mercoledì 28 gennaio 2009

Betang Rejang, il cuore del Sarawak


Kapit, porto fluviale RejangKAPIT (Sarawak) – Il maltempo che ha imperversato in questi giorni sulla parte settentrionale del Borneo mi ha costretto a rivedere i piani di fermarmi a Bintulu, 170 km a Sud-Ovest di Miri e arrivare via terra a Belaga, nell'interno, lungo l'alto corso del Batang Rejang, il fiume lungo 640 chilometri che costituisce l'arteria più importante del Sarawak, per scenderlo fino a Sibu, dove sfocia nel Mar Cinese Meridionale. Nemmeno i fuoristrada che collegano la zona di Belaga alla strada costiera battendo gli sterrati utilizzati per il trasporto del legname erano in grado di percorrere il tratto in tempi ragionevoli, e in effetti i fiumi sono gonfi d'acqua, gli straripamenti e allagamenti in città come nelle campagne all'ordine del giorno, il pericolo di frane elevato, per cui sono sceso a più miti consigli e in sette confortevoli ore di bus sono arrivato a Sibu per risalire il fiume almeno fino a Kapit. Sibu, che sorge sulla confluenza del Rejang con l'Igan, a sessanta chilometri dal mare, è la porta d'accesso al Batang Rejang e il punto di raccolta di tutte le merci provenienti dall'interno, principalmente legname. E si tratta di un'industria e di un commercio estremamente floridi: Il Sarawak è il maggiore esportatore di legno tropicale al mondo, il giro d'affari stimato è di due miliardi di dollari all'anno, per non parlare di quello legato al disboscamento illegale, che a fatica si sta tentando di arginare. Duecentomila abitanti, città vivace, moderna e funzionale, era chiamata New Foochow (Fujian) a causa della presenza di numerosi immigrati cinesi di quella regione giunti all'inizio del '900, a cui si sono poi aggiunti melanau, malesi e iban. Anche qui l'impronta cinese è forte quanto a Miri, e i festeggiamenti per il Capodanno, con relativa chiusura dei buona parte degli esercizi commerciali, non sono ancora cessati. Quello che rimane sempre attivo, in un andirivieni incessante di barche e navi Longhouse presso Belaga, di jbeaulieudi tutti i tipi, è il porto fluviale. Con un battello espresso, dotato di un paio di motori da TIR, in nemmeno tre ore, e senza scosse, si arriva a Kapit, 120 chiometri risalendo la corrente, facendo tappa a Kanowit e Song, centri che si affacciano sul fiume e nei cui dintorni si trovano un buon numero di longhouse (foto a sinistra), le tradizionali abitazioni degli indigeni del Borneo (qui soprattutto gli iban, i dayak e, risalendo il fiume, i kayan, kejaman e lahanan), enormi strutture su palafitte generalmente costruite in legno, ma oggi  anche in muratura e con tutti i comfort, in cui un'intera comunità vive sotto lo stesso tetto: in camere bensì separate ma affacciate su una lunghissima veranda comune (in basso, a destra). Già altre volte mi ero soffermato sulla tendenza, in Malaysia come in Indonesia, da parte delle popolazioni originarie di riprodurre il villaggio, in ogni possibile circostanza, anche urbana; qui nel Borneo, dove il contatto con la natura è ancora più forte e vivo, le tradizioni più tenaciVeranda di longhouse, diTom T e i legami famigliari più saldi, questa forma di vita comunitaria ancora oggi funziona perfettamente e non entra in contrasto violento con la modernità, anzi: l'impressione è che vi si amalgami piuttosto armoniosamente. Kapit, meno di diecimila anime, è il capoluogo della provincia pìu estesa del Sarawak, che comprende anche i distretti di Belaga a monte e Song a valle, e si è sviluppata attorno al Fort Sylvia, eretto nel 1880 dalla dinastia dei Brooke (e intitolato alla consorte di Charles Vyner, il terzo della stirpe) per garantire la pace nella zona dove si erano già strabiliti gli iban, in perpetua guerra con altre tribù più a Nord, e il controllo del territorio del corso superiore del Rejang, pace infine raggiunta e celebrata nel 1924. A seguito dei rajah bianchi, anche qui numerosi coloni cinesi che hanno preso in mano il commercio. Il forte, costruito in legno belian, durissimo e indistruttibile, ha retto a ogni tipo di intemperia, compresa un'alluvione nel 1934 che l'ha mandato sott'acqua per due metri, ed è oggi sede di un piccolo ma interessante museo che illustra tutta la storia dei luoghi. Oggi come in passato Kapit assolve a importanti funzioni amministrative nonché essere punto di incontro e scambio per tutte le comunità insediate nel corso superiore del Batang Rejang. Cuore della cittadina, ovviamente il grande mercato centrale, Pesar Teresang, appena sopra gli imbarcaderi intensamente trafficati di ogni genere di merce fin dalle prime luci dell'alba, e quando questo sbaracca, al tramonto, eccolo sostituito da quello notturno, arricchito da bancerelle gastronomiche che tornano parecchio utili in questi giorni, perché anche qui il Capodanno cinese prosegue imperterrito, e la maggior parte degli esercizi commerciali è tuttora chiusa e le attività riprendono a rilento: oggi era la giornata delle danze dei dragi e delle tigri di cartapesta, manovrati da tre o anche quattro ragazzi agili come acrobati a renderne le forme e i  movimenti, anche stando in equilibrio fino a tre uno sull'altro, al ritmo di una sarabanda di tamburi e piatti, per fare ingresso nel tempio. All'esterno, la consueta batteria di mortaretti e petardi e canne di bambù fumanti riempite d'ìincenso. Da basso, maestoso e possente, scorre il Batang Rejang, la vena aorta del Sarawak.

Miri: un capodanno cinese monsonico


MiriMIRI (Sarawak) - Quando mi sono reso conto che nemmeno i cinesi, con i loro scatenati festeggiamenti per il Capodanno (secondo il calendario lunare) sarebbero riusciti a scuotere la flemmaticità e il rigore analcolico del Brunei, e non essendo rimasto nient'altro da vedere nel Sultanato, ho deciso di assistere al pandemonio che avrebbero scatenato in una città normale, che si trova a pochi  chilometri dal confine, nella parte nordorientale del Sarawak che è Miri. Sette ore per una tratta di poco più di 150 chilometri, con quattro cambi di bus, due ore d'attesa durante uno di questi, una traversata di fiume su una bagnarola che ha dovuto fare due viaggi per trasbordare una quindicina di espatriandi, un'altra mezz'ora all'ufficio emigrazione del Brunei, in attesa che la funzionaria di turno al controllo passaporti si degnasse di raggiungere il bancone dove apporre, con infastidita indolenza, il sospirato timbro d'uscita, ma alla fine ne è valsa la pena. Come era d'aspettarsi, tutta la parte commerciale della città era pavesata a festa, coi consueti lampioni di carta rossi, festoni, pupazzi, immagini di bufalo/toro (il segno zodiacale del nuovo anno), il tempio principale addobbato, alle sue spalle una batteriaTua Pek Kong Temple di Raphael Bick impressionante di razzi e petardi; altre postazioni, formato famiglia, su quasi tutti i tetti delle case e anche agli angoli delle strade: con una contraerea del genere per i bombardieri NATO sarebbero stati problemi, durante le sciagurate incursioni del 1999! Purtroppo soltanto dal primo pomeriggio a oggi si sono scatenati almeno 10 acquazzoni, di durata variabile ma mai di durata inferiore alla mezz'ora, alcuni dei quali di una violenza rara.Tutti rifugiati nei grandi ristoranti, soprattutto di pesce, con enormi acquari da cui scegliere la pietanza ancora viva, all'uso cinese, e da un'ora prima della mezzanotte fino a un'ora dopo si è scatenato letteralmente l'inferno. E birra a fiumi, ma anche whisky: quando c'è da darci dentro, i figli del Celeste Impero non scherzano. Fuochi d'artifico del genere li ho visti raramente, non riesco a immaginarmi cosa siano capaci di fare a Hong Kong, Shanghai o Pechino. Questa mattina regnava il deserto, come da noi il primo dell'anno o il giorno di Ferragosto. Per rendere l'idea del peso economico della comunità cinese, numerosa ma comunque fortemente minoritaria, in una città di medie dimensioni come questa, oltre agli uffici pubblici e alle banche chiusi, cosa anomala in un Paese musulmano, al mercato centrale era in funzione una postazione su dieci, qualcuna in più a quello del pesce mentre erano al completo quelle del lindo e ordinatissimo Tamu Muhibbah, presidiato dai dayak che vengono in città a vendere frutta e ortaggi di loro produzione. In fianco, sul lungofiume, il tempio buddhista del Tua Pek Kong (nella foto sopra a destra un dragone con palla), avvollto in una possente nube di incenso, affollato fino all'inverosimile di cinesi che oltre a rendere omaggio a divinità e posteri bruciano in una fornace i ricordi cartacei, così mi è sembrato di capire, dell'anno passato: calendari, agende. Colore predominante il rosso: chiunque indossava almeno un capo d'abbigliamento di questo colore: non ho avuto modo di verificare se la regola valesse gli indumenti intmi. Miri, oggi 270 mila abitanti, era un borgo di pescatori su un lato dell'estuario del fiume omonimo che si è trasformata in centro Grand Old Lady di chrome76industriale, commerciale e di servizi a traino dell'industria petrolifera, che si sviluppò proprio qui dopo la scoperta dei primi giacimenti nella Malaysia nel 1910: il primo pozzo, il Grand Old Lady, sulla Canada Hill, alle spalle del centro (qui a sinistra) disattivato nel 1972, è oggi monumento nazionale e qui sorge l'interessantissimo Petroleum Museum. A sottolinearne l'imprortanza, nel 2005 Miri ha ottenuto lo status di città, primo caso di centro che non fosse la capitale di uno dei tredici Stati della Federazione. Non è una bella città, il che è ovvio considerata la sua vocazione, ma si è pure inventata una vena turistica insospettata valorizzando alcune spiagge belle e ben curate nelle immediate vicinanze, parchi perfettamente attrezzati con strutture sportive e piscine (l'esatto contrario della tanto reclamizzata Labuan, su cui il governo centrale ha investito molto e male, come ho ricordato), e come base per le escursioni nei vicini parchio nazionale di Gunung Mulu (Patrimonio dell'Umanità), Niah Caves, Lambir Hills e Similajau. Peccato soltanto per il monsone che imperversa, quest'anno in modo più "tropicale" del solito, mi dicono. Nel senso che qui all'Equatore normalmente i fenomeni non sono così violenti, e ripetuti. 

