su Milano o Monaco di Baviera, un vento caldo e opprimente che rincretinisce chi è particolarmente sensibile. E disidrata in maniera notevole. Qui si forma sul Pacifico, si “scalda” passando sulle cime delle Ande e scendendo sui barrancos (dirupi) e pianure mendocini e soffia in genere per una giornata. Le nuvole cariche di umidità a loro volta si raffreddano e puntualmente piove o nevica sulle cime e la notte stessa o il mattino dopo la temperatura (oggi sui 32 °C) scende di 7-8 gradi. Solo un mese fa, a primavera iniziata, in città in un caso analogo erano caduti 10 centimetri di nevem fatto del tutto eccezionale. Per il tourenologico, la mia scelta è caduta su due bodegas “industriali”, che usano tecniche e attrezzature moderne e sofisticate, e due artigianali, a conduzione famigliare, di cui una dedita a produzione esclusivamente organica. In comune i vitigni coltivati: malbec (il principe dei vini di Mendoza), merlot,cabernet sauvignon e syrah per i rossi (talvolta vinificati in bianco con metodo charmat o champenois); sauvignon e chardonnay per i bianchi. L’argentinissimo torrontés, invece,  è tipico della regione de La Rioja, dove mi riprometto di recarmi tra qualche giorno. Alle Bodegas Lagarde di San Juan (fondate nel 1897 da un ex militare portoghese e passate alla famiglia di imprenditori locali Pescarmona), dove ho anche fatto un ottimo pranzo, ho trovato un eccellente viognier bianco, da vitigno importato nel 1990 dalla Francia, zona Côtes di Rhône, di cui ignoravo l’esistenza, e che si è adattato a meraviglia qui, mentre dai Cecchin (in alto l'insegna), di cui ho avuto il piacere di conoscere l’ottuagenario Jorge in splendida forma, che col fratello Pedro ha fondato l’azienda a conduzione famigliare nel 1959 (il padre era di Castelfranco Veneto), ho trovato anche un sorprendente moscadel alexandria, con un amarognolo fondo di mandorla, e due rossi di vitigni d’origine spagnola, il graciano e il cariñán, rispettivamente della Rioja e dell’Aragona (carignano in Italia). Questa bodega è quella dedita al “full organic” e da qualche anno sono la prima in Argentina a produrre vino senza solfiti. Si usano, ma non per tutti i vini, passaggi in barriques, (in rovere francese per quelli più raffinati, o in quello più grezzo, americano) dai 3 ai sei mesi, a un anno e talvolta oltre, in percentuali variabili, dal 40 al 50%, in alcuni casi al 100%, per quelli di più alta gamma. Esistono però anche vini da taglio, sia tra diversi Zoservitigni sia tra diverse zone di produzione. Una delle due aziende industriali, la Flichman, fondata nel 1880 da una famiglia di origine russa, ora in mani portoghesi  (la SOGRAPE che produce il porto Ferriera e il Mateus) è proprietaria ad esempio di qualcosa come 600 ettari in pianura, nella  zona detta “Barrancas” e di altri 300 nella valle di Uca, a 1100, ai piedi del  vulcano Tupangato) per un totale di 17 milioni di litri all’anno. Diversificazione del “rischio” (ad esempio grandine) e della qualità: più in alto si danno vini più fruttati, in caso si fanno del “blend” con quelli di pianura, più robusti. Degustazioni a tutto spiano, a metà pomeriggio, opportunamente benzinato(cfr foto a latere), sognavo soltanto un letto ma una provvidenziale visita a un oleificio fondato nel 1906 (dieci ettari, magnifici olivi d’epoca), con tanto di assaggio di extravergine su pane casereccio e con pomodori secchi mi ha rimesso in sesto, pronto alla visita finale a un’altra azienda famigliare, quella di Don Arturo, con una rispettabile produzione di 1.750.000 bottiglie l’anno (meno di un decimo della Flichman, per intenderci) che si concentra sul consueto poker di rossi: malbec, merlot, cabernet e syrah, di cui il 90% si vende in loco e il 10% viene esportato direttamente negli USA. Che dire, signori: salut e buona domenica!

mercoledì 21 ottobre 2009

¡Hasta pronto, Uruguay!

Casco históricoCOLONIA DEL SACRAMENTO - Ultima tappa in Uruguay a Colonia del Sacramento, di fronte a Buenos Aires, da cui è separata soltanto dai 50 chilometri del Rio de la Plata, questa l'ampiezza dell'estuario in questo punto, un'ora di traghetto. La città, che già conoscevo, tende in tutto onore al suo nome: testimonianze dell'epoca coloniale ovunque, e un "casco histórico", il vecchio centro che si estende alle spalle del lungofiume, ancora intatto. Colonia è da sempre invasa dai turisti e soprattutto dai gitanti porteños durante i fine settimana: nei giorni feriali torrna a essere un godibile, sonnolento centro dove il tempo sembra essersi fermato. Ancora poche ore prima di salire sul Buquebus che mi riporterà in Argentina e un arrivederci a questo Paese amabile, discreto, tutto sommato sereno e che andrebbe rivalutato come meta di viaggio. Alla prossima e, ora, verso le Ande!Lungofiume

martedì 20 ottobre 2009

Bonanza tra i gauchos e la delizia del "Massini"


La PonderozaFLORIDA - Ultima giornata di viaggio prima di riconsegnare l'automobile a Montevideo: dopo la notte trascorsa a Tacuarembó, percorro verso Sud la provincia omonima, quella forse più agreste, famosa per il suoi gauchos. E sono numerosi, nel capoluogo, i negozi esclusivamente dedicati a loro: d'altra parte per un centinaio di chilometri non esistono Tremende vacchecentri abitati degli di questo nome: raro agglomerato di case, più numerose le scuole rurali, queste sì presenti con buona regolarità. Da per parte sua, Tacuarembó, che si vanta probabilmente a sproposito di essere la patria di Carlos Gardel, è un centro gradevole e, con i suoi 50 mila abitanti, di rispettabili dimensioni, per questi paraggi. Anche questa parte centrale del Paese, come la zona tra Roche e Minas, è un dolcemente ondulata e la varietà del paesaggio la rende particolarmente suggestiva. E pure qui, un paradiso per gli animali: osservando l'espressione di vacche, pecore, cavalli, nandù (gli struzzi americani), qualche maiale, si può senz'altro affermare che siano felici. Come probabilmente se la passano ancora bene i membri della famiglia Cartwright, Ben e i figli Orso, Joe e Adam, a giudicare dallo stato della loro "Ponderoza" resa celebre dalla interminabile serie dei telefilm Bonanza (foto in alto) Dopo un centinaio di chilometri lungo la Ruta Nacional 5 che porta nella capitale, si diparte una deviazione verso San Gregorio de Polanco,San Gregorio de Polancopiacevolissimo centro turistico-balneare sulle rive del lago artificiale Rincón de Bonete, formato dal Rio Negro, e che si estende per più di una cinquantina di chilometri. A guardare le spiagge, sembra di essere ai Caraibi: eppure siamo in mezzo alla Pampa. Altro centro balneare, un po' meno pittoresco ma al contempo   importante centro agricolo e d'allevamento, come suggerisce il suo nome, Paso de los Toros, a un'ora di distanza verso Sud. Anche per giungere fin qui chilometri e chilometri senza vedere un'auto, quando ci si incrocia ci si saluta, come anche quando si incontra qualche gaucho che sta recuperando vitelli o cavalli troppo intraprendenti e che tentano qualche scampagnata al di là dei recinti. Mi è capitato, cosa più comune in Argentina dove le estancias sono molto più vaste che non qui, di vedere piccoli velivoli parcheggiati tra i macchinari, pronti all'uso fare un giro d'ispezione sopra i campi. Ancora una breve sosta a Durazno, sulla riva sinistra del fiume Yi, affluente del Rio Negro, fondata dai portoghesi nel 1821 e nodo nevralgico per le comunicazioni nel centro del Paese, coi suoi due poderosi ponti. Lì, nella piazza circondata da sicomori della Cattedrale, ho gustato il migliore tra i deliziosi e perversi dolci ipercalorici prodotti in Uruguay: il "Massini": due Bismantova uruguagiafette di pan di Spagna, sode e ricche di uova, coperte di un sottile strato di caramello e in mezzo crema Chantilly. Meraviglioso, anche con una temperatura che ieri cominciava ad avvicinarsi ai trenta gradi finalmente. Infine sono giunto a Florida, capoluogo del dipartimento omonimo, dove il 25 agosto del 1825 venne dichiarata l'indipendenza del Paese, l'ultimo importante centro agricolo a meno di centro chilometri da Montevideo e dalla sua zona industriale. Un'altra cittadinadall'impronta coloniale, vivace ma al contempo dai ritmi di vita molto rilassati, dove ho trascorso la serata chiacchierando coi proprietari del ristorante "8 negro" (nel senso del colore delle carte), risalente al 1946 e con mobili d'epoca: una meraviglia. A proposito delle elezioni di domenica loro puntano sulla vittoria del Frente Amplio. Benché al ballottaggio. Me lo auguro. Per loro e per questo Paese bello, accogliente, interessante e molto civile. (Qui sopra a sinistra, una copia in miniatura della Pietra della Bismantova. Nell'emisfero australe)

lunedì 19 ottobre 2009

Sì, viaggiare...


Verso Tacuarembó...verso Tacuarembó, terra dei gauchos, nel Nord dell'Uruguay, sperando che il poderoso mezzo che mi ha trasportato fin qui, una Chevrolet Celta (insomma: una Opel Corsa) non mi lasci a piedi. Sulla Ruta n° 8 ho trovato più gente a cavallo che automobili, e quelle poche erano bardate a festa con le insegne dei partiti in lizza per le presidenziali di domenica prossima: era l'ultimo fine settimana di campagna elettorale, e nel Paese si sono scatenate le "carovanas", ossia cortei di automobili e camionette che fanno a gara a chi fa ha la musichetta più accattivante e rumorosa e gli striscioni più lunghi.Estancia EsteroNemmeno l'ombra di un incidente, ma nemmeno di un battibecco. Tra avversari, senza risparmiarsi battute al vetriolo e critiche sui programmi (e non sulle ciance o i calzini turchese), ma corretti e perfino flemmatici, questi uruguaiani. Esito incerto: favorita l'accoppiata Mujica-Astori, del Frente Amplio, progressista, ma solo se riesce a vincere al primo turno. Se si dovesse arrivare al ballottaggio, potrebbe avere la meglio il duo del Partido Nacional Lacalle-Larrañaga, a cui si aggiungerebbero (ma non è detto) i voti andati al primo turno al candidato del Partido Colorado Pedro Bordaberry, accreditato del 15% circa. Io punto su una vittoria al primo turno del Frente Amplio, che con Tabaré Vázquez ha portato fuori il Paese dalla crisi, intraprendendo una serie di riforme strutturali profonde e coraggiose e di lungo respiro. Da quel che posso fiutare, mi sembra che la maggioranza degli urugayani siano per la continuità in questo senso. Spero di vedere giusto. (Al centro: estancia lungo il percorso. Sotto: una fiera di bestiame, con i gauchos autentici in azione)Fiera del bestiame