sabato 24 gennaio 2009

Bandar Seri: la Pordenone del Borneo


Brunei Sultan 60 Birthday MonumentBANDAR SERI BEGAWAN (Brunei) Sua Maestà Paduka Seri Bagida Sultan Haji Hassanal Bolkiah Mu'izzaddin Waddaullah Ibnu Al-Marshum Sultan Haji Omar Ali Saiffuddien Sa' Adulkhairi Waddien, Sultan dan Yang Di-Pertuan Negara Brunei Darussalam: questo il nome di quello che è stato per anni l'uomo più ricco del mondo, e tutt'ora tra i primi posti in questa classifica, che guida il Brunei fin da quando, nel 1967, a soli 21 anni succedette al padre dimissionario. Anche lui (a destra il monumento che celebra il suo 60º compleanno, anche se sembra una pubblicità del Seven Up), come il nostro puttaniere del Consiglio, è sostanzialmente un dandy, vuole essere amato a tutti i costi, ha un fratello più giovane e perfino più pirla che combina disastri (il principe di qui, Jefri, in qualità di ministro delle Finanze a suo tempo aveva lasciato un buco per Mosque Bandar Seri by Caoimhe Gqualcosa come 16 miliardi di dollari: in confronto anche il vecchio bamboccione Pàoa S-ciopà e Tremonti sono dei dilettanti), ma è infinitamente più ricco, più bello, più alto (pur essendo la media degli asiatici di qui abbastanza modesta), più colto e più glamour, oltre ad avere dieci anni di meno e un nome più lungo di quello già abbastanza intorcolato di Silvio Berlusconi detto Mammaorsa il Piangina. Che per ora quarant'anni di governo consecutivi se li sogna, a meno di non tormentarci fino al suo 110º genetliaco. Il Brunei dal 1888 era stato un protettorato della Gran Bretagna; nel 1929 quando vi fu scoperto il petrolio, Omar Saiffuddien, il padre dell'attuale sultano (a lui è dedicata la moschea nelle due foto) preferì non aderire alla Confederazione Malese affinché i proventi rimanessero sul proprio territorio, con la benedizione inglese e della Shell, e la stessa situazone di ripetè nel 1962 al momento di aderire alla Malaysia, operazione che non andò in porto sempre con l'appoggio dei medesimi tutori. La piena indipendenza giunse nel 1984, con scarso entusiasmo da parte del sultano Hassanal Bolkiah, che fino al 2004 ha continuato a regnare sul Paese sulla base di una legislazione d'emergenza in vigore per oltre 40 anni, con una tendenza sempre più marcatamante intergalista, e solo ora sta aprendosi a cautissime riforme politiche. Il legami con la Gran Bretagna rimangono strettissimi e la tutela della onnipotente Shell è garantita da qui all'eternità. Sultan Omar Ali Saifuddein III MosqueIl buon Hassanal Bolkiah sarà anche un sovrano paternalista e con qualche tendenza al dispotismo, però l'analfabetismo è praticamente inesistente, le scuole sono tante e dappertutto: belle, ariose, semplici, e soprattutto gratuite, così come l'assistenza sanitaria e la frequentazione di centri per il tempo libero e le attività sportive; i sudditi non pagano imposte sul reddito, godono di sovvenzioni anche per acquistare un'automobile, e di prestiti a tassi d'interesse irrisori; hanno la pensione garantita, la settimana lavorativa breve, il salario minimo più elevato di tutto il Sud-Est asiatico e, non a caso, un'aspettativa di vita di 77 anni: abbastanza ovvio che siano contenti e non abbiano granché di cui lamentarsi. La loro giovialità, amichevolezza e disponibilità sono gli aspetti più gradevoli di questo Paese. Bella forza, si obietterà, visto che navigano in mezzo al petrolio: ma non mi risulta che capiti lo stesso in Nigeria o nel Venezuela socialisteggiante del compañero Hugo Chavez. Bandar Seri Begawan, al di là del nome esotico, è un paesone di due strade e poi il nulla di cinqantamila abitanti alla testa di uno Stato che ne ha 350 mila in tutto. Un Paese che per la sua insulsaggine mi ha ricordato il Belize, dove le villette hanno l'aspetto di quelle alle periferie americane popolate dai vorrei-ma-non-posso, e la cui capitale, per il numero di abitanti e con le sue architetture pretenziose, incongrue e lo squallore urbano realsocialisteggiante, mi ha fatto venire in mente il capoluogo della provincia in cui vivo, Pordenone, con la quale ha in comune un altro aspetto demenziale: come questa non ha uno sbocco al mare, così il Borneo ha il suo territorio diviso in due parti non comunicanti, per una delle consuete trovate degli inglesi. La piazza dove sorgono i complessi commerciali Yayasan, coi suoi portici ciechi, in marmo scivoloso (geniale soluzione per Waater Village di Dan 1897pavimentazione in luoghi dove piove sempre) mi ricorda Piazza Venti Settembre, benché la vista della Moschea di Omar Ali Saifuddien sia sicuramente meglio di quella del Teatro Verdi, già definito con ragione un bidet da un noto critico d'arte; ma l'inconfondibile stile mestrino-babilonese, di cui Pordenone è l'emblema, è il medesimo. Altri spiazzi raccapriccianti ricordano Piazza Risorgimento, detta altresì Piazza Tirana, alcune zone il famigerato e indecente Bronx; anche la viabilità circolare ha qualcosa a che vedere con il ring naoniano e perfino nel lungofiume vedo qualcosa in comune. Come Pordenone, alla cui deturpazione hanno dato il loro fattivo contributo, a diverso titolo ma con effetti ugualmente devastanti svariati esponenti della mia famiglia nel corso di tutto il secolo passato (a alcuni perseverano), si riscatta con Corso Vittorio Emanuele, anche Bandar Seri ha un lato che fa dimenticare tutte le vaccate costruite negli ultimi trent'anni: Kampung Ayer. Si tratta di 28 villaggi, in cui vivono circa 30 mila persone, che si estendono su entrambi i lati del fiume, costruiti alla maniera tradizionale su palafitte, in cui le capanne, spesso colorate in tinte vivaci, generalmente in legno, talvolta parzialmente in lamiera, o anche prefabricati, sono collegate tra loro da un intrico di passarelle, scale, canali; villaggi completamente autonomi, con le loro scuole, ambulatori, stazioni benzina, posti di polizia e caserme dei pompieri, officine,Kampung Ayer di Mellowz ristoranti, bar, centrali elettriche: tutto. In alcuni, quelli più vicini al centro ci si arriva piedi e sono quelli abitati dai più poveri, spesso lavoratori stranieri a basso reddito (tanti filippini) che non posseggono un'imbracazione, che è necessaria invece per raggiungere quelli più distanti: non doveva essere molto diversa, la Venezia delle origni! Mi è tornata in mente una considerazione: i brasiliani, appena vedono un'altura che si erge anche di solo cento metri in mezzo a una pianura non resistono alla tentazione atavica di trasformarla in una favela, retaggio forse degli antenati provenienti dalle Azzorre che dovevano difendersi dagli invasori. Così dev'essere per i malesi: la dimensione del kampung (villaggio) è quella che è loro congeniale e che riproducono in qualsiasi sitazione, anche metropolitana; quando poi c'è l'aqua, ma soprattutto un fiume a disposizione, inevitabilmente assumono la forma di villaggi di palafitte dove la vita comunitaria è la regola. Qui nel Borneo i fiumi, imponenti, non mancano: e sono anc ora oggi le principali vie di comunicazione. Avrò modo di vedere altre longhouse, diffusissime anche nel Kalimantan, il Borneo indonesiano, in cui un'intera comunità vive in una sola struttura, scendendo la costa del Sarawak di ritorno verso Kuching nei prossimi giorni. Intanto mi unisco ai cinesi, piuttosto al coperto e stranamente silenziosi in questa città rigorosamente analcolica, nell'augurare a chi legge buon passaggio nell'anno del bufalo, o del toro, a seconda dei gusti!