sabato 17 ottobre 2009

Uruguay del Nord-Est: dalle spiagge alle cave

Barra de ValizasMINAS - Una volta lasciato alle spalle il pretenzioso e improbabile complesso architettonico-urbanistico di Punta del Este, ad uso e consumo esclusivo dei danarosi presenzialisti e puzzoni in delirio esibizionista, ed entrato nella provincia di Rocha, la costa atlantica uruguayana, avvicinandosi al Brasile, conferma le aspettative che nutrivo dopo aver seguito alla lettera i suggerimenti dell'amico Akul Tico, uno che l'America Latina la conosce bene per viverci da una ventina d'anni, e che aveva fatto all'incirca il mio stesso itinerario un anno fa. "Noleggia una macchina in Uruguay: non sono ladri e le strade sono buone. Vai a vedere come si divertono i decerebrati in quel cesso di Punta del Este e fai rotta verso Rocha. Troverai le nostre spiagge com'erano negli anni Cinquanta, però con l'Oceano. E, all'interno, i gauchos. Quelli veri: non quelli che si mettono in posa per i turisti. Ché lì, tanto, non ci vanno". Detto e fatto: sapevo di potermi fidare. Avevo pernottato, due sere fa, a La Paloma, già un centinaio di chilometri a Est del Gallaratese sull'Atlantico, e mi ero ritrovato in una specie di posto di frontiera, con una vocazione turistica allo stato larvale, considerata la stagione ancora a venire, e comunque di tutt'altro genere rispetto a quella della costiera della capitale, di Piriapolis, Maldonado e Punta del Este. Dato che la stagione balneare inizierà tra due mesi, sono aperte soltanto le attività commerciali legate alla sopravvivenza di chi ci vive e di qualche viaggiatore: nei più altisonanti luoghi nominati prima, nemmeno quello. Già mi sentivo comunque rivivere, ed era soltanto un assaggio, perché ieri, in una giornata di tempo splendido e con una temperatura finalmente accettabile, ho proseguito  in direzione Est-NordEst sostando a La Pedrera, Barra de Valizas, poco oltre il celebre Cabo Polonio (raggiungibile solo a piedi o con fuori strada, dove si trovano colonie di otarie, leoni marini e al largo del quale in questa stagione si possono avvistare anche le balene franche, in periodo di accoppiamento) e infine Punta del Diablo. Autentici paradisi per surfisti, ma anche per chi ama sole e mare (per quanto occorra starci all'occhio: non è il mare nostrum), a contatto con la natura e in un ambiente umano ancora autentico e non spersonalizzato. Niente lussi: bisogna adattarsi. Ma c'è tutto lo strettamente necessario. Posti che non piacciono a tutti, per fortuna, ma che mi sento di consigliare caldamente a chi legge questo blog, se capitasse in quella zona. Lungo la costa sono risalito fino a Chuy, città di confine con il Brasile, Stato di Rio Grande do Sul, la cui capitale è Porto Alegre. Classica località di frontiera tra un Paese gigantesco e ricco (e quella parte del Brasile lo è molto molto al di spora della media) e uno piccolo e più povero. Il regno del duty free e del "tarocco", insomma, per la gioia dei riccastribrasileiros, ben forniti di valuta forte (e il real si è rivalutato non poco sul dollaro, negli ultimi due anni) rigorosamente a bordo di SUV giganteschi, a caccia di occasioni e, in mancanza, di carburante a prezzo favorevole per qualche centesimo.Fortín de San MiguelA neanche 10 chilometri di distanza, il Fuerte San Miguel, costruito nel 1734 durante il conflitto tra Spagna e Portogallo che si contendevano ai tempi la "Banda Oriental" e ancora intatto, all'interno di un parco nazionale in zona militare a ridosso del confine e, di fronte, il "Fuertín de San Miguel": un'estanciain stile coloniale, dove sono riuscito incredibilmente a trovare alloggio nonostante vi si svolgesse un convegno di giudici e avvocati uruguyani. Un paradiso, trattato come un pascià, e si mangia pure bene. Il prezzo, tutto incluso? 35 €, n Italia una cena a buon mercato. Questa mattina mi sono diretto verso Nord, all'interno del Paese: zona pressoché sconosciuta ai viaggiatori e poco abitata: durante una tratta di cento chilometri ho contato di aver incontrato esattamente dieci macchine, una ogni dieci minuti. La prima tratta, confinaria con il Brasile, è quasi piatta, talvolta acquitrinosa: ibañados. Molto simile alla zona mesopotamica argentina (quella tra i fiumi Uruguay e Paraná), la pampa humeda, insomma, un paradiso in Terra per bovini, ovini, cavalli. E anche per me: sarò che sono nato in pianura e tra le acque, ma è questo, da sempre, che sento come il mio "panorama dell'anima", se ce n'è uno. Quello in cui mi sento felice e nella mia dimensione. Non arrivo nemmeno a commuovermi: sorrido come un idiota e mi sento a casa. Mi succede nella Bassa lombarda, in Emilia, nella Laguna veneziana e nella Bassa Friulana. Le stesse identiche atmosfere di qui, gli stessi cieli infiniti, li ho visti in quel poco che è rimasto della pusztaungherese, nelle "terre basse" fiamminghe. Nelle pampas argentine, all'ennesima potenza e, qui, uguale. Se da queste parti si aggiunge l'elemento umano, in buona parte di origine molto prossima a quella nostrana, il senso di familiarietà è presto spiegato. Non c'è solo allevamento, in senso estensivo, ma anche coltivazione: questa è anche zona di riso, naturalmente, e non mi stupisce che un riso patna denominato "blu" venga prodotto e perfino confezionato a Lascano in quantità non indifferenti. Quello che sconcerta, è trovare anche i palmeti, ma si tratta di un habitat che evidentemente è congeniale a una fauna che da sé costituisce uno spettacolo: uccelli di ogni tipo, dai trampolieri alle anatre selvatiche, ai falchi, alle poiane. Ogni volta mi sorprendo a scoprire che gli alberi aEstancia Esteromaggiore popolazione aviaria, e quelli da cui proviene il cinguettare più insistente, sono quelli popolati da schiere di pappagalli ben nutriti e impertinenti, rapidissimi e imprendibili: altro che animali da gabbia. Più avanti, ai confini tra le province di Rocha e Maldonado, il paesaggio si fa più dolcemente ondulato, gli stagni lasciano il posto a cave d'argilla, e non mancano forni di cottura di mattoni; aumenta anche il numero di pecore, dalla lana estremamente pregiata, che si incontrano. Sempre allo stato brado: non "cattive" e aggressive come le sorelle patagoniche, ma comunque emancipate rispetto allo standard di quelle europee. Simili a quelle irlandesi: animali che non amano il gregge. Più in là ancora, già verso la provincia di Minas, il panorama si fa quasi carsico e non è un caso: minas sta per cave (di granito e marmo), oltre che miniere, e non è sorprendente, a pochi chilometro dal capoluogo, scoprire un posto che si chiama "Nueva Carrara". Piacevolissima Minas, capoluogo di questa provincia, allegra e vivace città dalla pianta rigorosamente ortogonale, popolata de gente ospitale, simpatica e alla mano, come mi era stato anticipato. I miei suggeritori sono stati perfetti, conto di essere attendibile anch'io per chi mi legge. 

venerdì 16 ottobre 2009

Dal Rio de la Plata all'Oceano Atlantico passando per il Gallaratese

ROCHA – Montevideo il giorno dopo la sconfitta sfida contro  l’Argentina nella partita decisiva per la qualificazione ai Mondiali 2010 in Sudafrica. Non si parla d’altro, ma la gente l’ha presa con filosofia: la Celestecoltiva ancora una chance nel “ripescaggio” che giocherà contro il Costarica il 14 e 18 novembre, ma quello che tiene campo sono le dichiarazioni furibonde del C.T. argentino, Diego Armando Maradona, che ha ribadito in tutte le salse ai giornalisti del suo Paese che farebbero bene “ad andare avanti a succhiarmelo”  invece di fare domande idiote o inventarsi polemiche, oltre ad accusare alcuni esponenti della stampa di essere “anti-argentini”. Ritornello che mi ha immediatamente ricordato il personaggio che ci governa, anche per il suo uso di un linguaggio colorito. A pensarci bene anche la bassa statura lo accomuna al “Diez”, che però non se ne è mai fatto un cruccio, e l’inettitudine nella carica attuale ma ci fermiamo qui, perché Maradona è stato il più grande calciatore che abbia mai calcato i terreno di gioco mentre Berlusconi è un bru-bru e uno dei più grossi mascalzoni partorito dai generosi lombi del nostro disgraziato Paese. Leggo poi le dichiarazioniancora più demenziali di un altro C.T., quello della nazionale italiana Marcello Lippi, che insulta pure il pubblico pagante di Parma che osa criticarlo. E questoCasapueblo, Pnta Ballenaspassa per essere un uomo simbolo della sinistra. Giocatore mediocre in carriera quanto spocchioso, vincitore di scudetti e coppe con una squadra di corruttori e dopati, e per puro culo di un Mondiale come quello di Germania 2006, nella sua profonda maleducazione questo ducetto è convinto di poter fare e dire tutto quello che gli pare, a ruota libera. In mezzo a queste beghe che accomunano ancora una volta italiani e argentini, gli “Orientales” fanno la figura dei signori e dei veri sportivi. Eppure la partecipazione all’evento di mercoledì sera è stata incredibile, sia allo stadio, 70 mila persona in una città che ha 1.300.000 abitanti, sia davanti alle TV, in casa, nei bar, nei ristoranti, nelle strade davanti alle vetrine tutti gli altri. Donne e uomini, vecchi e bambini: tutti. Detto questo, ieri mattina, con un cielo tornato sereno ma con una temperatura ancora lontana dall’essere primaverile, su una macchina a noleggio ho preso la strada verso Nord-Est, prima lungo le interminabili ramblas del lungofiume della capitale verso le spiagge di Pocitos, Punta Carretas, Buceo e Carrasco: 15 chilometri di quartieri residenziali, con case ben distanziate, dove vive la “Montevideo Bene”, e lo si nota alle 11 del mattino con signore e signori in tuta griffata, scarpe da runner da 200 € al paio, iPod all’orecchio e contapassi che fanno i pagliacci fingendo di correre, e poi verso i primi borghi balneari, tra cui viene segnalata Piriapolis, creata dal nulla da un imprenditore argentino, tale Francisco Piria, che vi costruì l’incombente “Argentino Hotel “ negli anni Trenta nonché l’eccentrico castello che porta il suo nome. Quelli della Lonely Planet lo definiscono un centro balneario che ricorda quelli sul Mediterraneononché la località di villeggiatura più pittoresca dell’Uruguay:La mano evidentemente lo ha scritto un inglese che non è mai andato oltre Marbella, Tenerife o forse Hammamet. A parte che non c’era in giro un cane, un posto deprimente. Non aiuta il mare rabbioso: non riesco a immaginarmici ad entrare a fare un bagno pure d’estate, con l’onda lunga, le correnti e le temperature che l’Atlantico ha da queste parti, mai oltre i 18 gradi. Eppure la costa è bella, con spiagge lunghissime e immacolate, spesso con alle spalle delle dune. Finalmente, dopo un centinaio di chilometri sono giunto in vista della famosa Punta del Este (prima foto in alto, a destra), la località di villeggiatura marina più alla moda di tutto il Sud America, e già a una decina di chilometri di distanza biancheggiava sullo sfondo come una Miami apparsa dal nulla. Fortunatamente ho seguito il consiglio dei ragazzi dell’albergo della capitale, e mi sono fermato a Punta Ballenas, a visitareCasapueblo, l’originalissima casa-atelier di Carlos Páez Villaró, pittore, scultore soprattutto muralista di fama, nato a Montevideo ma cresciuto artisticamente a Buenos Aires, grande viaggiatore e attivo in ogni parte del mondo, che mi ha ricordato moltissimo quella di Salvador Dalí a Cadaqués(seconda foto in alto, a sinistra). Un delirio di cupole a spunzoni, terrazzini disposti su ben nove piani su una scogliera a pico sul mare, piscine, tutto a calce viva, qui e là piastrelle disegnate dallo stesso artista, vasi, sculture, oggetti vari, e con una vista sull’Oceano aperto da un lato e sull’arco della baia di Punta Ballenas, dalla parte opposta dell’obbrobrio di Punta del Este, dove sarei giunto dopo essere passato per Maldonado, capitale di provincia e di cui sarebbe in teoria il sobborgo di lusso, proprio sulla punta del capo. Una sorta di penisola molto stretta, dunque, che da un lato, insieme alle spiagge più confortevoli e le acque più tranquille, dà sul Rio de la Plata nel suo punto di confluenza nell’Atlantico, dall’altro sull’oceano aperto, con acque piuttosto selvagge e le spiagge frequentate dai surfisti: in buon numero quelli che ci lasciano la pelle tutti gli anni, mi dicono. Lungo le rive, da un lato e dall’altro, almeno tre chilometri di “marnoni”, palazzoni biancastri con grandi vetrate azzurro-verdognole che sembrano fatti di carton-gesso, dall’aspetto robotico e inquietante. E’ quella che nel titolo chiamo ilGallaratese, sperando che la foto renda giustizia al noto quartiere-dormitorio situato nel Nord-Ovest milanese, che perlomeno una sua dignità ce l’ha, anche architettonica, e un suo perché. Non mi stupisce che il “vippume” sudamericano e d’importazione, che si distingue per la cafoneria e il cattivo gusto come il nostro che si affolla in un altro posto di plastica come Rochala costa Smeralda, venga attratto da luoghi del genere come le mosche dalla merda. Dopo aver immortalato l’unica “attrattiva” di questa città-fantasma, la Mano(qui sopra, a destra) che spunta dalla sabbia a Playa Brava del sedicente artista cileno Mario Irarazabal (e ci vuole un bello stomaco a partecipare, da cileno, a un concorso indetto dalla dittatura argentina, sorella di quella di Pinochet, nel 1982) mi sono spostato nella più isolata e misconosciuta, per fortuna, provincia di Rocha, in mezzo a un paesaggio dolcemente ondulato (cfr qui a fianco), agreste, ricco di lagune, dove le località di mare, come La Paloma, La Pedrera, l’incontaminato Cabo Polonio, in cui soggiorna una grande colonia di leoni marini, sono decisamente ancora a misura d’uomo, e d’animale, con la speranza che il turismo idiota e massificato si accontenti della fuffa di Punta del Este e si fermi lì.