giovedì 22 gennaio 2009

Il pirla di Labuan e il paradiso turistico che non c'è


Labuan Beach di shafifahLABUAN - La "Perla di Labuan" era naturalmente, per chi non se la ricordasse, Lady Marianna Guillonk, creatura partorita della fervida fantasia di Emilio Salgari, la sposa di Sandokan, per la quale il fascinoso pirata si era ritirato dalle sue scorrerie per vivere, un cuore e una capanna, con l'amata sull'isola di Giava; vita corsara ripresa dopo la prematura morte della bellissima fanciulla che venne sepolta a Batavia (Jakarta). Il pirla sono io che, in questo revival salgariano fuori tempo massimo, non ho potuto esimermi dal ficcare il mio naso anche in questo posto alquanto insulso. L'isola, situata a 8 km dalla costa del Sabah e all'imbocco della Baia del Brunei, ha un'estensione di meno di 90 km quadrati e da un capo all'altro non ci sono più di una dozzina di chilometri. Ceduta per riconoscenza nel 1846 dal Sultano del Brunei agli ingesi, è stata per 115 anni sotto il loro controllo a parte i tre di occupazione giapponese nei primi anni Quaranta. Come a Kota Kinabalu, del periodo non rimangono tracce, a parte una misteriosa ciminiera e la copia di una torre d'orologio (completata nel Duemila) sulla spiaggia in fianco alla quale si sono svolti i fatti più importanti di Labuan: la cerimonia di presa di possesso da parte britannica a metà Ottocento e lo sbarco delle truppe del generale Douglas Mac Arthur nel 1945. Hanno a che vedere con la Seconda Guerra Mondiale il Labuan War Cemetery (sotto a destra), con le lapidi dei circa 4000 soldati del Commonwealth che persero la vita in Borneo, e il Peace Park, che sorge nel luogo dove si arresero i giapponesi e ospita un monumento che ricorda i loro caduti. Poco altro da vedere, a parte il consueto museo etnologico, uno marino e un Bird Park. Per il resto il capoluogo sembra una Lignano in bassa stagione e, per chi la conosce, una via di mezzo tra Pineta e Sabbiadoro. Nemmeno sgradevole, ma insignificante. Labuan War MemorialLabuan è territorio federale, governato direttamente da Kuala Lumpur, e insieme alle altre minuscole isole che la coronano costituisce un arcipelago che oggi è porto franco oltre che importante centro petrolifero. L'attività commerciale in regime di esenzione di tasse non sembra avere molto successo: c'è qualche negozio col consueto armamentario da duty free, con le loro bottiglie magnum di superalcolici scadenti ma di marche universalmente conosciute, le sigarette, i profumi: tutta roba da pubblictà televisiva, ma meno di quelli che mi aspettavo e, quei pochi, vuoti. Ma sempre meno desolantemente deserti del faraonico Financial Park, un centro commerciale multipiano con vista mare pubblicizzato come la principale attrazione turistica, tanto sfavillante fuori quanto squallido all'interno, con intere sezioni vuote o in disarmo. Andata buca questa iniziativa (forse i dirimpettai del Sultanato di Brunei Darussalam sono davvero così probi da non cadere in tentazioni peccaminose), è in corso un altro tentativo di riciclare l'isola, sotto il motto Make Labuan Your Second Home: come la Florida, farne una sorta di paradiso per pensionati, ossia un cimitero di elefanti. E' in corso da qualche anno e gli esiti mi sembrano altrettanto penosi come quelli del porto franco. Ci sarebbero le spiagge, e non sarebbero nemmeno male se fossero almeno un minimo ripulite e attrezzate. Stamattina mi sono fatto portare a quella più famosa, segnalata su tutte le mappe e i dépliant: Pohon Batu. Il primo Labuan by rosliahmadproblema è stato far capire al taxista, cartina alla mano, dove si trovasse. E questo avrebbe già dovuto mettermi sull'avviso, ma ho insistito: perché sono un pirla. Ed eccola: almeno due chilometri per lato di spiaggia orlata di palme. Sabbia dorata? Macché, mucchi di rena bagnata, alberi divelti, rami, foglie e noci di cocco marci, pattume marino e terrestre, relitti di imbarcazioni e carcasse di copertoni, opere di canalizzazione iniziate e mai finite, con spunzoni di ferro che fuoriescono da cumuli di massi di cemento qua e là; il marciapiede del lungomare, che pure, eccezionalmente, esiste, è sbrecciato. Intorno soltanto qualche casupola, la consueta moschea in miniatura, un solo piccolo emporio nell'arco di tre chilometri: figurarsi un bar o un semplice chiosco. Qualcuno bivacca, sulla spiaggia, e ci stende i panni. Evidentemente chi sovrintende al turismo locale preferisce puntare sulle piccole isole che coronano Labuan, le cui acque celano quattro relitti di navi affondate dalla seconda guerra mondiale in poi, e tra i cui rottami si è sviluppata una vita marina paragonabile a quella di una barriera corallina sana e particolarmente rigogliosa. Un paradiso per i subacquei, a una profondità accessibile. Ma non ho osservato grande movimento in questo senso al porto, né ho notato la presenza di divers sull'isola. Né di molti altri visitatori stranieri. Siccome la trascuratezza delle spiagge è una costante nel Sud-Est asiatico, con l'eccezione della Thailandia, mi sono fatto una personale idea dei motivi pensando al rapporto che le popolazioni locali hanno con l'elemento liquido. Per i cinesi, motore di ogni iniziativa che abbia un risvolto economico, il mare è soltanto un contenitore di pesci, al più una discarica, e per le loro donne la vita di spiaggia equivale a una bestemmia, terrorizzate come sono dal sole e dal pericolo che possa deturpare il candore madreperlaceo e malaticcio del loro incarnato (forse in onore della vecchia massima faccia smorta...), preservato a qualsiasi costo, anche in spregio al ridicolo, con tanto di mascherine sul volto, cappelli a falde larghe, occhialoni da sole, calzerotti e guanti lunghi fino all'avambraccio (di notte, poi girano seminude); i musulmani, dal canto loro, hanno costumi incompatibili con la balneazione: rimangono i malesi, che non hanno di queste fisime e per i quali mare e spiaggia sono strumenti e luoghi di lavoro, spesso duro, così come i pescherecci, a loro volta di proprietà dei cinesi, per i quali prestano la loro opera: al più in spiaggia ci abitano, in mancanza di altri alloggi, in tutta disinvoltura piantandoci una tenda o costruendoci una baracca. E fanno bene. Per quanto riguarda il turista balneare, è meglio che si rivolga alle  strutture organizzate, ai resort presenti in alcune zone ben conosciute della Malaysia, come le Isole Perhentian o Langkawi, o dell'Indonesia, in primo luogo Bali, prima di rimanere deluso, altrimenti è meglio che lasci perdere. Se non altro a Labuan non si sono ancora fatti venire l'idea di lanciare i casinò: un vero inno all'imbecillità umana, frequentato di conseguenza, che svolgono però, a loro modo, un ruolo educativo: spennare il grullo e possibilmente rovinarlo a vita neutralizzandolo definitivamente.

martedì 20 gennaio 2009

I cinesi di Sabah e gli oranghi di Semenggoh


Mount Kinabalu di Ibnu YusufKOTA KINABALU (Sabah) - Non sono attrezzato né fisicamente, né materialmente e meno che mai psicologicamente per affrontare la scalata del Mount Kinabalu (4095 metri: la cima più alta dal massiccio dell'Himalaya fino alla Nuova Guinea) né tentato dallo snorkeling lungo gli oltre 14 mila chilometri di coste dello Stato in questa stagione di monsoni, per cui il motivo principale che mi ha spinto in questa città, che fino al 1963, sotto dominio britannico, era chiamata Jesselton, è la presenza del terminal dei ferry che portano a Labuan (dovuto omaggio a Salgari) e quindi nel sultanato del Brunei con il quale i collegamenti stradali dal Sarawak sono laboriosi. KK, com'è chiamata comunemente, non può essere paragonata alla rilassante, in qualche modo incantata Kuching, con cui ha in comune la simbologia animale, in questo caso il cigno anziché il gatto; anche perché ha avuto la sventura di essere stata rasa al suolo due volte durante la Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati: la prima volta nel tentativo (vano) di fermare i giapponesi, la seconda per convincerli alla resa. Moderna ma per nulla sgradevole, 350 mila abitanti che non si ammassano nella stesa area alla maniera indonesiana ma distribuiti per svariati chilometri lungo la fascia costiera, Kota Kinabalu è la capitale del Sabah, uno Stato semi autonomo come Sarawak, in perenne conflitto col governo centrale perché solo una minima parte degli utili prodotti qui (materie prime) torna ad affluire nelle casse locali, e che attulamente risulta il più povero di tutta la Federazione Malese, con un tasso di disoccupazione Kota Kinabalu di mewotvicino al 20%. Colpa anche del forte incremento demografico degli ultimi 25 anni, dovuto in gran parte dall'immigrazione incontrollata, soprattutto dalle vicine Filippine. Come se non bastasse, la vicinanza dell'arcipelago porta anche problemi di contrabbando, pirateria e pure l'imbarazzante presenza dei ribelli musulmani di MIndanao che si rifugiano nel Sabah per sfuggire all'esercito di Manila. A prima vista tutti questi problemi non si notano, e KK mi sembra essenzialmente una città di commercio e come tale, per definizione, in mano ai cinesi, quanto mai attivi in questi giorni vicini alle celebrazioni del loro Capodanno, che raggiungeranno il culmine nella notte tra domenica e lunedì. Siccome buona parte dei negozi, all'ingrosso o al minuto, dei ristoranti, delle imprese di tutti i generi sono in mano loro, che alla  festa e alle tradizioni ci tengono e non badano a spese, la città è bardata di palloncini, lampioni, striscioni rossi; l'attività nei templi buddhisti e nelle sedi delle varie società e famiglie ferve come non mai: si tirano fuori e si lustrano maschere e cosutmi, si preparano le coreografie delle sfilate, si propaga ovunque una diffusa atmosfera che sta fra il Carnevale di Rio e Fuorigrotta, perché quanto a fuochi d'artificio i cinesi non sono secondi a nessuno e perfino i napoletani si inchinano, riverenti, davanti ai maestri assoluti. Sono curioso di come se la caveranno nella Chinatown di Bandar Seri Belawan, capitale del Brunei, dove vige la legge coranica, e cercherò di essere là nella notte del passaggio dall'anno del topo a quello del bufalo. Fornita di alcuni musei interessanti, tra cui quello di etnologia e storia naturale, dopo il commercio l'altra attività di KK è il turismo, qui organizzato in maniera quasi industriale, e con forti interventi statali, a differenza che nel Sarawak, dove tutto si svolge in un'atmosfera più familiare e informale e molto più rilassata, dove nessuno si sogna di spingerti a fare per forza qualcosa. Orang utan a SemenggohE' anche per questo che ho preferito fare la visita a un centro di riabilitazione degli orang utan (in bahasa malaysia letteralmente "uomo della foresta") nei pressi di Kuching, a Semenggoh, piuttosto che in quello famosissimo di Sepilok, purtroppo preso d'assalto daii turisti, per una scelta irresponsabile da parte dell'amministrazione, col risultato che l'eccessivo contatto con gli umani ha portato delle malattie che rendono difficilissimo il ritorno in natura dei primati. A Semenggoh, venerdì scorso, c'erano dieci visitatori e nel centro una trentina di orang utan, e una dozzina quelli che hanno pasteggiato a due passi di distanza. Dopo averli osservati da vicino mi rifiuto di chiamarli animali, e la mia ricorrente battuta secondo cui sono le scimmie a discendere dall'uomo e non viceversa assume un tono sempre meno paradossale, perché non è detto che la linea evolutiva non porti nella loro direzione, Lo dimostra la razionalità e, insieme l'intelligenza con cui reagiscono alla drastica riduzione, a opera dell'imbecillità e dell'avidità umana, del loro habitat naturale, facendovi fronte attraverso un ferreo controllo delle nascite. A costo di estinguersi volontariamente in una sorta di eutanasia volontaria. Noi, che siamo così evoluti, stiamo ad ascoltare un babbione vestito di bianco o dei barbudos col turbante o il cilindro in testa, e la conseguenza sono le bidonville della islamica Jakarta o della cattolicissima Manila, tanto per rimanere in zona. E poi voglio vederlo, un umano, così atletico da muoversi con la grazia e disinvoltura di un orang utan, anche con un piccolo aggrappato, come danzando tra rami di alberi alti trenta metri, ad aprire una noce di cocco in tre secondi o sbucciare le banane con una mano sola!