mercoledì 14 ottobre 2009

Compendio di geografia

Scultura di stradaMONTEVIDEO - Riflessione di ieri sera: mi trovo a MontevideoUruguay e ceno alla parrilla "Parada Sur" in calle Paraguay, all'angolo con la Carlos Gardel, a 50 metri dall'ambasciata d'Italia, con vista delle ramblas lungo ilRio de la Plata, di fronte a Buenos AiresArgentina. Alle medie, l'unica materia in cui miracolosamente riuscivo a spuntare un 7 era geografia, guarda caso. Promettevo bene, e i miei insegnanti avevano capito tutto. Oh yeah! (nella foto, scultura di strada)

martedì 13 ottobre 2009

Uruguay: l'altra riva del fiume

Palacio Uriarte de Heber y Plaza FabiniMONTEVIDEO - Dopo cinque anni di assenza, il mio ritorno nella capitale della República Oriental, sulla sponda opposta del Rio de la Plata rispetto a Buenos Aires (tre ore e mezzo di traversata con un battello veloce, per rendere l'idea) coincide con un evento calcistico di alta drammaticità. Ossia Uruguay-Argentina, che si giocherà domani alle 20 nello storico stadio "Centenario", dove si disputò la finale del primo Mondiale di calcio, nel 1930: vinsero i padroni di casa, per 4-2, proprio sugli argentini. L'incontro deciderà la partecipazione di una delle due al prossimo torneo che si svolgerà in Sudafrica l'estate prossima e il possibile ripescaggio dell'altra allo spareggio, se non addirittura la sua esclusione definitiva dalla competizione. Insomma una cosa seria in due Paesi calciofili come pochi: si prevede una serata muy caliente per domani, anche se in città non si avverte la tensione. Gli 80 mila biglietti sono andato a ruba già da ieri, nonostante fosse un giorno festivo, in città si pala della grande sfida ma con rilassatezza, com'è nel carattere degli uruguagi, molto più rilassati, bonari e, alla fine, sereni, dei loro cugini della riva occidentale. Cinque anni fa avevo lasciato una città triste, grigia, impoverita, umiliata. La crisi che aveva travolto l'Argentina a cavallo tra il 2001 e il 2002 aveva messo in ginocchio questo piccolo ma orgoglioso Paese, che è sempre dipeso, nella buona come nella cattiva sorte, dai più potenti vicini: i cugini argentini da una parte e il colosso del Continente, il Brasile, dall'altro, con i suoi Stati più ricchi. Mi ricordo come fosse ieri le tante saracinesche abbassate per cessata attività perfino lungo la venaPlaza Cagancha y Avenida 18 de Julioaorta della città, Avenida 18 de Julio, e gli anziani pensionati di origine italiana, dall'aspetto dimesso, che attaccavano discorso - mi è testimone l'amico Copy, mio compagno di viaggio di allora - si potrebbe dire "piangendo miseria", in senso letterale, ma in realtà increduli di vedere il proprio piccolo ma fiero, colto Paese ridotto in condizioni così penose. Si sentivano umiliati e si vergognavano: erano convinti, giustamente di non meritarsi questo dopo una vita di lavoro e di impegno, politico e civile, un impasto che aveva portato l'Uruguay a essere una sorta di Svizzera del Sud America. Ho ritrovato la Montevideo che conoscevo da prima: manca ilglamour che contraddistingue alcune zone di Buenos Aires e che rende elettrizzante e à la page la "scena" porteña, ma l'understatement, come si usa dire, è una "cifra" di questa città e di questo Paese. A mio parere, l'altra faccia dei cugini "occidentali", il DNA essendo in gran parte comune, il risultato, in qualche misura divergente. Se si guarda alle dimensioni, si potrebbe dire che l'Uruguay è un'Argentina in miniatura: il rapporto è di uno a dieci sia per quanto riguarda gli abitanti complessivi, sia quello delle due capitali sia, ancora, quello della loro incidenza sul resto del Paese. Uguale anche la percentuale di urbanizzazione, oltre l'82%, e di alfabetizzazione: di gran lunga il più alto in America Latina e ancora maggiore in Uruguay. Identica la predominanza di una classe media, anch'essa caso unico nel Continente, che va però sfaldandosi e riducendosi man mano, e uguale la dipendenza dalle esportazioni del settore agricolo in senso lato. Pur avendo la stessa struttura rigorosamente ortogonale, un'impronta italo-ispano-francese evidente soprattutto nei loro palazzi dell'epoca d'oro, tra la fine dell'Ottocento e la metà del Novecento, con evidente influenza Liberty, Buenos Aires e Montevideo non potrebberoPalacio Salvo e Plaza Independenciaessere più diverse nel loro rapporto con l'elemento che hanno in comune più di ogni altro: il Rio de la Plata. Buenos Aires rifugge l'acqua: la nega. Perfino Puerto Madero, il nuovo quartiere di lusso costruito su un terreno artificiale sottratto al fiume, guarda verso il centro e si affaccia sui vecchi bacini del porto, i "diques", trasformati in canale interno, e non sul "fiume aperto" (uso quest'espressione perché sembra un mare). Montevideo è tutta sull'acqua: la sua Città Vecchia è una penisola circondata sui due lati dal fiume. Dalle "vertiginose" altezze della sua via centrale, i 50 metri della già citata Avenida 18 de Julio, si vedono entrambi i versanti, il porto da un lato e le ramblas del lungofiume dall'altro, a 6-7 isolati di distanza (350 metri circa). Buenos Aires è piatta come una tavola da biliardo e si estende all'infinito mentre in confronto Montevideo, città che ha un suo limite spaziale ed è come tale finita, risulta audacemente ondulata e porta non a caso la radice "monte" nel suo nome. In compenso c'è da dire che l'Argentina possiede le montagne più alte d'America e sei climi diversi come i suoi habitat naturali mentre l'Uruguay è pampa, acqua dolce e mare. Per il resto entrambe le città hanno in comune il tango: e perfino la superba Buenos Aires non osa metterne in dubbio la paternità in comune. Entrambe le città hanno l'identica pavimentazione tipo piastrella in cotto delle veredas, o marciapiedi, e i taxi neri col tetto giallo: ma a Montevideo, nonostante sia meno pericolosa di Buenos Aires, dotati di vetro antiproiettile tra autista e passeggero; in comune la passione per i cani e per il mate, con punte maniacali in Uruguay: una persona su due gira equipaggiata di bombillacalabaza e thermos dell'acqua calda, oltre alla riserva di yerba, in qualsiasi situazione della giornata. La parlata e la pronuncia del castigliano sono identiche, ma quella orientale meno cantilenante e più comprensibile; in Uruguay la popolazione d'origine italiana è perfino maggiore rispetto all'Argentina, superando il 50%, e in più è presente anche un 5% circa di persone di colore, perfettamente integrate: sull'altra sponda del fiume i neri non sono mai esistiti se non come turisti. Anche i conflitti politici sono vissuti in maniera completamente diversa, pure se l'impegno è palese, e perfino maggiore sulla sponda orientale del fiume. Sono capitato nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali che si svolgeranno il 25 di ottobre e il fair play è inimmaginabile in Argentina, per non parlare dell'Italia: un sogno. Infine, devo ammetterlo: gli uruguagi, donne e uomini, sono mediamente più belli e più alti. E non più infelici come cinque anni fa: questo mi ha riempito di gioia e mi fa pregustare un'altra settimana di permanenza in questo ospitale e civilissimo Paese. 