venerdì 16 gennaio 2009

Dalle tigri della Malesia ai gatti di Kuching

Sul fiume SarawakKUCHING (Sarawak) - Da anni ormai non esistono più traghetti che collegano la Malaysia peninsulare al Borneo, saggiamente considerate le tempeste che si abbattono con regolarità sul Mar della Cina, tantopiù in periodo di monsoni, e che anche di recente hanno causato l'affondamento di una nave indonesiana con oltre duecento morti, così il volo di un'ora e mezzo che porta dalla moderna ed effervescente Kuala Lumpur alla sonnacchiosa capitale del Sarawak è come se portasse in un'altra dimensione. Non perché a Kuching manchino le comodità, i mezzi tecnoloigici più avanzati o qualsiasi cosa di cui necessiti lo schizoide uomo d'oggi, ma tutto quanto avviene e si muove in maniera molto più rilassata, la gente se la prende comoda, il traffico ha ritmi e consistenza scandinavi, e in qualche modo si ha la sensazione di di vivere non solo al rallentatore ma in un'epoca indefinita, forse anche perché la Seconda Guerra Mondiale ha lasciatoCats in Kuching praticamente intatti gli edifici storici della città, che prese il nome attuale nel 1872 per volere di Charles Brooke, figlio del primo rajah bianco James Brooke (reso celebre in Italia dai romanzi di Salgari), mentre in precedenza era nota come Sarawak, con lo stesso nome dello Stato e del fiume in rtiva al quale sorge. Kuching in malese significa gatto, e qualcosa di felino c'è in questa città sorniona e languida, che però cambia aspetto all'improvviso, con tratti modernissimi che comunque si integrano perfettamente con il resto. A parte l'espetto degli edifici, di coloniale c'è l'atmosfera: ci si sente distanti da un centro ma allo stesso tempo più vicini alla natura, in cui si è immersi più ancora di esserne fagocitati: mi ha subito colpito la coscienza ecologica che uno no si aspetterebbe da queste parti. Credo che altrettanto valga per Saba, l'altra parte di Borneo malese, per il Brunei e per il Kalimantan Indonesiano: chi lo abita, sente di appartenere al Borneo piuttosto che a uno Stato. E qui i conti si fanno con la natura pirima ancora che con il potere costituito che risulta qualcosa di remoto, Astana Kuchingsfumato. Anche la distribuzione etnica è più equilibrata che non sul continente: non solo nessun gruppo prevale sull'altro ma l'integrazione è tale e ben riuscita, per cui sono molto diffusi i matrimoni misti. Ne consegue che anche l'Islam è meno pervasivo che nel resto del Paese e non può essere utilizzato dal potere politico come collante della popolazione malese principalmente in funzione anti-cinese. Tocca a una religione così totalizzante adattarsi all'ambiente, ossia ancora una volta al Borneo.

mercoledì 14 gennaio 2009

Monas e Petronas


Monas by TimKUALA LUMPUR – La differenza tra Jakarta e Kuala Lumpur è la stessa che passa fra quelli che le due capitali hanno scelto come i simboli proprio e del Paese di cui sono a capo: il Monas di Sukarno (e per un orecchio italiano del NordEst il suono è per così dire onomatopeutico: nomen omen) e le Petronas Twin Towers. Per quanto riguarda il Monas rimando a quanto scritto qualche giorno fa: un'opera megalomane, pateticamente senile, velleitaria, squallida e pure brutta a vedersi. Al contrario, le due torri gemelle rivestite d'acciaio (300 mila tonnellate), alte 452 metri per 88 piani sono un capolavoro dell'ingegneria, da quella statica e delle costruzioni a quella delle comunicazioni, un'opera d'arte: potenti, slanciate ma allo stesso tempo lievi, un compendio della tecnologia più avanzata in tutti i loro aspetti e valgono da sole una visita alla capitale della Malaysia. Vi si può salire fino alla Skybridge, che collega le due torri al 41piano e all'altezza di 170 metri, un ponte sospeso ancorato su delle eleganti giunture (dal basso sembra di vedere due semiassi di automobili che fanno perno su degli enormi cuscinetti a sfera) per potersi flettere durante le oscillazioni delle torri dovute ai venti o a possibili terremoti. Da fantascienza il sistema per neutralizzare i fulmini, che si scaricano di preferenza qui, dato che le Towers sono il punto più alto nel centro della città. Esempio di architettura olistica – e sono circondate da un vasto parco ricco di laghetti – anche l'impianto di condizionamento dell'aria è studiato in modo da essere ecologicamente compatibile, mi fa piacere ricordare che sono state Petronas Twin Towers by atomicSherdprogettate dall'architetto argentino di origine italiana Cesar Pelli, e che l'ispirazione alla tradizione islamica è voluta e ben visibile. La pianta del pian terreno delle torri, ad esempio, è una stella ad otto punte che oltre a sembrare un arabesco è un evidente richiamo simbolico, così come i cinque ordini di ciascuna torre (i cinque pilastri dell'Islam), i 63 pennoni disposti a corona che ricordano i minareti e i due più alti, con alla base una sfera. Le Towers sono il quartier generale della Petronas, la potente compagnia petrolifera e del gas nazionale. Nata solamente nel 1974, anche se il petrolio fu scoperto quasi un secolo prima dal Residente britannico nel Sarawak, la Petronas, una delle principali realtà economiche della Malaysia, è di proprietà del governo, risponde direttamente al primo ministro e ha l'esclusiva dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas naturale dell'intero Paese (situati soprattutto nel Borneo settentrionale e lungo le coste del Terangganu) e ricorda la Petrobras brasiliana, anch'essa costruita sul modello del nostro ENI, del compianto Enrico Mattei (il suo imprinting architettonico è Metanopoli, San Donato, alle porte di Milano: altri tempi, ma dai risultati tutt'altro che spregevoli, vista la miseria che ne è seguita, con il Ligresti-Style). I simboli sono estrememente significativi, ed esprimono il modo in cui un Paese vede sé stesso oppure una dichiarazione di intenti: il Monas è a un tempo un monumento al solipsismo di chi lo ha governato in passato e lo governa tutt'ora e il desiderio di un'unità nazionale mai davvero avvenuta; le Petronas Towers sono la testimonianza del livello raggiunto dalla Malaysia sulla strada di una modernizzazione fortemente voluta e diretta con mano ferma: il fatto che siano due, involontariamente forse indica le due anime del Paese, quella malese (e islamica) e quella cinese, il vero, inarrestabile motore di progresso, nel bene e nel male, di questa area del mondo. Come risorse, l'Indondesia non possiede nulla meno della Malaysia, anche se la complessità dovuta al fatto di Petronas Towers by cctoessere un arcipelago e di avere una distribuzione fortemente disomogena di una popolazione comunque eccessiva la penalizzano, ma proprio la prospettiva di creare un Paese nuovo per tutti gli indonesiani, al di là delle etnie, sarebbe potuto essere un ottimo propellente e invece, dopo 50 anni dalla rispettiva indipendenza, tra i due Paesi c'è un abisso. Senza prendere come riferimento parametri econometrici discutibili, né modelli di “sviluppo” controversi, è sufficiente confrontare il livello dell'istruzione e gli standard igienici. E' evidente che un Paese è stato governato secondo un progetto e quell'altro no, come si evince dal livello di corruzione, spaventoso in Indonesia: la lotta alla quale è un ritornello risaputo e patetico quanto in Italia quello della lotta alla mafia; e vittima di incontrollabili e ripetute esplosioni di violenza. Corruzione e instabilità trascurabili in Malaysia, e a riprova stanno gli investimenti di capitali stranieri qui e non in Indonesia, dove pure la mano d'opera costa molto meno. Ma non è altrettanto istruita, capace e affidabile. Un'altra cartina di tornasole è l'apertura verso l'esterno: 30 giorni di visto non rinnovabile, a pagamento, in Indonesia; tre mesi, gratis e rinnovabili qui. Se tra Malaysia e Indonesia c'è un balzo di 40 anni in termini di sviluppo, tra Kuala Lumpur e il resto della Malaysia ce ne sono almeno altri dieci: me l'avevano descritta come una città caotica, in cui c'è poco da vedere, climaticamente infelice, ma chi l'ha fatto, evidentemente, non era mai stato a Jakarta. All'aeroporto Sukarno-Hatta, 30 km dalla città, ieri, ci ero arrivato in taxi in impiegandoci un'ora abbondante, guadando strade allagate e attraversando ingorghi deliranti, pur in controtendenza rispetto al traffico in KL Landcapeby Rvihedgeentrata a Jakarta; al Kuala Lumpur International Airport, che come efficienza e modernità batte forse perfino Changi a Singapore, mi è sembrato di essere arrivato in paradiso. Immigrazione e recupero bagagli in 15 minuti; 75 km in treno in trenta minuti per 5 euro (partenza ogni 15': a Milano il Malpensa Express parte ogni mezz'ora, ce ne mette 40' per 37 km e ne costa 18, di euro), e dalla KL Central Station in albergo con taxi a coupon prepagato a prova di abusivi e tuffatori (meno di 2 euro). Complice una giornata ventilata, aria pulita, mi è parso di rivivere. Strade pulite, marciapiedi degni di questo nome, traffico sostenuto ma tranquillo: ci si muove agevolmente; mezzi pubblici di prima qualità; una città quasi interamente cablata, nei progetti governativi capolinea del progetto Multimedia Super Corridor tra la capitale e Putrajaya, la nuova Sylicon Valley malese; un affascinate alternarsi fra memorie coloniali e costruzioni ardite, ma che del passato conservano memoria. Kuala Lumpur non è solo le Petronas Towers, ma anche musei (l'Islamic Arts Museum è considerato il migliore al mondo nel suo genere, e già è un'opera d'arte la sede che lo ospita), gallerie, sale da concerto, giardini e parchi, tanto verde curato con amore. Una città vivibile, che da tempo ha smesso di essere una Cenerentola del Sud Est Asiatico, per diventarne una delle città più gradevoli e meglio organizzate, capace di fare concorrenza anche alla vicina Singapore e a Hong Kong. Una piacevolissima sorpresa.