lunedì 12 ottobre 2009

El día de la raza: Columbus Day in stile porteño

Calle Defensa, San TelmoBUENOS AIRES - Il "Día del la raza", come in buona parte dell'America Latina viene chiamato il giorno dello sbarco di Colombo e degli spagnoli sul Continente, quest'anno cade di lunedì per cui questo è stato un fine settimana particolarmente lungo, quello che ha dato inizio alla bella stagione, anche se le temperature sono ancora relativamente fresche per il periodo. La città è andata svuotandosi già dal pomeriggio di venerdì: a parte i modaioli che sono corsi ad intasare quell'orrido conurbio marittimo che è Mar del Plata, chi poteva è andato a trascorrere alcuni giorni nel "campo", in una dimensione agreste, ospite di estancias o semplicemente case campestri di parenti e amici, nelle vicine pampas o nella zona del delta del Tigre, raggiungibile dal centro in bus o treno e poi lance. Il tutto fra una grigliata e l'altra. Chi non se lo può permettere, a parte i dodicimila che hanno deciso di partecipare alla maratona che ieri si correva in città, le grigliate le ha organizzate per strada, meno ricche ma più rustiche e a buon mercato,Parrilla di stradamagari limitate a un sapido choripan(pane con salsiccia), in occasione dei vari mercatini che si organizzano in più angoli della metropoli. Particolarmente frequentato quello di San Telmo, che ha il suo fulcro attorno a Plaza Dorrego, dove si tiene ogni domenica una famosissima fiera di antiquariato, ma che si svolge nella forma di mercato delle pulci, che ricorda il Rastro di Madrid, Porta Portese a Roma o Senigaglia a Milano, lungo tutta la Calle Defensa, lungo un paio di chilometri, a partire praticamente dalla Plaza de Mayo. "Cinque secoli dopo - Tornare alla terra" titolava oggi Página/12, a proposito della ricorrenza dell'arrivo degli spagnoli nel 1492, raccontando, nell'articolo di fondo, come nell'ultimo decennio in Argentina la residua popolazionemapuche sia riuscita a recuperare 233 mila ettari, dieci volte la superficie di Buenos Aires, il che ha significato per essi un ritorno alla terra ancestrale. E' l'unico giornale che abbia parlato della ricorrenza dal punto di vista degli indigeni, che furono peraltro oggetto di vero e proprio genocidio in tutti i Paesi che si affacciano sull'Oceano Atlantico. Mi è venuto in mente questo a contrasto con il culto della memoria recente che mi ha sempre colpito in un Paese come l'Argentina, o anche il vicino Uruguay, fatto di immigrati perlopiù italiani e spagnoli, e la cui storia è molto recente, testimoniata proprio dall'abbondanza di rigattieri e mercati di antiquariato, e dall'aggrapparsi a ricordi che ne costituiscono l'immediato retroterra, e da qui la mitizzazione di personaggi emblematici come il presidente Yrigoyen, Carlos Gardel, Eva Perón, fino a Maradona o anche semplicemente di oggetti o perfino prodotti di qualche decennio fa, che spesso si trovano ancora in testardo uso, come ad esempio le bottiglie di seltz. I Tamburini di San TelmoNostalgia, insomma, con un fondo di malinconia che fa molto "Argentina", ma dall'altra parte una partecipazione gioiosa, intergenerazionale, a giornate come queste, per girare per strada, incontrarsi e stare insieme, ciascuno a modo suo ma con gli altri. Così si vedono gruppi di giovani percussionisti scatenati di ambo i sessi, che nulla hanno da invidiare a quelli bahiani attivi nel Pelourinhodi Salvador, apprezzati e applauditi anche da gente di mezza età,tangueros che si agitano a ritmi brasiliani (e poi dicono della rivalità tra i due Paesi: non esiste, quando si tratta di musica, guarda caso) e, poco più in là, un terrazzamento di Plaza Dorrego, dove stanno per smontare le strutture metalliche del mercato, trasformato in milonga: quattro luci colorate, un paio di amplificatori che mandano tanghi storici, atmosfera da sagra paesana e via con le danze: coppie dai trent'anni in su, senza limiti di età, ma anche alcuni dei ragazzi che, poco prima, tambureggiavano come dei forsennati, ora compiti e serissimi tra una figura e l'altra della danza cittadina. E' questa la memoria condivisa di questa affascinante città, ed è questa la maniera di socializzare e festeggiare in maniera tutto sommato molto "Vecchia Europa" una ricorrenza invece molto americana. Anche se l'Argentina è a tutti gli effetti un Paese sudamericano, per quanto anomalo, anche se per decenni non ha voluto ammetterlo a sé stesso. E colgo qui l'occasione che questo esercizio del ricordo non ha nulla a che vedere con una inesistente nostalgia per la patria degli avi, il più delle volte lasciata perché costretti dalla miseria e per motivi politici (i primi lavoratori sindacalizzati italiani, qualche decennio dopo gli spagnoli in fuga dal franchismo), ma piuttosto con la coscienza di quel che si è venuti a fare qui e di dove si è partiti per inventarsi una nuova vita. Personalmente non mi stupisco di sentirmi completamente a casa e di rivedere qui molti aspetti l'Italia del "Boom", degli anni Sessanta, quando si guardava avanti e non indietro, pur non avendo cancellato la memoria del proprio passato. Mentre ora siamo un Paese che vive a una dimensione, il presente, e contemplando il proprio ombelico. Senza prospettiva e con una memoria rimossa.