martedì 13 gennaio 2009

Mandi, Indonesia!


Mandi by jonweinerJAKARTA – Al 30° giorno, il visto concesso all'arrivo in Indonesia scade e non può essere né rinnovato né esteso, e tocca quindi rientrare in Malaysia. Il biglietto da Jakarta per Kuala Lumpur, poco meno di due ore di volo, di linea e con la compagnia di bandiera Garuda, costa 120 € senza andare a cercare chissà quale occasione low cost in rete o nelle agenzie. Più che onesto, considerato quanto occorre sborsare per i voli interni nella Terra dei Cachi. Tantopiù oggi che AliMerda alias Alitalia, dopo aver assorbito AirOne, è tornata ad essere la supermonopolista che è stata per quarant'anni. Se qualcuno che legge volesse organizzare un viaggio in Indonesia, aggiungendo al percorso che ho fatto io qualche isola e il Borneo, gli suggerisco di farsi rilasciare dall'ambasciata a Roma un visto della validità di 60 giorni: occorre però utilizzarlo in date prefissate. Credo che tornerò in questo Paese: nonostante la povertà, i disagi, spesso la sporcizia, la disorganizzazione generalizzata, le gente in primo luogo, e alcuni paesaggi tra i più belli che abbia mai visto, molto più che i monumenti, sono le note più che positive di questo viaggio. E questo vale per Sumatra in misura molto Mandi by lawrenceholzworthmaggiore che per Giava, eccessivamente caotica e ormai imbastardita. Bali non l'ho presa nemmeno in considerazione, sputtanata com'è, ma le isole di Nusa Tenggara, Sulawesi, il Kalimantan (Borneo Indonesiano), Flores e Timur valgono senz'altro la pena di un altro viaggio, e lì gli spostamenti sono più ardui e non si può essere schiavi del tempo. Mandi Indonesia, dunque: che è il saluto, una sorta di parola d'ordine in friulano ma anche un'istituzione del Sud Est Asiatico, e dell'Indonesia in particolare: a corredo, le foto di alcuni esemplari. Si tratta della stanza da bagno: costituita da un cesso alla turca, che va da una semplice buco per terra dotato di pedana (la forma della suola di due scarpe, in posizione) alle versioni più sontuose, in ceramica e con rialzo e, appunto, un mandi, che è una vasca quadrata, che va costantemente riempita d'acqua, e dotata di un mastello. Di plastica o, nelle edizioni di lusso, in metallo. Si intende che il mastello sostituisce le funzioni sia della doccia, sia del supporto del rotolo di carta igienica, oggetto sconosciuto (giustamente, altrimenti gli scarichi si intaserebbero). Bisogna farci l'abitudine, però il sistema funziona. Non è il caso, ovviamente, di immergersi Blue Mandi by cloudasmokedirettamente nel mandi, cosa che prima o poi qualche occidentale imbecille inevitabilmente fa: l'acqua deve rimanere pulita perché la devono usare anche gli altri avventori, che possono essere parecchi. Il mastello serve per versarsela addosso. Lo stesso vale per lavarsi gli indumenti: il risciacquo non è una cosa semplice, ma si impara: innanzitutto a non esagerare col detersivo! Un mandi ai simpatici ratti indonesiani, rapidi e silenziosi, l'occhio vispo e intelligente, anche quelli di dimensioni ciclopiche: come lepri. Un mandi al durian, il frutto che unisce tutti i malesi al di là dei confini, chiamato anche jackfruit, e alla sua versatilità di utilizzo. Un mandi alla cartamoneta indonesiana, con la speranza che tolgano almeno tre zeri dalla valuta prima che ritorni da queste parti. Occorrono circa 15 mila rupie per fare un euro, e il biglietto da mille è l'unità base, il più diffuso: circa 0, 75 euro cent, neanche 150 lire di una volta. Quando si dice, letteralmente, averne le tasche piene e non sapere dove cacchio metterne i rotoli. Un mandi alle coppiette che si infrattano nei rari parchi, anche se la ragazza ha il velo: sperando che se ne liberino in fretta, dei veli. E magari anche delle infradito con calzerotto color carne, bianco o beige chiaro: hanno un effetto da castrazione chimica. Un mandi alla Nokia, che ha una specie di inspiegabile monopolio nel Paese: Beware of Durians! bye Leone Fabresce l'anno quasi tutti. Devono farne delle versioni speciali per qui, considerando anche temperature e tassi di umidità: tutti quelli che ho avuto io mi si sono scassati in men che non si dica. Un mandi alla stragrande maggioranza dei musulmani di questo Paese: i più laici che abbia mai conosciuto. E uso il termine laici volutamente, e non quello ambiguo di tolleranti. Un mandi ai terminal dei bus di Giava: infiniti e mobili. Non si sa bene dove inizino, meno che mai dove finiscano. Anzi: non terminano mai. Ogni posto è buono per una fermata, per strada non si lascia mai nessuno. Un mandi agli ambulanti e ai venditori, stanziali o in perpetuo movimento, agli strimpellatori, sui bus come nei warung per strada mentre ingurgiti un bakso (corroborante zuppa di noodles con polpette di carne, opportunamente speziata: deliziosa!) ma soprattutto ai guidatori di becak, pensando a quante volte vi ho mandati affanculo. Insomma, arrivederci, Indonesia!

lunedì 12 gennaio 2009

Il "Grande Durian"


Jakarta Sunset by der WillyJAKARTA – Una metastasi urbana di circa dieci milioni di abitanti, nessuno sa dirlo con precisione e sicuramente non le autorità che fanno finta di governare questo caos, che è il polo d'attrazione per gente proveniente da tutto l'arcipelago: se è questo il crogiuolo in cui si forma l'identità del “Nuovo Indonesiano”, al di là di ogni appartenenza etnica, questo Paese ha davanti a sé un futuro molto problematico. Una città orrenda, immersa in una perenne nube tossica, attraversata qua e là da canali mefitici, che si estende dall'antico porto di Sunda Kelapa verso Sud per ben 25 chilometri, occupando oltre 650 chilometri quadrati di una pianura dal clima insopportabilmente torrido, i cui unici punti di riferimento sono i grattacieli dei sobborghi residenziali meridionali e i vulcani che circondano la vicina Bogor, quando si ha la fortuna di intravederli. La città portuale venne occupata dai portoghesi già nel 1522, poi riconquistata cinque anni dopo da Sunan Gunungjati, che la ribattezzò “Jayakarta” (la Vittoriosa) e la trasformò in feudo del sultanato di Banten. In seguito fu a lungo contesa tra inglesi e olandesi, finché questi ultimi nel 1619 ebbero la meglio, la rasero al suolo e costruirono una nuova fortezza, ribattezzando la città Batavia, che divenne laSoekarno capitale delle Indie Orientali Olandesi. Batavia prende il nome da una tribù che abitava i Paesi Bassi in epoca romana, ed è grazie al genio batavo, che notoriamente è alimentato ad acqua, che dobbiamo la presenza di alcuni malsani canali di drenaggio che ancora oggi attraversano Kota, il quartiere attorno al porto antico, forse per ricreare l'atmosfera di Amsterdam all'Equatore. Sorvolando sul clima e la invincibile tendenza locale a fare di ogni rigagnolo una fogna e una discarica a cielo aperto. Da allora Jakarta è cresciuta in modo smisurato, caotico e senza alcun criterio urbanistico, ma sempre coi suoi miasmatici canali che compaiono qua e là, tendenza che non è dimunuita da quando, nel 1950, divenne la capitale della Repubblica Indonesiana. La città non ha un vero e proprio centro, a meno che non lo si voglia considerare Lapangan Merdeka, la piazza dell'Indipendenza, uno spiazzo di oltre mezzo chilometro per lato, per una volta messo a verde e non desolato come nelle città viste finora, nel cui centro si erge il Monas, quantomai opportuna abbreviazione che sta per "Monumen Nasional", una specie di obelisco in marmo bianco italiano alto 132 metri e sormontato da una fiamma ricoperta di lamina d'oro. In sostanza un grande cazzo (qui lo chiamano L'ultima erezione di Sukarno) Jakarta Flood by Shanghai Daddyvoluto dal dittatore, noto donnaiolo, probabilmente a eterna memoria della propria virilità, iniziato nel 1961 e inaugurato dal suo successore. Affacciati sulla piazza, alcuni musei e una serie di palazzi in stile neoclassico e coloniale, tra i pochi decenti della città. In realtà Jakarta ha diversi centri, separati tra loro da giganteschi macet, come qui vengono chiamati i catastrofici ingorghi stradali. Invariabili, anche la domenica, come gli acquazzoni che imperversano sulla città, e provvedono ad aggravarli oltre che a formare veri e porpri torrenti impetuosi e pozze luride che sembrano laghi. Non mi soffermo sulle baraccopoli che ho potuto osservare dal treno proveniente da Cirebon, in avvicinamento al centro: oltre alle catapecchie costruite sotto ogni cavalcavia, impressionanti quelle erette sugli argini dei fiumiciattoli putridi che attraversano questo marasma informe, in equilibrio statico così approssimativo che ci si chiede solo quale dei prossimi fortunali le spazzerà via: credo che nessuno tenga questo tipo di contabilità, né un'anagrafe degna di questo nome. L'unica parte della città che riveste un qualche interesse è quella coloniale di Kota, la città vecchia di Batavia, fulcro del dominio olandese; ma le strutture, i magazzini e i palazzi del passato sono distrutti o ridotti in uno stato penoso. Alcuni di quelli che danno sul Kali Besar, laEntering Jakarta by K. fetida cloaca che la Lonely Planet decanta come “un bellissimo canale”, sono utilizzati, oltre che come abitazione di derelitti, come luoghi di stoccaggio e cernita di rifiuti. Capaci pure di chiamarlo riciclaggio! Ora: potrei anche capire che gli indonesiani detestino a tal punto ogni traccia del passato coloniale e della pessima amministrazione olandese da volerla cancellare, ma allora basterebbero qualche candelotto di dinamite e alcune ruspe. Invece, ne hanno fatto il quartiere turistico per eccellenza, allestendovi l'unica, microscopica isola pedonale di tutta la città, con la Taman Fatahillah, la piazza principale su cui si affacciano una serie di musei nonché l'affascinante, celebre ed esageratamente esoso Café Batavia, che è diventata uno dei punti di raccolta delle nuove generazioni della capitale: dagli islamisti salmodianti ai discotecari, tutti a fotografarsi e filmarsi a vicenda con modernissime e ingombranti foto-videocamere digitali. Senza alcun dubbio la gioventù più brutta che ho visto in tutto il Paese: i Tastes like Heaven, Smells like Hellmaschi dei decerebrati assoluti, senza eccezione, il cui sguardo esprime solo demenza; le ragazze, per quanto più sveglie, con tinture grottesche e mise tra l'infantile, in stile nippo, e il puttanesco ma pur sempre sul genere Lolita. Di solito il miscuglio di razze dà risultati sorprendenti e positivi, in un posto del genere il melting pot ha avuto effetti devastanti. Quanto mai appropriato, dunque, il sopannome di “Big Durian” affibbiato a Jakarta, parafrasando la “Grande Mela”. Il durian è un frutto controverso, dalla forma di un melone spinoso che può raggiungere dimensioni di una gigantesca anguria, quasi un simbolo nazionale, di cui si dibatte se sia ottimo oppure disgustoso, tanto che molti alberghi oltre a non tenerlo ne vietano l'introduzione. Un frutto che secondo me è anche commestibile, a piccole dosi, ma il cui odore è assolutamente repellente. Insomma: sotto la scorza in questa città qualcosa c'è, altrimenti non sarebbe così vitale, e comunque è qui che si concentrano industrie, servizi, governo, università, uno dei porti più attivi dell'Asia intera, ed è indiscutibile la sua capacità di essere da sempre il polo che attira le proteste più radicali e clamorose, sfociate più volte in eplosioni di estrema violenza, e di cui spesso nel corso della storia ha fatto le spese la minoranza cinese, l'ultima volta nel 1998 durante la rivolta che avrebbe portato alle dimissioni di Suharto. Purtroppo, prima o poi, se si viene in Indonesia con Jakarta occorre fare i conti se non altro per via dell'aeroporto internazionale, a meno di non fare direttamente rotta su Bali, che è un mondo a sé stante, oltre che turisticamente infestato e sputtanato, che col resto del Paese ha poco a che vedere.

sabato 10 gennaio 2009

Il posto delle libellule


Kraton Kesepuhan CirebonCIREBON – Situata a metà strada fra Semarang e Giakarta sulla costa settentrionale di Giava, questa tranquilla città di circa 280 mila di abitanti è fuori dalle rotte turistiche abituali ma i suoi tre kraton e, a quel che si dice, l'ottima cucina di pesce sono un ottimo motivo per una visita se non altro ritardare per quanto possibile l'impatto con i giganteschi e quotidiani ingorghi della capitale con cui toccherà comunque fare i conti nei prossimi due giorni, in quanto Giakarta è tappa obbligatoria per i voli in uscita dal Paese, inevitabile data l'imminente scadenza del visto indonesiano, di trenta giorni in entrata, a pagamento e non rinnovabile né soggetto a estensione. Cirebon venne fondata come sultanato indipendente attorno al 1500, fu alleata del regno di Mataram e nel 1705 divenne protettorato olandese, amministrata congiuntamente da tre sultani, fatto a cui si deve la dovizia di palazzi dei regnanti, kraton per l'appunto: si tratta del Kesepuhan (in alto, a destra) eretto nel 1527, del Kanoman, che risale al 1588 e del Kecirebonan, costruito nel 1839, che è tuttora la residenza dell'attuale famiglia reale. Oltre a questo, non c'è praticamente nulla da vedere, tantomeno il mare: ché da queste parti non si usa né una strada litoranea né una semplice passeggiata e forse è anche meglio, considerata l'abituale grossezza, il moto ondono impetuoso e il colore poco allettante, almeno in questa stagione. Al massimo il porticciolo, dove dondolano i variopinti e tradizionali peraho (i praho di salgariana memoria, sotto a sinistra) usati per la pesca. In compenso la città è letteralmente invasa da sciami di libellule, grosse quanto dei passeri ben pasciuti, che con i  loro movimenti simili a quelli degli elicotteri, fatti di sospensione nell'aria e improvvisi scarti laterali, rendono l'atmosfera vagamente inquietante e Fishermanallucinogena. A Cirebon, su una base islamica si sono innestate le più moderne usanze giavanesi, quelle sundanesi e quelle cinesi, dando vita a un cocktail culturale ed etnico che si legge anche dai lineamenti degli abitanti, piuttosto eterogeneo e frizzante, e questo dà un senso a una città che, a parte i kraton, risulta alquanto insignificante. Non so se la particolare insistenza, che rasenta la molestia, da parte soprattutto dei guidatori di becak, i “trisciò”, sia dovuta alla scarsa familiarità coi turisti, ma sentirsi apostrofare centinaia di volte al giorno non solo con la litania hallo mister, ma con la domanda where are you going, o what are you looking for in una città che si sviluppa su una sola strada che l'attraversa e in cui da vedere e fare non c'è assolutamente niente, salvo appunto passeggiare, risulta esasperante. Tanto più se fatto, come talvolta ho l'impressione, con una traccia di arroganza: al di là dell'idiosincrasia che nutro in generale per qualsiasi estraneo tenda ad impicciarsi dei fatti miei spinto non da curiosità ma dall'ansia di spillarmi quattrini. E' anche il primo posto in Indonesia in cui mi pare che alcuni si dilettino a fare commenti e riderti alle spalle, sicuri che non si capisca la lingua, ma i toni rimangono inequivolcabili. Da un altro punto di vista, quello della scarsa per non dire nulla versatilità linguistica degli indonesiani è un problema in un Paese che ha visto crollare gli afflussi turistici in seguito a una serie di attentati da parte di estremisti islamici, a cominciare da quello a Bali nel 2002 seguiti da quelli a Jakarta del 2003 e 2004. Ho sentito spesso gente che mi chiedeva il motivo della cattiva stampa di cui gode l'Indonesia, con i ministeri degli Esteri dei Paesi occidentali che invitano a evitarla e quantomeno a usare estrema prudenza. Credo di aver già detto altrove che si tratta di un allarmismo assolutamente ingiustificato: mai durante un mese in giro da solo ho avuto una sensazione di insicurezza o di pericolo, sicuramente meno che in una qualsiasi periferia urbana eurpoea: il pericolo islamico, se così vogliamo chiamarlo, lo si avverte molto più in nella supponente, “sicura” e turisticizzata Francia che non nell'immensa periferia povera di Giakarta. L'islamismo è quanto mai bonario e tollerante, buona parte della gente non è osservante, e non costituisce un problema. Ma le carenze nei confronti del viaggiatore straniero esistono e creano disagi, a cominciare dall'incomunicabilità. Ieri ad esempio, per visitare il kraton Kesepuhan, ho dovuto Cirebon by Margret van Ommeningaggiare una guida, le cui uniche parole intelleggibili erano yes e portughs, che si pronunciano pressoché uguali anche in bahasa indonesia, e non ha smesso di parlare per mezz'ora, nonostante gli ripetessi fino alla noia che non capivo un accidenti. Nel museo, non una  didascalia era in inglese, idem per la scarse se non inesistenti indicazioni per le strade. Scena simile in un famoso ristorante di pesce: non uno che parlasse due parole in croce d'inglese maccheronico, e menu rigorosamente monolingue, senza nemmeno usare l'accortezza di farlo fotografico, come perlopiù accade: ho finito per cenare in un warung per strada, con griglia all'aperto, accomodato su una stuoia stesa sul marciapiede, usando l'universale sistema del guarda-e-indica, componendo la mia comanda con il dito. E così nell'albergo in cui mi trovo: bello, elegante, moderno. In mezzo alla veranda campeggia un frigorifero con una decina di Coca Cola, qualche bottiglietta d'acqua e alcune di tè freddo. Birra: neanche a parlarne. Questo avrebbe già dovuto indurmi al sospetto. Sulla lista del bar è annunciata la scelta tra una decina di fantastici succhi di frutta, tutti naturali, tutti invitanti. Mezz'ora di questo rituale: un receptionist prende l'ordine: succo di mango, decido. Ce ne sono alberi stracarichi, intorno: vado sul sicuro, mi dico. Riferisce la comanda via telefono all'addetto, in divisa, che si trova a meno di dieci metri e che risponde, annuendo, in mia presenza. Posata la cornetta, questi va in cucina dai cui meandri viene inghiottito. Ricompare sorridente sulla scena dopo un po' con un sacchetto in mano e si mette a pasturare i pesci nella vasca del patio e intanto mi guarda, ammiccando. Dopo dieci minuti arriva il receptionist incravattato, quello che parla 8 parole d'inglese: sorry mister, manga finish. Lemon, orange. E vada per il lemon! La scena si ripete uguale, solo l'addetto alla pastura dei pesci è diverso. Ma sempre in divisa, impeccabile. Svanisce nel nulla. Dopo un'altra decina di minuti ritorna l'incravattato: sorry mister, lemon finish. “Ok orange, no problem”, gli dico, e mi accorgo che mi sono già messo al suo livello di comunicazione: frase essenziale ma al contempo incerta, dizione sincopata e sorriso accomodante, magari con lieve, ripetuto inchino incorporato. Dopo altri dieci minuti, nicchiando con la testa come preso da un tic e sorridendo come un ebete, e con una sete bestiale, rientro in camera, dandomi del pirla. Sto già rantolando, disidratato, quando bussa alla porta un tipo, divisa sempre perfetta, e sul vassoio campeggia un bicchierone di succo su cui galleggia un enorme pezzo di ghiaccio. Era mandarino, spaventosamente dolciastro, allappante. E oggi, dopo averlo ingurgitato, seguito dal pesce, regolare e inevitabile ha colpito il cagotto. Va un po' meglio nelle stazioni, dove alle biglietterie c'è sempre del personale, prevalentemente femminile, in grado di capire e farsi capire: e ho notato da subito che sono le ragazze a essere più sveglie e istruite. Nel mio albergo sono tutti rigorosamente maschi, e questo spiega molte cose. 