sabato 10 ottobre 2009

Disavventura a Boca: il culo nella sfiga

Puente de AvellanedaBUENOS AIRES - Dato che non credo nella divina provvidenza, non mi rimane che provare a baciarmi i gomiti per un episodio che mi è capitato qualche ora fa: una rapina a mano armata da parte di tre o quattro ragazzotti, l'azione è stata così veloce che non ho visto bene, sbucati all'improvviso e che mi hanno accerchiato in calle Necochea, alla Boca, lo storico quartiere dell'immigrazione italiana e genovese in particolare. Di quella Boca, da sempre malfamata, in fianco alle attrazioni turistiche come il "Caminito", i locali di tango e le rivendite di souvenir, oltre al mitico stadio della "Bombonera", sono rimaste la miseria e le frequentazioni poco raccomandabili. Ai portuali liguri si sono col tempo sostituiti altri poveracci giunti in Argentina da ogni dove per cercare di guadagnarsi la pagnotta, e negli ultimi decenni gli ultimi degli ultimi sono stati soprattutto boliviani, paraguyani e argentini provenienti dalle zone andine, le più povere. Le tipiche case ricoperte in lamiera colorata che non sono state ristrutturate per la gioia dei visitatori in cerca del "pittoresco" si sono decomposte in veri tuguri e ospitano questi infelici: conosco il quartiere e non tornandoci da due anni, appena sceso dal bus che mi ci aveva portato ero rimasto colpito da come le cose fossero peggiorate. So bene che tipo di posto sia la Boca e non vado a correre rischi inutili: in realtà stavo cercando di percorrere la strada più veloce per andare all'Obrero, una famosa osteria dove pregustavo una classica parrilla da fine settimana. Ed erano neanche le due del pomeriggio. Quando mi sono reso conto che era meglio allontanarmi in fretta, ho svoltato verso il nuovo ponte di Avellaneda. Quello nella foto, dipinto di arancione (a meno che non si tratti ancora di minio) costruito in copia conforme in fianco all'altro, storico: per un istante ero rimasto perplesso perché non mi aspettavo di trovarlo lì. Il ponte, la salvezza: perché è attaccato allacostanera del Riachuelo, bonificato ma pur sempre mefitico corso d'acqua che crea una darsena, e c'è sempre passaggio di gente. Nonostante la sensazione sgradevole che mi sentivo addosso, volevo proprio scattare una foto che testimoniasse quanto stavo pensando in quel momento: qui ridipingono il ponte, magari ne fanno uno nuovo, e mentre si fanno belli con una inesistente "riqualificazione" del quartiere, la gente vive come se si trattasse di pantegane e va in rovina tutto, finché cade anche l'ultima baracca e il terreno rimane libero per una bella speculazione. Un attimo dopo ero circondato, uno dei ragazzi ha estratto una semiautomatica, chiedevano soldi ed erano nervosi: ho avuto l'accortezza di rannicchiarmi per proteggere, oltre alla ghirba, il portafogli (che saggiamente tengo nella parte anteriore, dove è più difficile sfilarlo nella confusione) e di abbrancare la mano, e poi il braccio, di uno dei tipi stortandoglielo e mettendolo di mezzo tra me e gli altri: inconsapevolmente, l'ho usato come scudo, trascinandomelo addosso, a terra e trattenendolo. Non so se è stata incoscienza da parte mia ma ero certo che non avrebbero sparato, mi sentivo stranamente tranquillo ed è stato il mio vantaggio: gli ho ripetuto più volte ad alta voce "No tengo un casso, carajo!" e alla fine hanno lasciato perdere. Mi hanno strappato una busta di plastica che conteneva un libro di Forsyth in edizione economica e il "Clarín" di oggi, e questo è stato il loro bottino, insieme a un cellulare a doppia scheda SIM, che grazie all'intervento dall'Italia di due cari amici sono riuscito a far bloccare nel giro di un'ora. Non una gran perdita, dunque, visto che ho salvato un altro cellulare, la macchina fotografica nonché il portafogli che conteneva carte di credito, bancomat e contanti, tutta "merce" che avevo dietro dato che in mattinata avevo acquistato in anticipo il passaggio in traghetto più bus per Montevideo di lunedì: salvo anche quello. Ovviamente mi sono ben guardato dallo sporgere una qualsiasi denuncia che sarebbe stata inutile e mi avrebbe soltanto fatto perdere tempo oltre a mettermi in serio imbarazzo con labonaerense, una polizia la cui fama non teme confronti con quella della Chicago anni Trenta, e rispetto ai cui elementi i "miei" rapinatori sfigati sono delle mammolette: mi è andata di grandissimo lusso così, sono cose che se da decenni si gira per il mondo possono capitare e si mettono in conto, fa parte della statistica e non è il caso di mettersi nelle mani di delinquenti ancora più pericolosi perché in divisa. Ora che ricordo mi era capita una vicenda simile a quella di oggi a Lisbona 10 anni fa: un rapinatore solitario che alla fine ho messo in fuga. Forse sono io che li spavento! Non sono nemmeno incazzato e i miei aggressori, che peraltro non mi hanno torto un capello (ma io a uno di loro il braccio sì), mi fanno più che altro pena. E non per buonismo: se li incontrassi singolarmente non esiterei a riempirgli la faccia di sberle. Mi spiace per il quartiere, per la parrilla andata in fumo (ma mi rifarò stasera, a San Telmo, che è un barrio più tranquillo) ma non è per questo che mi metto a odiare la Boca, a cui sono affezionato, e che smetterò di essere bostero, ossia tifoso del Boca Juniors, oltre che interista. Perchégallina e millonario, con la puzza sotto il naso dei "fighetta" fascistoidi del Barrio Norte che si sentono rappresentati dal River Plate, mai!