mercoledì 7 gennaio 2009

Solo: kampung, avocado e batik



Kraton by Klaas StoppelsSOLO – Ad appena 65 chilometri da Yogyakarta, da cui è comodamente raggiungibile in treno, Solo, chiamata anche Surakarta, è l'altra culla della cultura e delle tradizioni giavanesi. Con oltre mezzo milione di abitanti, è più popolata della più famosa Yogya, ma infinitamente meno affollata e le sue maggiori attrazioni, i due palazzi del Puri Mangkunegaram e il Kraton, non hanno nulla da invidiare a quelle della sua vicina. Solo fu fondata nel 1745 da Pakubuwono II, dieci anni prima di Yogyakarta, in seguito alla distruzione di Kotosuro, la vecchia capitale del regno di Mataram, ma i suoi successori non riuscirono a evitare la conquista di metà dei loro territori da parte della città rivale, finché nei primi decenni del Novecento Pakubuwono X non riuscì a ridare prestigio alla propria dinastia, promuovendo la cultura, in particolare le arti e la musica, ed evitando di farsi coinvolgere in dispute con altri sovrani. Una scelta di neutralità e per il quieto vivere che però, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, favorì ancora una volta Yogyakarta, che invece era diventata il simbolo e uno degli epicentri della lotta per l'indipendenza. Il Kraton sorge su un estremo dell'Alun Alun, il vasto spiazzo erboso di forma quadrangolare tipico delle città indonesiane; sul lato opposto a quello dove si trova il mercato degli orafi, mentre su quello a Est si affaccia la moschea Agung. Intorno e dietro al Kraton vero e proprio, come a Yogyakarta si estende una cittadella tutt'ora cinta da mura e dotata di planimetria ortogonale. Il cuore del palazzo è costituito da una serie di padiglioni di forma quadrangolare, aperti sui lati, col tetto  a forma di pagoda mozzata, e i pavimenti in marmo italiano, di cui il più grande, il pendopo, fungeva da sala delle udienze o di cerimonie, con alle sue spalle il palazzo vero e proprio, sempre ad un piano e disposto attorno a un patio, però non accessibile.Danzatrici al Puri Mangkunegaram Il Kraton è stato in buona parte ricostruito dopo un devastante incendio avvenuto nel 1985, che aveva però lasciato intatto il Panggung Songgo Bowono (foto in alto a sinistra), un curioso ibrido tra un incongruo faro e una torre-orologio di foggia olandese dipinto di bianco e d'azzurro come il porticato che circonda gli edifici oggi adibiti a museo. Secondo me più interessante e più sontuoso, seppure meno imponente, il Puri   Mangkunegaran, in cui ha sede il ramo secondario della dinastia di Solo, che vive a tutt'oggi nel palazzo. Probabilmente anche per questo motivo è tenuto molto meglio del Kraton. Fu eretto nel 1757 dopo una furibonda lotta tra Pakubuwono II e il nipote Raden Mas Said, tra l'altro antenato della defunta moglie dell'ex presidente indonesiano Suharto. Pur trattandosi di un suri, ossia palazzo, ha la medesima struttura di un kraton, che propriamente è la sede dei regnanti: manca, attorno, la cittadella fortificata. Davvero notevole è il museo del palazzo, i cui pezzi esposti, eterogenei e  che spaziano dai costumi per le danze rituali giavanesi a gioielli, monete, porcellane, cristalli e argenteria provenienti da tutto il mondo, con prevalenza di manufatti olandesi, italiani e belgi, appartenevano per la maggior parte alla collezione personale di Mangkunegara VII, il Avocados a Solononno dell'attuale principe, che è il IX della serie, ha 57 anni e possiede uno splendido cacatua bianco di 52 con cui ho stretto amicizia. E, da quello che ho potuto vedere, abita in una dimora semplice ma bellissima, piena di verande e contornata da un  giardino splendido. Nel pendopo, uno dei più grandi dell'Indonesia, dal soffitto a volta, sono custodite ben tre batterie di strumenti dell'orchestra gamelan: una per gli spettacoli di danza, una per le musiche rituali e un'altra usata soltanto in occasione dei matrimoni. La più antica si chiama Kyay Kanyut Mesem, che significa lasciarsi andare sorridendo. Questa mattina mi è capitato di assistere a una esibizione di danza: ho contato venticinque orchestrali, di cui venti addetti a gong, timpani e xilofoni di varia grendezza, foggia e naturalmente suono: in tutto tra i 60 e gli 80 strumenti diversi; tre a degli strumenti a percussione in pelle e due agli strumenti a corda; otto cantanti, o coriste, tutte donne adulte, e otto giovani danzatrici (più in alto, a destra). Niente di turistico: non erano nemmeno drappegggiate con abiti di scena dorati e tintinnanti come da iconografia tradizionale, ma abbigliate con normali sarong stretti in vita da un'ampia  fasciatura. Non ce l'ho fatta a resistere per più di mezz'ora perché tra l'insopportabile nenia che veniva mormorata, la melodia di una tediosità infinita e i movimenti al rallentatore delle ballerine stavo cedendo a un sonno ipnotico, e probabilmente è proprio questo l'effetto desiderato da un ensemble strumentale che porta il nome di cui sopra. Per il resto Solo è una città in cui è piacevole girare perché non si è sopraffatti né dal traffico né dall'insistenza di venditori, gudatori di becak (trisciò), procacciatori a vario titolo; le vie principali sono larghe e spesso alberate (e non mancano le piante i gustosi avocado vedi foto), i maricapiedi per una volta non sono divelti e crivellati da buche, e qui è evidente come la città si composta di tanti kampung (villaggi) diversi, dall'atmosfera quieta, serena, dove si respira quasi un'aria di campagna: ognuno ha il suo portale con tanto di arco d'ingresso con inciso il nome del quartiere. Infine, finora è questo il posto in cui ho visto i batik di fattura migliore e coi motivi più classici. Oltre a quasi l'intero piano terreno del Pesar Klewer, il mercato principale, dedicato a questo tipo di tessuti, ci sono un'infinità di fabbriche e atelier, dai piccoli produttori artigianali ai negozi di lusso, che possono soddisfare qualsiasi richiesta competere con quelli più raffinati d'Europa. 

lunedì 5 gennaio 2009

Una domenica culturale giavanese


Stupas And Volcano by gomer333YOGYAKARTA -E va bene così: ho scelto la giornata sbagliata per andare a visitare i siti archeologici più importanti e famosi dell'Indonesia, ma anche quella giusta. Sbagliata perché domenica: benché sia un Paese abitato al 90% da musulmani, per quanto tiepidi, è in vigore il consueto calendario occidentale, almeno per tutte le attività che non hanno a che fare col commercio. Scuole, banche e uffici pubblici sono chiusi, per cui una massa di gitanti, composta prevalentemente da famiglie, si precipita a Borobodur e Prambanan, i cui templi sono peraltro immersi in grandi parchi. L'occasione giusta per stare all'aperto, fare quattro passi, godersi un po' di fresco sotto alle fronde degli alberi. E anche un po' di cagnara e un sacco di foto. Una scelta giusta perché in tutta la giornata non è caduta nemmeno una goccia d'acqua, e per giunta io avevo osato sfidare il monsone decidendo di muovermi in mototaxi, la soluzione più economica per spostarsi autonomamente su distanze a medio raggio da Yogya, nella fattispecie 42 km a Borobodur e 17 a Prambanan. Il primo (foto in alto a destra, con sullo sfondo il Merapi) è un tempio buddhista fatto costruire dalla dinastia Sailendra tra il 750 e l'850 d.C., concepito come la rappresentazione del cosmo da parte buddhista, trasposta in pietra, partendo dalla base, 118 metri per 118, con  sei terrazze quadrate, coronate da altre tre circolari e con quattro ripide scalinate che salgono verso la cima (il Nirvana). In sostanza uno stupa gigantesco, che riveste una collina “come la glassa di cioccolato ricopre una Sacher” (Scaini, nda) e costituito da 2 milioni di blocchi di pietre. Visto dall'alto, si dice che la struttura corrisponda a Entrata di Prambananquella di un mandala tantrico a tre dimensioni: un percorso a spirale di ben 5 chilometri tra pareti scolpite a bassorilievo in una trasposizione delle dottrine buddhiste, rappresentazione della vita quotidiana e del percorso sulla via della perfezione; gallerie ricoperte di pannelli con innumerevoli immagini del Buddha che le sovrastano, oltre  ai 72 Buddha seduti e posti in nicchie all'interno degli stupa, e visibili soltanto in parte. Qualcosa che ricorda l'Angkor Wat, in Cambogia: ma proprio perché conosco quest'ultimo, forse l'artefatto più portentoso che mi sia mai capitato di vedere, sono rimasto un po' deluso, anche se l'atmosfera magica di Angkor, e la struggente bellezza della Cambogia e la infinita dolcezza del suo popolo profondamente buddhista sono incomparabili. In seguito al declino del buddhismo il tempio venne abbandonato, ma riportato alla luce nel 1815 grazie all'iniziativa del benemerito  governatore Stamford Raffles (sempre lui, il cui nome già ricorre in queste pagine: alla cui memoria va un brindisi, col prossimo Singapore Sling), in seguito numerosi interventi di recupero e restauro, da parte olandese prima e indonesiana poi, l'ultimo in occasione di un attentato nel gennaio del 1985 contro l'allora presidente Suharto: alcune bombe danneggiarono seriamente parecchi piccoli stupa sulle terrazze superiori. A qualche chilometro di distanza il tempio di Mendut, in cui si trova la più grande statua presente in un lugo di culto a Giava, ancora situata nel luogo originario:Ganesh, Prambaran un Buddha alto tre metri e seduto in postura inconsueta, coi piedi appoggiati per terra anziché nella consueta posizione del loto. A Prambaran (più sopra, a sinistra; in fianco a sinistra un simpatico Ganesh beneaugurante) invece si trova il più grande complesso di templi (candi in lingua locale) hindu di tutta Giava, sparsi nel raggio di cinque chilometri intorno al villaggio omonimo. Costruiti circa cinquant’anni dopo quelli di Borobodur su iniziativa di un re della dinastia di Mataram, che si era fusa con quella dei Sailendra, il che spiega la presenza di elementi buddhisti anche qui. A differenza del tempio di Borobodur, quelli di Prambaran si sviluppano in verticale anziche’ in orizzontale. Maestoso quello dedicato a Shiva Mahadeva, la cui guglia centrale raggiunge i 47 metri, d'altezza, completamente ricoperta da sculture che raccontano storie tratte dal Ramayana e che sembrano ricami, di una precisione e un dettaglio stupefacenti. Purtroppo in seguito a uno dei più recenti terremoti il tempio è in fase di restauro e le sale interne inaccessibili, e così per i due che lo fiancheggiano, dedicati a Brahma e Vishnu, e un altro ancora a Nandi, il toro fedele compagno di Shiva, e in questo caso la delusione deriva dalla visita forzatamente parziale e incompleta, giusto un assaggio che non giustifica la grassazione di un biglietto d'ingresso sparato a 11 dollari USA, che sommati ai 12 per l'entrata a Borobodur fanno l'equivalente del salario medio settimanale di un lavoratore indonesiano. E per fortuna che entranbi i monumanti dal 1991 fanno parte della lista di quelli appartenenti al Patrimonio dell’Umanità tutelato dall’UNESCO. Mi auguro soltanto che sia una gentile attenzione riservata ai visitatori stranieri, e non sia estesa alla popolazione locale: che se è vistors friendly in maniera encomiabile, amichevole e generosa, altrettanto non si può dire delle autorità e strutture pubbliche preposte al turismo: a cominciare da indicazioni bilingui pressoché inesistenti, meno che mai nelle stazioni dei treni e nei terminal dei bus, al personale che compensa con la buona volontà e un'infinita disponibilità la carenza di rudimenti di inglese e di informazioni da fornire. Un vero peccato.

sabato 3 gennaio 2009

Yogyakarta, l'anima di Giava


Yogyakarta., ingresso al KratonYOGYAKARTA – Capitale di Giava Centrale, a 30 chilometri dalla costa che si affaccia sull'Oceano Indiano, Yogya, come viene più spesso chiamata, è l'anima dell'isola e anche la sua meta turistica più importante; la città dove si parla la lingua giavanese più pura, il centro culturale e il luogo dove si conservano più gelosamente le tradizioni, dall'artigianato batik all'argenteria, alle danze note come “Balletti Ramayana”. Da sempre emblema della resistenza al potere coloniale e culla dell'indipendenza, Yogyakarta è tutt'ora governata dal proprio sultano, avendo ottenuto lo status di regione speciale. Coi suoi 450 mila abitanti, per quanto affollata e percorsa da un traffico delirante come ogni città indonesiana, Yogya è relativamente piccola per gli standard locali, ma anche la più gradevole e meglio conservata di quelle che ho visitato finora. Il centro urbano si sviluppa attorno alla stazione ferroviaria (come dappertutto un  autentico gioiello gioielli, sorprendentemente ben tenuta e di un nitore incredibile), che come spesso accade taglia a metà la città in senso longitudinale, e gravita su Malioboro, questa la traslitterazione in idioma indigeno della strada dedicata al Duca di Marlborough, la via principale, che in senso perpendicolare alla linea ferroviara porta dopo un paio di hilometri dritta al Kraton, l'antico palazzo fortificato del sultano che è la più famosa attrazione di Yogyakarta. Questo, a sua volta, è il cuore di una vera e propria cittadella cinta da mura  (foto in alto a sinistra), abitata a tutt'oggi da circa 25 mila persone, con una pianta ortogonale, perfettamente conservata, pulita, piena di attività ma dove il traffico automobilistico è notevlmente ridotto e la vita stessa prende i ritmi del kampung, villaggio, che è alla fine ancora oggi la struttura base della società e che gli indnesiani tendono a riprodurre anche nelle grandi città, dove non a caso assume grande importanza e anche un rilievo amministrativo il quartiere, che ne è per molti versi la replica. Il kraton risale alla fondazione della città, che è piuttosto recente, daYogyakarta, mercato degli uccelli parte de parte del principe Mangkubumi nel 1755, il quale dopo la disgregazione dei regni di Giava e Mataram che avevano dominavato sulla parte centrale dell'isola  prima dell'arrivo degli olandesi, ritornò all'antica sede di Mataram dando inizio alla costruzione della cittadella. Un suo discendente, Diponegoro, a cui era stata negata la successione, tra il 1825 e il 1830 scatenò senza successo la sanguinosa Guerra di Giava, di cui Yogyakarta fu il fulcro, contro gli olandesi che appoggiavano la corte e l'altro candidato a sultano; più recentemente, nel 1948, quando la città venne nuovamente occupata dagli olandesi, il sultano si asserragliò nel kraton permettendo ai ribelli di usare il palazzo come quartier generale della resistenza. Gli occupanti non osarono attaccarlo, perché il sultano era considerato una specie di divinità dai giavanesi, e proprio l'appoggio della causa da parte del sovrano fu il motivo per cui a Yogyakarta venne concesso lo statuto di regione speciale al raggiungimento dell'indipendenza. Oltre al kraton, fra le mura della cittadella si trovano anche il Pasar Ngasem, lo stupefacente e varipointo mercato degli uccelli (foto in alto a destra) dove sono in vendita anche altri animali oltre, in una zona distinta, prodotti Taman Sariortofrutticoli, e il Castello d'Acqua (Taman Sari, in fianco a sinistra) un complesso costruito in contemporanea col kraton costituito da un bel parco, palazzi, piscine, percorso da canali che, come struttura, mi ha fatto ricordare, in sedicesimo, l'Alhambra di Granada, progettato da un architetto portoghese che si narra fu ucciso perché non rivelasse i segreti delle stanze più inaccessibili dedicate ai trastulli del sovrano con le sue favorite. In città ci sono alcuni musei interessanti, a cominciare dal Sono-Budoio che espone una notevole collezione di arte giavanese, tra cui le tipiche marionette, le maschere, i batik, i coltelli kris e il Benteng Vredeburg, un forte olandese oggi opportunamente sede del museo dedicato al movimento per l'indipendenza. Notevole il Pasar Beringhario, il mercato principale, fendere la cui folla costituisce un esercizio di pazienza e autocontrollo che rasenta il raggiungimento del Nirvana. In città imperversa il batik: negozi e botteghe a decine, e volendo si può partecipare a dei corsi per apprendere i rudimenti della tecnica, mentre  Kota Gede, che fu la prima sede del regno di Mataram e oggi è un sobborgo di Yogyakarta a pochi chilometri dal centro, è famosa per la lavorazione dell'argento. Insomma, la città ha soddisfatto le mie aspettative: una sosta relativamente rilassante nel frenetico attivismo di Giava, strategicamente a due passi da Borobudur e Prambanan, i due siti archeologici più importanti dell'intera Indonesia. Peccato soltanto che il monsone sia particolarmente attivo in questi giorni.