giovedì 8 ottobre 2009

Informazione e mafia di Stato sul Rio de la Plata

VideocracyBUENOS AIRES - Se non fosse per la primavera ormai iniziata, anche se le temperature sono ancora più fresche che da noi, dopo 12 ore di volo sembrerebbe di essere ancora nella Terra dei Cachi. C'è di buono che la prima notizia, accendendo il cellulare ieri sera all'arrivo, è stata quella della dichiarazione di incostituzionalità del cosiddetto "Lodo Alfano", giunta via SMS, che ho immediatamente divulgato al gruppo di connazionali in coda con me all'immigrazione: devono essere tutti "farabutti", quelli che sono arrivati qui con il mio volo, perché ho notato solo volti soddisfatti, sorrisi a trentadue denti e sospiri di sollievo. E nessuno che portasse in trasferta fogli come il "Giornale", "Libero" o "La Padania". In compenso qui il fatto del giorno è costituito dalle espressioni usate dal ministro del Commercio, Guillermo Moreno, in occasione di una riunione di consiglieri pubblici della società "Papel Prensa" (letteralmente "Cartiera per la stampa"), di cui lo Stato è socio di minoranza, e i due azionisti maggiori il gruppo Clarín (49%, assimilabile a "Repubblica" per la linea politica) e "La Nación" (22,50%, che fa le parti del "Corriere della Sera"). La riunione è stata anomala ed era stata convocata dal ministro, che pure non è competente per la materia, per illustrare ai consiglieri di nomina statale un progetto per appropriarsi della società, spiegando che è allo studio un decreto presidenziale "di necessità e urgenza" (come mi suona famigliare questo modo di legiferare!) per intervenire. Due le opzioni: un aumento di capitale per abbassare il prezzo delle azioni, in modo che il governo le compri al ribasso oppure procedere, brutalmente, all'espropriazione. Per fare ciò tutte i mezzi sono validi, a cominciare dalla mobilitazione dei sindacati, soprattutto "quelli più aggressivi", affinché svolgano opportune pressioni attraverso scioperi e manifestazioni, e che "per espressa istruzione della Signora Presidente" (ossia Cristina Kirchner) alla testa della società sarebbe stata collocata tale Beatriz Paglieri (effettivamente nominata presidente ma non ancora investita della carica dal consiglio), ben nota per essere stata negli anni passati la principale responsabile delle cifre fasulle sparate dall'INDEC, l'istituto nazionale di statistica, opportunamente riviste al ribasso in vista delle elezioni di due anni fa che hanno visto trionfare, per l'appunto, la Kirchner, che subentrava così al suo coniuge, Nestor. Piani d'azione segreti che non avrebbero dovuto trapelare, insieme alle esplicite minacce per chi avesse osato contravvenire alla consegna: "fuori da qui stanno i miei ragazzi, esperti nel rompere la schiena e far saltare gli occhi a chi parla". Lo ha fatto il consigliere Carlos Collasso e il "Clarín" ha denunciato Moreno per abuso d'autorità e intimidazione. "La mafia in versione statale", ha titolato l'editoriale di oggi, laddove, se il personaggio principale è il ministro Moreno, il vero Don Corleone sta da un'altra parte, e precisamente alla Casa Rosada. Lo scontro della presidenza con i due maggiori giornali argentini, peraltro, si colloca alla vigilia della votazione definitiva al Senato della nuova legge sui media già approvata alla Camera dei deputati, che ha visto l'acquisto in corsa di voti dei piccoli partito di sinistra dell'opposizione e pure di alcuni deputati radicali, avversari storici dei peronisti al potere, il tutto per una legge fortemente contestata perché se è vero che riforma una normativa in vigore fin dai  tempi dell'ultima dittatura, finisce per attribuire un controllo eccessivo al potere esecutivo. La strategia dei Kirchner non è nuova: dosi abbondanti di populismo e utilizzo senza remore delle teste più calde del sindacalismo di tradizione peronista, col risultato che da mesi la capitale è sotto assedio e ostaggio dei più svariati gruppi di "piqueteros" che oltre ai consueti blocchi delle strade di accesso e di alcune nevralgiche arterie cittadine, da qualche tempo sono riusciti a impedire il transito perfino della Panamericana, da dove entrano in città circa settecentomila automezzi al giorno. Come se non bastasse questo a rendere problematici gli spostamenti, si sono aggiunti tre scioperi degli addetti alle cinque linee della metropolitana, così che il traffico è completamente impazzito e il clima che si respira assomiglia a quello degli anni Settanta senza però la furia ideologica che ammorbava quel periodo anche da questa parte del mondo. Per il resto la capitale è sempre una città piena di fascino, frizzante, dalle mille sfaccettature, moderna ma con tanti lati deliziosamente rétro, dedita al recupero dei propri edifici più vecchi ma con i marciapiedi sempre puntualmente sconquassati, i colectivos del trasporto pubblico che sfrecciano rombati a velocità folli, i caffè dell'angolo affollati a tutte le ore dagli avventori più disparati, le "parrillas" popolari che sopravvivono anche nel Microcentro" (nella foto sotto una ottima in Esmeralda, quasi all'angolo Corrientes, dove ho pranzato con un ottimo asado de tira, patate fritte, vino rosso e soda - rigorosamente dal sifone - per 20 pesos, meno di 4 euro), con le migliaia di chioschi, i cartoneros ormai diventati veri selezionatori professionisti di prodotti di cellulosa, gli immigrati, soprattutto dai Paesi andini, sono in aumento così come cinesi e coreani, che stanno acquistando, come negli Stati Uniti, gli spacci e i piccoli supermercati di quartiere. I prezzi non si sono alzati in maniera significativa rispetto a due anni fa quando sono venuto l'ultima volta, ma questo vale per chi paga in euro, che si è apprezzato nel frattempo del 25%, e infatti un'inflazione del 12-15 % su base annua è già più credibile di quella del 6% propalata dal governo. Non si ferma il calcio, mai: il torneo "Apertura" è cominciato in ritardo perché le società erano senza quattrini e ora tocca recuperare, cosicché il campionato non si ferma neppure in occasione degli impegni della nazionale (l'Albicelestebicampione mondiale deve battere sabato il Perú al Monumental, in casa, per conservare le speranze di qualificarsi subito per il torneo sudafricano dell'estate prossima) col risultato che si vede calcio a tutte le ore del giorno e della notte. Mancava solo il nostro corruttore del Consiglio in prima pagina (ma alle vicende italiote si è dato ampio spazio in quelle interne nonché in televisione), ma per il resto ci si sente davvero a casa.Parrilla